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PRIMO PIANO
Venerdì 14 Ottobre 2016
Del Pd. Mentre Silvio Berlusconi e Beppe Grillo sono bombardati esclusivamente dall’esterno
Renzi è attaccato dall’interno
Il Cav e Grillo hanno un partito. Renzi deve farselo
DI
GIANFRANCO MORRA
A
nche Matteo Renzi ha capito il ruolo
importante del populismo nella politica
attuale. Terzo delle persone
della Trinità populista, dopo
Berlusconi e Grillo (figura
politiche analizzate nei giorni
scorsi) per non poche cose
deriva da entrambi. Ovvio,
è un cattolico, partito dalla
Dc, transitato per la Margherita e approdato al Pd.
Certo ricorda la formula
del Simbolo atanasiano:
«Lo Spirito Santo deriva
dal Padre e dal Figlio» (ex
patre filioque procedit).
Che sia figlio di Berlusconi molti lo dicono, quasi
sempre per denigrarlo. Di
lui possiede l’attivismo e
il decisionismo. Che sia figlio anche di Grillo appare
evidente dall’uso massiccio
ch’egli fa dei media elettrici, non solo la tv come
Silvio, ma anche la rete, in
particolare twitter come
Beppe. Ma con il populismo dei
due condivide anche altre più
importante tendenze. Sebbene
il punto di partenza non sia lo
stesso: Berlusconi e Grillo sono
creatori, hanno prodotto due
partiti dal niente e li hanno
imposti agli italiani.
Non così Renzi, che faceva parte del Pd, rimasto il
più partito di tutti quelli della
vecchia maniera. Egli non vuole certo rottamarlo, ma ha la
consapevolezza che, così com’è,
il Pd è destinato alla rapida
decadenza. Intende conservarlo, ma anche trasformarlo a
fondo, adeguandolo alla svolta
epocale del nostro paese tra i
due millenni. Era naturale che
si scontrasse con i vecchi difensori del Partito come Nuovo
Principe, soprattutto D’Alema,
il più legato a schemi, metodi
e gerarchie del vecchio partito
Matteo Renzi
leninista, cancellato dalla storia
insieme con l’Urss.
Renzi ha capito che l’elettorato non è più interessato
al «Bottegone» e cerca meno
verticismo e più trasparenza.
Non a caso è stato l’unico del
Pd che non è divenuto segretario coi voti del partito, ma ha
vinto le primarie meno col voto
degli iscritti (45,3 % dei tesserati; Cuperlo ha avuto il 39,4)
che degli elettori (67,5, Cuperlo
18,2). Venne così confermata la
prassi del populismo: è leader
chi è conosciuto dal popolo, non
chi comanda nel partito. Era la
prima volta nella sinistra. Anche Berlinguer, il più amato
dalla gente, era pur sempre il
«leader del partito». Conformemente al populismo, Renzi invece tende a trasformare il Pd
nel «partito del leader».
Ciò su cui Renzi ha fortemente puntato è il rapporto diretto con il pubblico,
che per lui conta molto più
dei partitanti. Anche i suoi
discorsi hanno come destinatari più i cittadini che gli
addetti alla politica. Lo fa
con la tv e lo fa ancor più
usando la rete, con la quale
manda messaggi al popolo,
con una quasi maniacale
insistenza. Demagogia?
Spettacolo? Così dicono i
suoi avversari, soprattutto
i «compagni» del Pd. Lui
la chiama trasparenza. Di
certo una tecnica populista.
E per essere traslucido fa un uso continuo delle slide: sulle quali anticipa
anche le proposte che porterà al
consiglio dei ministri. Spesso su
twitter fa gli auguri a categorie
sociali, annuncia dove si trova,
dove andrà, come impiegherà
la giornata, se è costretto a fare
ritardo: «Arrivo, arrivo!». Facile
ironizzare su questo atteggiamento. Che a Renzi sembra
necessario da un lato per personalizzare la politica e dall’altro
per farla conoscere a tutti, come
vuole il populismo.
È la tecnica comunicativa
dell’andare tra la gente, espres-
sa fortemente da Reagan negli
Usa (going public), ma oggi dovunque usata, in quanto consona allo strapotere dei media.
Anche in ciò, Renzi è figlio di
Grillo, del quale ha usato il metodo dello streaming per informare in diretta i cittadini sulle
riunioni del Pd. Come chiede
oggi la personalizzazione e la
mediatizzazione della politica:
il leader, ce lo ha insegnato più
di tutti Berlusconi, conquista i
cittadini con l’appello diretto.
Anche Renzi ne è capace, quanto ne erano del tutto incapaci
Monti e Letta.
Come i suoi padri, Renzi ha
suscitato opposizioni e attacchi
a non finire. Ma mentre i nemici di Berlusconi e Grillo venivano dal di fuori, quelli di Matteo
vengono soprattutto dal di dentro. Da quel partito ch’egli vuole
trasformare nel senso richiesto
dalla attuale crisi della società
e della sua cultura.
I suoi oppositori sottolineano anche reali difetti della
sua personalità: protagonismo
ed esibizionismo, aggressività e
trionfalismo.
Un fabulatore esperto di
storytelling? Anche, ma tutti
i leader, nel momento attuale
che privilegia il quotidiano e
l’emozionale, devono esserlo.
Ma occorre che siano qualcosa
di più. Come cerca di esserlo
Renzi. A differenza di Berlusconi e Grillo, usciti dalla società
civile, dall’imprenditorialità e
dallo spettacolo, egli è nato alla
politica dentro un partito, lo ha
visto subito crollare e ha trovato spazio in un altro, nel quale
ha operato con buoni risultati
come presidente di provincia e
sindaco.
Dei partiti egli conosce
bene i limiti e cerca di superare quelli del suo, divenuto, per
la grettezza dei vecchi «intellettuali organici», un rudere e un
dinosauro. Lo vuole trasformare
perché sia capace di rispondere alle richieste di una società
così profondamente mutata rispetto al secolo scorso. Per farlo
assume metodo ed elementi del
populismo, oggi così montante
in tutti i paesi europei. Spesso
i suoi bersagli polemici sono gli
stessi del populismo, anche se
il suo linguaggio non è né quello autoritario di Berlusconi,
né quello terrorista di Grillo: i
«gufi» pessimisti che la sanno
lunga, la burocrazia italiana ed
europea che frena il recupero,
i «professoroni» saputi, i magistrati accaniti, i banchieri avidi,
i tecnocrati di scarse vedute, i
sindacalisti incartapecoriti.
Eppure in senso stretto,
come hanno mostrato tanti politologi, Renzi non è propriamente
un populista. Non vuole cancellare i partiti, ma modernizzarli, aspira ad una accentuazione
del potere esecutivo, ma senza
tentazioni bonapartiste. Egli sa
che il populismo può aprire la
strada all’autoritarismo e alla
dittatura, ma anche che alcuni suoi elementi, inseriti nella
tradizione liberaldemocratica
dell’Europa, possono favorire
la democrazia e ricondurre alla
democrazia gli elettori schifati
dei partiti. Ci riuscirà?
© Riproduzione riservata
IN CONTROLUCE
Dario Fo, oltre che un grande artista, era anche un estremista
naturale: dalle camice nere repubblichine a filo Brigate rosse
DI
G
DIEGO GABUTTI
li avevano eretto monumenti
a cavallo già in vita. Ogni intervista un «coccodrillo». Parlavano di lui come si parla dei
morti illustri nei sussidiari scolastici. In
gioventù nelle Brigate nere, trent’anni dopo animatore e capo del Soccorso
rosso, un gruppuscolo radical chic che
non perdeva occasione di denunciare la
«persecuzione poliziesca» nei confronti
dei militanti delle Brigate rosse, Dario
Fo era un estremista naturale. Era anche un grande artista, naturalmente:
l’autore d’alcune farse memorabili negli
anni cinquanta, poi di Mistero buffo e
d’innumerevoli altre pièces satiriche,
molte riuscite, moltissime guastate
dalla retorica, per non parlare delle
canzonette geniali (Ho visto un re, per
dire, e Vengo Anch’io? No, tu no) scritte
da solo o con Enzo Jannacci. Dubito
che questo repertorio, per quanto ricco
e destinato (in particolare, temo, le canzonette) a durare nel tempo, giustifichi
il Premio Nobel, che gli fu assegnato nel
1997 nello stupore generale.
Ma si tratta comunque d’un si-
gnor repertorio: ogni musichetta e naria arlecchinata del 1963) era anche tellettuale che dagli anni settanta in
ogni messinscena la tappa d’una vita convinto che l’intero mondo fosse da poi ha tenuto sotto scacco il paese: la
da teatrante, o meglio da capocomico, raddrizzare, e che per cambiare il mon- guerriglia marxleninista, la «questione
che non ha eguali nell’Italia moderna, do da così a così, come si proponevano morale», la rivoluzione giudiziaria, inficome solo Carlo Goldoni
ne il punto più basso della paraboe Luigi Pirandello prila: Beppe Grillo e la Casaleggio
Fo era convinto che l’intero mondo fosse da
ma di lui. Massimalista
Associati. Di Gianroberto Caraddrizzare, e che per cambiare il mondo da
devoto, fu tuttavia un ansaleggio, in particolare, fu molto
così
a
così,
come
si
proponevano
allora
i
militiclericale, cosa notevole
amico, o almeno così si legge sui
tanti e oggi gli attivisti, ci si dovesse rivolgere ai
nel paese dei baciapile
giornali. Non c’era utopista, del repopulisti, che lui proclamava utopisti, meglio se
veri e fasulli. Con Franca
sto, dal DUX al Presidente Mao,
Rame, sua moglie e comal quale rifiutasse di tirare prima
bizzarri e giullareschi. Non fu un comunista da
pagna d’armi, grandissima
o poi la volata. Negli ultimi anni
salotto ma da circo a tre piste e fece in qualche
attrice scomparsa tre anni
fu una delle icone del Movimento
modo da bandiera allo strapaese intellettuale
fa, Dario Fo recitò antichi
½ Pippa.
che,
dagli
anni
Settanta
in
poi,
ha
tenuto
sotto
testi in «grammelot» e si
Quella di Dario Fo, morto
scacco
il
paese:
la
guerriglia
marxleninista,
dedicò al «teatro di strada»
ieri a novant’anni, è insomma
la
questione
morale,
la
rivoluzione
giudiziaria,
col Collettivo La Comune.
una strana biografia, in cui arte e
Autore teatrale spesso irripolitica, invece di sostenersi l’una
infine il punto più basso della parabola:
tante, solo raramente eccecon l’altra, sembrano danneggiarsi
Beppe Grillo e la Casaleggio Associati
zionale, fu in compenso un
a vicenda. Fu un Bertolt Brecht
attore sempre spassoso, il
del crepuscolo, senza uno straccio
più arguto e divertente della sua ge- allora «i militanti» e oggi «gli attivisti», di tragedia storica con la quale alimenci si dovesse rivolgere ai populisti, che tare la propria indignazione drammanerazione.
Detto ciò, l’autore di Pum! Pum! lui proclamava «utopisti», meglio se turgica. Gli toccarono, al posto di Stalin
Chi è? La polizia (un pamphlet mol- bizzarri e giullareschi.
e dei soviet ai quali ispirarsi, il SessanNon fu un comunista da salotto ma totto e Beppe Grillo. E chissà le piazze
to datato e anche un po’ imbarazzante
sulla «strage di stato») e d’Isabella, tre da circo a tre piste e fece in qualche che gl’intitoleranno adesso.
caravelle e un cacciaballe (una straordi- modo da bandiera allo«strapaese» in© Riproduzione riservata