Rassegna stampa 13 ottobre 2016

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Transcript Rassegna stampa 13 ottobre 2016

RASSEGNA STAMPA di giovedì 13 ottobre 2016
SOMMARIO
E’ una data da fissare già in agenda, per la particolarità assoluta dell’evento: il
Patriarca e il Procuratore aggiunto della Repubblica di Venezia a confronto e in
dialogo su giustizia e misericordia: confini e intrecci, contenuti, esigenze e modalità
di… esercizio nelle rispettive esperienze di vescovo e di magistrato. Venerdì 28
ottobre, alle ore 17.30, la Scuola Grande di S. Rocco a Venezia ospiterà l’incontro,
ispirato evidentemente alle tematiche dell’attuale Giubileo, su “Misericordia e
giustizia s’incontreranno?” tra il Patriarca Francesco Moraglia e il Procuratore
aggiunto della Repubblica Adelchi d’Ippolito. L’iniziativa è, naturalmente, aperta al
pubblico e ad ingresso libero. “Il percorso che abbiamo compiuto, come Chiesa che è
in Venezia in quest’Anno giubilare della Misericordia - ha dichiarato in queste ore il
Patriarca Francesco -, ci ha portato spesso a toccare con mano l’intreccio fra
misericordia e giustizia. Lo stesso percorso giubilare è stato, e deve essere per il
futuro, un cammino di conversione verso il Dio della misericordia e della giustizia che
chiede di andare oltre le strette misure degli uomini e spinge a comprendere che la
misericordia è il nome ultimo della giustizia e che la giustizia – nella Chiesa e nel
mondo, in ambito canonico come nel versante civile e penale – è veramente tale solo
se non smarrisce se stessa e fa entrare nel suo cammino la realtà profondamente
umanizzante della misericordia. Come, concretamente, e attraverso quali modalità e
strade è possibile tutto questo? Nel dialogo del prossimo 28 ottobre si tenterà di
mettere a fuoco le varie sfumature di questo intreccio, si cercherà di approfondire i
confini, i legami e le esigenze di una giustizia vera e di una vera misericordia. Il tutto
a partire dalle nostre differenti ma, ritengo, in molti punti, convergenti esperienze.
Le prospettive del Vescovo e del Magistrato sono ovviamente diverse, ma confido che
il colloquio costituisca un reciproco arricchimento ed offra spunti di riflessione a
quanti vorranno partecipare. Il dialogo arriverà, certamente, a toccare aspetti
significativi della vita ecclesiale e civile, che interessano tutti, suscitando così una
sana e stimolante provocazione e aiutando a crescere nel bene comune”.
Sarà di fatto la prima iniziativa promossa dal nuovo consiglio, insediatosi nel corso
dell’estate, della Fondazione Studium Generale Marcianum. S’intitola “Per conoscere
il referendum costituzionale 2016” e si svolgerà nel pomeriggio di giovedì 20 ottobre
p.v., dalle ore 17.00 alle 19.45 circa, presso l’aula magna dell’Istituto di Cultura
Laurentianum in Piazza Ferretto a Mestre (sulla destra del Duomo di S. Lorenzo); si
tratta, quindi, di un’occasione privilegiata per entrare, attraverso il contributo di
esperti, dentro le questioni più rilevanti della grande riforma costituzionale che il 4
dicembre prossimo sarà posta alla valutazione degli elettori italiani. L’incontro,
aperto alla partecipazione di tutte le persone interessate, prevede le relazioni di
alcuni illustri docenti provenienti da diversi atenei italiani: Marco Mancini (docente di
Istituzioni di Diritto pubblico all’Università Ca’ Foscari di Venezia), Andrea Pisaneschi
(docente di Diritto costituzionale all’Università di Siena) e Lorenza Violini (docente di
Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano). Anche il Patriarca Francesco
Moraglia parteciperà ai lavori del convegno e interverrà all’inizio con un indirizzo di
saluto. Le conclusioni dell’incontro - che sarà moderato dal prof. Roberto Senigaglia,
docente di Diritto privato a Ca’ Foscari e consigliere del Marcianum - saranno affidate
a Roberto Crosta, segretario generale della Camera di Commercio di Venezia Rovigo
Delta Lagunare e neopresidente della Fondazione Studium Generale Marcianum, che
presenta così l’iniziativa: “E’ il primo evento che viene organizzato dal nuovo
consiglio di amministrazione del Marcianum ed abbiamo voluto offrire una occasione
di riflessione seria, su un tema delicatissimo, a chi vorrà partecipare: il nostro
obiettivo è quello di presentare con la massima trasparenza la riforma costituzionale,
lasciando poi alla coscienza di ciascuno la valutazione della stessa”.
1 – IL PATRIARCA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 3 Giustizia o misericordia? Procura e Chiesa a confronto di Alberto Zorzi
Venezia, D'Ippolito e il Patriarca affrontano il rapporto tra Legge e perdono in un dialogo
serrato
LA NUOVA
Pag 20 Giustizia e misericordia, inedito confronto di Roberta De Rossi
Il Patriarca e il procuratore aggiunto D'Ippolito protagonisti il 28 ottobre di un dialogo
alla Scuola grande di San Rocco
Pag 20 Moraglia: “Non vantatevi per le vostre conoscenze” di Nadia De Lazzari
Messa per il nuovo anno accademico
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag VI Patriarca a confronto con il procuratore su giustizia e misericordia
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 4 Cammino comune
In un libro l’omaggio a Bartolomeo per il venticinquesimo anniversario dell’elezione alla
sede patriarcale di Costantinopoli. La prefazione del Papa
Pag 4 Compagni di viaggio
La riflessione di Benedetto XVI
Pag 8 La rivoluzione dei piccoli gesti
All’udienza generale il Pontefice parla delle opere di misericordia e ricorda santa Teresa
di Calcutta
AVVENIRE
Pag 5 “Imploro il cessate il fuoco per la Siria” di Luca Geronico
L’appello di Francesco: consentite la fuga dei bimbi intrappolati sotto le bombe
IL FOGLIO
Pag 2 Un rito in chiesa per le nozze gay. L’ultima idea del vescovo di Anversa di
Matteo Matzuzzi
Mons. Bonny: “Aprirsi all’evoluzione, no a modelli unici”
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 I giovani (ancora) trascurati di Sergio Rizzo
Le pensioni e i conti
AVVENIRE
Pag 2 Perché diventano nodo i “compiti per casa” di Roberto Carnero
Sempre più fragile l’alleanza scuola-famiglia
Pag 3 La misericordia fa miracoli. E lo si può anche misurare di Mario A. Maggioni
Amore e perdono trasformano le persone. Ecco come
Pag 3 La leva dei bonus per sviluppo e ambiente di Leonardo Becchetti
Legge di bilancio alla luce della “Laudato si’”
Pag 23 Ma la vera libertà ci vuole solidali
Zygmunt Bauman: “Cari top manager, siate più giusti”. Chiara Giaccardi e Mauro
Magatti: “La Rete può favorire l’economia della cura”
Pag 24 L’altruismo? Biologia (e cultura) di Andrea Lavazza
Intervista al neuro scienziato britannico Ray Dolan
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pagg 2 – 3 Cinque Stelle ai raggi X con il laboratorio Mira di Giulio De Polo
I giudizi dei cittadini dopo quasi cinque anni di amministrazione Maniero. Il sindaco:
“Sono utile, non indispensabile. Devo laurearmi”. Il Pd: “Una giunta senza progetti”
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Il fattore Pil degli immigrati di Vittorio Filippi
I numeri in Veneto
Pag 6 Veneto, terra di emigranti: 10mila in fuga di Michela Nicolussi Moro
Il rapporto Migrantes
LA NUOVA
Pag 1 L’impegno a difesa del Veneto di Luca Zaia
Pag 6 La crisi spinge i ragazzi all’estero di Silvia Quaranta
Generazione “Y” in fuga dall’Italia: sono 371 mila i veneti partiti in cerca di lavoro
IL GAZZETTINO
Pag 12 Sindaci e nozze gay: dopo Oderzo, Musile. E’ bufera nella Lega di Fabrizio
Cibin e Paolo Calia
Il primo cittadino di Montebelluna getta acqua sul fuoco delle polemiche interne: “Non
sono matrimoni, va usato buonsenso”
10 – GENTE VENETA
Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 39 di Gente Veneta in uscita
venerdì 14 ottobre 2016:
Pagg 1, 8 Collaborazioni, ecco i moderatori di Giorgio Malavasi
Un altro passo avanti per i nuovi soggetti pastorali. Don Danilo Barlese: «Centrale il
coinvolgimento». Nominati 34 sacerdoti: a loro compiti di coordinamento
Pag 1 Tutto il buono che c’è nei gruppi su whatsapp di Giorgio Malavasi
Pag 1 Accoglienza o muri? Ma se i profughi siamo noi... di Serena Spinazzi
Lucchesi
Pag 3 «Fuggiti dalle bombe, ora ci ospita la parrocchia» di Francesca Catalano
Il racconto di Abdullah e Xanzad, giovani sposi curdi-iracheni in fuga dall’Isis, con un
bimbo di 4 mesi. Dopo un lungo e pericoloso viaggio a piedi, hanno trovato ospitalità a
Venezia, grazie alle comunità di San Silvestro e San Cassiano. I volontari: «Loro sono
un dono per noi. Ma ci servirebbe un referente»
Pag 9 Domenica in S. Marco Giubileo degli operatori sanitari. Mons. Pistolato:
«Al centro l’essenziale: la prossimità» di Giorgio Malavasi e Gino Cintolo
Alle ore 16 il passaggio della Porta Santa, poi la celebrazione della messa. Il
responsabile della pastorale della salute: «Mettere al centro la persona».
Fatebenefratelli, Villa Salus e San Camillo: «Sono una risorsa di tutti, la Regione ne
tenga conto». Medici e infermieri, si accelera affinché al centro ci sia la persona
Pag 12 Fronte comune alla crisi ambientale: due Chiese cristiane in dialogo di
Giulia Busetto
Domenica 9 ottobre si è festeggiato l’avvio del percorso del creato. Il Patriarca e la
Pastora evangelica di Venezia e Treviso fanno il punto sul destino delle risorse naturali
della Terra
Pag 18 Sant’Antonio recupera il battistero e tutti i suoi simboli di Giorgio Malavasi
Il locale ridipinto di giallo che rimanda alla luce, con un controsoffitto celeste. I bambini
vengono battezzati e poi portati in processione verso l’altare. Il delegato patriarcale per
i beni culturali, don Gianmatteo Caputo: «Un lungimirante intervento controcorrente,
che permette di sottolineare meglio i segni del sacramento»
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Napoletani e siciliani schedati, Londra si scusa ma non è il punto di Beppe
Severgnini
Le liste degli stranieri
Pag 5 Il falso mito dell’anno zero di Pierluigi Battista
Instabilità e paralisi del passato evocate da Renzi (e Berlusconi). Ma l’Italia è cresciuta
Pag 5 Il monito presidenziale su una campagna che si estremizza di Massimo
Franco
Pag 29 Maestri di felicità di Luigi Accattoli
Dalai Lama e Desmond Tutu, storia di un incontro di religioni: “La gioia può essere
contagiosa”
Pag 31 Il cambio di passo sui migranti, sfida di una sinistra riformista di Goffredo
Buccini
LA REPUBBLICA
Pag 1 L’ombra dell’Apocalisse di Massimo Giannini
LA STAMPA
Il boomerang della sterlina sulla Brexit di Francesco Guerrera
AVVENIRE
Pag 1 Chi piaga un popolo di Fulvio Scaglione
La feroce “guerra per procura” in Siria
Pag 22 Samir. L’islam recuperi il dialogo con l’attualità di Giorgio Paolucci
IL GAZZETTINO
Pag 1 I cattivi esempi che nutrono l’antipolitica di Sebastiano Maffettone
Pag 1 Italiani del Sud, da Londra arrivano le scuse di Mario Ajello
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1 – IL PATRIARCA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 3 Giustizia o misericordia? Procura e Chiesa a confronto di Alberto Zorzi
Venezia, D'Ippolito e il Patriarca affrontano il rapporto tra Legge e perdono in un dialogo
serrato
Venezia. «La misericordia in sé e per sé non appartiene al sistema giustizia. Il giudice ha
una soggezione assoluta nei confronti della legge». «Il cammino di conversione chiede di
andare oltre le strette misure degli uomini e spinge a comprendere che la misericordia è
il nome ultimo della giustizia». Da un lato il procuratore aggiunto di Venezia Adelchi
d'Ippolito, dall'altro il Patriarca Francesco Moraglia. Posizioni in apparenza inconciliabili
quelle del magistrato e dell'alto prelato, ma entrambi, quasi come in un libro giallo,
rimandano al 28 ottobre per la soluzione di un dilemma etico-filosofico. Quel giorno, alle
17.30 alla Scuola Grande di San Rocco a Venezia, tra d'Ippolito e Moraglia ci sarà un
faccia a faccia, la cui ispirazione viene dal tema portante dell'anno giubilare lanciato da
Papa Francesco. Le domande sono chiare, ma anche complesse: dal magistrato mi
aspetto che sia giusto o misericordioso? La giustizia terrena è una necessità per tutti,
cristiani compresi, oppure no? Chi commette un reato può essere perdonato o deve
comunque pagare il proprio debito nei confronti della società? Domande che, viste con
l'occhio laico di un mondo come quello giudiziario, sembrano scontate, tanto più in
un'epoca storica in cui, anzi, l'0pinione pubblica - al di là dei colori politici, anche se
ovviamente questo approccio è più sentito dalle parti del leghismo - chiede alla
magistratura di essere più severa con chi delinque e di emettere pene certe e, nei casi
estremi, mette alla berlina i magistrati accusati di scarcerare o assolvere (oppure, come
nel caso Stacchio, di condannare chi, dal loro punto di vista, si è solo difeso).
Ovviamente l'approccio cristiano è diverso. «La giustizia, nella Chiesa e nel mondo, in
ambito canonico come nel versante civile e penale, è veramente tale solo se non
smarrisce se stessa e fa entrare nel suo cammino la realtà profondamente umanizzante
della misericordia», afferma Moraglia. Il procuratore d'Ippolito su questo punto non è
così distante dal Patriarca: «L'azione del magistrato implica una continua e faticosa
riflessione che non deve mai trascurare la persona umana che si ha di fronte», afferma.
Non facile laddove il sistema-giustizia, con migliaia di fascicoli aperti e udienze in cui un
magistrato ne affronta a decine, sembra più una fabbrica taylorista, una catena di
montaggio delle sentenze. «Rifiuto questa impostazione - dice però d'Ippolito - il
magistrato deve saper ripercorrere il percorso compiuto dall'individuo per arrivare a
commettere un reato». «Per un giurista il problema è semplice: la giustizia, come
affermazione della legalità, è prioritaria nell'ordine logico - aggiunge l'altro procuratore
aggiunto lagunare, Carlo Nordio - La misericordia, intesa come perdono e riduzione o
estinzione della pena è una scelta politica». Secondo Nordio, però, neppure la Chiesa
può promuovere il perdono tout court: «Non può prescindere dall'ammissione della
colpa, dal pentimento, dalla penitenza e dal fermo proposito di non peccare più conclude - Una misericordia gratuita confliggerebbe con l'affermazione di un Dio giusto».
LA NUOVA
Pag 20 Giustizia e misericordia, inedito confronto di Roberta De Rossi
Il Patriarca e il procuratore aggiunto D'Ippolito protagonisti il 28 ottobre di un dialogo
alla Scuola grande di San Rocco
Giustizia e misericordia: due termini apparentemente lontani nell'immediato, comune
sentire. La giustizia può essere misericordiosa o dev'essere rigorosamente "altra" dalle
umane categorie del sentire? Il codice, la norma sono la sola guida di un magistrato o
l'empatia può avere uno spazio nelle decisioni di legge? L'invito di papa Francesco a
essere più clementi verso i detenuti come s'incontra con i diritti delle vittime e della
società ad essere tutelati? "Misericordia e giustizia" è il titolo dell'inedito confronto
pubblico che il 28 ottobre, nella scuola grande San Rocco, vedrà dialogare tra loro il
patriarca Francesco Moraglia e il procuratore aggiunto Adelchi d'Ippolito. Temi alti, che
investono il vivere quotidiano e che invitano a non fermarsi all'apparenza. «Il percorso
che abbiamo compiuto, come chiesa in Venezia, in quest'anno giubilare della
Misericordia ci ha portato spesso a toccare con mano l'intreccio fra misericordia e
giustizia», osserva il patriarca Moraglia, «in un cammino per andare oltre le strette
misure degli uomini e comprendere che la misericordia è il nome ultimo della giustizia e
che la giustizia - nella Chiesa e nel mondo - è veramente tale solo se non smarrisce se
stessa e fa entrare nel suo cammino la realtà umanizzante della misericordia. Nel
dialogo del 28 ottobre tenteremo di mettere a fuoco le varie sfumature di questo
intreccio, partendo dalle nostre esperienze». Prospettive di partenza diverse per il
vescovo e il magistrato: la fede non dovrebbe essere questione avulsa
dall'amministrazione della legge? «La misericordia in sé e per sé non appartiene al
sistema giustizia, che è amministrato in nome del popolo italiano», osserva il
procuratore aggiunto D'Ippolito, «la giustizia ha una soggezione assoluta nei confronti
della legge e non posso in alcun modo eludere la legge, ma è sicuro anche che l'azione
del magistrato implica una costante e faticosa riflessione che non deve mai trascendere
le persone che si trova di fronte: il magistrato deve saper ripercorrere il percorso che ha
compiuto un individuo per arrivare a commettere un reato, comprendere le ragioni che
lo hanno portato a delinquere». Sono tempi di incertezza, di tensione, paura, in cui
spesso la società chiede più carcere: che margine c'è, oggi, per la misericordia? «Una
giustizia equilibrata è al servizio della comunità», conclude il magistrato, «non è giustizia
se si piega a favore di una istanza particolare: il magistrato deve operare con una
grande libertà interiore e capacità di conservare la sua unica soggezione alla legge». Su
questo tema carico di suggestioni, implicazioni intime e al contempo pubbliche,
interviene anche il procuratore aggiunto Carlo Nordio: «Per un giurista il problema è
semplice: la giustizia intesa come affermazione della legalità è prioritaria nell'ordine
logico; la misericordia intesa come perdono e riduzione o estinzione della pena è una
scelta politica, per il reinserimento sociale del condannato. Ma per un cristiano la
misericordia è indissolubilmente coniugata alla giustizia: tuttavia anche per la chiesa il
perdono non può prescindere dai tradizionali requisiti dell'ammissione di colpa, del
pentimento, della penitenza e del fermo proposito di non peccare più. Il giudice vive la
perenne tensione tra l'imperativo della legge morale e il vincolo delle norme positive».
Pag 20 Moraglia: “Non vantatevi per le vostre conoscenze” di Nadia De Lazzari
Messa per il nuovo anno accademico
Il Patriarca Moraglia alle centinaia di universitari riuniti ieri in Basilica per la messa
giubilare e per l'inizio dell'anno accademico, ha posto in evidenza l'impegno intellettuale
quale servizio per umanizzare il mondo e ha distinto la sapienza di Dio da quella del
mondo. Queste le sue parole: «Ciò che fa male all'uomo non è la conoscenza in quanto
tale, ma il vantarsi di essa, come l'uso peccaminoso che l'uomo può fare delle sue
conoscenze». Il Patriarca ha proseguito: «Di fronte a questa celebrazione giubilare,
offerta a chi opera nell'ambito universitario, dove i molteplici saperi umani sono chiamati
a comporsi in una sinfonia» ecco l'Universitas «per un nuovo umanesimo, chiedo con
forza che si rifletta sulla sapienza che precede questi saperi umani». Prima della messa
gli universitari si sono ritrovati nella chiesa di San Moisè per un momento di catechesi
curata da don Gilberto Sabbadin, direttore della Pastorale universitaria, insieme
all'Istituto universitario salesiano. Poi il pellegrinaggio con il passaggio alla Porta Santa.
Alla messa ha partecipato anche personale amministrativo e tecnico. Tra i professori di
Ca' Foscari c'erano: Luisa Bienati (letteratura giapponese), Giuseppe Goisis (filosofia
politica), Roberto Senigaglia (diritto privato). Presente anche l'ex rettore dello Iuav
Amerigo Restucci. In diocesi intanto si avvicinano altri appuntamenti. Per l'apertura della
Scuola di Teologia, intitolata a San Marco Evangelista e diretta da don Valter Perini, il
Patriarca terrà tre incontri per la lectio magistralis in distinte zone: a Mestre oggi alle
20.45 al Centro pastorale cardinal Urbani di Zelarino; lunedì 17 alle 20.45 nel patronato
di Santa Maria Concetta ad Eraclea; lunedì 24, ore 18, nel Seminario alla Salute a
Venezia.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag VI Patriarca a confronto con il procuratore su giustizia e misericordia
«Sono d'accordo con il Governatore del Veneto: è necessario dare risposta giudiziaria nei
tempi più rapidi possibili nel caso di inchieste che coinvolgono esponenti politici. Ma i
magistrati devono essere messi nelle condizioni di farlo, con strutture adeguate e
personale sufficiente. Non concordo invece sulla proposta di creare strutture speciali». Il
procuratore aggiunto di Venezia, Adelchi d'Ippolito, replica così a Luca Zaia che, sulla
questione giustizia, l'altro giorno ha espresso l'esigenza di far sapere con rapidità ai
cittadini «se i politici che hanno eletto sono disonesti oppure no». D'Ippolito ieri ha
illustrato un'iniziativa in cui sarà protagonista il prossimo 28 ottobre, alle 17.30, alla
Scuola Grande di San Rocco: un dialogo assieme al Patriarca di Venezia, Francesco
Moraglia, sul tema "Misericordia e giustizia s'incontreranno?" «Si tratta di un argomento
che stimola profonde riflessioni - ha spiegato ieri il procuratore aggiunto - Cercheremo di
dare risposte ai molti interrogativi: dal ruolo del magistrato, al senso della giustizia
terrena, al concetto di perdono». «Le prospettive di un vescovo e di un magistrato sono
ovviamente diverse - ha aggiunto il Patriarca in una nota diramata in serata - Il dialogo
toccherà aspetti significativi della vita ecclesiale e civile, suscitando una sana e
stimolante provocazione e aiutando a crescere nel bene comune».
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3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 4 Cammino comune
In un libro l’omaggio a Bartolomeo per il venticinquesimo anniversario dell’elezione alla
sede patriarcale di Costantinopoli. La prefazione del Papa
È con sentimenti di cordiale vicinanza che mi unisco a tutti coloro che quest’anno
celebrano, con gioia e giubilo, il venticinquesimo anniversario dell’elezione di Sua Santità
Bartolomeo I a patriarca ecumenico. Il mio primo incontro con il mio amato fratello
Bartolomeo è avvenuto il giorno stesso in cui ho iniziato il mio ministero papale, quando
mi ha onorato della sua presenza a Roma. Ho sentito che stavo incontrando un uomo
che cammina nella fede (cfr. 2 Corinzi, 5, 7), che nella sua persona e nei suoi modi
esprime tutta la profonda esperienza umana e spirituale della tradizione ortodossa. In
quella occasione ci siamo abbracciati con affetto sincero e reciproca comprensione. I
nostri successivi incontri a Gerusalemme, Roma e Costantinopoli hanno non soltanto
rafforzato la nostra affinità spirituale, ma soprattutto reso più profonda la nostra
consapevolezza condivisa della responsabilità pastorale comune che abbiamo in questo
momento della storia, dinanzi alle sfide urgenti che i cristiani e l’intera famiglia umana
devono affrontare oggi. In particolare tengo caro nel cuore la splendida memoria del
caloroso e fraterno benvenuto che il patriarca Bartolomeo mi ha riservato durante la mia
visita al Fanar per la festa dell’apostolo Andrea, santo patrono del patriarcato
ecumenico, il 30 novembre 2014. La Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli sono
unite da un profondo e antico vincolo, che neanche secoli di silenzio e di malintesi sono
riusciti a spezzare. Questo vincolo è esemplificato dalla relazione tra coloro a cui la
tradizione attribuisce la fondazione delle nostre rispettive Chiese, ovvero i santi apostoli
Pietro e Andrea, due fratelli nella carne, ma soprattutto due discepoli del Signore Gesù,
che insieme hanno creduto in lui, lo hanno seguito e infine hanno condiviso il suo destino
sulla croce, nell’unica e identica speranza di servire la venuta del suo regno. I nostri
predecessori, l’illustre Atenagora I e il beato Paolo VI, ci hanno lasciato il sacro compito
di percorrere a ritroso il cammino che ha portato alla separazione delle nostre Chiese,
sanando le fonti del nostro reciproco allontanamento, e di procedere verso il ripristino
della piena comunione nella fede e nell’amore, consci delle nostre legittime differenze,
così com’era nel primo millennio. Oggi, noi fratelli nella fede e nella speranza che non
delude, siamo profondamente uniti nel desiderio che i cristiani d’oriente e d’occidente si
possano sentire parte dell’una e unica Chiesa, affinché possano proclamare al mondo
intero che «è apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini,
che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà,
giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione
della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tito, 2, 11-13). Nelle due
dichiarazioni comuni che abbiamo firmato a Gerusalemme e al Fanar abbiamo affermato
con fermezza e determinazione il nostro impegno condiviso, che deriva dalla nostra
fedeltà al Vangelo, a costruire un mondo più giusto e più rispettoso della dignità e delle
libertà fondamentali, la più importante delle quali è la libertà di religione. Siamo anche
fondamentalmente uniti nel nostro comune impegno di far crescere ulteriormente la
consapevolezza delle persone e della società in generale rispetto alla questione della
salvaguardia del creato, lo scenario cosmico nel quale l’infinita misericordia di Dio donata, rifiutata e ripristinata - viene manifestata e glorificata in ogni momento. Sono
profondamente grato per la guida del patriarca ecumenico in questo campo e per le sue
riflessioni su tale questione, da cui ho imparato e continuo a imparare tanto. Ho trovato
una profonda sensibilità spirituale nel patriarca Bartolomeo per la dolorosa condizione
dell’umanità attuale, così profondamente ferita da indicibile violenza, ingiustizia e
discriminazione. Siamo entrambi grandemente turbati da quel grave peccato contro Dio,
che sembra crescere di giorno in giorno, che è la globalizzazione dell’indifferenza dinanzi
alla deturpazione dell’immagine di Dio nell’uomo. È nostra convinzione che siamo
chiamati a operare per la costruzione di una nuova civiltà dell’amore e della solidarietà.
Entrambi siamo consapevoli che le voci dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, ora al
punto di estrema angoscia, ci obbligano a procedere più rapidamente sul cammino della
riconciliazione e della comunione tra cattolici e ortodossi, in modo che possano
proclamare in maniera credibile il Vangelo di pace che viene da Cristo. Per queste
molteplici ragioni sono molto lieto che il venticinquesimo anniversario dell’elezione del
mio amico e fratello Bartolomeo a patriarca dell’antica e gloriosa sede di Costantinopoli
venga celebrato da così tante persone che rendono grazie al Signore per la sua vita e il
suo ministero. Considero una grazia e un privilegio camminare insieme al patriarca
Bartolomeo nella speranza di servire il nostro unico Signore Gesù Cristo, contando non
sulle nostre esigue forze, bensì sulla fedeltà di Dio, e sostenuti dall’intercessione dei
fratelli santi, gli apostoli Andrea e Pietro. È con questa certezza e nel costante ricordo
nella preghiera che esprimo a Sua Santità il patriarca Bartolomeo i miei cordiali e
fraterni buoni auspici per una lunga vita nell’amore e nella consolazione del Dio uno e
trino.
Papa Francesco
Dal Vaticano, 4 aprile 2016
Pag 4 Compagni di viaggio
La riflessione di Benedetto XVI
Il mio primo stretto contatto personale con il patriarca ecumenico Bartolomeo è stato
nell’anno 2002, durante il viaggio verso l’incontro internazionale di preghiera ad Assisi.
Era stata del papa san Giovanni Paolo II l’idea di recarci insieme in treno ad Assisi per
esprimere il nostro percorso interiore oltre al viaggio esteriore. Per me fu una gioia
apprendere che il patriarca mi aveva invitato a sedere per un po’ accanto a lui, nello
stesso scompartimento, e, in tal modo, conoscerci meglio. Per me tale incontro - lungo il
cammino - è più di un’espressione accidentale dello stato della fede. Fui anche subito
commosso dall’apertura e dal calore personale del patriarca. Non ci volle un grande
sforzo per avvicinarci di più l’uno all’altro. La sua apertura interiore e la sua semplicità
ispiravano subito una piacevole intimità. A contribuire a questa sensazione fu
naturalmente anche il fatto che parla tutte le principali lingue europee, non soltanto
francese e inglese, ma anche italiano e tedesco. Ancor più sorprendente fu per me il
fatto che padroneggia il latino e sa esprimersi in tale lingua. Se si può conversare con
qualcuno nella propria lingua, c’è immediatezza nel parlare cuore a cuore e pensiero a
pensiero. Il patriarca non ha studiato solo nell’ambito della Chiesa ortodossa, ma anche
a Monaco e a Roma. Alla diversità di lingue corrisponde, di conseguenza, anche una
diversità di culture nelle quali egli si muove. Così, il suo pensiero è, dal profondo, un
viaggio con gli altri e verso gli altri, che certamente non degenera in una mancanza di
direzione, dove l’“essere in cammino” semplicemente non porterebbe da nessuna parte.
Essere profondamente radicati nella fede in Gesù Cristo, figlio del Dio vivente e nostro
redentore, non ostacola l’apertura verso l’altro perché Gesù Cristo porta in sé tutta la
verità. Al tempo stesso, però, questo radicamento ci protegge dallo scivolare nella
futilità e da un vuoto gioco di vanità, poiché ci mantiene nella verità, che appartiene a
tutti e vuole essere la via per tutti. Così, in qualche modo vedo in questo nostro primo
incontro un ritratto dell’intera personalità del patriarca ecumenico: vivere in cammino
verso una meta; vivere nelle molte dimensioni delle grandi culture; vivere nell’incontro,
sostenuto dall’incontro fondamentale con la verità che è Gesù Cristo. Alla fine, la meta di
tutti questi incontri è l’unità in Gesù Cristo. Anche se, naturalmente, il fine di questa
breve riflessione non può essere quello di delineare in qualche modo il ministero del
patriarca nella sua interezza, vorrei almeno sottolineare un aspetto che è importante per
descrivere questo grande uomo della Chiesa di Dio: il suo amore per il creato e il suo
impegno perché venga trattato conformemente a questo amore, nelle questioni grandi e
piccole. Un pastore del gregge di Gesù Cristo non è mai orientato soltanto alla cerchia
dei propri fedeli. La comunità della Chiesa è universale anche nel senso che include tutta
la realtà. Ciò appare evidente, per esempio, nella liturgia, che non indica soltanto la
commemorazione e il compimento degli atti salvifici di Gesù Cristo. È in cammino verso
la redenzione dell’intera creazione. Nell’orientamento della liturgia verso oriente,
vediamo che i cristiani, insieme al Signore, desiderano procedere verso la salvezza del
creato nella sua interezza. Cristo, il Signore crocifisso e risorto, è al tempo stesso anche
il “sole” che illumina il mondo. Anche la fede è sempre diretta verso la totalità del
creato. Pertanto, il patriarca Bartolomeo realizza un aspetto essenziale della sua
missione sacerdotale proprio con questo suo impegno verso il creato. La mia elezione a
successore di Pietro ha naturalmente conferito una nuova dimensione al nostro incontro
personale. La responsabilità per la fede nel mondo e, al tempo stesso, la responsabilità
per l’unità del cristianesimo diviso fanno parte del ministero che ci è stato dato, ma sono
anche un dovere personale. Considero particolarmente bello il fatto che, dopo la mia
rinuncia, il patriarca mi sia rimasto sempre vicino personalmente e che sia perfino
venuto a trovarmi nel mio piccolo convento. In molti angoli del mio appartamento si
possono trovare ricordi ricevuti da lui. Questi oggetti non sono soltanto segni affettuosi
della nostra amicizia personale, ma anche indicazioni verso l’unità tra Costantinopoli e
Roma, segni di speranza che ci stiamo dirigendo verso l’unità. Sua Santità Bartolomeo è
un patriarca davvero ecumenico, in tutti i sensi del termine. In solidarietà fraterna con
Papa Francesco sta compiendo ulteriori importanti passi sul cammino dell’unità. Caro
fratello in Cristo, possa il Signore garantirle ancora molti anni di ministero benedetto
come pastore nella Chiesa di Dio. La saluto en philèmati haghìo [“con il bacio santo”,
Romani, 16, 16 e 1 Corinzi, 16, 20].
Pag 8 La rivoluzione dei piccoli gesti
All’udienza generale il Pontefice parla delle opere di misericordia e ricorda santa Teresa
di Calcutta
Per compiere le opere di misericordia non servono «grandi sforzi sovraumani»; al
contrario bastano piccoli semplici gesti quotidiani per realizzare una vera rivoluzione
culturale. Come ha fatto santa Teresa di Calcutta chinandosi «su ogni persona che
trovava in mezzo alla strada per restituirle dignità». È quanto ha auspicato Papa
Francesco all’udienza generale di mercoledì 12 ottobre in piazza San Pietro, inaugurando
un nuovo ciclo di riflessioni dedicate alle opere di misericordia spirituali e corporali.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nelle catechesi precedenti ci siamo addentrati poco
alla volta nel grande mistero della misericordia di Dio. Abbiamo meditato sull’agire del
Padre nell’Antico Testamento e poi, attraverso i racconti evangelici, abbiamo visto come
Gesù, nelle sue parole e nei suoi gesti, sia l’incarnazione della Misericordia. Egli, a sua
volta, ha insegnato ai suoi discepoli: «Siate misericordiosi come il Padre» (Lc 6, 36). È
un impegno che interpella la coscienza e l’azione di ogni cristiano. Infatti, non basta fare
esperienza della misericordia di Dio nella propria vita; bisogna che chiunque la riceve ne
diventi anche segno e strumento per gli altri. La misericordia, inoltre, non è riservata
solo a dei momenti particolari, ma abbraccia tutta la nostra esistenza quotidiana. Come,
dunque, possiamo essere testimoni di misericordia? Non pensiamo che si tratti di
compiere grandi sforzi o gesti sovraumani. No, non è così. Il Signore ci indica una strada
molto più semplice, fatta di piccoli gesti che hanno però ai suoi occhi un grande valore, a
tal punto che ci ha detto che su questi saremo giudicati. Infatti, una pagina tra le più
belle del Vangelo di Matteo ci riporta l’insegnamento che potremmo ritenere in qualche
modo come il “testamento di Gesù” da parte dell’evangelista, che sperimentò
direttamente su di sé l’azione della Misericordia. Gesù dice che ogni volta che diamo da
mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete, che vestiamo una persona nuda e
accogliamo un forestiero, che visitiamo un ammalato o un carcerato, lo facciamo a Lui
(cfr. Mt 25, 31-46). La Chiesa ha chiamato questi gesti “opere di misericordia corporale”,
perché soccorrono le persone nelle loro necessità materiali. Ci sono però anche altre
sette opere di misericordia dette “spirituali”, che riguardano altre esigenze ugualmente
importanti, soprattutto oggi, perché toccano l’intimo delle persone e spesso fanno
soffrire di più. Tutti certamente ne ricordiamo una che è entrata nel linguaggio comune:
“Sopportare pazientemente le persone moleste”. E ci sono; ce ne sono di persone
moleste! Potrebbe sembrare una cosa poco importante, che ci fa sorridere, invece
contiene un sentimento di profonda carità; e così è anche per le altre sei, che è bene
ricordare: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori,
consolare gli afflitti, perdonare le offese, pregare Dio per i vivi e per i morti. Sono cose
di tutti i giorni! “Ma io sono afflitto...” - “Ma Dio ti aiuterà, non ho tempo...”. No! Mi
fermo, lo ascolto, perdo il tempo e consolo lui, quello è un gesto di misericordia e quello
è fatto non solo a lui, è fatto a Gesù! Nelle prossime Catechesi ci soffermeremo su
queste opere, che la Chiesa ci presenta come il modo concreto di vivere la misericordia.
Nel corso dei secoli, tante persone semplici le hanno messe in pratica, dando così
genuina testimonianza della fede. La Chiesa d’altronde, fedele al suo Signore, nutre un
amore preferenziale per i più deboli. Spesso sono le persone più vicine a noi che hanno
bisogno del nostro aiuto. Non dobbiamo andare alla ricerca di chissà quali imprese da
realizzare. È meglio iniziare da quelle più semplici, che il Signore ci indica come le più
urgenti. In un mondo purtroppo colpito dal virus dell’indifferenza, le opere di
misericordia sono il miglior antidoto. Ci educano, infatti, all’attenzione verso le esigenze
più elementari dei nostri «fratelli più piccoli» (Mt 25, 40), nei quali è presente Gesù.
Sempre Gesù è presente lì. Dove c’è un bisogno, una persona che ha un bisogno, sia
materiale che spirituale, Gesù è lì. Riconoscere il suo volto in quello di chi è nel bisogno
è una vera sfida contro l’indifferenza. Ci permette di essere sempre vigilanti, evitando
che Cristo ci passi accanto senza che lo riconosciamo. Torna alla mente la frase di
Sant’Agostino: «Timeo Iesum transeuntem» (Serm., 88, 14, 13), “Ho paura che il
Signore passi” e non lo riconosca, che il Signore passi davanti a me in una di queste
persone piccole, bisognose e io non me ne accorga che è Gesù. Ho paura che il Signore
passi e non lo riconosca! Mi sono domandato perché Sant’Agostino ha detto di temere il
passaggio di Gesù. La risposta, purtroppo, è nei nostri comportamenti: perché spesso
siamo distratti, indifferenti, e quando il Signore ci passa vicino noi perdiamo l’occasione
dell’incontro con Lui. Le opere di misericordia risvegliano in noi l’esigenza e la capacità di
rendere viva e operosa la fede con la carità. Sono convinto che attraverso questi
semplici gesti quotidiani possiamo compiere una vera rivoluzione culturale, come è stato
in passato. Se ognuno di noi, ogni giorno, ne fa una di queste, questa sarà una
rivoluzione nel mondo! Ma tutti, ognuno di noi. Quanti Santi sono ancora oggi ricordati
non per le grandi opere che hanno realizzato ma per la carità che hanno saputo
trasmettere! Pensiamo a Madre Teresa, da poco canonizzata: non la ricordiamo per le
tante case che ha aperto nel mondo, ma perché si chinava su ogni persona che trovava
in mezzo alla strada per restituirle la dignità. Quanti bambini abbandonati ha stretto tra
le sue braccia; quanti moribondi ha accompagnato sulla soglia dell’eternità tenendoli per
mano! Queste opere di misericordia sono i tratti del Volto di Gesù Cristo che si prende
cura dei suoi fratelli più piccoli per portare a ciascuno la tenerezza e la vicinanza di Dio.
Che lo Spirito Santo ci aiuti, che lo Spirito Santo accenda in noi il desiderio di vivere con
questo stile di vita: almeno farne una ogni giorno, almeno! Impariamo di nuovo a
memoria le opere di misericordia corporale e spirituale e chiediamo al Signore di aiutarci
a metterle in pratica ogni giorno e nel momento nel quale vediamo Gesù in una persona
che è nel bisogno.
AVVENIRE
Pag 5 “Imploro il cessate il fuoco per la Siria” di Luca Geronico
L’appello di Francesco: consentite la fuga dei bimbi intrappolati sotto le bombe
Come in ginocchio, pur di ottenere la pace in Siria. Ieri un nuovo appello di Francesco,
«implorando, con tutta la mia forza, i responsabili, affinché si provveda a un immediato
cessate il fuoco». Un altro fortissimo richiamo di papa Bergoglio fatto «con senso di
urgenza», al termine dell’udienza generale davanti a una piazza San Pietro gremita di
folla, e per «sottolineare e ribadire» la vicinanza «a tutte le vittime del disumano
conflitto in Siria». Il cessate il fuoco, ha chiesto alla comunità internazionale il vescovo di
Roma, «sia imposto e rispettato almeno per il tempo necessario a consentire
l’evacuazione dei civili, soprattutto dei bambini, che sono ancora intrappolati sotto i
bombardamenti cruenti». Una conferma che «il cuore del Papa è con noi» per
l’arcivescovo armeno cattolico di Aleppo, Boutros Marayati, che ieri denunciava due lanci
di artiglieria anche sul suo quartiere ad Aleppo ovest. Ieri, infatti, è stata l’ennesima
giornata di raid aerei e morte, soprattutto sui quartieri orientali di Aleppo. Un raid aereo,
non è chiaro se dei caccia russi o governativo – denuncia l’Aleppo media center – ha
colpito un mercato ortofrutticolo del quartiere di Firdaws: almeno 15 i morti. Altri raid,
denunciano sempre fonti vicine all’opposizione, hanno colpito pure i distretti di al-Kalasa
e al-Maadi. Secondo i caschi bianchi, il corpo di soccorritori attivi nei quartieri orientali,
le vittime sono state in tutto 25. Un bilancio simile a quello di martedì. Uno stillicidio di
violenza che tiene sempre, inesorabilmente, in ostaggio circa 250mila civili in un assedio
sempre più barbaro. I pochi ospedali rimasti ad Aleppo Est, denuncia Medici senza
frontiere, già sovraffollati da numerosi feriti, non hanno più ambulanze per prestare
soccorso alle vittime. «Non solo gli ospedali sono stati colpiti almeno 23 volte dall’inizio
dell’assedio a luglio. Anche le ambulanze che trasportano i feriti vengono colpite», ha
detto Carlos Francisco capo missione di Msf in Siria. Tra il 23 settembre e l`8 ottobre gli
ospedali di Aleppo Est hanno ricevuto almeno 1.384 feriti, in media 86 al giorno secondo
la Direzione della Sanità mentre solo 11 ambulanze sono funzionanti: in settembre
cinque ambulanze sono state colpite e altre due completamente distrutte mentre due
autisti sono stati feriti in modo grave. Ieri pure la dura condanna dell’Unicef per l’attacco
avvenuto martedì alla scuola di That al-Netaqeen, nella città di Daraa, in cui sono morti
5 bambini, di età compresa tra i 4 e i 16 anni, mentre altri 15 sono rimasti feriti. «Il
cortile della scuola è stato colpito al termine di un’attività di educazione fisica a poche
settimane dall’inizio dell’anno scolastico», ha dichiarato Hanaa Singer, rappresentante
Unicef in Siria. Un episodio che, colpendo il «diritto all’istruzione e al gioco», è un
simbolo dell’escalation delle violenze. Ma ieri si è combattuto anche nel Nord della Siria,
dove – riferiscono fonti militari di Ankara – almeno 47 jihadisti del Daesh sono stati
uccisi da bombardamenti dell’esercito turco e da raid aerei della Coalizione
internazionale a guida Usa. Negli scontri con i combattenti del Califfato sono pure rimasti
uccisi 8 miliziani dell’Esercito siriano libero (Esl), sostenuti dalla Turchia. Sul fronte
diplomatico ancora scambi di accuse fra Francia e Russia, mentre una schiarita potrebbe
venire dal vertice di sabato a Losanna fra il ministro degli Esteri russo Lavrov e il
segretario di Stato Usa Kerry. Ieri, nel tentativo di ricucire i rapporti dopo aver annullato
la sua visita a Parigi, Putin ha avuto un colloquio telefonico con il presidente francese
Hollande e la cancelliera tedesca Merkel sulla Siria. Francia e Germania hanno ribadito la
richiesta di un cessate il fuoco in Siria anche per favorire l’arrivo di aiuti umanitari. Putin
ha auspicato che i colloqui di Losanna di sabato «possano essere fruttuosi». Dopo un
vertice a Roma con il collega francese Jean-Marc Ayrault e quello tedesco Frank-Walter
Steinmeier, il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni ha definito «inaccettabile» il
sostegno dato dalla Russia al regime di Assad nell’assedio ad Aleppo Est. In mattinata
Putin, che martedì ha annullato la visita a Parigi prevista per il 19 ottobre, ha accusato
la Francia di aver presentato la sua risoluzione in Consiglio di sicurezza per «incitare a
opporre il veto» e «alimentare l’isteria contro la Russia». Sempre ieri il Senato russo ha
approvato la trasformazione della base aerea a Latakia in «base militare permanente».
Mosca potrà così inviare in Siria un «contingente di terra permanente». Infine è giunto
ieri in Giordania, in visita al campo profughi di Zaatari, il segretario della Cei, monsignor
Nunzio Galantino, per «ribadire la vicinanza della Chiesa italiana a quanti fuggono dalla
violenza della guerra e della persecuzione». Nel campo dell’Onu vivono oltre 80mila
rifugiati siriani.
IL FOGLIO
Pag 2 Un rito in chiesa per le nozze gay. L’ultima idea del vescovo di Anversa di
Matteo Matzuzzi
Mons. Bonny: “Aprirsi all’evoluzione, no a modelli unici”
Roma. A un anno dalla conclusione del Sinodo ordinario sulla famiglia e a pochi mesi dal
documento che ne ha tirato le conclusioni - l'esortazione Amoris laetitia - nella variegata
chiesa europea c'è chi propone una propria interpretazione - che va ben al di là delle
determinazioni sinodali - della nuova prassi che si dovrebbe applicare a quelle "situazioni
nuove" (per usare una formulazione assai udita tra i padri nell'ultimo biennio di
confronto voluto dal Papa) presenti nella società. Il vescovo di Anversa, mons. Johan
Bonny, ha proposto di creare "un rito alternativo" che consenta la benedizione delle
coppie omosessuali, dei divorziati risposati e dei conviventi. Nel suo ultimo libro, Puis-je?
Merci. Désolé (Posso? Grazie. Mi spiace), pubblicato in Belgio martedì scorso, il presule
sostiene la necessità di uscire dagli schemi consueti, di smetterla di "applicare a tutti lo
stesso modello" e di aprirsi alla "evoluzione in una varietà di rituali in cui si possa
riconoscere il rapporto d'amore tra omosessuali, anche dal punto di vista della chiesa e
della fede". Il volume è pensato come una serie di interrogativi posti ragionando sullo
stato della fede nel mondo contemporaneo. Domande che però già contengono le
risposte e ribadiscono la linea che il vescovo di Anversa aveva già esplicitato più volte.
In un'intervista concessa al quotidiano De Morgen, alla fine del 2014 e cioè poco dopo la
conclusione del primo Sinodo, Bonny era netto: "La chiesa deve riconoscere la
relazionalità presente nelle coppie formate da persone dello stesso sesso", aggiungendo
che "troppe persone sono state escluse per troppo tempo". Basta, insomma, con "i
traumi" dovuti alla "discriminazione". Da abbattere, sosteneva, era "il dogma della
chiesa" che conferisce l' esclusività alla relazione tra uomo e donna, e questo perché "i
valori intrinseci sono per me più importanti della mera questione istituzionale. L'etica
cristiana si basa su relazioni durature dove esclusività, fedeltà e cura per l'altro sono
centrali". Nel libro, mons. Bonny conversa con il teologo Roger Burggraeve e con il
giornalista Ilse Van Halst, ribadendo che "non possiamo continuare a dire che non ci
sono altre forme di amore diverse dal matrimonio omosessuale. Lo stesso amore che
troviamo in un uomo e una donna che vivono insieme lo troviamo in gay e lesbiche".
Quanto ai divorziati risposati, e nonostante quanto esplicitato in Amoris laetitia, Bonny è
favorevole alla benedizione della seconda relazione anche perché "la chiesa ortodossa
già da molto tempo ha la pratica di confermare una nuova relazione per ragioni di
misericordia, che consente di ritrovare un posto nella comunità". Soluzione, quella
orotodossa, che il Sinodo ha però negato, osservando che - disse il relatore generale, il
cardinale Péter Erdo - "non può essere valutata giustamente usando solo l'apparato
concettuale sviluppatosi in occidente nel secondo millennio". Il vescovo di Anversa,
poche settimane prima dell'apertura dell'assemblea straordinaria sulla famiglia (ottobre
2014) aveva mandato in stampa un documento plurilingue da lui redatto in qualità di
vescovo dell'Europa occidentale in cui domandava di superare il contenuto della
Humanae vitae di Paolo VI dal momento che il Papa "andò contro il parere della
commissione di esperti da lui stesso nominata, della commissione di cardinali e vescovi
che avevano lavorato su questo tema, della grande maggioranza dei teologi morali, dei
medici e degli scienziati, delle famiglie cattoliche". Una posizione che va oltre anche le
parole del Papa che, solo una settimana fa, ribadiva che un conto è l'accoglienza di tutti
nella chiesa e un altro è l'avallare la teoria del gender. Inoltre, diceva lo scorso gennaio
nel discorso alla Rota Romana, "non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio
e ogni altro tipo di unione". La famiglia "fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e
procreativo - aggiungeva - appartiene al sogno di Dio e della sua chiesa per la salvezza
dell'umanità".
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 I giovani (ancora) trascurati di Sergio Rizzo
Le pensioni e i conti
Ormai da mesi, se si esclude il referendum di dicembre, le pensioni sono tornate a
occupare il pensiero della politica. L’opinione pubblica è stata bombardata prima da
messaggi sulla possibilità per certe categorie di lasciare il lavoro in anticipo, ricorrendo
alla singolare stampella del prestito bancario, poi dalla proposta di aumentare del 30 per
cento la quattordicesima alle pensioni sotto i mille euro. Per settimane è stato il tema
più dibattuto sui giornali e in televisione. Sono problemi tragicamente reali. I pensionati
italiani, almeno nella media delle statistiche, non sono nababbi. E c’è chi (giustamente)
ritiene che prolungare troppo l’età pensionabile rappresenti un tappo per i giovani, in un
Paese nel quale il tasso di disoccupazione di chi ha meno di 30 anni tocca il 40 per
cento, con punte letteralmente mostruose nelle regioni meridionali. Anche se pensare di
risolvere così questa faccenda anziché creando nuovo lavoro pare una strategia piuttosto
di retroguardia. E per l’ex ministra del Lavoro, Elsa Fornero, autrice della più controversa
riforma pensionistica, quello sulla quattordicesima altro non è che «un intervento per
aumentare il consenso». Da che in Italia esiste la democrazia questa è sempre stata la
scelta obbligata. Di fronte alla necessità di ottenere consenso si attinge sempre al
serbatoio più capiente. E siccome i pensionati meno abbienti sono sei milioni, il triplo dei
giovani disoccupati, e a differenza di questi vanno ancora a votare... Silvio Berlusconi ha
vinto la campagna elettorale del 2001 anche promettendo di aumentare le pensioni
minime a un milione di lire al mese. E il 20 dicembre scorso ha annunciato che se
dovesse rivincere le prossime elezioni, le porterebbe a mille euro al mese. Ma pure
governi di centrosinistra non si sono sottratti a tentazioni simili: l’Unione di Prodi demolì
lo «scalone» per le pensioni di anzianità introdotto da Maroni, con un impatto micidiale
sui conti pubblici. Ecco anche perché le riforme più dure sono state fatte da governi
tecnici (Dini e Monti) o da esecutivi alle prese con problemi finanziari drammatici
(Amato). Mentre non c’è governo che abbia affrontato seriamente il problema
generazionale. Renzi ha buon gioco a dire che nessuno ha fatto per i giovani quanto lui.
Magari è anche vero. Ma ciò la dice lunga su quanto non sia stato fatto in passato. Dal
1990 all’inizio del 2012, quando il governo Monti è intervenuto con decisione sulla
dinamica previdenziale, la spesa per il capitolo «Protezione sociale» costituito
soprattutto dalle pensioni, è salita di 118 miliardi con una crescita reale del 58,1%. Al
tempo stesso l’investimento pubblico nell’istruzione scendeva di 2,8 miliardi in termini
reali, con un calo del 3,4%. Se il peso della «Protezione sociale» lievitava dal 30,2 al
40,4% della spesa pubblica, quello dell’istruzione diminuiva dal 10,1 all’8,3%. Per ogni
euro investito nel 2011 in istruzione ne spendevamo quasi 5 per quella voce, contro
meno di 3 vent’anni prima. Certo, in quel periodo la popolazione è invecchiata, i bisogni
sanitari e di sostentamento delle fasce più deboli si sono incrementati e la crisi del 2008
ha fatto il resto. Ma il succo è che per almeno due decenni il Paese ha investito negli
anziani e privato di risorse i giovani. Mostrando una clamorosa incapacità di guardare al
futuro. E si è radicato nel mondo delle professioni come in quello accademico un clima
ostile ai giovani estranei ai meccanismi di cooptazione corporativa o familiare. Il
presidente dell’Anticorruzione Cantone è subissato dalle segnalazioni di concorsi
universitari truccati: un fenomeno devastante che contribuisce a impoverire l’Italia
spingendo i ragazzi più bravi e meritevoli a scappare all’estero. Renzi dice che «bisogna
fare molto di più». Ha ragione, se è vero che il Jobs act ha finito per favorire gli anziani
più dei giovani. Quanto al bonus da 500 euro ai diciottenni, quella è una discreta
mancia. Che forse però poteva essere investita meglio. Bisogna fare molto di più,
eccome. Ma si dovrebbe rimettere al centro della discussione pubblica il futuro, piuttosto
che il passato. E il fatto che l’ossessione della quattordicesima ai pensionati continui a
sovrastare anche nella narrazione dei media l’attenzione per i problemi drammatici delle
giovani generazioni, a partire dal lavoro e dall’università, dimostra purtroppo quanto
siamo ancora lontani dal cambiare registro. Speriamo solo che quando ci decideremo a
farlo non sia troppo tardi .
AVVENIRE
Pag 2 Perché diventano nodo i “compiti per casa” di Roberto Carnero
Sempre più fragile l’alleanza scuola-famiglia
I compiti scolastici sembrano essere diventati una questione di Stato. Tant’è che anche
su queste colonne se ne è dibattuto a più riprese .Una cosa che si è sempre data per
scontata – il fatto cioè che gli insegnanti diano dei lavori da svolgere a casa – oggi è
diventata una realtà problematica, al punto da spingere nei giorni scorsi lo stesso
ministro dell’Istruzione Stefania Giannini a intervenire per placare gli animi, assicurando
che con la messa in pratica delle disposizioni contenute nella legge sulla 'buona scuola' il
problema dovrebbe risolversi. Ma qual è il problema? Da una parte gli insegnanti che
assegnano, come hanno sempre fatto, i compiti per casa; dall’altra i genitori che
sopportano sempre meno questa prassi. Il tema dei compiti per casa viene oggi vissuto
come un affare di famiglia. , Significativo in tal senso il titolo di un articolo sulla 'Stampa'
del 7 ottobre: «Se il papà non riesce a fare i compiti della figlia». Alla ripresa delle
scuole aveva destato scalpore il padre di un ragazzo che aveva condiviso sui social una
lettera indirizzata ai docenti del figlio, alunno in una scuola media, in cui spiegava
perché aveva deciso di non fargli svolgere i compiti per le vacanze. L’uomo affermava di
aver voluto sfruttare l’estate per insegnare al figlio «a vivere», facendo con lui diverse
cose: «Lunghe gite in bici, vita di campeggio, gestione della casa e della cucina». Tutto
– insomma – tranne i compiti estivi, come se questi ultimi potessero ostacolare una vita
piena, come se le attività scolastiche impedissero di coltivare adeguatamente il rapporto
tra genitori e figli. Le proteste del resto non sono soltanto nostrane: dopo un’analoga
mobilitazione che aveva avuto luogo in Francia nel 2012, ora anche in Spagna si
moltiplicano i genitori che scrivono sul diario dei loro ragazzi frasi come questa: «Mio
figlio non ha svolto i compiti per una decisione familiare». E sempre in Spagna è stato
addirittura indetto per il prossimo novembre, da parte della più grande associazione dei
genitori degli alunni delle scuole statali, un boicottaggio ufficiale dei compiti per casa. Il
fenomeno indica un’inedita alleanza tra gli alunni e i genitori contro gli insegnanti. Anche
se a problematizzare la questione sembrano più gli adulti che i minori: questi ultimi non
si sognerebbero mai di mettere in discussione quanto la scuola chiede loro di fare, se
non fossero spalleggiati da mamma e papà. Mi sembra che la querelle denunci due
grossi problemi. Innanzitutto è un’ulteriore prova di come l’alleanza educativa tra scuola
e famiglia sia sempre più fragile: tante famiglie non riconoscono all’istituzione scolastica
la necessaria autorevolezza. È un po’ – per intenderci – come se il paziente di fronte al
medico che stabilisce una terapia gli dicesse: «No, grazie, questi farmaci non intendo
prenderli». Liberissimo di farlo, certo, ma poi se la patologia peggiora non si può
incolpare il medico (mentre oggi è purtroppo frequente che se un ragazzo viene
bocciato, i genitori se la prendano prima di tutto con i docenti che hanno deciso in tal
senso). C’è poi però un altro aspetto: il rifiuto dei compiti per casa è il sintomo di una
concezione dell’apprendimento come gioco o intrattenimento, da cui siano escluse il
lavoro e la fatica. Eppure tutti sappiamo che certe cose non si possono imparare se non
al prezzo di uno sforzo. Siamo tutti d’accordo che vanno evitati gli eccessi, e sarebbe
bene che i docenti di una classe si confrontassero tra loro per distribuire in maniera
razionale il carico del lavoro per casa. Ma eliminarlo del tutto significherebbe impoverire
la qualità dell’offerta formativa. Se è vero che la lezione è la fase centrale della didattica,
è altrettanto vero che serve un tempo di assimilazione, senza il quale ciò che si è
appreso non potrebbe sedimentare. Inoltre nella scuola delle competenze non basta
'ascoltare', ma serve 'fare', vale a dire sperimentare le proprie conoscenze, applicandole
alle situazioni concrete. E poi i compiti per casa hanno anche un altro fine: quello di
abituare il bambino e il ragazzo a una certa autonomia organizzativa. Per questo va
bene che ci possa essere un confronto con i familiari durante lo svolgimento, ma genitori
e parenti non devono sostituirsi agli alunni, e neanche costituire una presenza
indispensabile affinché i compiti vengano fatti. Si cresce anche così, dalle elementari in
su.
Pag 3 La misericordia fa miracoli. E lo si può anche misurare di Mario A. Maggioni
Amore e perdono trasformano le persone. Ecco come
L’amore, il perdono e la misericordia fanno miracoli. Cambiano in meglio le persone e il
mondo. Lo sappiamo da tempo, ma ora è stato anche misurato e dimostrato
scientificamente. A metterlo in luce è uno studio del Cscc (Centro di ricerca in Scienze
Cognitive e della Comunicazione), dell’Università Cattolica che ha misurato, con gli
strumenti metodologici dell’economia comportamentale, l’effetto trasformativo del
perdono e della misericordia sulla vita delle persone. Essere oggetto di cura e di
relazione cambia il proprio atteggiamento verso la realtà anche nelle situazioni più
marginali: lo si è visto su tossicodipendenti in comunità di recupero; pluriomicidi nei
carceri di massima sicurezza in California che frequentano il programma riabilitativo
'Grip' di Insight-Out; bambini della Repubblica Democratica del Congo con accesso
difficoltoso all’istruzione primaria, aiutati dal programma 'Sostegno a Distanza' di Avsi.
Sono questi i tre casi di cui si è occupata la ricerca, che è partita grazie a un
finanziamento ottenuto cinque anni fa da una fondazione americana, il Fetzer Institute,
ed è proseguita grazie ad un finanziamento competitivo Universitario (Progetti di Ricerca
di Interesse di Ateno, D.3.2). Se da un lato amore e perdono sono due termini di cui gli
economisti non si occupano (una ricerca bibliografica su Econlit – il più ampio database
accademico in materia – evidenzia che su oltre un milione di articoli economici solo 242
contengono la parola 'amore' e ancor meno, 46, la parola 'perdono') dall’altro è evidente
come non sia possibile intraprendere alcuna azione economica senza tenerli presenti e
metterli in pratica. Se una persona non ha passione per quello che sta facendo non
potrebbe mai avviare un’impresa. E una volta che si sta facendo qualcosa con altri, se
non si è capaci di perdonare e di chiedere di essere perdonati, anche l’iniziativa più bella
non partirà, e se partirà sarà destinata al naufragio. Non è infatti possibile mantenere
una relazione con altre persone se non si è capaci di perdono. Questo non è vero solo
nel caso di un’impresa, ma vale anche per la famiglia, per un gruppo di amici o in molti
altri contesti. Lo strumento utilizzato nella ricerca del Cscc consiste in una serie di giochi
interattivi economicocomportamentali. Ai soggetti è stato chiesto di operare delle scelte
che hanno delle conseguenze reali. Spesso si tratta di operare una divisione di una certa
quantità di un bene tra sé e un altro partner anonimo a cui si è stati 'associati'. Di solito
in questi giochi la remunerazione delle scelte è costituita da denaro. Questo però non è
stato possibile in nessuno dei casi sopra indicati: nelle comunità di recupero, in prigione
e con i bambini che frequentano le scuole elementari non si possono usare i soldi per
evidenti ragioni. I ricercatori hanno così fatto ricorso a tre beni alternativi, ciascuno
concordato con la relativa Ong: sigarette per i tossicodipendenti, zuppe liofilizzate pronte
per i detenuti californiani, biscotti per i bambini congolesi. Le tre 'popolazioni' oggetto
dell’indagine sono state scelte perché si tratta di soggetti in condizioni di difficoltà e di
bisogno che stanno ricevendo cura, attenzione e sostegno da persone che innanzitutto
vogliono il loro bene e poi credono che facendo del bene si possano attivare dei circuiti
virtuosi che in seguito avranno effetti positivi a beneficio di tutta la società. E cco
dunque come funziona uno dei giochi, per esempio nel caso dei bambini. Il direttore dà
10 pacchetti di biscotti a un bambino e gli dice che può tenerseli tutti o può decidere di
darne o meno una quantità di sua scelta a una altra persona (di cui non viene rivelata
alcuna caratteristica personale), che sarà il suo partner in questo gioco. Il numero di
pacchetti di biscotti inviato al partner verrà moltiplicato per due e quindi il partner riceve
il doppio di quanto è stato donato. Il partner è libero di reciprocare la liberalità
scegliendo (se vuole) di inviare un numero a sua scelta di pacchetti di biscotti al
bambino. Quanto descritto, nella letteratura economica (detta 'teoria dei giochi') viene
chiamato 'gioco di fiducia'. Se uno non si fida, decide di tenere tutto per sé e il gioco
finisce lì. Ma una persona può invece decidere di inviare una parte di ciò che possiede
perché spera di sollecitare nell’altro un sentimento di gratitudine o di reciprocità. Il fatto
di introdurre un moltiplicatore serve a far sì che l’altro risponda positivamente senza
privarsi del bene in questione (più precisamente trasforma la situazione in un gioco non
'a somma zero'). I primi risultati relativi ai detenuti californiani mostrano che, grazie al
programma riabilitativo Grip, i detenuti divengono più generosi (+10%), più fiduciosi
negli altri (+16%), e meno impazienti, cioè valutano maggiormente il futuro in relazione
al presente rispetto a quanto facevano prima del percorso (-25%). Gli ex
tossicodipendenti che vivono l’esperienza della riabilitazione in comunità hanno mostrato
una significativa crescita del senso di equità a 9 mesi dal momento dell’ingresso
(+18%). Insieme ai giochi economico sperimentali sono stati inseriti anche due test
psicologici in cui si chiedeva a detenuti e tossicodipendenti di dare una propria
valutazione sia della propria attitudine al perdono degli altri sia della propensione al
perdono di sé. Quello che la ricerca ha dimostrato è che una persona, anche nella
situazione più disastrata, per poter cambiare e avere una relazione positiva con gli altri
deve per prima cosa sperimentarla su di sé. Se uno non si sente amato non riuscirà mai
ad amare nessuno e se non si sente perdonato non riuscirà mai a perdonare nessuno. I
carcerati californiani che hanno partecipato al progetto Grip hanno mostrato una crescita
dell’autostima (+13%) una maggiore capacità sia di concedere (+33%) che di richiedere
(+15%) il perdono ad altre persone. L a ricerca ha anche dimostrato 'statisticamente'
quello che qualsiasi operatore di una comunità di recupero conosceva per esperienza,
ma che non poteva che descrivere in modo aneddotico: che il passaggio cruciale del
cambiamento di un tossicodipendente avviene quando comincia a perdonare se stesso
(cioè ad andare oltre l’idea che «non sono degno di...», «l’ho fatta troppo grossa...»).
Dopo 9 mesi di permanenza in comunità la capacita di perdonarsi era crescita di circa il
20% e l’autostima dell’8%. La cosa più interessante è che nessuno dei programmi
analizzati mette esplicitamente a tema il perdono: nel caso dei detenuti, ad esempio,
quello che si cerca di favorire è un aumento della consapevolezza e del senso di
responsabilità per quello che si è fatto (e da questo nasce la richiesta di chiedere
perdono alle proprie vittime e/o ai parenti delle vittime, in caso di omicidio); nel caso dei
tossicodipendenti non è tematizzato il perdono di sé, ma quello che si cerca di
trasmettere, attraverso la vita della comunità e le interazioni con gli operatori, è che la
propria vita vale, a prescindere dagli errori che uno può aver commesso. È da questa
accresciuta autostima e dalla sicurezza che deriva dal sapere che c’è qualcuno che ti
vuole bene, nonostante tutto, che nasce la capacità di perdonarsi. Per quanto riguarda i
bambini congolesi, un primo confronto tra il campione di coloro che hanno goduto anche
di soli 5 mesi di sostegno tramite il programma Sad di Avsi ha mostrato come i bambini
'sostenuti' tendono a 'mentire' di meno (15% contro 25%) e a operare scelte più
egalitarie (60% contro 52%) rispetto al campione di controllo, composto da altri bambini
che frequentano la stessa classe e che condividono situazioni socio-economiche molto
simili. I primi risultati di queste tre ricerche saranno presentati venerdì pomeriggio in
Cattolica, insieme ai protagonisti delle Ong coinvolte. Il mondo di chi fa il bene e quello
di chi studia si devono incontrare più spesso. È un’esperienza di incontro che arricchisce
tutti: chi fa il bene, impara a fare anche meglio; chi studia, impara che dietro i
parametri, i dati e i modelli c’è l’uomo con il suo desiderio, i suoi bisogni, la sua libertà.
Pag 3 La leva dei bonus per sviluppo e ambiente di Leonardo Becchetti
Legge di bilancio alla luce della “Laudato si’”
Con la Laudato si’ papa Francesco evidenzia l’urgenza di passare da un approccio nel
quale la sbornia tecnologica ci fa credere utile e possibile manipolare ambiente e
persone a nostro piacimento ad una rinnovata ecologia delle relazioni che è la nostra
reale vocazione e il segreto della nostra pienezza di vita. La prevalenza del primo
approccio ci ha portato a livelli di insostenibilità sociale e ambientale che stanno
mettendo a rischio la nostra vita nel pianeta e la pace sociale. Una volta fissata la linea
di marcia sta a noi coniugare concretamente i principi in proposte e spiegare come si
può procedere nella direzione auspicata. Per questo l’esercizio di Legambiente con le sue
15 proposte a saldo zero per i conti pubblici lanciate in vista della nuova legge di bilancio
è particolarmente interessante. La logica delle proposte è sintetizzabile in modo
semplice: tassando alcune rendite e rimodulando il prelievo fiscale sui consumi è
possibile incentivare a saldo zero i comportamenti virtuosi di cittadini e imprese in
direzione di una maggiore responsabilità ambientale. Sul fronte della rimodulazione
fiscale uno dei capitoli più interessanti è quello dell’ecobonus, ovvero della detrazione
fiscale al 50% spalmata in 10 anni delle ristrutturazioni edilizie (65% quando includono
l’efficientamento energetico). Con questo strumento negli ultimi 18 anni si è
assecondata la transizione del settore edilizio verso le ristrutturazioni piuttosto che il
consumo di nuovo suolo ed è stato creato valore economico per 237 miliardi con 14
milioni di domande in 18 anni. Secondo uno studio del Cresme l’ecobonus ha migliorato
il rapporto debito/Pil da entrambi i lati. Il valore economico netto creato (investimenti in
ristrutturazione meno spesa delle famiglie) è stato di circa 18 miliardi mentre il saldo per
le casse dello Stato si è rivelato positivo per circa 300 milioni (ovvero la raccolta fiscale
dal reddito prodotto dai nuovi investimenti ha più che compensato l’esborso per la
detrazione). Uno dei vantaggi e obiettivi dell’ecobonus è stato quello di favorire
l’emersione rendendo meno conveniente per i committenti ristrutturazioni 'scontate' e
fatte in nero con evasione dell’Iva. La proposta è di rinforzare questo strumento
elevando la percentuale di detrazione per ristrutturazioni 'virtuose' che includono
efficientamento energetico e antismico. Il pacchetto fiscale include la questione più
generale e strategica della rimodulazione dell’Iva da ridurre per le produzioni di beni e
servizi più sostenibili aumentando le altre. I casi più classici sono quelli del riuso e del
riciclo con un’Iva fortemente ridotta per favorire lo sviluppo dell’economia circolare e
quello delle energie rinnovabili contro il petrolio. Su questo fronte c’è sicuramente da
fare molto di più perché non possiamo continuare nella contraddizione di voler favorire il
passaggio alle rinnovabili continuando a mantenere sussidi alle fonti fossili. È possibile
abolirli continuando, se si vuole, ad incentivare l’autotrasporto ma favorendo il
passaggio a motori ibridi o elettrici. La seconda parte dei provvedimenti riguarda
l’aumento della tassazione su alcuni settori di rendita che godono di condizioni di
vantaggio eccessive. Si va dall’estrazione di materiale dalle cave, alle autostrade, alle
concessioni balneari, ai produttori di acque minerali. Aumentare il prelievo su questi
settori darebbe un segnale importante alla direzione da prendere. La sfida del futuro in
tutto il mondo è quella di creare valore economico in modo ambientalmente sostenibile
per mitigare i problemi di inquinamento e riscaldamento globale che minacciano la
nostra salute, danneggiano soprattutto i più poveri che hanno meno risorse per
proteggersi dai disastri ambientali e producono conflitti per la contesa delle risorse
naturali che divengono progressivamente più scarsi. E il nostro compito in questo
momento è di essere ambiziosi utilizzando la leva della politica economica per mettere in
moto nuovi circoli virtuosi in grado di coniugare sviluppo, ambiente e giustizia sociale.
Pag 23 Ma la vera libertà ci vuole solidali
Zygmunt Bauman: “Cari top manager, siate più giusti”. Chiara Giaccardi e Mauro
Magatti: “La Rete può favorire l’economia della cura”
Esce in questi giorni da Città nuova il libro Il destino della modernitàcon testi del
sociologi Zygmunt Bauman, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti a partire dalla domanda
«quale società dopo la crisi economica?» (pagine 100, euro 12,00). Ne anticipiamo
alcuni brani. L’anelito di libertà ha attraversato tutta la storia dell’umanità, dando vita a
movimenti politici, ordinamenti giuridici e sistemi economici. Oggi la società occidentale
è autenticamente libera? Partendo da tale interrogativo, Zygmunt Bauman, il teorico
della società liquida, e i sociologi Mauro Magatti e Chiara Giaccardi indagano sull’esito
paradossale del poderoso sviluppo economico degli ultimi 40 anni. Il progresso ha
aumentato le potenzialità di scelta dell’uomo, ma lo ha ingabbiato in una concezione
radicalmente individualista dell’esistenza umana, prigioniero del consumismo, degli
apparati tecno-economici e della volontà di affermare se stesso.
(Zygmunt Bauman) Ritengo che la questione centrale che investe la libertà nel mondo
contemporaneo sia rappresentata dall’alternativa tra il concetto di competizione e quello
di solidarietà. La competizione è, di fatto, una concorrenza che spinge ogni essere
umano a portare avanti la propria posizione e che porta a sostenere: «Io voglio che le
cose siano come io le desidero ». La solidarietà, invece, presuppone l’idea che tutti gli
uomini e le donne possano vivere insieme in modo collaborativo e possano cercare di
diventare, tutti, più felici. Nella società odierna, mi sembra di poter rilevare che ci sono
alcuni elementi della libertà umana che sono quanto meno in discussione se non
addirittura in pericolo. Le capacità di scelta che sono nella disponibilità degli uomini si
stanno, infatti, progressivamente restringendo; la responsabilità decisionale, inoltre,
viene negata a molte persone; e la speranza, infine, per molti giovani, di poter realizzare
e mettere in pratica ciò che è stato insegnato loro dalla scuola, dalla famiglia e dalla
società sembra venir meno. Una percentuale molto alta di questi giovani, infatti, dopo
aver completato la loro istruzione – anche solo quella superiore – è molto felice della
formazione che ha ricevuto e dell’impegno che ha profuso per raggiungere determinate
competenze. Tuttavia, una volta concluso il ciclo scolastico, essi si trovano a entrare in
un mercato del lavoro estremamente difficile, dove è molto complicato trovare
un’occupazione. Molto spesso non riescono a trovare il tipo di lavoro per cui si sono
preparati, per cui hanno investito il loro tempo, che rispecchi i loro desideri e che dia un
senso alla propria vita, rendendo la propria esistenza più gratificante possibile. La
società attuale, infatti, sta lentamente e costantemente diventando una società
oligarchica in cui la classe politica – sempre più autoreferenziale – invece di farsi carico
dei problemi della società e di interessarsi di coloro che hanno più bisogno di aiuto e di
assistenza, continua a garantire la possibilità che la ricchezza si accumuli nelle mani di
poche persone. E questo non solo è da condannare a livello morale ed etico, ma è anche
pericoloso per i valori della democrazia e della meritocrazia. Cosa significa meritocrazia?
I principi della meritocrazia sono stati definiti già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo
e del cittadino del 1789, il cui primo articolo afferma che «le distinzioni socia- li non
possono fondarsi che sull’utilità comune». Cioè su quanto una singola persona può dare
allo sviluppo del benessere di tutta la società. Oggi, però, sta accadendo esattamente il
contrario. Thomas Piketty, a questo proposito, ha messo bene in evidenza come
l’aumento delle disuguaglianze rifletta ampiamente una esplosione 'senza precedenti' dei
più alti redditi da lavoro e la separazione sociale che esiste, di fatto, tra la vita dei top
manager delle grandi aziende e il resto della popolazione. I più importanti dirigenti
aziendali, infatti, avendo il potere di stabilire i propri compensi, si sono attribuiti delle
retribuzioni che in moltissimi casi – e 'senza alcun contegno', scrive sempre l’economista
francese – non hanno un evidente rapporto con la loro 'produttività individuale'. Se
siamo d’accordo con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ovvero che la
distinzione sociale può essere basata soltanto sull’utilità alla comunità, allora dovremmo
declinare il criterio di utilità con quello di solidarietà: ovvero con il proposito di
condividere il miglioramento della vita umana con tutti gli altri membri della comunità.
(Chiara Giaccardi e Mauro Magatti) Anziché pensare la Rete solo come il luogo di
virtualizzazione delle esistenze di milioni di individui, di perdita del saper fare e del saper
vivere, di indebolimento dei legami comunitari, possiamo forse immaginarla come
un’occasione di rilocalizzazione di territori 'contributivi', sciolti dalle risorgenti tentazioni
del localismo, in virtù delle nuove possibili riarticolazioni tra locale e globale, situato e
delocalizzato, individuale e collettivo. La Rete costituisce infatti un’infrastruttura capace
di favorire nuovi e più avanzati equilibri; preziosa per far nascere, sostenere e
interconnettere le tante potenzialità di libertà presenti nelle 'società dei liberi'. In primo
luogo, la rete va messa in rapporto allo sviluppo di una società della conoscenza. Con
questo termine non si intende solo l’aspetto cognitivo astratto, ma la combinazione tra
sapere teorico, saper fare e saper vivere. Il problema della 'società dei liberi' oggi non è
più avere accesso alla conoscenza. Casomai, sapersi orientare in un contesto troppo
grande e instabile, acquisendo competenze e punti di vista originali. Questo tema
certamente rinvia alla scuola e ai processi formativi, ma riguarda anche la responsabilità
di riempire questo nuovo ambiente di indicazioni, riferimenti, stimoli positivi e
costruttivi. La gran parte dei paesaggi di questo nuovo territorio rimane ancora da
tracciare. E spetta ai liberi prendersene cura. Una seconda pista riguarda i processi di
'formazione in relazione': quei processi, cioè, capaci di abilitare la creazione di significati
condivisi e la strutturazione di una pluralità di ambienti sociali e culturali, materiali e
digitali. Da questo punto di vista, è interessante osservare che, anche se in forma molto
rudimentale, in realtà i social network permettono di esperire le potenzialità enormi della
Rete dal punto di vista cooperativo. È il movimento associativo, non quello dissociativo
(che pure un certo modo di stare in rete tende a sostenere), che serve alla società
generativa. La Rete può poi essere l’occasione per rafforzare la prospettiva di
un’economia della cura, a partire dal ripensamento della rigida distinzione tra produzione
e consumo. Esempi di queste nuove opportunità sono i modelli dell’open source, che
risultano dalla collaborazione di persone che allo stesso tempo creano i contenuti e ne
fruiscono, producono e condividono, generando valore che è non solo economico ma
anche sociale e culturale. Rafforzando le dinamiche di interazione, la Rete può essere
uno strumento prezioso per rendere concretamente possibile un atteggiamento di
corresponsabilità nella soluzione dei problemi. Infine, la Rete consente di immaginare
nuove forme di relazione tra il particolare-locale e l’universale-globale, permettendo così
di sanare quel destino di chiusura che ha storicamente sempre ridotto l’impatto delle
iniziative che si sviluppano al microlivello: rendendo possibili forme di interazione,
scambio e collaborazione tra luoghi lontani, essa potenzialmente permette di cambiare la
natura e la portata di ciò che, come persone e come gruppi, possiamo realizzare negli
ambiti di vita quotidiana in cui siamo inseriti. Ma tutto questo sarà possibile solo se
davvero riusciamo a ridefinire il nostro immaginario della libertà.
Pag 24 L’altruismo? Biologia (e cultura) di Andrea Lavazza
Intervista al neuroscienziato britannico Ray Dolan
Qualche lettore di Ian McEwan ricorderà il neurochirurgo protagonista di Sabato. Lo
scrittore britannico durante la stesura probabilmente ricevette consigli anche dall’amico
e compagno di escursioni Ray Dolan, docente di neuropsichiatria all’University College di
Londra e nome di spicco delle neuroscienze cognitive, in arrivo in Italia per una
conferenza. Come nel romanzo, malgrado tutta la scienza di cui si narra, è una poesia a
evitare un delitto, così Dolan, impegnato a svelare le basi biologiche del comportamento,
riconosce che nella grande letteratura troviamo tanta sapienza sull’essere umano.
Professor Dolan, a Bergamo-Scienza lei spiegherà che la nostra tendenza
comportamentale di base è altruistica. I pessimisti sulla natura umana non sarebbero
d’accordo. Che cosa ci dicono oggi le neuroscienze cognitive?
«Il tema di come si sviluppano empatia e altruismo è molto complesso. Attualmente, la
nostra ipotesi migliore dice che almeno una componente è mediata dalla nostra biologia.
A molti può sembrare un’affermazione azzardata, dato che tante persone ritengono che
l’altruismo sia legato a una fede religiosa. Tuttavia, le prove a sostegno di questa idea
vengono da un’ampia serie di osservazioni. In primo luogo, vediamo un comportamento
altruistico nelle formiche, nei ratti e, meno sorprendentemente, nei cani. È difficile
sostenere che la cultura svolga un ruolo nell’orientare il comportamento di queste
specie. Processi simili sono all’opera anche negli esseri umani, benché, senza dubbio,
come specie siamo molto più sensibili all’influenza della cultura. È quindi probabile che le
nostre disposizioni morali, tra cui quelle all’altruismo e all’empatia, abbiano un
fondamento nella nostra biologia, un fondamento però fortemente plasmato dal nostro
ambiente culturale, che comprende il modo in cui la famiglia media l’influenza della
cultura».
Considerando i risultati neuroscientifici, ci si può chiedere se istruzione, cultura e regole
morali abbiano un ruolo nello sviluppo di empatia e altruismo?
«Si potrebbe anche ribaltare la domanda e chiedersi se la neurobiologia limiti
l’espressione individuale di questi tratti.
Ciò è senz’altro vero ed è vero per tutti i tratti umani. Non sappiamo con precisione
come la cultura, l’istruzione e le regole morali incidano sul comportamento altruistico.
Quello che sappiamo è che se alcune precise aree del cervello subiscono un danno,
questo incide sulla capacità di esprimere altruismo ed empatia. Sappiamo pure che la
nostra bussola morale viene facilmente orientata dal contesto in cui viviamo, come
hanno mostrato i famigerati esperimenti di Milgram, in cui le persone erano portate a
ferire i propri compagni indifesi seguendo gli ordini di uno scienziato».
Lei studia le emozioni da molti anni: come condizionano il nostro comportamento? Le
persone tendono a pensare che le emozioni siano opposte alla ragione e che spesso
possano indurci in errore.
«La preoccupazione per gli altri può nascere da una riflessione razionale. Ma nei termini
delle teorie oggi più influenti, come la teoria della selezione parentale, si può pensare
all’altruismo come parte di un strategia evolutiva, la quale assicura che i nostri geni
vengano trasmessi alla generazione successiva. Nei miei studi sull’altruismo, tuttavia,
emerge che coloro i quali esprimono il più alto grado di altruismo hanno anche la
maggiore preoccupazione empatica verso gli altri, hanno cioè una più ricca
rappresentazione degli stati emotivi del loro prossimo. L’idea che l’emozione ed il
ragionamento siano opposti è certamente vera in alcuni casi, ma altrettanto spesso
emozione e ragionamento servono gli stessi fini».
Tra i suoi temi di ricerca, c’è anche l’integrazione delle informazioni sensoriali con le
conoscenze pregresse quale fattore determinante per il nostro comportamento.
«Una delle questioni più ampie nelle neuroscienze è ovviamente quella fondamentale su
come funziona il nostro cervello. È possibile avvicinarsi a questo obiettivo di conoscenza
su più livelli. A livello della persona che ha esperienze sensoriali, questa è l’ipotesi di
come vadano le cose. Siamo continuamente bombardati da stimoli (suoni, odori...) e vi
facciamo fronte ricorrendo alla conoscenza che già abbiamo, è in base a ciò che già
sappiamo che tentiamo di discriminare gli stimoli e di capire che cosa li ha provocati
(che cosa abbia provocato il rumore, da dove venga l’odore...). Questa conoscenza ci
viene dall’esperienza. Il cervello fa tutto questo come uno scienziato mette alla prova
diverse ipotesi. Dobbiamo poi sapere chi siamo nel mondo. Il nostro ambiente, in
particolare l’ambiente dell’infanzia, è fondamentale nel plasmare la nostra identità.
All’interno di questo primo ambiente di vita, impariamo una serie di valori, e tali valori ci
guidano nelle interazioni con il mondo e, nello specifico, con i nostri simili. La
conoscenza che già abbiamo qui è particolarmente importante; di recente, abbiamo
mostrato che coloro che sono meno certi dei propri valori sono esposti all’influenza dei
valori delle persone con cui interagiscono. Se non sono sicuro su me stesso, posso
aumentare la mia conoscenza di me osservando gli altri e, per così dire, aggiornare poi
le mie opinioni. Questa ipotesi, vale a dire l’incertezza su quali siano i propri valori,
potrebbe spiegare in parte perché alcune persone sono più suscettibili all’influenza
dell’estremismo».
Lei si interessa anche dell’espressione distorta delle emozioni, come avviene nel caso
degli psicopatici. A volte si dice che siamo circondati da psicopatici...
«Siamo circondati da persone tra le quali qualcuno ha tratti da psicopatico e pochi sono
veri psicopatici. Qualcuno ipotizza però che tali tratti siano più diffusi in alcuni gruppi,
per esempio i politici. Lo lascio dire a chi conosce i politici da vicino. Ma, avendo visto la
serie tv House of cards, temo che possa essere vero».
Siamo destinati a vivere in una “neurocultura”, in cui ogni caratteristica del
comportamento umano sarà spiegata dalle conoscenze neuroscientifiche?
«Non vi è dubbio che le neuroscienze abbiano colonizzato l’immaginario pubblico nel
corso degli ultimi due decenni e che la “neurocultura” sarà sempre più diffusa. Credo
tuttavia che sia meglio rimanere umili rispetto alla capacità delle neuroscienze di
conoscere la condizione umana. Siamo ancora ai piedi della montagna e le nostre
intuizioni scientifiche non reggono minimamente il confronto con le intuizioni che hanno
avuto giganti come William Shakespeare».
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pagg 2 – 3 Cinque Stelle ai raggi X con il laboratorio Mira di Giulio De Polo
I giudizi dei cittadini dopo quasi cinque anni di amministrazione Maniero. Il sindaco:
“Sono utile, non indispensabile. Devo laurearmi”. Il Pd: “Una giunta senza progetti”
Mira. Tempi difficili per i sindaci a Cinque Stelle. A Roma Virginia Raggi è sotto pressione
per il caso dell’assessore Paola Muraro, indagata per traffico illecito di rifiuti e abuso
d’ufficio. Nei guai anche il primo cittadino di Livorno, Filippo Nogarin impigliato
nell’inchiesta sulla municipalizzata dei rifiuti mentre a Parma, il sindaco Federico
Pizzarotti ha lasciato il Movimento 5 Stelle, in polemica con i vertici, perché si è sentito
abbandonato in merito all’avviso di garanzia per abuso d’ufficio sulla questione delle
nomine al Teatro Regio di Parma. Come Pizzarotti anche a Mira il sindaco Alvise Maniero
va verso la fine del primo mandato dopo le elezioni a maggio del 2012. Anche per lui è
tempo di bilanci e anche la sua giunta finisce nel mirino delle critiche per il nuovo
sistema di raccolta differenziata dei rifiuti con il porta a porta. Il dato ufficiale
comunicato da Veritas pone Mira ai vertici della raccolta differenziata nel Veneziano con
una percentuale del 74% registrata in agosto. Ma la realtà percepita è differente.
Jessica, casalinga cinquantenne, parla di «spazzatura sulle strade a tutte le ore» e di
difficoltà «nel rispettare le consegne del porta a porta con la raccolta dell’umido solo
poche volte al mese». Per Eleonora Zacchetti, anche lei casalinga, la situazione è ancora
peggiore: «C’è troppa spazzatura in giro, montagne di immondizie. Non è cambiato
niente. Sono delusa». Patrizia e Federica, titolari del frequentato bar “Ai Cerchi” nell’ex
Mira Lanza invece la situazione non è negativa. «Certo ci vorrebbe più manutenzione del
verde pubblico, ma il sistema della raccolta differenziata funziona». Soddisfatti dell’era
Maniero sono Maria Frezza con il marito Alex Dell’Armi che parlano di «programma
elettorale rispettato» e danno un giudizio più che positivo all’attività degli uffici comunali
«dove è sempre possibile trovare interlocutori attenti e interessati». «Devo dire che il
sindaco si è dato da fare», dice Giuseppe Caiazzo, collaboratore scolastico originario di
Salerno, da dieci anni residente a Mira.Nel settore scolastico, che conosco da vicino, ho
notato un forte impegno nella manutenzione degli istituti. In generale poi», spiega, «so
che ha tagliato le spese comunali rifacendo tutti gli appalti in scadenza. Inoltre dopo il
tornado ha saputo affrontare con serietà la gravissima situazione che si era creata».
Pollice verso invece per il collega di Giuseppe Caiazzo, Luigi Cagliando, originario di
Napoli e lui pure salito a Mira per lavorare nel settore scolastico. «Anche noi siamo dei
migranti», dice Cagliando, «Ma dobbiamo pagarci tutto, dall’affitto alle bollette. Il
Comune aiuta solo gli extracomunitari e non noi che lavoriamo per lo Stato». Parla di
«gente rassegnata» e di un Comune in «stato di abbandono», Giovanna Carrarini, ex
dipendente comunale in pensione, per 30 anni addetta alla mensa scolastica e poi
passata nell’ufficio Servizi Sociali. «Sono delusa perché pensavo che Maniero portasse
delle novità. Manca la manutenzione del verde pubblico e per me la raccolta differenziata
con il porta a porta è un disastro». Particolare, infine, il caso di Moreno Zagolin, titolare
del bar “Da Renè” di Oriago che mostra il locale di fronte, affittato e ristrutturato per
aprire una sala slot che invece è sempre rimasta chiusa. «Ho speso settemila euro per
mettere a norma il locale ma poi il Comune mi ha negato il permesso di aprire»,
racconta sconsolato il barista, «Pochi mesi dopo a cento metri i cinesi hanno aperto una
sala slot molto più grande della mia perché hanno detto di aver chiesto il permesso
direttamente in prefettura bypassando il Comune. Inoltre», spiega ancora il barista,
«con la nuova raccolta differenziata hanno posizionato i cassonetti proprio vicino al mio
locale. E pensare, «conclude il titolare del bar, «che io Maniero l’ho pure votato».
Mira. Ha ancora gli occhi arrossati per la notte passata ad accudire con la moglie il
piccolo Leo di nove mesi, Alvise Maniero, 31 anni, da quattro alla guida del primo
Comune del Veneziano governato dal Movimento 5 Stelle, e che si accinge a terminare il
primo mandato con le prossime amministrative in programma nella primavera del 2017.
Allora sindaco, ci ha fatto un pensierino per il prossimo anno, si ricandida ? «Io sono
utile, ma non indispensabile: la dimostrazione che chiunque può fare il sindaco, se
motivato e con buone proposte. È importante che la gente capisca di non deve chiedere
al sindaco di fare qualcosa, ma di cercare di attivarsi per raggiungere un determinato
obiettivo. Questa è la democrazia partecipativa che contraddistingue il mio operato ed è
il messaggio che voglio lasciare. Inoltre vorrei terminare finalmente gli esami per
laurearmi in Scienze Politiche». In questi quattro anni di mandato cosa è cambiato
all’interno del Movimento 5 Stelle? «Abbiamo raggiunto un ottimo livello organizzativo
attraverso lo scambio di informazioni tra noi sindaci 5 Stelle ma anche con i nostri
deputati a Roma. Siamo tutti collegati con WhatsApp dove possiamo chiedere in tempo
reale pareri sulle nuove normative e quindi poterle usare nel modo migliore. Inoltre
come amministrazione qui a Mira cerco di studiare le soluzioni create da altri comuni e
proprio l’esperienza di Camponogara mi ha portato a cambiare il sistema della raccolta
differenziata dei rifiuti». Il porta a porta non sembra però essere stato accettato con
entusiasmo dai residenti che non risparmiano critiche al nuovo sistema. «Me lo
aspettavo perché so di aver portato delle modifiche nella vita personale dei cittadini.
Sono critiche comprensibili. Ci vorrà del tempo ma durante il mio mandato sono state
eliminate 1900 tonnellate di rifiuti all’anno, portando la raccolta differenziata da gennaio
ad agosto dal 60 al 74% con proiezioni che danno Mira al 90% entro breve. Un
traguardo che porterà nel tempo ad un taglio della bolletta per tutti i residenti».
Emergenza tornado. Lei ha criticato il governo che ha disposto i rimborsi. Perché? «I
soldi ci sono e questo deve essere chiaro. Ho criticato il sistema del credito d’imposta
che è stato spiegato in un modo incomprensibile anche per gli addetti ai lavori. Però,
ripeto, la gente deve sapere che i soldi sono stati stanziati». Come vanno i rapporti con
gli altri sindaci 5 Stelle ? «Molto bene. Con Danielettto a Vigonovo abbiamo concluso un
accordo per dividere il segretario generale tra i due comuni. Con Ferro a Chioggia stiamo
lavorando insieme per migliorare la sicurezza in Romea. Io ho scritto all’Anas, senza
ricevere risposta mentre Ferro ha invitato il ministro Delrio a Chioggia. Intanto entrano
in questi giorni in funzione i primi due autovelox sul territorio di Mira e gli incassi delle
multe saranno tutti utilizzati per migliorare la sicurezza sulla statale. Deve essere chiaro
che correre in Romea è sbagliato e adesso scattano le multe. Sono in programma altri
quattro autovelox e due Targa system, che servono a verificare il pagamento
dell’assicurazione». Appare forte in Riviera anche il fronte comune contro le Grandi navi
a Dogaletto? «Qualcuno già sente l’aria di un cambiamento politico se tornano queste
idee di stravolgere la laguna e l’ambiente con l’assurdo progetto di creare qui il terminal
per le Grandi navi. Noi abbiamo già presentato il nostro con dei pontoni galleggianti
legati alla struttura del Mose». Lei si avvia a concludere il mandato la prossima
primavera. Ha qualche rimpianto ? «Certamente ci sono dei progetti che non riuscirò a
concludere non certo per mancanza di iniziativa ma soprattutto per i vincoli di bilancio
che ci legano le mani e ci impediscono di agire. C’è bisogno, ad esempio, di un ecocentro
comunale perché quello di Mirano è troppo lontano. Ma un progetto molto importante è
quello legato all’illuminazione pubblica che deve essere riconvertita a led. Tutti gli
impianti sono nel degrado e non possiamo intervenire a causa del patto di stabilità. In
tutto il territorio comunale ci sono seimila punti luce da sostituire, i pali sono degradati e
anche i cavi elettrici sono ormai vecchi.
Mira. Coro di critiche delle opposizioni in consiglio comunale sull’operato della giunta
Maniero. «In questi cinque anni l’amministrazione grillina ha lasciato un territorio in uno
stato di totale abbandono», spiega per il Pd l’ex assessore ora consigliere di opposizione
Maurizio Barberini, «ripetendo continuamente che la colpa non era loro ma di chi aveva
governato precedentemente e che i soldi non c’erano. Ritengo che ci sia invece
l’incapacità di non avere avuto un progetto o un programma vero per la città di Mira
gestendo solo emergenze giornaliere. Hanno seminato un preoccupante isolamento con
tutti gli enti che garantivano interventi sul territorio escludendo così la possibilità di
avere fondi a disposizione. Abbiamo avanzato proposte migliorative, puntualmente
inascoltate». Pesanti anche le critiche che arrivano da Forza Italia con il consigliere Paolo
Lucarda «Questa giunta», spiega Lucarda, «ha fatto perfino peggio di quelle precedenti.
Non c’è un piano che porti occupazione e sviluppo. Questi dicono solo di no a tutto e a
tutti. Le scuse che i soldi non bastano sono puerili». Più che negativo anche il giudizio di
Fabio Zaccarin, consigliere del gruppo misto che ha già presentato la sua candidatura a
sindaco con la lista “Noi Domani”. Zaccarin vede Mira «sprofondata in un degrado senza
precedenti». Più mordida è stata in questi anni l’opposizione della lista “Mira Fuori dal
Comune” cappeggiata da Mattia Donadel che con i grillini sul no alle grandi opere ha
trovato punti di convergenza. Puntigliosa infine l’opposizione dell’ex sindaco Roberto
Marcato e della sua civica “Noi per Mira”. È cauto invece, seppur velato di qualche
critica, il giudizio delle categorie economiche. «Come Associazione Artigiani della Riviera
del Bretta», spiega il segretario Franco Scantamburlo, «chiediamo un confronto più
efficace sui temi della piccola e media impresa, e una politica di sviluppo del territorio e
dell’impresa ben definita. Recentemente il Comune ha annunciato l’istituzione di una
Consulta del Turismo e del Commercio, senza citare il ruolo dell’impresa artigiana. Per
questo motivo ho inviato all’assessore competente una lettera in cui ho chiesto
delucidazioni sulle funzioni di questa nuova consulta. Il ruolo dell’impresa artigiana è
sempre dimostrato in questi ultimi anni importante, ed è quello che forse ha retto meglio
in alcuni settori il peso della crisi». Infine per l’Ascom commercianti parla il presidente
Ennio Materazzo: «La giunta Maniero», spiega, «si è trovata a lavorare nel pieno della
crisi economica. Per il commercio si doveva fare di più ma le risorse economiche erano
scarse. È importante puntare su commercio e turismo legato anche Venezia per
rilanciare l’economia e l’occupazione. Le manifestazione per promuovere il territorio
devono essere potenziate».
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8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Il fattore Pil degli immigrati di Vittorio Filippi
I numeri in Veneto
Mettiamoci l’animo in pace. Di migranti, di profughi, di stranieri e di sbarchi ne
sentiremo parlare a lungo. Diventeranno – anzi sono già divenuti – una categoria solida
del nostro tempo. Per (almeno) due semplici motivi. Il primo è che il nostro è un mondo
in movimento, affollato e «stretto», come dice il demografo Livi Bacci. Con un
problemino connesso: e cioè che fra una sola generazione il mondo avrà due miliardi e
mezzo in più di abitanti e le popolazioni dei paesi poveri raddoppieranno mentre
addirittura triplicheranno quelle delle aree più deprivate, come l’Africa subsahariana. Il
secondo motivo sta nella geografia: l’Italia, com’è noto, è distesa sul Mediterraneo,
ponte naturale tra Africa ed Europa, tra il mondo demograficamente ricco ed
economicamente povero ed il mondo economicamente opulento e demograficamente
invecchiato ed in via di spopolamento (un piccolo esempio? Il Veneto è calato di 6.300
abitanti nei primi cinque mesi dell’anno). A questo punto possiamo adottare tre approcci,
tre atteggiamenti. Il primo, quello forse più di moda, di sicuro più facile e perfino
istintivo, è quello della pancia. Che brontola sonoramente la propria insofferenza, teme
l’invasione, lo stravolgimento culturale e religioso, la criminalità, il terrorismo (islamico),
la concorrenza per i posti di lavoro e chi più ne ha più ne metta. Un mal di pancia la cui
diagnosi, in sintesi, si chiama xenofobia. Poi c’è l’approccio morbido e pietoso del cuore,
pronto a commuoversi alla visione degli sbarchi, al sapere degli oltre 3 mila disperati
annegati nel Mediterraneo solo quest’anno, alla situazione dei tanti bambini arrivati
senza genitori. Un cuore che batte per questi «dannati della terra», pronto all’elemosina
ed alla solidarietà. E c’è poi il terzo approccio, quello razionale della testa. Che cerca di
capire prima di tutto, non disdegnando qualche numero, qualche statistica. Non occorre
scomodare Pitagora per sapere infatti che i numeri comprendono meglio la realtà di
quanto sappiano fare la paura, la xenofobia o la commozione. Ecco perché è importante
l’annuale ricerca della Fondazione Moressa sul contributo economico dell’immigrazione –
e di lavori analoghi – che, al di là della gran massa di dati presentati, quantifica in modo
incontrovertibile una realtà. E cioè che gli stranieri producono: producono Pil, producono
imprese, producono occupazione, producono (perfino) tasse per il fisco e contributi per il
nostro affamato sistema pensionistico. Solo tre numeri che parlano da soli: in Veneto gli
immigrati sono il 10,1 per cento della popolazione ma rappresentano il 10,8 per cento
dei contribuenti e producono il 10,4 per cento della ricchezza regionale. Tre numeri che
ci potrebbero ricordare come talvolta negli stessi problemi si trovi la loro (inattesa)
soluzione.
Pag 6 Veneto, terra di emigranti: 10mila in fuga di Michela Nicolussi Moro
Il rapporto Migrantes
Padova. Proprio nel momento in cui il Veneto ribolle di rabbia per i continui invii di
rifugiati da parte del Viminale, tra il «basta» dei sindaci, le rivolte degli stessi profughi e
le manifestazioni di piazza dei residenti, si scopre che non è più terra di immigrazione
ma di emigrazione. Il dato a sorpresa salta fuori dal «Rapporto italiani nel mondo 2016»
elaborato da «Migrantes», fondazione della Cei, che rivela: nel 2015 per la prima volta il
territorio ha registrato una flessione seppur minima dei richiedenti asilo (-0,6%) e un
notevole aumento (+5,7%) di cittadini fuggiti all’estero. «Il Veneto è la seconda regione,
dopo la Lombardia, per numero di partenze - spiega monsignor Giancarlo Perego,
direttore generale di Migrantes - l’anno scorso sono state 10.374, a fronte di 8mila
profughi accolti. Ad andarsene sono soprattutto i giovani tra 18 e 34 anni, poiché solo
due su dieci riescono a sfruttare in Italia il titolo di studio conseguito, seguiti dai 3549enni, per lo più disoccupati. Sta poi emergendo un significativo 6% di over 65enni che
non emigrano più nei Paesi caldi come un tempo, ma scelgono Ucraina, Romania e
Bulgaria, spesso al seguito delle badanti ma soprattutto per motivi economici. Qui con la
pensione non arrivano alla fine del mese, nei Paesi dell’Est possono permettersi un buon
tenore di vita». Sono Treviso e Vicenza le città da cui si «scappa» con più frequenza (80
famiglie con bambini hanno lasciato Montecchio per Londra, per esempio) e finora cento
sacerdoti hanno accompagnato gli emigranti. E 12 appartamenti sono stati messi a
disposizione dalla Chiesa a Francoforte, dove ogni giorno una-due famiglie di italiani
chiedono aiuto per trovare alloggio. «Sono dati da fine anni ‘60 - commenta don Elia
Ferro, coordinatore della commissione Migrantes del Triveneto - l’Italia, per la crisi
economica e sociale, è tornata ad essere un Paese di emigranti. Veneto e Lombardia, in
particolare, hanno smesso di essere realtà attrattive, anche per gli stranieri. Se ne
vanno all’estero tanti immigrati che hanno ottenuto la cittadinanza. E non si tratta di
un’emigrazione individuale ma di gruppo». La mobilità nel giro di dieci anni è aumentata
del 54%, soprattutto verso Germania, Inghilterra, Svizzera e Francia. «Il mondo ci sta
cambiando tra le mani - nota monsignor Luigi Bressan, delegato Cei Triveneto - ormai
siamo tutti viaggiatori».
LA NUOVA
Pag 1 L’impegno a difesa del Veneto di Luca Zaia
Egregio Direttore, ho letto con interesse l'articolo di Francesco Jori che riporta alcune
lamentele delle imprese rispetto a presunti ritardi nella colossale (mi consenta di
definirla tale, considerato che i cantieri aperti sono 925 e i milioni di euro già stanziati
quasi 400) opera di sistemazione idrogeologica del Veneto, il primo intervento organico
dal Dopoguerra ad oggi. Nel ringraziare chi, nell’articolo, ha voluto evidenziare la
rapidità con cui si è preceduto fino ad ora (cosa inusuale in questo Paese) vorrei
correggere alcuni dati sbagliati o forse letti in modo parziale o, ma non voglio pensarlo,
strumentale. Innanzitutto va precisato che la Regione Veneto in questi ultimi dodici mesi
mai è stata ferma in tema di difesa idrogeologica, anzi, laddove possibile, ha accelerato
l’iter di molti interventi oltre ad aver dedicato anche maggiori risorse economiche
rispetto agli anni precedenti. Con l’inizio della nuova legislatura, infatti, dalla seconda
metà del 2015 la Regione del Veneto non solo ha dato nuovo impulso allo sforzo
realizzativo attraverso l’attuazione di quanto programmato e finanziato, ma ha anche
destinato nuove risorse del bilancio regionale oltre ad aver ricercato e ottenuto, grazie
alla prontezza nel presentare i progetti, diverse risorse statali destinate al finanziamento
di interventi urgenti e prioritari per la mitigazione del rischio idrogeologico. Tra gli
interventi in corso per quanto riguarda i bacini di laminazione va quindi evidenziato che
quelli lungo il torrente Timonchio in Comune di Caldogno, sul torrente Agno Guà in
comune di Trissino e il bacino di Colombaretta, in comune di Montecchia di Crosara,
sono addirittura in anticipo rispetto al cronoprogramma previsto. Per quanto riguarda
questi interventi va anche detto che molte delle imprese che hanno operato sono state
regolarmente liquidate. Nel corso dell’anno sono state anche avviati decine di ulteriori
interventi con nuovi importanti cantieri tra cui il bacino di Viale Diaz in Comune di
Vicenza. Sia per quanto riguarda il primo stralcio dei lavori sull’Astico, tra Sandrigo e
Breganze, sia per il bacino di laminazione sul Livenza a Pra dei Gai è stata questa
amministrazione a completare l’iter amministrativo accelerando su dei procedimenti che
erano ancora in sospeso; in particolare nel primo caso non era stata nemmeno stata
ancora compiuta la procedura di Via. Nel caso invece del bacino di Muson dei Sassi i
lavori effettivamente non sono ancora partiti, ma ciò è dovuto a un ricorso ad Anac da
parte di un partecipante alla gara. I lavori erano stati aggiudicati, ma sospesi per un
ricorso conseguente alla gara fatta nel maggio 2015, per cause quindi non imputabili
all’attuale amministrazione. Si tratta comunque di interventi dall’iter amministrativo
certamente complesso che necessitano di molteplici passaggi, anche visto l’importante
investimento economico in gioco, su cui non è il “timore reverenziale nei confronti delle
procure” che ci rallenta, ma il doveroso rispetto delle leggi che ci impone di mettere in
primo piano le procedure anche al prezzo di qualche possibile ritardo. Parallelamente ai
lavori più importanti abbiamo peraltro avviato decine di cantieri minori sia lungo i corsi
d’acqua principali, per garantire la sicurezza idraulica di ampi territori, che lungo le coste
mediante ripascimenti che hanno assicurato il regolare svolgimento della stagione
turistica 2016 delle aree balneari. In relazione invece alle risorse nel 2016 sono stati
inseriti ben 20 milioni di euro per interventi di difesa del suolo che nel bilancio 2015
della vecchia legislatura non c’erano. A questi vanno aggiunti i 21 milioni dedicati agli
interventi di difesa idraulico forestale compiuti dagli uffici sul territorio; anche in questo
caso in aumento rispetto allo stanziamento iniziale dell’anno precedente, che pareva
insufficiente e che infatti con variazione di bilancio nell’autunno 2015 avevamo
provveduto ad aumentare di ben tre milioni rispetto alla dotazione iniziale. Ma i nostri
sforzi non si sono fermati qui: abbiamo battagliato con lo stato per avere maggiori
risorse ottenendo, con un accordo di programma firmato a novembre 2015, 104 milioni
di euro , che abbiamo potuto dedicare alle progettualità relative ai bacini del Lusore a
Mestre Venezia, sul torrente Orolo in Comune di Costabissara e sul torrente Astico nei
Comuni di Sandrigo e Breganze. Una Regione, va sottolineato, che sempre in questi
ultimi mesi è subito intervenuta anche laddove il governo nazionale si è dimostrato
assente, dedicando milioni di euro di risorse per le frane del Cadore e per il tornado sulla
riviera del Brenta, nonostante si trattasse di interventi la cui competenza è
precipuamente statale. Una Regione, in definiva, che sta lavorando alacremente e come
non mai in un settore strategico qual è la difesa del suolo, ma che intende farlo e
continuerà a farlo nel massimo rispetto delle normative e dei tempi da esse stabiliti, che
non si possono interpretare ma si devono applicare. Una linea e un metodo, insieme al
rigore scientifico delle scelte, che il nuovo assessore ha fin da subito voluto dettare agli
uffici e per il quale ha ricevuto anche un ampio riconoscimento da parte del mondo
accademico; appare pertanto ingeneroso e inopportuno, per non dire del tutto
ingiustificato, un raffronto tra il suo operato e quello del predecessore.
(f.j.) Ringrazio il presidente Zaia per la tempestiva e ampia risposta, che tuttavia non
affronta la sostanza dell’articolo. L’elenco dei lavori in esso elencati è stato pubblicato
dalla Regione il 4 gennaio scorso, mentre si sapeva già che il nuovo decreto in materia
di appalti sarebbe stato emanato il 18 aprile. C’era dunque tutto il tempo per mettere
mano immediatamente ai relativi bandi di gara (come hanno fatto molte altre
amministrazioni), e pubblicarli prima di quella scadenza, perché con tutta evidenza le
carte erano pronte. In tal modo la Regione dovrà comunque pagare le progettazioni
precedenti, ma dovrà ricominciare da capo l’iter secondo le nuove norme. Perché questo
ritardo? Perché l’assessorato ha messo mano a una drastica revisione dell’intera catena
tecnica di comando culminata a fine giugno, sostituendo tutti i funzionari principali e
adottando decisioni che hanno innescato una reazione a catena tale da mettere in
pesante crisi la struttura: come ad esempio le dimissioni da tutti gli incarichi di uno dei
tre responsabili delle commissioni di collaudo, il quale ha scelto di tornare a fare il
funzionario negli uffici del genio civile della sua provincia. Che tutto questo abbia finito
per creare della confusione, lo testimonia un caso specifico: la struttura regionale aveva
predisposto tutti i passaggi necessari per far entrare in funzione l’impianto di Sandrigo,
mentre lo stesso presidente è andato a Sandrigo ad annunciare che l’opera non si farà
più. Semplice difetto di comunicazione, o che altro? Un ultimo punto sui soldi:
indubbiamente la Regione ne ha spesi tanti, ma in Bankitalia ce ne sono ancora molti.
Perché non si procede con la celerità del passato? Nessuno vuole farne materia di
polemiche spicciole: si tratta di riserve e critiche sul funzionamento dell’intero
dipartimento di difesa del suolo, diffuse nel mondo delle imprese come lo stesso Zaia
sottolinea (che lo sapesse già?), e che sono condivise dalla stessa struttura regionale
(vedi diminuzione del 30 per cento degli stipendi a fronte di aumentate responsabilità), e
da chi ha la responsabilità della progettazione. Come spiegato nell’articolo, in cui si dà
atto al presidente che la sua precedente amministrazione aveva in ben altro conto
l’importanza della catena di comando.
Pag 6 La crisi spinge i ragazzi all’estero di Silvia Quaranta
Generazione “Y” in fuga dall’Italia: sono 371 mila i veneti partiti in cerca di lavoro
Padova. Li hanno chiamati in molti modi: nativi digitali, generazione “Y”, echo boomers.
Ma la definizione più adatta, senza ricorrere ad anglismi, è forse quella di generazione
“altrove”. Lo dicono le statistiche, e lo coglie con sensibilità il rapporto della Fondazione
Migrantes, che parla non solo di espatriati ma di viaggiatori: gli italiani all'estero (dati
Aire al 1 gennaio 2016) sono quasi 5 milioni e la fetta più rappresentativa (36.7%) è
composta dai ragazzi tra i 18 e i 34 anni. Gli ultimi figli dell'analogico e primi veri “nati
con il cellulare”: quelli che partono in cerca di lavoro, di una vita diversa, di nuove
scoperte, o per ricongiungersi alla metà della mela conosciuta in Erasmus. Segue a ruota
la fascia d'età 35-49 anni, 25.8% del totale: sono i tanti che, mentre in Italia ci si
lamenta della natalità quasi nulla, hanno già messo su famiglia all’estero. I minori sono il
20% degli “expats” e si parla di bambini e ragazzi nati fuori dall'Italia. «Frutto degli
incontri durante i progetti universitari» suggerisce monsignor Giancarlo Perego, direttore
Fondazione Migrantes, ma di tante coppie partite «in cerca di lavoro», che hanno trovato
all'estero una situazione più favorevole. I numeri descrivono un paese di migranti: dal
2006 al 2016, la mobilità è aumentata del 54.9% e il Veneto è la seconda regione con
più partenze (preceduto dalla Lombardia). Il numero complessivo di emigrati è di
371.348: 109.479 dalla provincia di Treviso, 73.534 da Vicenza, 48.534 da Belluno,
45.571 da Padova, 45.131 da Venezia, 37.013 da Verona e 12.086 da Rovigo. Il 42%
sceglie l'Europa ( Germania, Francia, Svizzera e Regno Unito), il 50.6% preferisce
l'America. Il bilancio tra chi parte e chi arriva, dice monsignor Perego, si avvicina al
saldo: «gli stranieri in Veneto, oggi, sono 511mila, gli espatriati erano 371mila alla fine
dello scorso anno». Numeri che invogliano la semplificazione: esportiamo laureati ed
importiamo manodopera non specializzata. Ma non è sempre così: «una metà degli
italiani all'estero» dice Perego «sono altamente formati, persone con un titolo di studio
dalla laurea in su. Ma l'altra metà è composta da persone con la terza media,
disoccupati, anche molti pensionati». Quello degli anziani in fuga non è un fenomeno del
tutto nuovo, ma in evoluzione: «Le prime destinazioni sono ancora i paesi caldi» spiega
monsignor Perego «prima tra tutte la Tunisia (45%). Ma accanto alle destinazioni più
note se ne stanno aggiungendo altre, che ricevono flussi in crescita: penso all'est
Europa, che si sta facendo strada (si parla di un 15% tra Romania, Ucraina, Polonia,
Croazia e Slovenia). A sceglierla sono pensionati che qui non arrivano alla quarta
settimana del mese, mentre lì possono permettersi uno standard di vita migliore. Sul
fenomeno ha inciso l'arrivo dall'Est di molte badanti, che poi ripartono e gli anziani con
loro». L'universo è molto vario e sul futuro, tra chi arriva e chi parte, non è facile fare
previsioni. «Dal parlare di migrazioni» conclude don Elia Ferro, coordinatore della
commissione Migrantes del Triveneto, «siamo passati a sentirci tutti un po' viaggiatori.
C'è una generazione in cammino, e come chiesa siamo chiamati a stare accanto a queste
persone, a seguire le relazioni, i punti di attracco e di riferimento».di Fiammetta
Cupellaro wROMA Alla fine sono arrivate le scuse formali del Foreign Office
all’ambasciatore italiano. Il caso del questionario distribuito nelle scuole di Inghilterra e
Galles in cui si chiede ai genitori che devono iscrivere i propri figli se siano “italianinapoletani”, oppure “italiani-siciliani” o semplicemente italiani, stava ormai prendendo i
contorni di una gaffe diplomatica, provocando proteste e sdegno internazionale. Il
messaggio inviato dal ministero degli Esteri inglese al capo della diplomazia italiana
Pasquale Terracino in cui viene «deplorato l’accaduto» rassicurando la «rimozione
immediata» dell’opzione pseudo-etnica ha per il momento smorzato i toni. Annunciata
anche un’ispezione al ministero dell’Istruzione per «verificare per quale motivo, in pochi
e isolati distretti scolastici siano state introdotte queste categorizzazioni, che peraltro
non avevano volontà discriminatoria – assicurano – ma miravano all’accertamento di
qualche difficoltà linguistica per i bambini da inserire nel sistema scolastico». Tutto
risolto dunque? Niente affatto, visto che ieri sui moduli di iscrizione pubblicati online da
alcune circoscrizioni del Regno Unito si leggevano ancora le tre opzioni per la lingua
italiana: “Napoletan”; “Sicilian” e “Italian any other”. Fase delicata dopo-Brexit.
L’ambasciatore Terracino che nella nota inviata al Foreign Office aveva ricordato
ironicamente che «l’Italia è unita dal 1861», si è detto comunque soddisfatto per le
scuse. «Si è evitato che montasse una polemica su quello che è stato un errore dovuto a
ignoranza e superficialità più che di una vera volontà discriminatoria. È importante
evitare – ha sottolineato – l’insorgere di equivoci nella fase delicata del post-Brexit. In
Europa dobbiamo fare uno sforzo per ricercare i punti che uniscono e ci accomunano».
Perché è questo il vero problema per gli stranieri oggi nel Regno Unito: capire quale sarà
il clima nel paese che ha chiesto di uscire dall’Europa. Su questo punto l’ambasciatore
Terracino non ha dubbi. E se definisce l’episodio dei moduli differenti per gli italianinapoletani e gli italiani-siciliani «minore», dall’altra lo reputa comunque «preoccupante
perché l’ignoranza può essere il brodo dell’intolleranza». Germania: sussidio
disoccupazione dopo 5 anni. Intanto in Germania sta per essere approvato il disegno di
legge con cui vengono tagliati l’indennità disoccupazione e gli altri aiuti sociali erogati
anche ai cittadini degli altri paesi dell’Unione europea. Il famoso pacchetto “Hartz-IV”
che secondo l’Agenzia federale per il lavoro viene percepito da quasi 440mila persone
residenti fuori la Germania. I più numerosi (92 mila) sono i polacchi; seguiti da italiani
(71mila); bulgari, (70mila); romeni (57mila) e greci (46mila). Secondo la nuova
normativa, da adesso per accedere ai generosi sussidi di disoccupazione previsti anche
gli stranieri, bisognerà provare di vivere in Germania da almeno cinque anni. Oggi è un
anno. Il disegno di legge è basato su pronunciamenti della Corte di Giustizia europea che
concedono alla Germania di rifiutare o ridurre le indennità di disoccupazione a immigrati
Ue che non fanno abbastanza per trovare un posto di lavoro.
IL GAZZETTINO
Pag 12 Sindaci e nozze gay: dopo Oderzo, Musile. E’ bufera nella Lega di Fabrizio
Cibin e Paolo Calia
Il primo cittadino di Montebelluna getta acqua sul fuoco delle polemiche interne: “Non
sono matrimoni, va usato buonsenso”
Dopo Oderzo, Musile: nella Lega sembra aprirsi il fronte delle unioni civili. Già, perché
dopo il comune della Marca trevigiana, anche nel Basso Piave c'è un sindaco, anzi una
sindaca, che non ha seguito il diktat dei «capi», celebrando una unione civile tra due
lesbiche. E non un Comune qualsiasi: si tratta di Musile di Piave, da anni fortino del
Carroccio, tanto da trainare Gianluca Forcolin (anch’egli già sindaco) alla volata prima in
Parlamento, per due mandati, e poi in Regione, dov'è vice governatore. E così alla
gogna, dopo Maria Scardellato, primo cittadino di Oderzo, che nei giorni scorsi ha unito
in matrimonio due uomini, ora potrebbe finire Silvia Susanna: entrambe appunto
leghiste, entrambe elette la scorsa primavera. Dalla sua parte la sindaca di Musile ha
comunque il via libera ottenuto dalla segreteria della sezione, che a sua volta aveva
ricevuto il beneplacito del direttivo: insomma, al suo dichiarato senso di responsabilità
va unita anche l'investitura ufficiale dei leghisti di casa. L’unione civile in questione risale
allo scorso primo ottobre. «Non è mai stata pubblicizzata solo per rispetto delle due
persone», precisa Susanna. Il tutto si celebra in municipio: davanti al sindaco ci sono
Lucia e Beatrice, talmente contente che, ironia della sorte, qualche giorno dopo si sono
pure tesserate con la Lega. «Dalle segreterie non è arrivata nessuna indicazione ufficiale
- spiega la sindaca di Musile - ma si è solo appreso dai giornali dell'obiezione di
coscienza». Poi Susanna si schiera sulla stessa linea della collega di Oderzo: «C’è una
legge e va applicata e rispettata, distinguendo il ruolo di politico e di sindaco. E come
sindaco lo rifarei». «In ogni caso - precisa - mi sono confrontata con il segretario, che ha
riunito il direttivo e l'indicazione che mi è stata data è che la legge va rispettata». Da
parte sua Forcolin fa sapere che lui non avrebbe celebrato, anche per coerenza con
quanto da sempre sostenuto sull'argomento. E ricorda che un sindaco va giudicato per
tutto il suo operato. «Un conto è il palco da comizio elettorale - aggiunge - un conto
quando giuri di essere fedele alla Costituzione e alle sue Leggi. Personalmente avrei
delegato l’atto un funzionario». Il segretario provinciale Luca Tollon prima dice che
«queste sono posizioni a titolo personale», poi ricorda che «la Lega non va giù tenera su
questi argomenti e quindi gli organismi preposti potrebbero prendere dei provvedimenti
disciplinari. Forse un confronto con i vertici provinciali e nazionali del movimento
sarebbe servito ad evitare situazioni di questo tipo». Ma proprio il segretario nazionale
(e cioè regionale) della Lega, Antonio Da Re, tiene un basso profilo: «Che facciano quello
che vogliono, la linea del partito è un'altra. Cosa volete che facciamo? La loro posizione
non è quella di Matteo Salvini e della Lega, se ne prendano le responsabilità, ma
facciano quello che vogliono fare». L'impressione è che alla fine la cosa si potrebbe
chiudere con una ramanzina e una tirata d'orecchie. Fino alla prossima unione.
Marzio Favero, sindaco di Montebelluna, nella Lega è conosciuto come «il filosofo»,
avendo insegnato a lungo filosofia al liceo prima di dedicarsi alla vita politica. È un
militante storico, dal cervello fino, e non facile a farsi trasportare dall'emozione. Ed è lui
che, in un momento particolarmente delicato, tenta di portare un po’ di sangue freddo
all'interno di un Carroccio in fibrillazione. I casi dei sindaci leghisti che rompono il fronte
del «no» ai matrimoni gay hanno alzato le tensioni e armato i falchi dall'espulsione
facile. Favaro tenta di disinnescare un conflitto interno dalle conseguenze imprevedibili.
Sindaco, nella Lega cresce l'ala di chi vorrebbe espellere i sindaci che celebrano i
matrimoni gay.
«Invito tutti a un attimo di riflessione. Per prima cosa facciamo chiarezza sui termini,
che molte volte vengono utilizzati anche dai media per sollevare polveroni. Il matrimonio
è una cosa, l'unione un'altra».
La Lega difende il matrimonio tra uomo e donna.
«Appunto. Anch’io. Da questo punto di vista sono tradizionalista anche se non mi
considero tale. Il matrimonio è una cerimonia che racchiude una tradizione, un simbolo e
che nella sua stessa radice ha la promessa della procreazione. Cosa, ovviamente,
impossibile tra persone dello stesso sesso. E questo principio va difeso. Le unioni invece
sono solo contratti civili e burocratici. E poi per difendere il matrimonio servirebbe
altro».
Cosa servirebbe?
«Per prima cosa ammettere che le coppie che divorziano sono ormai più di quelle che si
sposano. Allora bisognerebbe pensare a come sostenere queste famiglie più che a
combattere le unioni. Che, comunque, non sono matrimoni».
Ma oggi vengono messi in discussione i sindaci che celebrano queste «unioni», che
comunque anche i leghisti definiscono «matrimoni».
«In quanto contratti, queste unioni dovrebbero essere firmate solo da tecnici e
funzionari».
E se qualche sindaco invece ci tiene a celebrare questa unione, ormai diventata un rito
civile a tutti gli effetti?
«La Lega difende un valore, quello del matrimonio. Poi la realtà che i sindaci si trovano
ad affrontare è complessa, vanno capiti».
In molti invece vorrebbero espellerli.
«Non penso che sia questo il modo. Conosco bene Da Re, è una persona di buon senso e
so che saprà affrontare la situazione senza enfatizzare troppo questi episodi».
Nel trevigiano il primo cittadino a rompere il fronte del «no» è stata Maria Scardellato di
Oderzo, una militante di lunga data.
«Papa Francesco dice "chi sono io per giudicare?". Quindi figurarsi se posso giudicare io
quello che fanno altri. Ha compiuto una scelta discutibile, non in linea con il partito: è
vero. Ma va capita. Direi invece che dovremmo concentrarci su altre battaglie come il no
al referendum».
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Napoletani e siciliani schedati, Londra si scusa ma non è il punto di Beppe
Severgnini
Le liste degli stranieri
Scuse (inevitabili) del governo inglese dopo un (evitabilissimo) passo falso. La
schedatura degli studenti italiani in base all’origine regionale - ITAN i napoletani, ITAS i
siciliani, ITA gli altri connazionali - pare avesse «lo scopo di fornire una migliore
assistenza nell’apprendimento dell’inglese». Il Foreign Office, dopo l’ironica protesta
della nostra Ambasciata a Londra («L’Italia è dal 17 marzo 1861 un Paese unificato»),
esprime «rammarico» per il malinteso, e lo definisce «un errore storico». Il problema,
qual è? Che di errori storici, ben più gravi di questo, gli inglesi ne stanno commettendo
parecchi, ultimamente. La decisione di uscire dall’Unione Europea, lo scorso 23 giugno, è
uno di questi: il più pericoloso. Certo è stata presa in modo democratico, e va rispettata.
Da quel momento, però, il nuovo governo britannico di Theresa May ha fatto di tutto per
mostrare una crescente antipatia per gli altri europei. Questo - possiamo dirlo? - è
sgradevole. E non rappresenta lo stile nella nazione. Né la sua opinione prevalente, con
ogni probabilità. Perché confondere gli studenti europei in Gran Bretagna, lasciando
intendere che perderanno le agevolazioni di cui hanno goduto finora (salvo poi fare
marcia indietro)? Perché escludere i ricercatori non britannici da un progetto sulla Brexit
alla London School of Economics, un faro della globalizzazione intelligente? Perché
spaventare i londinesi e il loro sindaco? Perché irritare un medico su tre - tanti sono i
professionisti stranieri negli ospedali del Regno Unito - dicendo che il sistema sanitario
dovrà fare da solo? Perché contrapporre «cittadini del mondo» a «cittadini britannici» - il
primo ministro, chiudendo il congresso del partito - quando la forza degli inglesi è, da
secoli, la capacità di essere una cosa e l’altra? Degli inglesi abbiamo ammirato tutti, da
sempre, lo stile. Uno stile riassunto in un idioma di origine militare: «grace under fire»,
la capacità di mantenere la compostezza sotto il fuoco nemico. Oggi nessun europeo
spara, nessuno minaccia il Regno Unito, nessuno fugge: ma quella compostezza sembra
perduta nell’ansiosa ricerca di un’impossibile autosufficienza. Il tonfo della sterlina, la
preoccupazione dell’industria dei servizi e l’ansia dell’agricoltura lo dimostrano. «I politici
propongono, i mercati dispongono» ha commentato Martin Wolf sul Financial Times ,
aggiungendo asciutto: il governo britannico si è lasciato andare a «dichiarazioni
scriteriate». Il Regno Unito è un grande Paese, ma non è più una grande potenza. Prima
lo capisce - evitando passi falsi e inutili provocazioni - meglio è. Per tutti.
Pag 5 Il falso mito dell’anno zero di Pierluigi Battista
Instabilità e paralisi del passato evocate da Renzi (e Berlusconi). Ma l’Italia è cresciuta
La retorica, anzi la mistica della «discontinuità» che domina da un po’ la politica italiana,
prevede una logica temporale rigorosamente binaria: prima e dopo, la palude di prima e
l’aria fresca di adesso, l’immobilismo di prima e il movimento di oggi, la conservazione di
ieri e il dinamismo riformatore di oggi, l’Italia che era ferma e l’Italia che riparte. Una
sindrome da anno zero, il passato schiacciato nella pigrizia e nella non-storia. Ma è una
retorica che ha il minimo appiglio nella realtà storica? Il tormentone sulla paralizzante
instabilità dei governi del Dopoguerra, per esempio. Un asso nella manica del premier
Matteo Renzi, ma prima di lui molto usato da Silvio Berlusconi, che anche lui voleva
presentarsi come l’incarnazione del nuovo assoluto. L’asso è questo: supereremo
l’impasse di «67 governi in 70 anni». Che in effetti, detta così, fa un po’ impressione. Poi
si va a vedere che in realtà tutti i governi della Prima Repubblica, hanno avuto come
perno la Democrazia cristiana la quale, se si eccettua la parentesi «laica» di Spadolini
prima e di Craxi dopo, è sempre stata stabilmente a Palazzo Chigi con un’alleanza di
partiti che variava, i liberali o i socialisti alternativamente o tutt’e due insieme, ma non
in modo tale da prefigurare governi instabili con maggioranze alternative. Politicamente
l’Italia è stato un Paese ultrastabile, decisamente più stabile di tutti gli altri Paesi che
hanno conosciuto la democrazia dell’alternanza. I governi cambiavano per tortuose
geometrie di potere tra le correnti, per i rimpasti, per i bis e i tris, per tutte le formule
acrobatiche e misteriose che hanno fatto speciale il lessico democristiano. Ma la storia
italiana repubblicana non ha mai cambiato partito di riferimento, nella Prima Repubblica.
«Moriremo democristiani», imprecava Luigi Pintor quando nel ’76 il Pci non riuscì a
scavalcare i voti della Democrazia cristiana (e Indro Montanelli suggeriva di votare Dc
«turandosi il naso» per arginare il pericolo comunista). Era il grido di dolore di un uomo
di sinistra turbato dalla permanenza che sembrava inamovibile, stabilissima,
inattaccabile della Dc. Poi cambiavano inquilino a Palazzo Chigi, ma la continuità era
garantita. Sull’immobilismo, poi, è difficile liquidare come immobile un’Italia che con
quei governi passò in una manciata di anni da Paese sconfitto, povero, agricolo in Paese
industriale moderno fino a raggiungere il rango di quinta potenza economica nel mondo.
Un Paese dove si impiegavano pochi anni per completare l’Autostrada del Sole da Milano
a Napoli cambiando la geografia dell’Italia e che in pochi anni si trasformò in un Paese
consumista. Che cambiò verso con una profondità e radicalità che avremmo dimenticato
nel corso della Seconda Repubblica, quella sì instabile, con mille partiti che nascono e
muoiono, con ribaltoni, cambi di casacca, fino a oggi tutto compreso. E anche sui
numeri, poi, bisognerebbe essere un po’ precisi, al limite della pignoleria. Per esempio si
dice ogni giorno «finalmente si fa qualcosa dopo trent’anni». «Trent’anni» in che senso?
Chi? Dove? Come? A partire da cosa? Qualche volta si dice «dopo vent’anni», e cioè?
Cosa è accaduto trent’anni fa? O vent’anni? E allora perché non trentadue,
quarantaquattro, cinquantadue? E soprattutto, perché la sindrome dell’anno zero deve
sentirsi in dovere di ricostruire un passato da operetta, tutti immobili e impaludati
mentre all’improvviso si presenta il grande innovatore, quello che cambia tutto e
promette una stabilità mai vista nel nostro Paese? Ultimo modo di dire da anno zero: «il
ventennio berlusconiano». Sarà, ma Berlusconi non ha governato vent’anni. Dal marzo
del 1994 all’ottobre del 2016 ha governato da Palazzo Chigi nove anni e mezzo su
ventidue, partecipando anche a governi tecnici o simili, in posizione non precisamente
dominante, per tre anni, mentre la sinistra ha governato a Palazzo Chigi per dieci anni
(comprendendo ovviamente i governi di Enrico Letta e dello stesso Renzi). Ma
«ventennio» fa più effetto. Come fa più effetto negare la stabilità dei numerosi governi
democristiani. Tanti numeri. Ma la realtà?
Pag 5 Il monito presidenziale su una campagna che si estremizza di Massimo
Franco
Si potrebbe intitolare: come dovrebbe essere la campagna referendaria. E come invece
non è. Le parole dette ieri dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Bari,
all’assemblea dell’Anci, sono un monito vellutato ma inequivocabile ai fronti del Sì e del
No. Con una neutralità coerente col ruolo di arbitro e di garante che si è assegnato, il
capo dello Stato ha cercato di riequilibrare dinamiche distorte dalla polemica e dalla
paura di perdere. Il suo è sembrato un appello finale a non sprecare le settimane di qui
al 4 dicembre in uno scontro sguaiato e controproducente. Mattarella non guarda tanto
alla consultazione, ma al dopo. Ed è preoccupato di ritrovare un’Italia lacerata da mesi di
rissa. Senza citarli, lo dice sia a Matteo Renzi, sia ai suoi avversari: «È necessario,
nell’avvicinarsi al giorno del referendum, e sarà necessario, dopo il suo risultato, il
contributo di tutti, sereno e vicendevolmente rispettoso». E, di qui al voto, il confronto si
dimostrerà «tanto più efficace quanto più composto». Si tratta di un suggerimento a
cambiare metodo e toni; e a permettere agli elettori di esprimersi senza un sovraccarico
di propaganda e di veleni. C’è solo da sperare che il richiamo faccia breccia. Per ora, cala
su una platea di partiti intenti a azzuffarsi. C’è da scommettere che i più si sentiranno
spiazzati dalle parole presidenziali; e che, invece di farle proprie, additeranno gli altri
come responsabili di una campagna scomposta. Eppure, il discorso non è di maniera.
Riflette il tentativo di sradicare i semi di una guerra civile verbale, alimentata in modo
artificioso. Basta registrare quanto ha detto ieri un esponente del No come Massimo
D’Alema, pure del Pd. D’Alema descrive lo schieramento del Sì come «un blocco politico
minaccioso». E parla di «clima intimidatorio». Fioccano le prese di distanza anche dalla
minoranza Dem. Ma tra premier e avversari l’aria è questa, da tempo. Il ministro
dell’Interno, Angelino Alfano, fa subito sue le parole di Mattarella e dichiara: «Credo sia
pacato e composto dire che riteniamo questo referendum l’ultima occasione per
cambiare»: sebbene in democrazia di occasioni ce ne siano sempre altre. E nelle file
renziane la tentazione di presentare l’appuntamento del 4 dicembre come un plebiscito
sul premier è durata a lungo e riaffiora a intermittenza. In questa fase, tuttavia, Renzi
subisce una fronda in bilico tra Sì e No. Vuole evitare che la riforma elettorale si intrecci
col referendum e compatti gli avversari. In più, ha un Beppe Grillo che lo martella sulla
politica economica. E sta per concludere una trattativa difficile con la Commissione
europea per ottenere margini di spesa tali da legittimare stime sulla ripresa sulle quali
perfino il ministero dell’Economia è prudente. L’appello di Mattarella rimane dunque sullo
sfondo, in attesa di qualcuno in grado di interpretarlo in modo credibile.
Pag 29 Maestri di felicità di Luigi Accattoli
Dalai Lama e Desmond Tutu, storia di un incontro di religioni: “La gioia può essere
contagiosa”
In questo libro ci sono emozioni narrate con semplicità: «Era il momento della
comunione. L’arcivescovo ha sollevato un pezzo di pane bianco tibetano e l’ha deposto
nella bocca del Dalai Lama». Capita infatti che una mattina il Dalai Lama inviti
l’arcivescovo Desmond Tutu alla sua meditazione privata e capita che l’arcivescovo
ricambi dando la comunione all’ospite. I due sono riuniti nell’aprile 2015 a Dharamsala,
in India, per gli 80 anni del monaco (l’arcivescovo ne ha quattro di più), e passano una
settimana a discutere sulla gioia «che è più della felicità» e che «viene da dentro». Il
titolo «Il libro della gioia» va inteso come il «manuale» della gioia. La seconda parte
propone pratiche per guadagnarla, rafforzarla, comunicarla. Perché la gioia è
«contagiosa», dicono, come l’amore. Il trattatello accosta buddismo e cristianesimo e
l’accostatore - il curatore del volume Douglas Abrams - è ebreo. L’accostamento è
innanzitutto linguistico e si profila già ad apertura del volume: «Possa questo libro
essere una benedizione per tutti gli esseri senzienti, per tutti i figli di Dio, per tutti voi.
Tenzin Gyatso, Sua Santità il Dalai Lama / Desmond Tutu, arcivescovo emerito
dell’Africa meridionale». Il pensiero del lettore va a Gandhi che così rispose a chi gli
chiedeva se fosse indù: «Sì. Ma sono anche cristiano, musulmano, buddista ed ebreo».
Forse il Dalai Lama sta avvicinando il buddismo al cristianesimo, come Gandhi aveva
fatto con l’induismo. Come Gandhi anche il Dalai Lama ammira i Vangeli: «Quando
guardo questa statua di Gesù Cristo, mi commuovo veramente. Penso che questo
maestro sia stato fonte di immensa ispirazione per milioni di persone». Della discussione
con l’arcivescovo dice: «Un buddista e un cristiano, due fratelli. Vado spesso a trovare i
rappresentanti di altre tradizioni religiose. A volte ci vuole una calamità per unire i
seguaci di tutte le fedi e far capire loro che siamo tutti fratelli e sorelle». Il buddismo
non è un teismo, ripete il Dalai Lama in queste pagine e l’arcivescovo scherzosamente lo
ammonisce: «Sei bravo, peccato che tu non sia cristiano: devi andare all’inferno». Nelle
conferenze sulla leggenda del Budda il poeta Borges, che ne era innamorato, affermava
che «il buddismo è una dottrina atea nella quale non ci sono la colpa, il pentimento e il
perdono». Colpa e pentimento infatti non ricorrono sulla bocca del Dalai Lama, ma
perdono sì che ricorre: in esso il dialogante Dalai Lama vede una forma della
«compassione» con cui trattare ogni essere senziente. Arriva persino a parlare di
«perdono che non è dimenticanza» per la Cina che lo costringe all’esilio. L’arcivescovo
propone la speranza nel paradiso, il Dalai Lama la fede nella reincarnazione.
L’arcivescovo racconta di Gesù che affronta la morte e riscatta da essa con la
risurrezione, il Dalai Lama si impegna nel descrivere «l’illuminazione che produce la
meditazione sulla morte» e invita ad «allenare la nostra mente in preparazione a essa».
I due appaiono pronti alla gioia avendo, entrambi, molto sofferto: l’uno con la fuga dal
Tibet e un esilio interminabile, l’altro con la lotta all’apartheid e con il tumore alla
prostata ormai incurabile. Ambedue hanno ricevuto il Nobel per la pace. In queste
pagine i due amici «appartenenti a mondi del tutto diversi» raccontano quello che hanno
appreso nella battaglia della vita. Il dibattito è godibile. Ognuno dei due considera l’altro
«il suo dispettoso fratello spirituale». Concordano che avremmo bisogno di un «amore
incondizionato per l’intera umanità, quale che sia l’atteggiamento altrui verso di noi».
Affermano a una voce che «i nostri nemici sono pur sempre fratelli e sorelle e meritano
anche loro il nostro affetto: dovrai resistere alle azioni dei tuoi nemici, ma puoi amarli
come fratelli e sorelle». Per conseguire la gioia - ammonisce il monaco - non basta
«allenare la mente» ma occorre renderla immune: «l’immunità mentale rende meno
suscettibili a pensieri e sentimenti negativi». L’arcivescovo invita a «confidare nell’amore
di Dio che ti avvolge e ti vuole pieno di gioia». La ricerca a due sbocca nella
presentazione degli «otto pilastri della gioia», svolti in distinti capitoletti: prospettiva,
umiltà, umorismo e accettazione, indulgenza, gratitudine, compassione, generosità.
«Vedere le tragedie come un’opportunità» sintetizza il buddista. Guardare con «l’occhio
di Dio» gli fa eco il cristiano. Il libretto è didascalico. Se leggiamo lentamente qualcosa
apprenderemo da chi ha molto visto e gioito.
Pag 31 Il cambio di passo sui migranti, sfida di una sinistra riformista di Goffredo
Buccini
L’ultima viene da Calizzano, Liguria. Il sindaco di centrodestra del paesino ha invitato
quaranta migranti, collocati dalla prefettura in un hotel del posto, a non usare i bus negli
orari in cui gli studenti vanno a scuola. E certo l’«invito» ha un brutto retrogusto
segregazionista, come dice il Pd regionale. Ma è anche vero che Calizzano è stato un
Comune virtuoso nell’accoglienza, i migranti dovevano essere la metà, tensioni
soprattutto con le studentesse ce n’erano: forse il problema non si risolve negandolo,
ma magari con bus più frequenti, e meno affollati, e/o full immersion di educazione
civica. C’è insomma una questione ben più grave del referendum del 4 dicembre a
mettere in discussione la tenuta stessa della nostra democrazia: un’ondata migratoria da
150 mila persone l’anno, mille e mille Calizzano in arrivo. Per la sinistra riformista girarsi
dall’altra parte significa lasciare, da un lato, al benaltrismo della sinistra massimalista (il
vero problema non è il bus tra calca e imprecazioni ma l’eredità del colonialismo...) e,
dall’altro, alla xenofobia della destra identitaria la gestione della sicurezza, vera o
percepita, tema centrale della convivenza. Non si tratta di «copiare un po’» gli xenofobi,
la gente alla fine sceglierebbe l’originale. Ma di prosciugare l’acqua dove nuotano: la
paura, che ha contagiato l’Inghilterra della Brexit, l’Ungheria di Orbán, l’Austria appesa a
un filo, la Francia e la Germania che s’accostano a un 2017 elettorale dove, inutile
illuderci, i partner europei, alle prese con le loro grane, ci lasceranno soli. La mitica
redistribuzione dei profughi s’è rivelata una fola per bambini. I migranti ci servono.
Pagano già le nostre pensioni e, senza di loro, da adesso alla metà del secolo, la
popolazione italiana calerebbe di alcuni milioni e sarebbe composta soprattutto di vecchi.
Ma bisogna trovare il modo di farli stare con noi, non contro di noi. Il punto è stato colto
a sinistra soprattutto dai sindaci, che vivono certi attriti sulla pelle. Giuseppe Sala a
Milano ha strappato il velo chiedendo al governo «un cambio di passo». Prima di lui, ma
da un palco meno visibile, Vicenza, lo aveva fatto Achille Variati («stiamo trasformando
un popolo di disperati in un popolo di clandestini»). Piero Fassino ha parlato di
«superamento della soglia governabile»: «Rischiamo di essere travolti». A Genova un
autocandidato sindaco, il pd Simone Regazzoni, teme che, lasciando i vicoli del centro
fuori controllo, la prossima tornata elettorale sarà un’ecatombe e s’è messo a incalzare il
sindaco Doria perché affronti il «tabù». Pagine Face book come «Di sinistra e antirazzista
ma contro l’invasione straniera» fanno capire quanto il sentimento popolare rischi di
sterzare anche la base democratica verso parole d’ordine e semplificazioni salviniane.
Come per il bus di Calizzano, la sinistra riformista ha davanti un ventaglio di interventi
razionali, e due bussole: legalità e integrazione. Anzitutto, l’adesione al sistema Sprar,
l’accoglienza diffusa, non può essere più solo su base volontaria: è deflagrante che
duemila Comuni virtuosi si facciano carico dei restanti seimila, pericoloso il contenzioso
prefetto-sindaco che spesso ne deriva. Insediamenti minimi, parametrati alla
popolazione residente ma a carico di tutti (Alfano ha ragione sul punto), possono essere
facilitati portando i migranti al lavoro: allentando il patto di Stabilità (come per il
terremoto) per quei Comuni che li inseriscano in occupazioni socialmente utili creando
senso di comunità con i residenti. Va snellito l’iter di accettazione-espulsione, magari
limitando la possibilità di appello. Ora il limbo può durare anni, troppi fuggono o
diventano braccia per la malavita (l’Ismu stimava in 400 mila gli irregolari nel 2015): un
sistema amministrativo efficiente è la base di una politica migratoria seria, che
ovviamente passi anche attraverso gli accordi bilaterali. «Rimandiamoli indietro»
(ineffabile slogan leghista) non vuol dire nulla, a meno che non si voglia abbandonarli in
mare o ricacciarli nel deserto libico da cui sono scappati a rischio della vita. Abbiamo
accordi bilaterali con quattro Paesi al momento, Tunisia, Nigeria, Egitto, Marocco.
Dobbiamo averne con una dozzina, incentivando le intese economicamente. È il
Migration compact renziano, che s’è perso per strada. I rimpatri devono essere più veloci
e sicuri, l’apprendimento della nostra lingua e della nostra educazione civica condizione
di permanenza. E tuttavia uno Stato lungimirante deve dare un segnale al futuro,
varando subito la legge sulla cittadinanza delle cosiddette seconde generazioni (i figli dei
migranti), bloccata da un anno in Senato a causa di ottomila emendamenti leghisti.
Sono questi nuovi italiani, che qui studiano, lavorano e mediano tra culture, il bus da
non perdere: perché avanti c’è posto.
LA REPUBBLICA
Pag 1 L’ombra dell’Apocalisse di Massimo Giannini
Io sono l'ultima barriera tra voi e l'Apocalisse", dice Hillary Clinton agli americani a un
mese dalle elezioni presidenziali. Fatte le debite proporzioni, è la stessa cosa che Matteo
Renzi dice agli italiani a meno di due mesi dal referendum costituzionale. Nulla a che
vedere con quel "potere minaccioso" di cui, con imperdonabile e quasi grottesca
esagerazione, parla Massimo D'Alema. Manca solo l'accusa al "Pinochet del Venezuela"
evocato da Di Maio, e poi lo sciocchezzaio del nuovo, tragicomico "tripolarismo"
all'italiana è completo. La verità è che la campagna elettorale del presidente del
Consiglio, in vista del voto del 4 dicembre, è un paradosso nel paradosso. Ha commesso
un peccato originale, ri-politicizzando un quesito anti-politico e trasformando una
riscrittura della Carta in un'ordalia su se stesso. Ha riconosciuto l'errore, annunciando
"basta personalizzazioni, torniamo al merito". Ma ora l'intera macchina della propaganda
referendaria gira intorno alla sua persona, tra maratone televisive, pellegrinaggi
aziendali e convegni promozionali. Il premier è il messaggio, al di là o a dispetto delle
intenzioni. Era inevitabile che accadesse, per come la battaglia è cominciata prima
dell'estate e per come sta evolvendo in questo autunno. Renzi ha solo due armi per
convincere quel 30 per cento di italiani che ancora non sanno come votare sul nuovo
"Senato dei 100", e che secondo i sondaggisti decideranno solo nelle ultime due
settimane prima del voto. La prima arma è se stesso: il suo governo come "unico argine
contro i populismi" (la moderna Apocalisse, appunto, dove le élite in cerca di
rilegittimazione scaricano giustamente, ma a volte troppo frettolosamente, tutti i nemici:
da Trump a Orban, da Grillo a Salvini). Questo "cadornismo" referendario riposa su un
assunto altrettanto populista, ma di presa sicura: votate sì, per mandare a casa i
senatori fannulloni e per tagliare i "costi della casta". Un'offerta che non si può rifiutare.
Da proporre a un Paese stressato ("Se non cambiamo adesso non cambieremo mai più")
e da opporre alla minoranza di un Pd lacerato ("Non si può tenere ferma l'Italia per
tenere unito il partito"). Assiomi forti, politicamente e mediaticamente. Ma
indimostrabile l'uno (chi ha detto che "dopo" non si possa cambiare?) e insostenibile
l'altro (chi ha detto che correggendo l'Italicum si ferma l'Italia?). Poco importa. La
narrazione renziana, oggi più che mai, non contempla il dubbio, ma solo una cieca
fiducia nel narratore, che riassume in sé tutto quello che serve (la falce della
rottamazione, il martello della modernizzazione) e tutto quello che non serve più
(l'identità della sinistra novecentesca, la ritualità della democrazia "bicamerale"). Questa
arma di Renzi (Renzi medesimo) è tagliente. Affonda facilmente nella carne tremula
della minoranza Pd (che non ha saputo pronunciare al momento opportuno i "no che
aiutano a crescere", e che oggi fatica a spiegare non alla mitica casalinga di Voghera,
ma a qualunque italiano medio di buon senso, il suo no al famoso "combinato disposto").
Forse persino nella carne inerte della destra berlusconiana, alla quale punta
platealmente a succhiare "sangue" elettorale. Ma rischia di non incidere abbastanza sulla
carne viva del Paese. Perché Renzi stesso, vero e unico frontman del sì per i prossimi
due mesi, è quello che può spostare i voti a favore, ma anche quello che rischia di
polarizzarli contro. Perché i popoli, dalla Costituzione europea fino a Brexit (senza
arrivare alla Colombia sulle Farc) hanno preso questa pessima abitudine di usare i
referendum per votare contro qualunque forma di establishment, quasi "a prescindere".
E perché soprattutto, al di là dei cambiamenti della Costituzione formale, quella che
purtroppo non accenna a cambiare è la condizione materiale del Paese. Per questo Renzi
deve usare la seconda arma, forse per lui più importante e decisiva: la prossima
manovra economica. Questo spiega lo strappo consumato dal ministro Padoan con
l'Ufficio parlamentare di bilancio sui numeri del Def. E forse anche quello minacciato dal
premier in persona con la Commissione europea sul deficit del prossimo anno.
L'esigenza redistributiva coincide con l'urgenza referendaria. Questo vuol dire che ci
saranno non molte risorse, ma sparse a pioggia su molte categorie. Ci aspetta una legge
di stabilità da 25 miliardi, di cui 13,3 in deficit e 8,5 di nuove entrate. Poco ai pensionati,
poco ai dipendenti pubblici, poco alle famiglie, poco alle imprese. Un'occasione mancata.
La settimana scorsa la Germania di Angela Merkel ha annunciato un piano di
abbattimento delle imposte per 6-7 miliardi. Handesblatt, il quotidiano della comunità
finanziaria tedesca, non ha fatto sconti alla Cancelliera, e ha titolato "Zwei Cappuccino
In Monat": due cappuccini al mese. Da noi non saranno due cappuccini, ma magari tre
pizze margherite. Forse bastano a vincere il referendum. Ma non certo a far ripartire
l'economia.
LA STAMPA
Il boomerang della sterlina sulla Brexit di Francesco Guerrera
«Le possibilità di sconfitta non ci interessano affatto. Per noi, non esistono».
Servirebbero le parole della Regina Vittoria per aiutare la povera sterlina durante il
divorzio in corso tra Regno Unito ed Europa. Era dai tempi proprio della vecchia regina
che la moneta inglese non era caduta così in basso nei confronti delle valute dei partner
commerciali britannici. Dal 1848, per essere precisi. E ci vorrà tutto la «stiff upper lip», il
labbro rigido simboleggiato dalle parole di Vittoria, per superare la bufera economica
scatenata dall’addio britannico all’Unione Europea. Le monete sono un po’ come le linee
aeree nazionali. Non è obbligatorio che siano forti ma quando lo sono, l’orgoglio
nazionale ci guadagna. E in questo momento, la sterlina è in caduta libera. È già ai livelli
più bassi in più di trent’anni nei confronti del dollaro, vale meno di un euro in molti
sportelli di cambio della Gran Bretagna (anche se il cambio ufficiale è ancora intorno a
un euro e undici centesimi), e i trader continuano a dire che la valuta britannica
continuerà a scendere. Il motivo è chiaro. Le parole dure della prima ministra Theresa
May («La Brexit vuol dire Brexit», dice sempre la nuova dama di ferro) fanno pensare ai
mercati che la rottura con l’Ue sarà netta, senza accesso al famoso mercato unico e con
conseguenze pesanti per l’economia britannica. A dire il vero, c’è a chi un po’ di
svalutazione non dispiace. Le società che esportano per esempio - ed è per questo che
l’indice azionario-guida Ftse 100 sta andando bene - quelle che si fanno pagare in euro e
dollari e, ovviamente, i turisti europei, asiatici e americani. Sono stato ad Harrods di
recente e il lussuoso grande magazzino di Londra sembrava il Maracanà quando gioca il
Brasile. Ma invece dei tifosi un po’ trasandati carioca, nello stadio dello shopping c’erano
le signore francesi stile Catherine Deneuve, le ragazze giapponesi che non riescono a
non ridere, e le mogli di petrolieri arabi nascoste dietro a veli impenetrabili. Tutte pronte
a usare le loro potenti divise per comprare vestiti, profumi e gioielli quotati in tartassati
pound. I fautori del Brexit amano sentire storie di shopping e di stranieri e hanno
ragione: le spese dei turisti, i loro pasti e notti alberghiere aiuteranno l’economia
britannica. Ed è senz’altro vero che le esportazioni saliranno grazie alla sterlina debole.
Ma non sarà abbastanza. I numeri non mentono: il Regno Unito ha un disavanzo
commerciale notevole, ovverosia, importa più di quello che esporta. Una moneta debole
non è una buona cosa in queste condizioni perché aumenta i prezzi delle importazioni,
gonfia l’inflazione e riduce il potere di acquisto dei consumatori. E le esportazioni non
possono colmare il margine perché sono meno di un terzo del prodotto interno lordo
inglese, il resto è consumo, investimenti e altre attività che non sono aiutate da una
moneta debole. Mark Carney il capo della Banca d’Inghilterra ha più volte ammonito,
con una bella citazione di Tennesse Williams, che un’economia che dipende dalla
«gentilezza degli altri» è sempre a rischio. Per ora, i rischi sono contenuti perché i flussi
di capitale verso il Regno Unito sono molto forti, grazie al fatto che Londra è un centro
mondiale della finanza. Ma cosa succederà dopo la Brexit, soprattutto se sarà una «Hard
Brexit», la Brexit dura preferita dalla May? La banca centrale e il Tesoro britannico sono
molto preoccupati anche perché non hanno lo strumento fondamentale per combattere
speculatori e fautori della sterlina debole: i tassi d’interesse devono rimanere bassi per
stimolare l’economia britannica. Si dice che Winston Churchill avesse scritto le parole
immortali della Regina Vittoria su un pezzo di carta che consultava spesso nelle ore più
buie della Seconda guerra mondiale. Carney e May si dovrebbero far portare carta e
penna.
AVVENIRE
Pag 1 Chi piaga un popolo di Fulvio Scaglione
La feroce “guerra per procura” in Siria
Durante l’udienza generale in piazza San Pietro papa Francesco è voluto intervenire
anche sulla tragedia della Siria. L’attenzione del Papa per la guerra che sta massacrando
un Paese e un popolo è costante da anni. Mai, però, i toni erano stati tanto accorati, mai
prima Francesco aveva manifestato la vicinanza ai siriani «implorando con tutta la mia
forza» un cessate il fuoco che consenta «l’evacuazione dei civili, soprattutto dei bambini,
che sono ancora intrappolati sotto i bombardamenti cruenti». Che sia successo ieri,
durante un’udienza dedicata alle opere di misericordia quali antidoto ideale al «virus
dell’indifferenza», è tutt’altro che un caso. Quella della Siria è esattamente e
completamente una tragedia dell’indifferenza. Il problema politico esploso nel 2011 era
reale ma non insuperabile, le contestazioni alla gestione del potere di Bashar al-Assad
giustificate ma non irrisolvibili. Altrove, come in Giordania, Marocco, Tunisia, in
circostanze simili o comunque paragonabili non si è arrivati a un tale massacro. La Siria,
però, per una serie di ragioni politiche, economiche e geografiche, ha attirato attenzioni
perverse che ad altri Paesi sono state risparmiate. Le speculazioni delle piccole potenze
regionali (dalla Turchia all’Iran, all’Arabia Saudita) si sono incrociate con le strategie
delle grandi potenze globali (Usa, Russia) che combattono quella «terza guerra mondiale
a pezzetti» che proprio papa Francesco portò per primo all’attenzione di tutti. Il risultato
è quello che abbiamo sotto gli occhi. Una sanguinosissima guerra per procura. Una tipica
guerra contemporanea, in cui i contendenti più pericolosi sono quelli esterni, quelli che
appunto hanno scelto di combattersi in casa d’altri e sulla pelle di altri, e in cui i civili
sono le vere vittime, mentre i combattenti sono le «vittime collaterali ». Basta dare
un’occhiata alle statistiche: nella prima guerra mondiale (1915-1918), le vittime civili sul
totale furono circa il 16%; nell’invasione dell’Iraq (2003- 2008) sono state invece circa il
il 90%. Ed è uno scenario che si ripete ovunque: i dati disponibili su quanto accade nello
Yemen dipingono, infatti, un quadro anche peggiore. Nessuna crudeltà, nessun sacrificio
in vite umane innocenti risulta però troppo grande per la partita del potere in cui sono
impegnate così tante nazioni. È, appunto, il virus dell’indifferenza, quell’atteggiamento
per cui le persone sfumano in numeri, le tragedie in statistiche e le vittime vengono
ricordate quasi solo se servono alle funzioni della propaganda. Uno o due bambini fanno
il giro di Internet, ma centinaia e centinaia e centinaia di altri bambini caduti senza colpa
sull’uno come sull’altro lato della barricata non vengono neppure citati. Il Papa è rimasto
l’unico a preoccuparsi degli innocenti in quanto tali, l’unico ad avere davvero a cuore la
sorte dei siriani. Nelle parole che Francesco ha usato per implorare un cessate il fuoco
che dovrebbe consentire «l’evacuazione dei civili, soprattutto dei bambini », è inevitabile
leggere una preoccupazione speciale e urgente per Aleppo, la città martire della Siria, da
più di quattro anni campo di battaglia per scontri di rara ferocia. Anche in questo caso,
l’indifferenza miete le sue vittime. Per tre anni la città ha subito l’offensiva dei ribelli e
delle milizie islamiste senza che alcuno parlasse di «assedio». Da qualche mese, cioè da
quando i governativi appoggiati dai russi sono passati all’offensiva, e soprattutto da
quando hanno chiuso nella sacca dei quartieri Est i ribelli, gli islamisti e 250 mila
persone, l’attenzione si è fatta vivissima. Intanto governativi e russi, che sentono vicina
la riconquista della città intera, bombardano senza pietà, mentre ribelli e islamisti non si
fanno scrupoli nell’usare i civili come uno scudo e un quadro pietoso da offrire ai media.
L’inviato speciale Onu, Staffan de Mistura, aveva offerto alle truppe di al-Nusra un
salvacondotto per uscire dai quartieri assediati, e quindi risparmiare sofferenze alla
popolazione: i miliziani hanno rifiutato. Quindi le bombe continuano a cadere e ogni
giorno uccidono siriani disarmati. È la politica. Quella però che ha perso il senno, quella
che non è più per l’uomo, ma contro l’uomo. Quella che ogni giorno papa Francesco
incalza, lui sì, in Siria e ovunque.
Pag 22 Samir. L’islam recuperi il dialogo con l’attualità di Giorgio Paolucci
Gesuita, filosofo, teologo, orientalista, islamista, studioso di lingue semitiche. Al suo
attivo ha esperienze accademiche negli Stati Uniti, in Libano, Inghilterra, Germania,
Francia, Austria, Belgio, Olanda e Italia, dove da oltre quarant’anni insegna al Pontificio
Istituto Orientale. È autore di oltre 60 libri e di 1.500 articoli. Dietro l’impressionante
curriculum di Samir Khalil Samir, 78 anni portati con leggerezza e grande dinamismo,
sta un uomo affabile, curioso, gran tessitore di rapporti umani. Nella sua biografia la
dimensione accademica e culturale si è spesso incrociata con incontri che hanno segnato
la sua vita. In questa intervista, alla vigilia della consegna del Premio internazionale
della cultura cattolica, ne scopriamo alcuni aspetti inediti, sorprendenti ed eloquenti.
Come nasce la sua vocazione religiosa?
«Sono il secondo di tre fratelli, tutti abbiamo frequentato il collegio Sacra Famiglia del
Cairo, la mia città natale. Avevo otto anni quando ho sentito la chiamata al sacerdozio,
ne ho parlato con i miei genitori che, vista la mia età, non hanno dato pe- so a quello
che dicevo. Al termine del liceo sono tornato 'alla carica' dicendo che volevo entrare
nella Compagnia di Gesù, ma mio padre rispose che ero troppo giovane e mi consigliò
un’esperienza in Europa per ampliare i miei orizzonti: 'Se la vocazione viene da Dio non
si spegnerà, in caso contrario significa che Dio non ti chiama'. Ho invitato a cena il padre
rettore del collegio dei gesuiti e lui ha detto ai miei genitori: 'Certo l’appello di Dio non
cambia, ma l’uomo può smettere di sentirlo'. Alla fine della conversazione mio padre si è
arreso: 'Samir, segui l’appello di Dio'».
Però in un certo senso lei ha ascoltato il consiglio di suo padre: in Europa c’è andato,
entrando nel seminario gesuitico di Aix-en-Provence in Francia.
«Già, era il 1955, avevo appena compiuto 17 anni. Mi sono buttato a capofitto negli
studi, sono una persona curiosa e in quegli anni ho cominciato a scoprire mondi
affascinanti, e ho capito che avrei dovuto conoscere bene l’islam, visto che provenivo da
un Paese dove il 90 per cento della popolazione è musulmana. Ho approfondito la
conoscenza del Corano, poi, dato che alcuni dei migliori studiosi europei erano tedeschi,
sono andato in Germania e ho imparato da solo la lingua tedesca, il lasciapassare
necessario per addentrarmi in quel mondo. E lì accadde un fatto che ha segnato per
sempre la mia vita».
Cosa accadde esattamente?
«Nell’agosto 1962 mi trovavo nella biblioteca statale di Monaco di Baviera per
approfondire lo studio di Al-Ghazali, grande pensatore musulmano, su cui stavo
preparando la tesi di dottorato. Un benedettino siriacista mi disse: 'Perché lei che viene
dall’Egitto non studia il cristianesimo arabo? È un mondo tanto sconosciuto quanto ricco,
le assicuro che sarà un’avventura affascinante...'. E per incoraggiarmi mi portò un’opera
in 2400 pagine sulla letteratura araba cristiana. Fu una scoperta inattesa. Mano a mano
che approfondivo l’argomento mi sentivo erede di una tradizione ricchissima, che aveva
fecondato l’Egitto e tanta parte del Medio Oriente».
In effetti nella mentalità corrente c’è un’equivalenza tra mondo arabo e islam, anche se
gli arabi cristiani sono valutati in 13-15 milioni...
«I cristiani erano presenti in Nordafrica e Medio Oriente prima dell’avvento dell’islam,
hanno conservato le loro radici identitarie e insieme hanno saputo trovare forme di
convivenza con i musulmani pur diventando minoranza, hanno conosciuto la profonda
religiosità di tanti seguaci di Maometto e insieme i limiti del Corano e della civiltà
islamica. Ma soprattutto hanno trasmesso al mondo arabo- islamico l’ellenismo (la
filosofia, la medicina, le matematiche) oltre al pensiero patristico. Quando nel 1968 sono
tornato dalla Francia in Egitto ho avviato un centro di ricerche e una biblioteca in cui
raccoglievo libri sul patrimonio arabo cristiano, che però nel 1972 è andato distrutto in
un incendio, a causa di alcune sigarette di studenti rimaste accese. In pochi minuti ho
perso tutto: libri, manoscritti, e soprattutto molti appunti. In quegli anni ho creato centri
di alfabetizzazione per giovani e donne, insegnando pure la teologia arabo-cristiana al
Cairo e in 3 università libanesi. Nel 1973 sono stato invitato a insegnare al Pontificio
Istituto Orientale di Roma e sono venuto nel 74 per 4 mesi, che sono diventati 42 anni».
Poi nel 1986 ha fondato in Libano il Cedrac (Centro di Documentazione e Ricerche
Arabo-Cristiane), grazie all’aiuto di molti benefattori, che è ancora l’unico centro al
mondo per il patrimonio arabo- cristiano.
«Oggi la biblioteca del Cedrac ha 36 mila volumi e circa mille microfilm di mano-scritti.
Soprattutto dall’ottavo al tredicesimo secolo i cristiani hanno dato un contributo di
prim’ordine alla cultura araba, anche se, nel pensiero dominante, arabo è sinonimo di
musulmano. Più tardi, nel 1800, il contributo dei cristiani è stato determinante nella
costruzione del nuovo rinascimento arabo».
Lei è un grande conoscitore dell’islam e coltiva molte amicizie tra i musulmani. Come
giudica l’attuale momento del mondo islamico?
«L’islam è una grande civiltà che sta attraversando la sua crisi più grave, dovuta alla
crescita delle correnti radicali ispirate al wahhabismo e al salafismo, sostenute
finanziariamente e politicamente dall’Arabia Saudita e dal Qatar e che sono la radice
profonda a cui si ispirano le organizzazioni fondamentaliste nate negli ultimi novant’anni,
a partire dai Fratelli musulmani fino ad al-Qaeda e all’Is. Le cause di questa crisi sono
l’interpretazione letterale del Corano, l’applicazione meccanica dei principi introdotti da
Maometto nel settimo secolo, ma soprattutto l’emarginazione della ragione che ha
portato alla degenerazione della fede e al decadimento dell’esperienza religiosa in una
ideologia di sopraffazione e di violenza».
Come si può superare questa crisi?
«Si deve riconciliare la fede con la ragione, favorire l’interpretazione del Corano e
opporsi alla sua applicazione letterale, considerare la modernità come un’opportunità
con cui misurarsi e non come una minaccia, valorizzare la dimensione religiosa
spurgandola dalle contaminazioni politiche e ideologiche. È un lavoro che deve partire
dalle scuole, dalle università e dagli imam; molti lo stanno già facendo, anche se sono
una componente ancora minoritaria».
La presenza di milioni di musulmani emigrati in Europa può rappresentare una chance?
«Molti di coloro che sono arrivati da voi in anni recenti erano imbevuti di pregiudizi
antioccidentali. Il vostro mondo viene visto come qualcosa di corrotto e impuro, come la
negazione della dimensione religiosa (e spesso non hanno tutti i torti!). Anche per
questo in tanti rifiutano di integrarsi. Ma il rispetto della diversità non può diventare un
alibi per sottrarsi all’obbedienza dovuta alle leggi, che è un principio imprescindibile, alla
base di qualsiasi patto di convivenza. Ciò tuttavia non basta: sono convinto che questa
epoca sia una grande opportunità per i cristiani d’Occidente, per offrire a tutti il tesoro
ricevuto, il Vangelo, per testimoniare che l’altro è un bene e non una minaccia, che la
cultura dell’incontro, continuamente evocata da Papa Francesco, è la risorsa a cui
attingere per imparare a vivere insieme, nel rispetto reciproco e nell’emulazione. Tutti
siamo chiamati a una contaminazione virtuosa, che non potrà lasciarci indenni. Del
resto, Gesù Cristo è stato... un grande contaminatore».
IL GAZZETTINO
Pag 1 I cattivi esempi che nutrono l’antipolitica di Sebastiano Maffettone
Nella serie televisiva West-World, tratta da uno script di Michael Crichton, i protagonisti
sono rigidamente divisi in due categorie: i residenti e gli ospiti. Solo contatti superficiali
sono possibili tra i membri delle due categorie. Più o meno la stessa divisione netta e
incomunicabilità profonda divide agli occhi dei fautori dell’antipolitica il ceto politico dalla
società civile. Per costoro, che criticano tutte le forme rituali della politica condivisa, la
classe politica è infatti corrotta e incapace, se non addirittura spregevole. La società
civile è invece efficiente e austera, forse anche ammirevole. Personalmente, nutro una
convinta sfiducia in una distinzione così netta. Mi sembra impossibile che, nello stesso
Paese - diciamo l’Italia - vivano fianco a fianco due razze e tipologie tanto diverse tra
loro. Corrisponde forse al desiderio di vedere tutto in bianco o nero come in una favola,
ma di certo non alla realtà. Se poi si aggiunge che in democrazia bene o male è la
società civile che elegge il ceto politico, il moralismo populista dell’antipolitica militante
appare ancora più assurdo. Concesso quanto si deve alla verità, ci si dovrà pur chiedere
come mai tante persone, spesso di buon senso e con rette intenzioni, diano il loro
consenso all’antipolitica. Lo si può constatare in tutto l’Occidente come mostra l’attualità
di Paesi leader, dall’Inghilterra del dopo-Brexit agli Stati Uniti di Donald Trump. Scontato
che il motivo principale del successo sia l’inefficienza della politica tradizionale, bisogna
domandarsi se sotto l’antipolitica - al di là dei difetti evidenti, di cui si è in parte detto ci sia qualcosa di utile per la comunità. Non è facile sapere dove si cela tale utilità
sociale, ma se dovessi dirlo in una sola frase direi nella richiesta di “un parziale ritiro
della politica in nome delle competenze settoriali”. Così presentata, la tesi rischia di
confondere ancora di più le idee invece di chiarirle. Per evitare un esito del genere, parto
dall’assunto che la complessità crescente della società attuale rende difficile se non
impossibile al ceto politico comprendere a fondo molti dei problemi specifici sui quali
pure deve legiferare. Con quali strumenti il malcapitato deputato potrà capire le
esigenze che derivano dall’operato di Marchionne, dallo stato attuale del cinema italiano
o dai bisogni urgenti del sistema sanitario? Eppure, capendo o non capendo, dovrà alla
fine di un processo più o meno virtuoso legiferare in proposito. Sto sostenendo che gli
effetti non prevedibili dell’antipolitica possano dare risposta a domande di questo tipo.
Da notare, che la risposta in questione non può consistere nel diffondersi della
deliberazione via web. Quest’ultima ha, come è evidente, un effetto positivo in termini di
partecipazione, nel senso che più persone e più società civile si accostano al problema
politico su cui di volta in volta occorre decidere; ma questa partecipazione è
essenzialmente quantitativa, non qualitativa. Il web, come abbiamo già avuto modo di
scrivere sulle pagine di questo giornale, orizzontalizza tutto e nel suo spazio l’opinione
dell’uomo della strada sulla relatività generale vale quanto quella di un professore di
fisica teorica. In questo modo, la deliberazione via web - nonostante il vantaggio in
termini di aumentata partecipazione - non è che una ripetizione up to date della retorica
tradizionale dell’antipolitica contro ogni forma di autorevolezza, e come tale non serve a
molto. Servirebbe piuttosto un intervento di qualità, una sorta di inserimento
progressivo delle competenze della società civile nel processo di formazione della
volontà politica. Se ci si riflette, ciò che spesso infastidisce l’opinione pubblica è
l’ignoranza sullo specifico del ceto politico congiunta alla sua pretesa di occupare
posizioni rilevanti in ambiti significativi. Per tornare agli esempi già fatti, un serio
intervento legislativo nella finanza, nella sanità e nella cultura presuppone uno sforzo del
ceto politico. Tale sforzo consiste essenzialmente nella volontà e nella capacità di
intercettare competenze rilevanti - che non vuol dire ricorrere a governi “dei professori”
ma solo difendere lo spazio della politica - negli ambiti in cui si opera. Quello che spesso
sconcerta il pubblico è il disinteresse della politica per il contenuto specifico dei settori di
volta in volta toccati cui spesso si unisce una certa arroganza. Per essere meno sotto
accusa, il ceto politico dovrà dismettere invece l’ignoranza e l’arroganza. L’antipolitica
per la verità non è particolarmente incline a prendere sul serio il ruolo delle élites
professionali e tecniche. Anzi spesso e volentieri indulge nel qualunquismo populistico
che è all’opposto di ciò. Ma può avere il risultato che auspichiamo come un effetto
indiretto, costringendo il ceto politico sulla difensiva e obbligandolo a essere più sensibile
alle istanze della società civile. Qualora così non fosse, temo dovremmo arrenderci
all’idea che il ceto politico attuale scomparirà.
Pag 1 Italiani del Sud, da Londra arrivano le scuse di Mario Ajello
Gli inglesi non sopportavano i Borbone: «Negazione di Dio», li definì Gladstone. E la
Gran Bretagna, come si studia nelle nostre scuole, fu assai favorevole all’Unità d’Italia
del 1861. Dunque, adesso, oltre che penoso e vergognoso per l’Inghilterra, è anche
paradossale che proprio laggiù venga restaurato, in chiave anti-italiana, il Regno delle
Due Sicilie. Non c’è nulla di più anti-storico, con in più una buona dose di ignoranza e di
razzismo, nella vicenda del modulo per l’iscrizione scolastica in cui le autorità inglesi
chiedono ai nostri emigrati di che tipo di etnia siano i loro figli: «Italian», «Italian Any
Others», «Italian Napolitan» (ed evidentemente gli inglesi non sanno che in inglese si
dice «neapolitan» con la «e») e «Italian Sicilian»? Come se gli italiani del Sud fossero i
nuovi paria agli occhi degli inglesi e il nostro Mezzogiorno, che i britannici erano soliti
invidiare per la sua centralità nel Mar Mediterraneo, fosse la terra dell’«hic sunt leones».
Poi il governo di Londra si è scusato con noi ma il caso resta. Verrebbe da dire che dietro
questo episodio pazzesco ci sia quel 52 per cento di inglesi che hanno scelto l’uscita
dall’Europa nel giugno scorso e sono per lo più anziani che, come prima pulsione
isolazionista, se la prendono con i bambini. Di sicuro questa trovata, che dovrebbe
suscitare l’indignazione non solo dell’ambasciatore italiano ma dell’intero governo a
cominciare dal presidente del Consiglio, svela quanto il voto sulla Brexit sia stato
motivato da umori profondi che agitano la pancia dell’Inghilterra e che l’ex premier
Cameron, accecato da personali ragioni politiciste, non ha saputo vedere. Prendersela
con i figli dei nostri emigrati, con gli studenti, con quelle generazioni già di fatto
globalizzate, e applicare a loro il rigurgito isolazionista, il mito vetero-conservatore e in
fondo nichilista della piccola patria, e proprio da parte di chi è stato un grande impero
multirazziale, rappresenta una vergogna nella vergogna. E contiene tutto l’abisso in cui
sembra precipitato il Regno Unito. Dove la calma è scarsa. La politica sta implodendo.
L’economia è incerta. Così come lo è il futuro degli inglesi fuori dalla Ue. Che nel voto
della Brexit è stata rifiutata in blocco ma certe aree geografiche del continente e i popoli
che le abitano sono evidentemente più detestabili di altre secondo i nuovi paladini
Britain First. Di questa sorta di apartheid applicato a se stessi e inflitto in questo caso ai
napoletani e ai siciliani del tutto immeritevoli di questo trattamento. Che viene da vicino
ma si porta dietro i più vieti pregiudizi tradizionali del tipo: italian spaghetti, italian
mafia, italian corruption, italian dishonesty. Quando fu scelta la Brexit, gli italiani si
sentirono traditi nel loro amore per l’Inghilterra. E alla luce di questo episodio, non da
Great Britain ma da Little Britain, avevano ragione. Ora le giustificazioni del governo
londinese hanno il sapore del posticcio. E sostenere che i vari marchi etnico-territoriali
applicati agli italiani riguardino solo gli aspetti linguistici e non quelli razziali non va bene
lo stesso. Perché gli inglesi dovrebbero sapere che anche la lingua in Italia è unitaria,
dopo i tanti sforzi di alfabetizzazione compiuti in 150 anni e più, e se il napoletano e il
siciliano siano veri e propri idiomi e non semplici dialetti non può certo stabilirlo una
preside del Galles. C’è da dire però che, indirettamente, anche noi italiani abbiamo
qualche responsabilità nel fatto che veniamo dipinti come un Paese disomogeneo e
troppo pieno di differenze tra il Nord e il Sud. Il divario economico-sociale tra le due
parti della Penisola, in questi anni, non è diminuito ma aumentato. La questione
meridionale non è più da tempo in cima all’agenda della politica, se non per iniziative
episodiche. E il leghismo e la propaganda devoluzionaria hanno contribuito a dare
dell’Italia all’estero un’immagine di disunità che comunque, al di là dei limiti appena
notati, non corrisponde affatto alla realtà. Se non nello sguardo annebbiato degli inglesi
che, incerti e spaesati ormai rispetto alla propria identità, fanno orrende schedature su
quella degli altri.
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