La voce del popolo

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la Voce
del popolo
DON BONIFACIO
SEMPRE SIA LODATO
la Voce
del popolo
storia
www.edit.hr/lavoce
RIMANGONO DA RIMUOVERE ANCORA ALCUNE ZONE D’OMBRA
SULLA SUA TRAGICA FINE E, SOPRATTUTTO, RITROVARNE I RESTI PER DARNE
CRISTIANA SEPOLTURA. CONTINUA A INDAGARE SULLA VITA DEL MARTIRE ISTRIANO,
IL PIRANESE MARIO RAVALICO, AL SUO SECONDO VOLUME SUL SACERDOTE
UCCISO NEL SETTEMBRE DI 70 ANNI FA
Anno 12 • n. 97
Martedì, 11 ottobre 2016
PILLOLE
ANNIVERSARI
PERCORSI
pubblicazioni
Il problema malarico
nella Pola ottocentesca
Lepanto, un esempio
di solidarietà cristina
Un progetto del MAI:
vedere la città invisibile
Per gli oscuri sentieri
della Fiume anni ’20
Le autorità non seppero
intervenire per risanare i
pericolosi focolai epidemici
Il duello finale tra le flotte
ottomana e della Lega Santa
si consumò il 7 ottobre 1571
Il Museo archeologico dell’Istria
ci fa riscoprire le bellezze e i
tanti monumenti storici polesi
Un francese ha unito fumetto,
arte e storia per raccontare
l’epopea dannunziana
4|5
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|| Madonna del Rosario, Piemonte d’Istria
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storia&ricerca
martedì, 11 ottobre 2016
INTERVISTA
Mario ravalico continua a indagare
sulla vita e sull’operato del sacerdote.
Quest’anno È uscito il suo secondo
saggio sul martire istriano, edito dalla
AVE di Roma, in cui propone un profilo
del sacerdote piranese, le tappe del suo
magistero, il suo pensiero e i ricordi di
quanti lo avevano conosciuto
M
ario Ravalico, nato a Pirano
nel 1941 e ora residente in
provincia di Trieste, aderente
all’Azione cattolica, ha svolto incarichi
importanti durante la sua vita. Infatti,
per un decennio fu presidente della
Caritas diocesana del capoluogo
giuliano, avviando collaborazioni con le
realtà simili attive nei Balcani (Mostar
e Belgrado, per esempio) e con quelle
della nostra regione (Capodistria,
Fiume, nonché Parenzo e Pola). Il
suo interesse l’ha portato a occuparsi
intensamente della vita e dell’operato
di don Francesco Bonifacio (beatificato
nel 2008), con particolare attenzione
alla sua uccisione, avvenuta nel secondo
dopoguerra e all’enigmatica questione
dell’occultamento del corpo senza vita.
Nel 2015 pubblicò il volume “Verso
Crassiza. Note ed appunti sul martirio di
don Francesco Bonifacio per un’eventuale
nuova biografia del Beato” (IRCI,
Trieste), un lavoro che propone con
dovizia di particolari le certosine ricerche
dell’autore su una vicenda che è ancora
contraddistinta da tante zone d’ombra;
come in un giallo, Ravalico accompagna
il lettore nell’intricata vicenda di sette
decenni or sono proponendo le varie
piste d’indagine, le testimonianze, la
documentazione e le reticenze ancora
esistenti su quella vicenda. All’inizio
di quest’anno, invece, presso la casa
editrice AVE di Roma è uscito “Don
Francesco Bonifacio. Assistente dell’Azione
cattolica fino al martirio” in cui propone
un profilo del sacerdote piranese, le
tappe del suo magistero, il suo pensiero e
i ricordi di quanti lo avevano conosciuto.
Abbiamo incontrato Mario Ravalico per
approfondire il suo interesse su questo
ecclesiastico, nonché per saperne di più
sul suo ultimo lavoro.
In quali circostanze si sviluppa l’idea di
questo lavoro?
C’è una premessa da fare, riguarda i motivi
dell’uccisione di don Francesco Bonifacio.
Sicuramente non va trascurato il tempo di
persecuzione che la Chiesa ha vissuto in Istria
negli anni dopo la seconda guerra mondiale.
Ma non va sottovalutato nemmeno quanto è
contenuto nei documenti ufficiali con cui la
Santa Sede proclama Beato questo sacerdote.
Scrive infatti la Positio: “Quello che irritava
maggiormente le Autorità subentrate in Istria
subito dopo la guerra, era il fatto che i giovani
della Cappellania affidata al Servo di Dio
avevano rinnovato tutti l’iscrizione all’Azione
cattolica. Da questo motivo nacque quel
complesso di avvenimenti e circostanze che
termineranno con il glorioso martirio di don
Bonifacio”. In altra parte di quel documento
si scrive che le Autorità erano contrariate dal
fatto che quei giovani non si iscrivevano alle
organizzazione di massa di allora, lo SKOJ
e l’UAIS in particolare. Implicitamente, ma
nemmeno tanto, veniva imputato al sacerdote
il troppo ascendente che aveva su quei giovani.
Per questo da tempo coltivavo l’idea, che poi
diventò progetto, di far conoscere e diffondere
il più possibile quanto don Francesco Bonifacio
insegnava ai ragazzi e alle giovani del suo
tempo, sia dal punto di vista umano che
cristiano.
del popolo
Don Bonifacio
chi sa, parli
Potremmo definire questo libro una sorta
di appendice a “Verso Crassiza”?
La risposta si collega e completa con quanto
detto prima: Verso Crassiza resta un libro che
analizza e mette a fuoco soprattutto il contesto
storico, culturale, politico e anche religioso in
cui si svolsero i dolorosi fatti riguardanti don
Bonifacio. È quindi uno strumento di ricerca
e di studio, nell’intenzione anche propedeutico
a chi un domani volesse avventurarsi in modo
ancora più approfondito in questa ricerca della
verità. Il nuovo libro invece è sicuramente più
divulgativo e vuole principalmente parlare
attraverso le tante testimonianze recuperate,
che sono piccoli ma preziosi tasselli di un
mosaico che non è ancora del tutto completato.
In questo senso i due libri possono essere
considerati complementari uno all’altro.
Nella galleria di personaggi di calibro mondiale
È stato difficile proporre un argomento
giuliano a una casa editrice distante
geograficamente dalla Venezia Giulia, dai
luoghi di don Bonifacio?
È vero, il libro esce con la veste dell’AVE di
Roma, casa editrice dell’Azione cattolica,
quindi non vicina alle nostre terre. In effetti
è una casa editrice di respiro nazionale e
addirittura internazionale. Per capire meglio
quest’interesse, va precisato che il libro è uscito
all’interno di una specifica collana, “I testimoni”
con il numero 67. In ciascuno di questi volumi
viene raccontata la vita e la storia di personaggi
molto significativi; ne cito solo alcuni: il vescovo
monsignor Oscar Romero del San Salvador;
madre Teresa di Calcutta, di recente
santificata; il prof. Vittorio Bachelet,
ucciso dalle Brigate rosse negli
Anni di Piombo. Don Francesco
Bonifacio è stato inserito tra
questi personaggi. Non è una
cosa da poco.
Possiamo affermare
che anche questa
pubblicazione
rappresenta una sorta
di cambio di tendenza
nei confronti
degli argomenti
adriatici, di una
nuova sensibilità
nei confronti di
quest’area?
la Voce
Certamente c’è una nuova accresciuta
sensibilità, alla quale ha sicuramente
contribuito l’istituzione del Giorno dei Ricordo
e, in tempi ancora più recenti, l’opera geniale e
molto significativa di Simone Cristicchi.
Cancellare le zone d’ombra: missione (im)possibile?
La parte del racconto che precede
le considerazioni sulle ricerche e la
beatificazione inizia con “Perché?”.
Nonostante le indagini svolte, il
vaglio delle fonti, l’incrocio dei
dati, vi sono ancora tante zone
d’ombra e non pochi aspetti
enigmatici. Allo stato attuale,
cosa possiamo dire con
certezza sull’uccisione
di don Bonifacio e
sull’occultamento del suo
cadavere?
Certo, alcune zone d’ombra
ci sono ancora, non sono
cancellate del tutto.
Questo perché, da una
parte, molti (ma non
tutti!) dei protagonisti
di quei fatti o che di
quei fatti conoscevano
qualche parte anche significativa di verità, sono
ormai deceduti; e dall’altra, perché la vicenda
di don Bonifacio doveva essere e rimanere per
sempre sepolta nell’oblio e nessuno ne avrebbe
dovuto mai parlare. Una sorta di cancellazione
della memoria. Non va dimenticato che, oltre
al clima di paura e di vero terrore, c’era – e c’è
tutt’ora – una sorte di patto in base al quale
quell’ideologia di allora, anche se oggi morta, non
può essere mai tradita. Sulla decisione di uccidere
don Bonifacio si sa che essa venne presa in una
riunione del cosiddetto “Tribunale del
Popolo”: i “giudici popolari”
hanno un nome e un
cognome, questo lo
si sa. Così come si
sa che all’arresto
contribuirono
– con ruoli
diversi – almeno
sette persone:
anch’esse hanno
un nome e un
cognome.
Si sa come
fu ucciso
e quale fu
il breve
colloquio che
storia&ricerca
la Voce
del popolo
di Kristjan Knez
Tra devozione sincera e troppe reticenze
Sentire la gente e farsi raccontare il
loro ricordo di don Bonifacio è stata
un’operazione semplice o s’incontrano
ancora delle titubanze?
Posso sintetizzare la risposta a questa domanda
nel modo seguente: chi ha amato veramente don
Bonifacio, o anche chi – avendolo conosciuto solo
attraverso la testimonianza dei propri genitori – ha
comunque verso di lui una vera devozione, non
ha alcun problema a raccontare e a raccontarsi,
vorrei dire con il profondo desiderio di contribuire
a far luce su una vicenda tanto doloriosa quanto
oscura. Chi invece, a quei tempi, ha avuto qualche
responsabilità – diretta o anche solo indiretta
– è reticente, racconta degli altri, dice nomi e
particolari che però non toccano mai la propria
sfera di azioni e di responsabilità. Lo dico con
consapevolezza sapendo di aver incontrato anche
persone che, in quel sistema poliziesco che era la
Difesa popolare e l’OZNA, hanno avuto ruoli non
secondari e che, proprio in virtù di ciò, dovrebbero
sapere parecchie cose.
A corredo del volume è stato proposto anche
un dvd contenente il filmato “Sempre sia
lodato” di Giovanni Panozzo, costruito su una
serie di testimonianze e di considerazioni.
Com’è sorta quest’idea?
avvenne tra don Francesco Bonifacio e l’ufficiale
dell’OZNA che decideva della sua morte. Questo
perché uno dei testimoni oculari dell’uccisione,
alla quale partecipò, lo raccontò testimoniandolo
a persona terza che poi riferì in piena fedeltà al
Tribunale ecclesiastico istituito per la pratica della
beatificazione. Quello che non si sa, ancora, è il
luogo preciso in cui venne ucciso e soprattutto il
luogo definitivo (probabilmente c’è stato prima un
luogo provvisorio) in cui venne deposto il corpo
del sacerdote; le testimoninze ci sono ma sono tra
di loro diverse e talvolta contrastanti. Quello che
è certo però è che volevano nascondere il corpo del
sacerdote in un luogo il più sicuro possibile e, un
cimitero, come da più parti venne testimoniato,
era sicuramente il luogo più adatto a questo
scopo.
Il volume propone la sua biografia, vari
testi, con diversa documentazione inedita, e
parecchie testimonianze sia di persone che
hanno conosciuto direttamente don Bonifacio
sia di coloro che per ragioni anagrafiche non
hanno potuto incontrarlo. Quando sono state
raccolte?
Ho iniziato la mia ricerca da zero, senza un
bagaglio di contatti precedenti, man mano che
incontravo persone che avevano conosciuto
direttamente don Bonifacio, oppure
avevano sentito parlare in famiglia di
lui, ho raccolto queste testimonianze
perfezionandole via via con altri contatti.
Così, pensavo, forse un giorno queste
potrebbero servire, chissà, magari
per qualche futuro scritto. Così, una
volta raccolta la maggior parte di
esse, le ho utilizzate per completare
questo secondo libro, appunto
come testimonianze, peraltro molto
interessanti. Anche perché, in alcune
di esse, sono contenuti particolari
nuovi, non conosciuti dai più che
quindi integrano mancanze
o dimenticanze in qualche
aspetto della biografia di
don Bonifacio. Per la
verità, anche dopo la
chiusura del libro,
ho continuato
a raccogliere
testimonianze
nuove e
interessanti.
Durante uno dei pellegrinaggi che annualmente
l’Azione cattolica di Trieste organizza sui luoghi
del Beato don Francesco Bonifacio, è sorta l’idea
di riprendere qualche squarcio del pellegrinaggio
stesso e prevedere qualche testimonianza orale. Il
difficile è stato selezionare le tante testimonianze
disponibili, tutte interessanti e preziose, ma non
si poteva realizzare un video che fosse troppo
lungo. D’altra parte era necessario intervallare
queste testimonianze dal racconto storico per il
quale ci si è affidati a due persone particolarmente
competenti: Denis Visintin, del Civico Museo di
Pisino, che, fra l’altro, avendo conosciuto parecchio
bene i fratelli di don Bonifacio – in particolare
Mario e Giovanni – era una voce adatta a
raccontare quella storia, per lui quasi famigliare.
E poi lei stesso, Kristjan Knez, presidente della
Società di studi storici e geografici di Pirano,
profondo conoscitore della storia delle terre
giuliane. Per questo il video, nei pensieri di chi l’ha
voluto e ideato, vuole essere una testimonianza
viva e coinvolgente della vita e del martirio di don
Bonifacio in particolarfe verso le nuove generazioni
che, magari, poco sanno della nostra storia.
Ci sono altre iniziative dedicate alla memoria di
don Bonifacio? Ci saranno ulteriori contributi
per fare luce su questa vicenda che si inserisce
nell’intricato secondo dopoguerra istriano?
Quest’anno ricorre il 70º anniversario del martirio
di don Bonifacio, una ricorrenza particolarmente
significativa se anche inserita nell’Anno della
Misericordia proclamato da Papa Francesco. Perché,
non va dimenticato, che don Francesco, mentre
veniva malmenato, picchiato, lapidato e infine
ucciso con delle coltellate alla gola, pregava Dio e
per i suoi uccisori invocava il perdono, perdonando
a sua volta coloro che lo stavano uccidendo. Per
questo durante tutto l’anno sono previste diverse
iniziative, che vanno ad aggiungersi a quelle già
fatte negli ultimi mesi del 2015, anche in alcune
Comunità dell’Istria, sia slovena che croata. Il libro
e il video sono dei tasselli, come un altro tassello
è l’apposizione della lastra di pietra nel Battistero
di Pirano in cui Francesco Bonifacio fu battezzato
e il cippo collocato sul sentiero in cui fu fermato
dalle guardie della Difesa popolare guidate da un
ufficiale dell’OZNA. Altre iniziative sono maturate
a Trieste e in Istria, perché qui don Bonifacio non
è stato dimenticato, anzi è vivo e presente, come
lo è l’altro martire istriano, il croato don Miroslav
Bulešić, ucciso solo undici mesi dopo don Bonifacio,
in circostanze simili e nella medesima logica di
persecuzione alla religione, alla Chiesa e ai
sacerdoti.
martedì, 11 ottobre 2016
3
SE NE DISCUTERÀ A ROMA, PRESSO LA LA FONDAZIONE
UGO SPIRITO E RENZO DE FELICE, IL 27 OTTOBRE PROSSIMO
LA LUNGA OMBRA
DI TITO SU TRIESTE
N
ella primavera del 1945
quando nel resto d’Italia e
in tanta parte d’Europa si
festeggiava la fine della guerra e
l’avvento della pace, per i triestini
– e per i loro fratelli goriziani,
istriani, fiumani e dalmati – si
apriva un vero calvario: la lunga
ombra di Tito e di una presenza
straniera che si era proposta come
seminatrice di morte e di violenze,
che catapultò i suoi abitanti in
un lungo tunnel di incertezze,
di passioni politiche esacerbate,
di timori, di sopraffazioni... In
quaranta giorni la città di San
Giusto visse un’esperienza talmente
traumatica da giustificare il termine
di “terrore titino”. Poi, per nove
anni, dal maggio 1945 all’ottobre
1954, rimarrà sotto un clima che
lascerà una traccia oscura. Mons.
Antonio Santin, vescovo di Trieste
e Capodistria, il 1.mo gennaio
1950, in San Giusto, pronunciò
un’allocuzione – riportata nel saggio
di Ivan Buttignon “L’abbandono
della dichiarazione tripartita e la
linea filo-jugoslava degli alleati
(1950-54)” – nella quale rileva
come lo “scopo cui tendere dovrebbe
essere l’evacuazione della zona B
da parte delle truppe jugoslave e la
loro sostituzione con quelle alleate.
Ma vorranno intervenire i governi
di Londra e di Washington? Tutto fa
ritenere di no, ché da essi, purtroppo,
la tragedia della zona B non è
minimamente sentita. Né il governo
italiano sembra prendere a cuore,
come forse potrebbe, la tristissima
sorte di questi disgraziati fratelli”.
La domanda angosciosa, che peserà
fino al 26 ottobre ‘54, quando ci
saranno finalmente i soldati d’Italia
a garantire contro il ritorno degli
uomini con la stella rossa, sarà “E se
tornano i titini?”
Ed è questo interrogativo a fare da
filo conduttore di un appuntamento
ottombrino che cercherà di
ricordare quanto avvenne all’epoca,
approfondire i diversi e specifici
aspetti di quel periodo, con
spunti di riflessione interessanti
e originali, che vanno ben al di
là dalle consuete e più generiche
|| William Klinger sarà ricordato in un convegno che
vedrà la partecipazione di: Paolo Sardos Albertini,
presidente della Lega Nazionale, Amleto Ballarini,
presidente della Società di Studi Fiumani di Roma,
Ivan Buttignon, storico e politologo, Damir Grubiša,
ambasciatore della Repubblica di Croazia in Italia,
Orietta Marot, presidente della Comunità degli Italiani
di Fiume, Diego Redivo, storico(Università Popolare di
Trieste), Lorenzo Salimbeni, segretario del Comitato
10 Febbraio, e Fulvio Varljen (Lega Nazionale)
||
Il 27 ottobre a Roma verrà presentato il volume
collettaneo che contiene gli atti del convegno “E se
tornano i titini?”, organizzato dalla Lega Nazionale
e da Trieste Pro Patria. Il lavoro contiene i contributi
di Paolo Sardos Albertini, Lorenzo Salimbeni, Paolo
Radivo, Ivan Buttignon, William Klinger, Mattia
Zenoni, Andrea Vezzà, Michele Pigliucci
trattazioni di quel delicato periodo
storico, proponendo nuove chiavi
di lettura, cercando di capire e far
capire i perché di quanto successo,
individuare i protagonisti di tali
vicende e il ruolo da essi svolto.
Il Comitato 10 Febbraio e la Lega
Nazionale organizzano infattti una
giornata sul tema in programma
a Roma giovedì 27 ottobre (ore
18) presso la Fondazione Ugo
Spirito e Renzo De Felice. Si parlerà
dell’opera collettanea offerta dalla
Lega nazionale “E se tornano i titini?
Trieste, 1º maggio ‘45 – 26 ottobre
‘54. L’esperienza del terrore (Luglio
Editore, Trieste, 2015, pagine 224),
che riassume i temi trattati in un
convegno. Vi hanno controbuito
Paolo Sardos Albertini, Lorenzo
Salimbeni, Paolo Radivo, Ivan
Buttignon, William Klinger, Mattia
Zenoni, Andrea Vezzà, Michele
Pigliucci. Sempre nella stessa
giornata, si terrà un convegno di
studi in ricordo del compianto storico
fiumano William Klinger (Fiume,
24 settembre 1972 – New York, 31
gennaio 2015), che ha affrontato
i vari aspetti del regime titino,
analizzato la personalità del dittatore
jugoslavo e ricostruito la sua scalata
al potere in almeno due importanti
saggi: “Il terrore del popolo. Storia
dell’OZNA, la polizia politica di Tito”
(Italo Svevo, Trieste, 2012) e “Tito.
Le storie sottaciute”, scritto nel
2013 con Denis Kuljiš (nell’originale
“Tito. Neispričane priče”, Nezavisne
novine, Banja Luka, 2013).
Come ospiti dell’evento, dopo i
saluti introduttivi di Giuseppe
Parlato, presidente della Fondazione
Ugo Spirito e Renzo De Felice, e
di Michele Pigliucci, presidente
del Comitato 10 Febbraio, sono
annunciati gli interventi di Paolo
Sardos Albertini, presidente della
Lega Nazionale, Amleto Ballarini,
presidente della Società di Studi
Fiumani, Ivan Buttignon, storico
e politologo, Damir Grubiša,
ambasciatore della Repubblica di
Croazia in Italia, Orietta Marot,
presidente della Comunità degli
Italiani di Fiume, lo storico Diego
Redivo (Università Popolare di
Trieste), Lorenzo Salimbeni,
segretario del Comitato 10 Febbraio,
e Fulvio Varljen, dirigente della Lega
Nazionale. (ir)
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martedì, 11 ottobre 2016
storia&ricerca
la Voce
del popolo
PILLOLE
IL PROBLEMA MALARICO
NELLA POLA OTTOCENTESCA
D
opo la caduta della Serenissima
e l’occupazione austriaca
della penisola, l’interesse che
quest’ultima dimostrò verso le condizioni
sanitarie di Pola non portò a significativi
miglioramenti e neppure il successivo
dominio francese comportò evidenti
progressi in fatto di igiene, dal momento
che il nuovo governo, a causa degli eventi
bellici, più che provvedere al risanamento
della città e del territorio puntò piuttosto
sul suo ruolo militare ed economico,
concretizzatosi nella regolamentazione
del servizio di porto e della sanità
marittima.
Con il ritorno dell’Austria nel 1813 crebbe
però la sensibilità per la problematica
sanitaria, la cui urgente soluzione era
motivata dal continuo serpeggiare delle
febbri malariche, che andavano ad
intaccare una popolazione oltremodo
debilitata dalla miseria e dalla fame, e
dal fatto che l’aere infetto concorreva
all’isolamento della città. Ma l’esigenza
di estese ed efficaci misure profilattiche
si arenò contro lo scoglio rappresentato
dalla cronica mancanza di mezzi e, di
conseguenza, gli auspicati interventi non
furono eseguiti. Nel primo ventennio del
XIX secolo, quindi, né il governo francese
né quello austriaco seppero prendere
nella dovuta considerazione l’eventualità
di un radicale intervento nelle principali
aree insane della città, che continuarono
a rappresentare nei decenni successivi un
pericoloso focolaio epidemico.
Il ritorno della malattia. In forma aggravata
Dopo aver percosso la città dell’Arena alla
fine degli anni Venti, l’infezione malarica
si ripresentò puntualmente nell’estate
del 1836 e fu di gran lunga più deleteria
del colera, il quale infieriva all’epoca
particolarmente nelle città costiere
dell’Istria settentrionale. La penuria di
chinino e l’inefficacia dei medicinali
venduti nella farmacia Wassermann
contribuirono al mantenimento
dell’infezione, che si manifestò pure
nell’estate-autunno 1837 in conseguenza
dell’inondazione di vaste aree della
Polesana causata dalle intense piogge
primaverili; essa si propagò in particolare
fra la guarnigione di stanza a Pola,
che per fuggire la contaminazione
fu costretta a traslocare a Gallesano.
L’affezione non tardò a infestare anche
le altre località del territorio e tra queste
la più bersagliata fu Altura, la quale
ebbe un terzo della popolazione adulta
ammorbata e un’allarmante mortalità fra
i bambini.
Il rapporto Schludermann del 1842
Da piccola borgata a base navale asburgica
Le incombenze epidemiche tornarono
purtroppo a manifestarsi con notevole
intensità nel quarto decennio del XIX
secolo, assecondate nel loro apparire
dalle tristi condizioni d’insalubrità
della località. Secondo il rapporto
Schludermann del 1842, la morbosità
atmosferica di Pola era riconducibile
a parecchi fattori, ed è emblematico
che per placare i fenomeni epidemici
il compilatore ritenesse indispensabile
il trasferimento del cimitero accanto
al duomo, una maggior inclinazione
del canale di scolo posto sul lato
meridionale della città, la chiusura
delle cave di saldame che si supponeva
emanassero gas venefici, l’estirpazione
della vegetazione, la pulizia generale
della città, delle abitazioni e delle
stalle. Nessuna proposta d’intervento fu
avanzata per il Prato grande e il Prato
piccolo che rappresentavano i veri focolai
malarici della località, per cui, come
negli anni precedenti, le incombenze
epidemiche continuarono a essere
vincolate alle precipitazioni atmosferiche
che producevano un allagamento più o
meno duraturo degli stessi. “Quando nel
1846 le prime navi da guerra austriache
presero stazione a Pola – osservò il dottor
Bernardo Schiavuzzi – i due prati erano
coperti d’acqua e d’estate s’impaludavano.
Il canale scavato nell’epoca veneta era
ridotto a poca cosa; solamente al termine
del prato piccolo [...] eranvi traccie del
canale principale, che in quel sito sboccava
in mare”.
A prescindere dalle sue reali condizioni
igieniche, la località si apprestava a vivere
una metamorfosi epocale come non si era
mai verificata nella millenaria storia della
penisola, una trasformazione che avrebbe
mutato una borgata di un migliaio d’anime
in un centro di sviluppo economico e
demografico in continua ascesa. Gli
avvenimenti del 1848-49 e la successiva
decisione di trasferire a Pola la marina da
guerra austriaca e di costruire un moderno
arsenale diedero un forte impulso alla
città: ciò determinò un profondo e
radicale mutamento del tessuto urbano
e l’adeguamento delle obsolete strutture
sanitarie esistenti alle nuove esigenze di
una città, che calamitava su di sé uomini,
materiale bellico e ogni genere di cose.
Tuttavia, se gli sforzi indirizzati allo
sviluppo infrastrutturale e al risanamento
ambientale della località portarono
sicuramente dei benefici in termini di
salute pubblica, non sradicarono però
la malaria, che continuò a colpire una
popolazione già stremata dalla prolungata
congiuntura degli anni Cinquanta e dei
primi anni Sessanta.
Il distretto di Pola fu, effettivamente,
uno dei territori che risentirono
maggiormente il disagio economico e
l’indigenza di quegli anni, ai quali si
accompagnarono ben presto le affezioni
malariche che, particolarmente negli anni
1861, 1863, 1864 e 1866, contaminarono
la città dell’Arena mettendo crudamente
in luce le debolezze della sua
organizzazione sanitaria che non seguiva
di pari passo il progresso economico e
demografico.
La Marina austriaca canalizza il Porto grande
Come osservò nel 1868 il dottor August
Jilek, all’epoca medico supremo dell’I.R.
Marina e capo sezione al ministero della
guerra austriaco, più della metà degli
ammorbamenti complessivi dell’ultimo
quinquennio era da imputarsi alla febbre
intermittente, il cui andamento era
oscillato tra un minimo di 50 casi rilevato
nel febbraio del 1867 e una punta massima
di 1.196 evidenziata nell’agosto 1864.
Tra i soldati della guarnigione, 5500
uomini portati a 10.000 nel 1866, i colpiti
assommarono a 15.000, senza che vi
fossero computati gli equipaggi dei navigli
del porto. Vista la cadenza regolare con la
quale le febbri malariche si propagavano
in città e sentito il parere degli addetti
ai lavori, fu deciso di canalizzare il Prato
grande e quello piccolo a spese dell’I.R.
Marina che per l’operazione, iniziata nel
1869, erogò la consistente somma di
54.000 fiorini. Con l’andare degli anni,
però, la manutenzione del canale fu
trascurata al punto tale che venne meno la
sua funzione e la malaria, più mite e meno
espansiva negli anni immediatamente
successivi all’esecuzione dei lavori, tornò
ad infierire con drammatica regolarità nella
seconda metà degli anni Settanta.
Le conseguenze della carestia
Nella città dell’Arena, il settimo decennio
del XIX secolo fu caratterizzato soprattutto
dalla diffusione d’infezioni quali il
vaiolo e la difterite, i quali, almeno
momentaneamente, relegarono in secondo
piano le febbri malariche; ma la malaria,
sempre presente allo stato endemico,
non tardò a manifestarsi anche in forma
epidemica. Nell’estate del 1876 i singoli
casi di febbre intermittente cominciarono a
intensificarsi fino ad assumere un carattere
epidemico, ma a preparare il terreno
all’epidemia furono le particolari condizioni
climatiche verificatesi nei mesi invernali e
primaverili, quando le abbondanti piogge
andarono a incidere sui raccolti e sul
regime alimentare della popolazione e i
notevoli e prolungati allagamenti delle
valli diventarono il serbatoio naturale
delle zanzare portatrici della malattia.
Sembra che a patire l’epidemia fosse stata
soprattutto la popolazione civile dimorante
in prossimità del Prato grande, del Ponte
e nel sobborgo di Campo Marzio, mentre
un numero elevato di casi fu evidenziato
pure nelle località di Valdibecco, Cave
Romane, Vincuran, Bagnole e Veruda. I
storia&ricerca
la Voce
del popolo
Misure profilattiche
contro il morbo
Per arginare il diffondersi della
malaria in città furono eseguiti una
serie di lavori che non sortirono però
gli effetti desiderati. Gli interramenti
di Val Perussi, dell’Orto al Buso,
di Val di Ponte e di quasi tutta la
spiaggia che circondava il porto,
l’arginamento delle acque del Prato
grande e il livellamento e lo scavo
del suo canale, la formazione di
parchi e il rimboschimento fatti
eseguire su vasta scala dall’I. R.
Marina da Guerra se da un lato
contribuirono al miglioramento
delle condizioni generali, dall’altro
non portarono al tanto auspicato
sradicamento del male, che continuò
a manifestarsi negli anni successivi
con più o meno veemenza.
L’infierire della malattia, però, non
ebbe effetti sulla crescita urbana e
demografica che la città dell’Arena
stava attraversando in quel periodo.
L’intensa attività edilizia che aveva
contraddistinto il capoluogo
negli anni Settanta del secolo era
proseguita con tale fervore che,
verso la metà degli anni Ottanta,
sia l’estensione della città che la sua
popolazione era triplicata, mettendo a
nudo le carenze strutturali dell’assetto
urbano non corrispondenti più alle
nuove esigenze. Tali deficienze
funsero purtroppo da fattore
accelerante per le principali crisi
epidemiche del decennio che
compresero, oltre la malaria, vaiolo,
colera, morbillo e, nel biennio 188586, difterite e tifo addominale.
Nel quinquennio successivo,
comunque, tanto nella città di Pola
quanto nei villaggi circostanti i casi
di febbre intermittente subirono un
drastico ridimensionamento, grazie
soprattutto a mirati interventi che
limitarono alle zanzare Anopheles
la possibilità di riprodursi e di
trasmettere il morbo. Un significativo
progresso delle condizioni sanitarie
fu constatato nei sobborghi di
Campo Marzio e S. Michele nonché
in quelli di Stazione e Arena,
che beneficiarono dei lavori di
drenaggio del Prato Grande, della
copertura del canale che dalla
Valle del Ponte raggiungeva il mare
e dell’interramento della palude
esistente che ammorbava l’aria.
Anche nelle località distrettuali,
salvo eccezioni, le tanto temute
complicazioni acute e croniche
comparvero solo raramente e per
trascuratezza. La soluzione del
problema malarico era quindi di
natura endogena, ottenibile cioè
mediante il cambiamento delle
condizioni ambientali che lo avevano
provocato, per cui una volta eliminati
i presupposti che favorivano la
malattia la stessa sarebbe scomparsa
e non avrebbe rappresentato più una
minaccia per la popolazione.
militari della guarnigione, risparmiati in
parte dalla contaminazione, ne risentirono
maggiormente gli effetti l’anno seguente,
dopo di ché vi fu un costante e sensibile
decremento dell’infezione che tornò
tuttavia ad infierire con notevole intensità
nel 1879. Quell’anno a rendere ancora più
difficile la situazione ci pensò nuovamente
una tremenda carestia dovuta alle intense
piogge primaverili e alla perdurante siccità
estiva, che generò uno stato di diffusa
malnutrizione e di debolezza fisiologica
della popolazione già provata da ripetuti
stress alimentari, che fu quindi facile preda
degli agenti infettivi.
Alla fine degli anni Settanta, dunque, le
affezioni malariche rappresentavano un
grosso problema per la città dell’Arena,
anche se erano le condizioni igienicosanitarie generali a destare le maggiori
apprensioni. Dal 1855 la località aveva
patito “quattro invasioni di cholera […] la
meningite cerebro spinale, il tifo, il vajuolo
e la scarlattina più volte, e dal 1866 in poi,
a ricorrenze la difterite non ancora spenta
del tutto”, cosicché non vi era stata in
pratica malattia infettiva che non l’avesse
funestata nell’ultimo ventennio.
martedì, 11 ottobre 2016
5
di Rino Cigui
Una generale recrudescenza della
patologia fu registrata nell’ultimo
quinquennio del secolo, in corrispondenza
ai repentini mutamenti atmosferici che
contrassegnarono le annate 1894 e 1895
in tutta la penisola. I dissesti climatici
ed economici influirono notevole sulla
patogenesi delle malattie infettive,
che non di rado si manifestavano in
forma epidemica e con una maggiore
aggressività proprio nei periodi di
carestia a causa della denutrizione di
ampi strati di popolazione. Le mutate
condizioni socioeconomiche interagirono
con la salute della popolazione, acuendo
ulteriormente l’emergenza sanitaria dovuta
alle incombenze epidemiche prodotte
dalle principali infezioni dell’epoca; tra
queste vi era naturalmente la malaria,
che si diffondeva soprattutto nelle annate
caratterizzate da abbondanti precipitazioni
primaverili seguite da un’estate calda e
secca e da un autunno-inverno altrettanto
umido.
La recrudescenza di fine secolo
Borgate a rischio
Divenuta la più cospicua città dell’Istria,
sede d’importanti istituzioni militari e
politiche, Pola era avviata a un rapido
incremento materiale e civile che imponeva
alle autorità la garanzia e la difesa della
salute pubblica attraverso l’applicazione di
opportune misure profilattiche, indirizzate
soprattutto al contenimento della malaria.
Che alcune aree di Pola fossero delle vere e
proprie zone a rischio si sapeva da tempo.
Oltre al Prato grande, zona malarica per
eccellenza, potenziali focolai epidemici
erano il Ponte della febbre con la valle
soggetta al bosco Siana, le cui esalazioni
mefitiche contaminavano il borgo Arena,
il sobborgo delle Grazie, Campo Marzio
e la via S. Michele; è curioso rilevare che
tali contaminazioni, oltre a ripercussioni di
natura sanitaria, andavano a incidere pure
sull’economia familiare, come testimonia
la supplica degli inquilini e dei proprietari
di fondi e stabili del borgo Arena i quali
implorarono l’intervento delle autorità
sentendosi danneggiati dal punto di vista
igienico e della salute pubblica, nonché lesi
nei loro interessi in quanto impossibilitati ad
affittare le case e i fondi o costretti a farlo
a prezzi molto bassi. Anche le località del
comune censuario non erano esenti del tutto
da febbri malariche, specialmente le Valli
acquere e le vallette di Valdibecco, mentre
fra gli altri centri distrettuali si segnalavano
per insalubrità le isole Brioni, Altura e,
soprattutto, Stignano, dove le febbri erano
tali che ogni anno le famiglie venivano
rimpiazzate e non se ne trovava una che vi
risiedesse da almeno una ventina d’anni.
I costi elevati frenano le opere di bonifica
I lavori di prosciugamento dei terreni
acquitrinosi, posizionati sia in città che
nel circondario, proseguirono però a
rilento per gli alti costi che un’iniziativa
di tale portata implicava. Il comune di
Pola, infatti, non era in grado di stanziare
da solo i fondi necessari all’operazione,
per cui fu proposto un piano di lavori
che prevedesse l’erogazione da parte del
Comune, della Giunta provinciale e del
Sovrano Erario di una quota di denaro
per una serie di anni. Ma l’impegno
profuso dalle autorità per mantenere sotto
controllo il morbo non impedì alla malaria
di tornare a farsi minacciosa nell’ultima
decade del XIX secolo, principalmente in
quelle zone, come i sobborghi di Siana,
Arena e il suburbio, che più degli altri
richiedevano un recupero rapido ed
efficace.
A partire dal 1895 il morbo si fece sentire
in modo crescente e a farne le spese
furono innanzitutto i già citati sobborghi
di Siana, Arena e il suburbio, mentre nelle
altre aree urbane l’azione della malaria
fu parzialmente limitata dagli interventi
di risanamento che erano stati eseguiti
nel corso degli anni e che, nonostante
fossero stati frenati dalla penuria di mezzi
a disposizione, avevano recato indubbi
benefici alla popolazione residente. Solo il
nucleo cittadino e il sobborgo di S. Martino
registrarono in quel frangente un numero
di ammorbati che si avvicinava a quello
dei rioni più malsani, mentre per tutti gli
altri i casi di malattia evidenziati furono
fortunatamente minori.
Per quanto concerne la propagazione del
male tra i soldati della guarnigione polese,
va rilevato che l’ultimo decennio del secolo
segnò un’inversione di tendenza rispetto
al periodo precedente. Infatti, se negli
anni Ottanta il rapporto tra il numero di
contagiati appartenenti alla popolazione
civile e quello dei militari fu nettamente
sfavorevole a questi ultimi, negli anni
Novanta la malaria dilagò soprattutto fra
la popolazione civile che vide addirittura
triplicare il numero dei contaminati, segno
evidente che alla fine del XIX secolo le
problematiche igieniche e sanitarie della
città erano tutt’altro che risolte. (2 – fine)
6
storia&ricerca
martedì, 11 ottobre 2016
ANNIVERSARI
FU MOLTO DI PIÙ DI UNA
DELLE PIÙ GRANDI BATTAGLIE
NAVALI DELLA STORIA
ESEMPIO DI SOLIDARIETÀ
CRISTIANA E INTERNAZIONALE
M
del popolo
a cura di Carla Rotta
LEPANTO
olto di più di una battaglia navale,
per quanto epica. Quella di Lepanto
è stata uno scontro tra civiltà. La
sera del 7 ottobre 1571, il duello tra la flotta
dell’Impero ottomano e quella della Lega
Santa nelle acque di Lepanto metteva fine a
una cruenta vicenda, iniziata il 2 luglio 1570
con l’attacco ottomano all’isola di Cipro,
all’epoca sotto il dominio della Serenissima,
ultima roccaforte del Mediterraneo orientale
in mano agli Europei.
La battaglia, quarta in ordine di tempo, che
mise fine alla guerra di Cipro, si concluse
con la vittoria della flotta cristiana della Lega
Santa, raccolta sotto le insegne pontificie,
che comprendeva uomini, navi e armi della
Repubblica di Venezia, dell’Impero spagnolo
(unitamente al Regno di Napoli e al Regno
di Sicilia), della Repubblica di Genova, dei
Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del
Granducato di Toscana, del Ducato di Urbino
e dello Stato Pontificio. Sull’ammiraglia
della Lega Santa, Don Giovanni d’Austria,
su quella ottomana Ali Mehmet Pascià (che
perderà la vita in battaglia).
La coalizione cristiana era stata voluta da
Papa Pio V, impensierito delle tensioni che si
andavano creando nel Mediterraneo per la
voglia di conquista ottomana. Fino ad allora
i turchi non erano stati una potenza marinara, né avevano vere e proprie attitudini
al mare. Ciononostante non andavano presi
sottogamba: se le armi, la tecnica e le navi
erano inferiori a quelli occidentali, non lo era
la forza degli uomini. Il pretesto di muovere
contro la flotta ottomana venne dall’assedio
turco di Famagosta (Cipro), città sulla quale
sventolava il vessillo di San Marco e che le
truppe ottomane tenevano in assedio. L’isola
di Cipro era dominio veneziano dal 1480, e
la Serenissima versava ai turchi 8mila ducati
di tributo annuo. Il sultano volle riprendere
il controllo dell’isola (come aveva fatto in
altri punti del Mediterraneo) e contava
certo anche del favore della popolazione
locale, probabilmente stanca del dominio
veneziano. Famagosta non si arrese al primo
luccicare di armi, ma la guarnigione locale,
comandata da Marcantonio Bragadin e
Astorre II Baglioni, per motivi militari (inferiorità numerica di uomini e armi) e logistici,
non avrebbe potuto resistere per troppo
tempo. Era difesa da 7mila uomini, che potrebbero non sembrare pochi, ma va detto
che dovevano tenere testa a 20mila turchi.
La fortezza si arrese il 1º agosto, quando
ormai a difenderla erano rimasti solo 700
uomini. Come da accordi con Mustafà Pascià,
i turchi avrebbero messo a disposizione dei
veneziani delle imbarcazioni, consentendo
loro di raggiungere Candia, ed era garantita inoltre l’incolumità della popolazione
la Voce
civile. Non andò così. Mustafà Pascià non rispettò i patti, i veneziani finirono prigionieri
sulle galere turche, i capitani al seguito di
Bragadin persero letteralmente la testa, e
lo stesso Bragadin morì in un modo atroce
quanto raccapricciante (venne scuoiato
vivo), i civili furono venduti come schiavi a
Costantinopoli.
Sulle orme di un nobile casato
Comunque, tristi destini di Cipro a parte,
come succede più o meno in ogni guerra, non
si trattava solo della mera ripresa dell’isola,
un tempo possedimento bizantino. Il contesto era quello del controllo del Mediterraneo.
Un mare di fitti scambi commerciali, culturali, di persone, idee, conoscenze... e tutto
andò per il meglio finché gli ottomani non
iniziarono a guardare quelle acque con altri
occhi, quelli del conquistatore. All’Occidente,
naturalmente, le mire d’Oriente toglievano
un po’ il sonno. Venezia era preoccupata per
i suoi possedimenti, gli Spagnoli avevano
sonni agitati a causa della pirateria, che metteva a rischio i commerci. Tutto accadeva
mentre gli Stati europei erano già abbastanza
affaccendati in casa, con guerre proprie, e
forse distratti per un quadro d’insieme, e
certamente per la ruggine poco propensi a
fare fronte unito. Ci pensò, come detto, il
Sommo Pontefice, che provvide a elevare un
virtuale muro per fermare l’avanzata dell’Oriente. Lo fece coalizzando le forze cristiane
nella Lega Santa, e in questo progetto ci mise
una buona dose di spirito di Crociata e una
ancor maggiore dose di diplomazia e astuzia. Non che al richiamo del Papa si rispose
con un corale e subitaneo “sì”, per i motivi
appena detti: le trattative furono lunghe e
difficili (anche per questioni di comando e
prestigio), ma la Lega finalmente nacque. La
navi, riunite nel porto di Messina, lasciarono
il porto siciliano agli inizi di settembre e agli
inizi di ottobre raggiunsero Cefalonia. Qui
la flotta apprese della caduta di Famagosta
e delle violenze subite da militari e civili: le
navi della Lega Santa spiegarono le vele, fecero rotta verso Patrasso andando incontro
alla flotta ottomana. Giunsero nel golfo di
Patrasso il 6 ottobre e subito venne disposta
la formazione per la battaglia. Due mondi a
confronto. Armato.
La Lega Santa disponeva di circa 210 imbarcazioni (6 galeazze e 204 galere), con
80mila uomini, di cui 30mila combattenti e
50mila marinai e rematori. I turchi misero in
mare una flotta di 265 navi (180 galere, 38
galeotte e un numero imprecisato di fuste e
brigantini) e 25mila uomini. Occorre precisare che non si sa con certezza quanti fossero
navi, uomini e armi, ma i dati forniti da varie
fonti non discostano in maniera determi-
nante. Come dire... nave più-nave meno.
Furono le armi la vera chiave di svolta della
battaglia di Lepanto, per quanto fosse diversa anche la costruzione e propulsione
delle navi. La tecnologia militare occidentale superava di anni luce quella ottomana.
L’artiglieria della flotta cristiana, affidabile
(arrivava dalle fonderie germaniche), era
precisa e aveva notevole capacità di penetrazione. Poteva contare su grosso modo 350
calibri medio grandi e 2.750 piccoli. Ma va
specificato che gli stessi artiglieri erano ben
preparati. Su questo, gli uomini della Lega
disponevano di protezioni contro le armi in
dotazione ai soldati turchi. Inoltre si faceva
affidamento su balestre e archibugi (per il
combattimento a distanza), e spade, alabarde, asce e spiedi per il corpo a corpo. I
turchi avevano 180 pezzi di grosso calibro
e circa 1.200 pezzi di piccolo calibro. In più
archibugi, archi e frecce.
La vittoria della Lega Santa si sarebbe potuta leggere già in questi dati. Ma a battaglia
finita, come si suol dire, è facile essere generali. Del resto, molte battaglie dall’esito certo
sono state stravolte dal “fattore uomo“.
Veniamo alla battaglia. La strategia era
molto semplice: occorreva speronare
l’avversario o rompere i remi dell’imbarcazione nemica. Una volta costretta a una
quasi staticità, questa era alla mercè degli
archibugi e delle balestre. Poi si passava
alla fase dell’arrembaggio. La nave veniva
agguantata con rampini, si gettavano ponti
mobili che consentivano di salire a bordo
e si passava alla fase finale, la più sanguinosa, il corpo a corpo.
Sulle orme di un nobile casato
La Lega Santa mise avanti, isolate, sei galeazze veneziane, difficili da abbordare, vere
e proprie fortezze, “castelli in mare da non
essere da umana forza vinti”. Ali Pascià non
si lasciò tentare; le superò per mandare i
legni contro la nave di Don Giovanni d’Austria, che comandava la flotta, per ucciderlo
e demoralizzare gli uomini. Il vento decise
diversamente, cambiò direzione e lasciò
senza spinta le navi turche. Di converso,
si gonfiarono le vele della flotta cristiana.
Successe un fatto che fece discutere. Il genovese Giandrea Doria allontanò le sue navi
dal resto della flotta e Ali Pascià credette
che questi volesse abbandonare il campo di
battaglia. Pascià lancio una cannonata contro Doria, che non rispose. Rispose, con una
cannonata, Giovanni d’Austria, accettando
la sfida. Più tardi, nella battaglia, Doria
avrebbe ancora una volta allargato le sue
navi verso il mare aperto. Qualcuno credette
che fosse un tentativo di defilarsi per contenere i danni, altri la credettero una manovra
Nella sala dello Scrutinio di
Palazzo Ducale a Venezia
il grande dipinto della
battaglia di Lepanto di
Andrea Michieli, detto
il Vicentino. Oltre alle
strategie militari e al
coraggio degli uomini,
giocò un ruolo decisivo
lo spirito ideale che
all’epoca fece pensare
immediatamente al
soprannaturale, come ben
si coglie nella dichiarazione
del pur laicissimo senato
veneto: “Non virtus, non
arma, non duces, sed Maria
Rosarii victores nos fecit”
(“non il valore, non le armi,
non i condottieri ma la
Madonna del Rosario ci ha
fatto vincitori”). Ancor oggi
noi si celebra la Madonna
delle Vittorie, poi Nostra
Signora del Rosario. Lo
scontro navale è rievocato
anche nella pala d’altare
della chiesa della Madonna
del Rosario a Piemonte
d’Istria. Il papa raffigurato
a fianco del Salvatore è
Pio V organizzatore di
quella “Lega Santa” che
riuscì a sconfiggere la
flotta ottomana nella
decisiva battaglia nel golfo
di Corinto. Ai piedi del
Salvatore è raffigurata una
tomba con il simbolo dei
Contarini, un’ armatura e
probabilmente un Contarini
del Zaffo (signori di
Piemonte) che partecipò a
quella battaglia
tattica di prim’ordine. Sta di fatto che nel
varco creatosi si infilarono le navi turche,
che attaccarono un gruppo di galee dalmate,
tra le quali la “San Trifone” di Cattaro, al
cui comando c’era il sopracomito Girolamo
Bisanti, rimaste a sostenere lo scontro con le
navi ottomane per impedire loro di aggirare
la flotta cristiana. Un sacrificio eroico per
Bisanti e l’equipaggio, composto di marinai
croati e cattarini, interamente sterminato.
Il comportamento di Doria fu particolarmente indigesto alla Santa Sede, tanto che
Pio V minacciò di morte Gianandrea Doria
se solo avesse messo piede a Roma. “Corsaro
et non soldato”, lo definì il Pontefice. Ci fu
chi difese Doria, che avrebbe anticipato la
manovra spiegandone le finalità.
Insomma, in un dispegare di vele, un roboante parlare di cannoni, sanguinosi corpo a
corpo, la battaglia si consumò.
Così come sono notevoli i numeri delle forze
in campo, lo sono pure quelli del bilancio
dello scontro: i turchi persero 25mila uomini
e 130 galere (30 finirono in fondo al mare,
100 vennero catturate); la flotta cristiana
perse 7.500 uomini e 15 navi.
Oltre i numeri. La battaglia di Lepanto, come
quella di Poitiers, scrisse la storia dell’Europa. Il 5 ottobre 1571 la flotta cristiana
mise un freno all’espansionismo turco. La
caduta definitiva dell’Impero ottomano arriverà nel 1918, ma la china discensiva di
un conquistatore temibile passa certamente
per le acque di Lepanto. La carta geopolitica dell’Europa sarebbe stata ben diversa
se a sventolare vittorioso non fosse stato lo
stendardo di Lepanto con l’immagine del
Redentore, bensì quello ottomano, sul quale
il nome di Allah era stato ripetuto a caratteri
d’oro per 2.900 volte.
L’annuncio della vittoria nelle acque di
Lepanto giunse a Roma 23 giorni dopo la
fine della battaglia, ma la leggenda vuole
che a mezzogiorno di domenica, mentre lo
scontro faceva ribollire le acque della baia
di Lepanto, Pio V ebbe in visione l’annuncio della vittoria. “Sono le 12, suonate le
campane, abbiamo vinto a Lepanto per intercessione della Vergine”, sembra avesse detto.
Per tradizione, da allora, a mezzogiorno suonano le campane di tutte le chiese. Non solo:
Pio V decise di intitolare il 7 ottobre a Nostra
Signora della Vittoria, dopo diventata Nostra
Signora del Rosario.
Ricordiamo, più che un soldato, un scrittore della battaglia. Miguel de Cervantes.
venne ferito in battaglia e perse l’uso della
mano sinistra. venne ricoverato nel Grande
Ospedale dello Stretto, a Messina, al rientro
della spedizione navale. Durante la degenza
cominciò a scrivere il “Don Chisciotte della
Mancia”.
storia&ricerca
la Voce
del popolo
PERCORSI
V
di Carla Rotta
martedì, 11 ottobre 2016
7
Il Museo archeologico dell’Istria fa conoscere
la città dell’arena ai visitatori, ma anche ai
residenti, che spesso ignorano le bellezze
di casa. emergono monumenti storici
e il ricco patrimonio polese,
di cui restano forse poche
tracce «fisiche» ma tante
testimonianze scritte,
fotografie, grafiche,
disegni...
|| Lo stemma del casato Scampicchio
edere l’invisibile. Si può. Non si
tratta di stravolgere leggi fisiche
o quali che siano. Questione di
iniziativa, inventiva, fantasia... fate un
po’ voi. Concretamente, nel nostro caso
si tratta di fare vedere la Pola che è
stata e che non c’è. O che è sotto i nostri
piedi. La città invisibile. Cancellata e
modificata dal tempo, dalla storia, da
interventi dell’uomo (che ha buttato già
qualcosa per costruire altro).
Il Museo archeologico dell’Istria
ha voluto soffiare via la polvere che si è
posata sul passato per fare conoscere la
città ai visitatori, ma anche ai residenti,
che spesso ignorano le bellezze di casa.
“Il progetto ‘Pola invisibile’ – dice il
direttore del MAI, Darko Komšo – è
nato per ampliare la conoscenza dei tanti
monumenti storici e del ricco patrimonio
cittadino, oggi appunto invisibile. Siamo
coscienti che il tempo e le specificità
dello sviluppo della città nel corso dei
secoli hanno contribuito a distruggere
o a celare molti dei monumenti dei
quali Pola abbondava. Di queste vestigia
esistono tracce scritte, fotografie,
grafiche, disegni e scritti archiviali, che
via via, ricerca dopo ricerca, vengono
ampliati e completati. Pensando proprio
alla necessità di fare vedere la Pola che
è stata, nel 2014 abbiamo dato vita
alla fase operativa del progetto, con
l’installazione di cartelloni informativi
(in croato, italiano, tedesco e inglese)
con tecnologia QR integrata nei punti in
cui c’è dell’altra storia da leggere e da
vedere”.
“Le tabelle riportano i dati relativi alla
località – spiega ancora Komšo –, e sono
consultabili pure sul sito Internet del
MAI. È, come si suol dire, un work in
progress, perché siamo impegnati in una
continua lettura storico architettonica,
che poi risulta con nuove tabelle
informative. Finora abbiamo riscoperto
6 punti in città, per segnalare la basilica
cimiteriale paleocristiana meridionale
del IV-V secolo, la chiesa di San Giovanni
nell’area del Ninfeo del VI secolo, la
chiesa di San Nicola nell’area del Foro,
la chiesa di S. Stefano, il rione di Santa
Teodora e Casa Scampicchio. Abbiamo
in piano la posa di una tabella a indicare
il confine boschivo di Bosco Siana, ma
in quanto a confini boschivi ne abbiamo
posizionati uno a Levade e a Piemonte”.
VEDERE
L’INVISIBILE
|| Casa Scampicchio (dettaglio della tabella informativa)
La famiglia sicuramente visse a Pola
nel 1580, il che è dimostrato da
documenti d’archivio: Giovanni Battista
Scampicchio era consigliere della città,
e in occasione della visitazione del
vescovo veronese Agostino Valier venne
interrogato sulla vita del presule Matteo
Barbabianca.
Gli Scampicchio rimasero a Pola fino
al 1678, ricoprendo incarichi pubblici.
A Pola la famiglia possedeva anche
botteghe, una vigna nei pressi di
Sulle orme di un nobile casato
Scopriamo la città invisibile dal suo
passato più recente. Casa Scampicchio.
Sorgeva in via Kandler, e nello spazio
desolatamente vuoto – l’edificio venne
raso al suolo durante i bombardamenti
del 1944 – hanno trovato posto stand,
bancarelle e mercanzia varia estiva. Non
è un bel vedere.
Ma chi erano gli Scampicchio? Un nobile
casato, originario dell’Italia, che si stabilì
ad Albona nel XV sec. Molti appartenenti
della famiglia in Istria ricoprirono
funzioni pubbliche, politiche, militari ed
ecclesiastiche. Gli Scampicchio avevano
possedimenti nell’Albonese, a Montona,
Fianona, Barbana, Pola, Medolino e
nella valle dell’Arsa. Il casato è attestato
anche a Sanvincenti, Klana, Cherso,
Capodistria, Venezia e Muggia.
|| Oggi: cianfrusaglie
Port’Aurea, l’isolotto Scoglio Olivi,
campi, vigneti e pascoli nei dintorni
(Valdibecco, Vintian, Vincural, Medolino
e Promontore), nonché le isolette Ceja
(Cielo) e Trombolo nel golfo di Medolino.
A Pola, nel XVI secolo la famiglia
possedeva, accanto alla casa nell’attuale
via Kandler (dirimpetto alla casa
gotica dei Demartini), pure un palazzo
in piazza Foro. Molto... importanti
e imponenti le proprietà del casato
pure in altri luoghi della penisola.
Vi figurano, infatti, alcuni stabili ad
Albona, Montona, ville Tonci/Turanj e
S. Giovanni della Cisterna.
Il palazzo di via Kandler era a un piano,
ma poggiava su fondamenta antiche.
Venne rinnovato nel Rinascimento,
alla fine del XV sec. o nella prima metà
del ‘500. Come detto, l’elegante casa
Scampicchio venne rasa al suolo dalle
bombe nel 1944. La sua bellezza è
documentata nelle cartoline di inizio
‘900 e dalle fotografie conservate in
alcuni archivi. Il MAI ne custodisce
alcuni frammenti architettonici: le
estremità di un arco di monofora, stipiti,
una mensola di finestra, un capitello,
parti della lunetta del portale e lo
stemma del casato.
8
martedì, 11 ottobre 2016
PUBBLICAZIONI
storia&ricerca
la Voce
del popolo
di Gianfranco Miksa
Graphic novel onirica e surrealista
sulla Fiume del primo dopoguerra
SUPERGLI
OSCURISENTIERI
DANNUNZIANI
Q
uando fumetto, arte e la storia
della Fiume del primo dopoguerra
si fondono in un tutt’uno non può
che nascere una grande opera artistica.
O, perlomeno, è così che potremmo
riassumere il romanzo grafico Per gli
oscuri sentieri (in originale “Par les
chemins noirs”) del fumettista francese
David Beauchard, pubblicato in Italia
nel 2013 da Bao Publishing, in cui è
raccontata l’epopea dell’Impresa di Fiume
e dei moti dannunziani sullo scenario dei
fatti che hanno caratterizzato il capoluogo
quarnerino all’indomani della fine della
Grande Guerra. L’autore di questa singolare
opera, proprio grazie al genere può far
arrivare la complessa ma anche affascinante
vicenda fiumana al largo pubblico. Nato a
Nîmes nel 1959, David Beauchard adotta
nel ’90 il diminutivo di David B. e fonda
insieme ad altri autori “L’Association”, una
tra le più importanti case editrici europee
del fumetto indipendente. David B. è
riconosciuto a livello internazionale come
uno dei massimi esponenti del fumetto
contemporaneo, con alle spalle diverse
graphic novel premiate in vari festival.
Veniamo finalmente alla graphic novel.
Spiccano le meravigliose tavole e un
lettering in stile Futurista, ma ciò che
ci sta maggiormente a cuore è che “Per
gli oscuri sentieri” abbonda di rimandi,
citazioni culturali, particolari narrativi
(alcuni, in verità, potrebbero risultare
ardui da decifrare anche a chi conosce
abbastanza bene la complessa epopea della
Fiume dannunziana) e riferimenti che
inevitabilmente portano a innumerevoli
spunti di riflessione.
Due innamorati nei vortici della «rivoluzione»
La vicenda si srotola a Fiume nel 1920 e
specificamente nel periodo in cui Gabriele
D’Annunzio, assistito dai suoi Arditi, cerca
di realizzare la sua rivoluzione, il suo
“capolavoro”. Il dadaismo, la presa di
Fiume, i moti dannunziani, l’inizio
del primo dopoguerra sono
raccontati attraverso gli
occhi di due innamorati
trascinati nel vortice dei
tumulti della grande Storia.
I protagonisti sono Lauriano,
ex soldato e avventuriero al
seguito di D’Annunzio in quel
fatidico settembre 1919 e la bella
Mina, affascinante cantante. La loro
tormentata storia d’amore si mischia
la Voce
del popolo
Anno 12 / n. 97 / martedì, 11 ottobre 2016
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
[email protected]
STORIA
Edizione
Caporedattore responsabile f.f.
Roberto Palisca
Redattore esecutivo
Ilaria Rocchi
Impaginazione
Borna Giljević
Collaboratori
Rino Cigui, Kristjan Knez, Gianfranco Miksa e Carla Rotta
e s’incrocia con le vicende di D’Annunzio,
con quelle dell’artista e politico Guido Keller
e con altre figure realmente esistite. Non
mancano elementi noir, qui rappresentati
da un gruppo di malavitosi, spionaggio e
convenzioni romance.
Nel trasmettere questa storia ai lettori,
David B. dimostra di essere ben preparato,
tanto da inserire notizie e informazioni
che contribuiscono a chiarire quello che
è lo sfondo dell’azione. A tutto ciò va poi
aggiunta una parte grafica strepitosa.
David B. fa suoi i movimenti artistici di
quel periodo e li utilizza pagina per pagina
a seconda del momento per sottolineare
aspetti del carattere dei personaggi o
passaggi narrativi. Emerge un aspetto
grafico dettato dal surrealismo, con tutte
le suggestioni visionarie e oniriche che
comporta, il dadaismo e in generale le
avanguardie storiche visive dell’epoca che
giocano un ruolo rilevante nella story-line.
Il Poeta Soldato ridotto a patetica macchietta
Il D’Annunzio tratteggiato dall’autore
francese si presenta come una patetica
macchietta. Ogni tratto peculiare della
sua personalità storica è ingigantito e
deformato, tanto da essere una sorta di
contrasto rispetto al D’Annunzio arrivatoci
dal canone storico. Il Poeta Soldato
viene ritratto come un ometto basso e
grottesco, una caricatura alla stregua
di una qualsiasi vignetta da
giornale borghese dell’epoca.
Il personaggio di Mina
s’illumina invece di una
sensualità calda
degna: ricorda
la donna di
Modigliani, col collo lungo e sottile e gli
occhi dal taglio lungo.
Magnifiche sono le pagine che propongono
le numerose risse fra soldati e scene di lotta,
ammassi di linee spesse e corpi come in
un’orgia cubista (il richiamo al “Guernica”
di Picasso è evidente). Straordinario è
pure il riepilogo degli ultimi anni, con
un 1918, ultimo anno di guerra, che
esplode in mezzo a una pagina confusa
dove sono accatastati corpi di soldati l’uno
sopra l’altro, passando poi gradualmente
nelle pagine successive, con il 1919, a un
riordinamento della pagina, finché con
il 1920 si torna a un equilibrio razionale
dettato da uno stile geometrico. Tuttavia
sono nelle pagine influenzate dal futurismo
che David B. da il meglio di sé. E ciò grazie
alla raffigurazione della velocità tanto
amata dai futuristi, tramite disegni dalla
forte carica cinetica, come il cavallo di
Guido Keller lanciato all’arrembaggio.