XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

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Arcidiocesi Metropolitana di Catanzaro - Squillace
via Arcivescovado, 13
88100 – Catanzaro
tel. 0961.721333 - fax 0961.701044
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sito internet: www.diocesicatanzarosquillace.it
per l’Omelia domenicale a cura dell’Arcivescovo Mons. Vincenzo Bertolone
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario
9 ottobre 2016
Una salvezza universale
Introduzione
Una Parola ricca di spunti di riflessioni, e che conserva tutto il fascino della Sua
sorprendente attualità, guida la meditazione di questa XXVIII domenica del tempo
ordinario. Il suo contenuto, tuttavia, non distoglie la nostra attenzione dal viaggio che
la Liturgia, in queste ultime domeniche di inizio autunno, ha inteso farci
intraprendere: alludo naturalmente al viaggio intorno e sulla fede. Oggi la Parola ci
presenta un altro aspetto della realtà della fede, un sentire e un agire che per noi
cristiani dovrebbero essere abito naturale da indossare nella ferialità. Così, attraverso
la lezione di vita di due “stranieri”, guariti e salvati dal Padre e dal Figlio, impariamo
che è proprio dell’uomo limitare l’azione e l’amore di Dio, ma è proprio di Dio
sconvolgere i piani dell’uomo. Allora accade che il dono della guarigione e della
salvezza venga elargito da Dio a prescindere dalle generalità dell’individuo; e che la
gratitudine espressa per essere stati beneficiati di quei doni provenga da direzioni
inaspettate. Due sono le considerazioni da farsi e da approfondire nel corso della
meditazione odierna, prima considerazione: se noi pensiamo di imbrigliare l’azione
salvifica di Dio a nostro esclusivo vantaggio, dividendo gli uomini in meritevoli e
immeritevoli della salvezza, sbagliamo. Infatti, agli occhi di Dio non esiste cristiano,
musulmano, ebreo, né europeo, asiatico, americano o africano, davanti agli occhi di
Dio esiste l’uomo che cerca la guarigione, invoca la libertà, ha sete di verità. Seconda
considerazione: i doni elargiti da Dio non sono regali, che si ricevono e si
conservano, ma sono piccoli semi che portano con sé il dovere di essere seminati, il
lavoro di essere coltivati e l’impegno di farli fruttificare per essere condivisi con altri.
Data la natura di questi doni, è naturale non darli per scontati né credere che ci siano
dovuti, ma, soprattutto, l’espressione di gratitudine per averli ricevuti, non va confusa
con la semplice parola “grazie”, piuttosto va vissuta ogni giorno nella continua
adesione ad un progetto che cambia la vita e il mondo.
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I confini dell’amore
I riflettori delle cronache degli ultimi anni si sono spesso accesi su un dramma e una
vergogna. Da un lato c'è il dramma degli “stranieri” che vivono alle periferie delle
nostre città in baracche fatiscenti o sopravvivono, fra umiliazioni e violenze, ai
margini delle strade. Individui che hanno perso la loro dignità di uomini, sbaraccati
dal loro naturale diritto di avere un posto in cui abitare e crescere i propri figli.
Dall’altro è l’esasperarsi di una vergogna quella della xenofobia e della crudeltà
razzista, recrudescenze dello spettro di ideologie di un passato non troppo lontano
che, esaltando la superiorità di una razza, di un credo, di una cultura su un’altra,
alimentano odi, sospetti e chiusure gratuite contro tutto ciò che è “altro”, che è
“straniero”. E se pensiamo che da tutto questo noi cristiani siamo immuni, sbagliamo.
La politica portata avanti da alcuni stati europei, e in prevalenza cristiani, compreso il
nostro, nonché l’atteggiamento e la chiusura di buona parte della popolazione, ci
parla di una realtà che non sa e non vuole accogliere lo “straniero” che ci abita
accanto. Eppure la liturgia di oggi ci presenta nell’Antico Testamento un Dio vicino
alla sofferenza di uno straniero e pagano, il siriano Naaman; e Gesù, dalle pagine del
vangelo di Luca, ci rivela i tratti di un volto paterno amorevole e misericordioso che,
non limitando i confini del suo amore, sana e salva uno straniero ed eretico, il
samaritano lebbroso. Due personaggi forestieri, stranieri, oggi sono destinatari
dell’attenzione e della cura del Padre. Straordinaria lezione di umanità ci viene
dall’amore divino di Dio. Infatti, ci rivela che il vero amore non tiene conto delle
differenze, ma dell’identità naturale nell’appartenere al genere umano, per questo la
salvezza di Dio è per tutti gli uomini e passa, dunque, anche attraverso gli stranieri.
La sorpresa, o magari lo smarrimento, suscitati da questa lezione ha la forza, se
metabolizzati, di risospingerci non verso il vuoto, non verso la perdita della propria
identità religiosa e culturale, ma piuttosto verso un contatto nuovo con i principi su
cui la fede deve costantemente misurarsi. Questi principi sono quelli di un Dio che
non chiede all’uomo le sue generalità per operare la liberazione e la salvezza, ma
libera e salva indipendentemente dall’appartenenza all’uno o all’altro gruppo. Ogni
uomo è soggetto della Sua salvezza, è oggetto del Suo amore, è sempre l’altro partner
del Suo patto di Alleanza. Del resto non può essere diversamente, dal momento che
l’azione di Dio è vasta come l’universo e il suo Spirito soffia in tutte le direzioni.
Recuperare il senso di un simile “sconfinamento” dell’amore di Dio ci restituisce
all’amicizia del genere umano, secondo la bella frase di un Padre della Chiesa: “I
cristiani sono gli amici del genere umano”. Ma se proprio non si riesce a fare a meno
delle distinzioni, allora, si impari a distinguere – finché c’è possibile – fra chi
promuove la salvezza, ha passione per l’uomo, si sacrifica per il fratello e coloro,
invece, che non si sacrificano e che non si preoccupano che di sé. La vera distinzione
in fondo è questa. L’aderenza reale al patto di Dio si misura sull’amore per il
prossimo, sull’amore che sa spendersi per l’uomo. Il riflettore da puntare, allora, sulla
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realtà di oggi non è quello della cronaca contro lo straniero, ma della bella notizia del
Vangelo che nella ricchezza della presenza di un eretico e straniero, il samaritano
lebbroso, sanato e salvato da Gesù, manifesta il senso ultimo del regno di Dio,
progetto di salvezza per tutta l’umanità. In virtù di questa rivelazione, allora, in noi
non deve crescere il sospetto, la paura, il malanimo nei confronti di chi è straniero,
ma la gratitudine per la ricchezza insita proprio nel loro essere stranieri in rapporto
alla cultura, alla religione e allo stile di vita; e né deve più importarci di fare la conta
dei nostri e dei loro perché i nostri sono gli uomini.
Straordinaria normalità
La ricchezza della parola di oggi però ci porta ad affrontare un secondo tema,
anticipato per altro nelle ultime righe della riflessione precedente, parlo della
“gratitudine”. Quella mostrata dal generale siriano Naaman al profeta Eliseo (I
lettura) e del samaritano lebbroso a Gesù (Lc 17,11-19). Ancora una volta la Parola
insegna passando attraverso due stranieri. Infatti, soprattutto, nella pagina del
Vangelo lucano è il lebbroso samaritano, il solo dei dieci sanati in quel giorno, a
tornare da Gesù per manifestargli la sua gratitudine. L’atteggiamento del lebbroso
nasce dalla consapevolezza che Gesù non ha solo operato su di lui una guarigione, ha
fatto molto di più di questo: l’ha reso libero, restituendogli la dignità di uomo e di
figlio di Dio. Reintegrandolo nella comunione con il genere umano, ma soprattutto
con Dio. Incorriamo in errore se pensiamo che a rendere grazie siano solo i meno
fortunati in attesa di guarigione e salvezza. In realtà, anche noi dovremmo ringraziare
Dio per la nostra normalità, perché, a pensarci bene, proprio essa che diamo così per
scontata, ogni mattina aprendo gli occhi si rivela in tutta la sua straordinarietà. Infatti,
nulla di tutto ciò che abbiamo in salute e in averi c’è dovuto, ma c’è donato: diamo
tutto per scontato, è normale esistere, vivere, respirare, amare; normale è dovuto
nutrirsi, lavorare, abitare, lavarsi…Eppure se ci guardiamo attorno, ci rendiamo conto
che tanto normale non è perché per il vicino accanto, forse, non è poi tanto scontato
respirare, amare, vivere; non è tanto dovuto nutrirsi, lavorare, abitare. Allora quello
che per noi è nell’ordine della normalità, per altri può essere nell’ordine della
straordinarietà. Perciò solo in nome di quella straordinarietà dovremmo aprirci ogni
giorno alla gratitudine. Dovremmo riconsiderare la nostra normalità una straordinaria
normalità, per la quale lodare Dio a gran voce, avere sempre il sorriso sulle labbra,
tessere preghiere di lode, esprimere gratitudine in ogni gesto, giacché è la
straordinaria normalità di ogni giorno che ci attesta di essere salvati, e amati come
figli di Dio. Così ogni vita è un miracolo, una storia incompiuta, una storia che è solo
all’inizio, che domanda altro: domanda di trovare “una vita piena” nella comunione
con il Donatore e non solo con i suoi doni. Gratitudine, dunque, è manifestazione del
nostro desiderio di entrare in comunione con se stessi, con gli altri, con Dio.
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Conclusione
“Ricorda: “Guardati bene e sta’ bene attento a non dimenticare le cose che i tuoi
occhi hanno visto e che non si dipartano dal tuo cuore per tutti i giorni della tua vita,
anzi le farai conoscere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli” (Dt 4,9). Gli ebrei non
hanno conservato gli antichi monumenti: essi hanno conservato gli antichi momenti.
La luce che si è accesa nella loro storia non si è mai spenta. Con rigorosa ritualità il
passato continua a sopravvivere nei loro pensieri, nei loro cuori, nei loro riti. Il
ricordo è atto sacro: noi santifichiamo il presente rammentando il passato”. Così
scrive il teologo ebreo A.J. Heschel. E se il ricordo del passato degli antichi momenti
è sacro ed è spinta per gli ebrei a santificare il presente, quanto più per noi fa il
vivere, non nello spirito del ricordo di un momento, ma in presenza di una verità
incarnata, di una parola che èpresenza viva: il Cristo risorto. Il Solo che possa nelle
tante schiavitù di oggi spezzare le catene; il Solo che possa nelle tenebre del presente
far risplendere la luce della speranza. L’Unico che è libertà e pienezza di vita.
Serena domenica
 Vincenzo Bertolone
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