Settembre 2016 - C.A.I Valdarno Superiore

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QMDF n° 3 – Settembre 2016—CLUB ALPINO ITALIANO – Sez. VALDARNO SUPERIORE Montevarchi (Ar)- Pag. 1
Settembre 2016 - Anno 14° - Num. 3- Notiziario Trimestrale della Sezione Valdarno Superiore del Club Alpino Italiano—Autorizz. del Trib. di Arezzo n. 12/2001 - Spedizione in A.P.
Tariffe stampe Periodiche Articolo10 DL n.159/2007 conv. L. n. 222/2007 - DC/DCI/125/ SP del 06/02/2002 AREZZO
CLUB ALPINO ITALIANO Sezione Valdarno Superiore—Via Cennano, 105 – 52025 MONTEVARCHI (AR)
Tel./Fax 055900682 – Mobile 3425316802 - [email protected] – ww.caivaldarnosuperiore.it
IN QUESTO NUMERO:
Comete e Rosetta
di Elio Barbuti
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Flora del Monte Cetona, Pietraporciana e dintorni
di Mario Morellini
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Umidità Relativa
Di Vannetto Vannini 
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Settembre
Di Pina Daniele Di Costanzo  
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I Fiori delle vette e dei ghiacciai
Di Vannetto Vannini 
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Il vino: Antica magia, storie di paesaggi e storie di uomini
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Anello di Modine: Il Cocollo dall’altra parte
di Vannetto Vannini 
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Le ricette di Daniela
Di Daniela Venturi
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Leggende e storie Ladine: La Bisca blancia
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Amata Phegea
Di Vincenzo Monda
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(Ri) Conoscere i Funghi
Di Vincenzo Monda
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...Quel Mazzolin di Fiori
I nostri lettori che consultano la rivista in formato eletttronico su computer, tablet o smartphone, hanno a disposizione oltre ai vari link dell’indice altri collegamenti ipertestuali. Alcune immagini all’interno degli articoli , due in questo
numero, aggiungono un commento musicale agli interessanti articoli .
….A voi il piacere di trovarli!
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Comete e Rosetta
Nei libri dedicati all’astronomia troviamo questa definizione di cometa: piccolo corpo celeste composto prevalentemente di ghiaccio e polvere “neve sporca”. La cometa di
Halley, si ripresenta ogni 76 anni l’ultima volta fu nel 1986,
si stima che pesi circa 200 miliardi di tonnellate e ad ogni
passaggio vicino al sole perda qualcosa come 20 miliardi di
tonnellate di materiale. Per la tradizione il 10 agosto è la
notte di San Lorenzo, la notte delle stelle cadenti, le lacrime
di San Lorenzo ma le stelle cadenti in realtà sono uno sciame meteorico, in particolare quello delle Perseidi, causate
dai rimasugli del passaggio della cometa Swift-Tuttle. La
sonda Rosetta lanciata nel 2004 per studiare la cometa
67P/Churyumov-Gerasimenko (dimensioni 3.5km x 4km), il
6 agosto 2014 Rosetta arriva a 100 km dalla cometa 67P/
Churyumov–Gerasimenko e si prepara per la scelta del luogo di atterraggio del lander, prevista per novembre; il 12
novembre 2014 il lander Philae è stato lanciato verso il nucleo della cometa. La conferma dell'atterraggio arriva alla
Terra alle 17:03 italiane, dopo circa 7 ore di volo tra la sonda e la cometa. A fine maggio 2016 uno strumento della
sonda Rosetta (ROSINA) ha rilevato che nelle polveri della cometa era presente un aminoacido: la glicina l’aminoacido più semplice. Gli aminoacidi sono i mattoni e i componenti delle proteine. Il lander Philae toccando terra sulla
cometa ha sollevato un polverone che permesso ad uno strumento del lander di analizzarne la composizione chimica: 15 molecole organiche, (ammine, amminici composti a base di azoto) molecole basilari che si sono ritrovate nelle miscele prebiotiche degli esperimenti del tipo di Miller “brodo primordiale”. Quella della “Panspermia” (dal greco
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“pan" - tutto e “sperma” - seme) è una teoria che suggerisce che i semi della vita (in senso ovviamente figurato)
siano sparsi per l'Universo, e che la vita sulla Terra sia iniziata con l'arrivo di detti semi e il loro sviluppo. È implicito
quindi che ciò possa accadere anche su molti altri pianeti. Per estensione, come semi si potrebbero considerare
anche semplici molecole organiche. Il biochimico e biologo russo Aleksandr Ivanovič Oparin 1924 nel suo libro
“L’origine della vita” scrive: “…La vita non è caratterizzata da alcuna proprietà speciale, ma da una ben definita
combinazione specifica di proprietà e composti chimici. Nel corso di un intervallo di tempo estremamente lungo durante il quale il nostro pianeta, la Terra, è esistito, hanno certamente potuto prodursi le
condizioni appropriate perché potesse verificarsi la congiunzione di proprietà che erano
prima disgiunte, per formare quella combinazione che è caratteristica degli organismi
viventi. Scoprire queste condizioni vorrebbe dire spiegare l’origine della vita.” Il 30
settembre 2016 la sonda Rosetta scenderà sulla superficie della cometa e si avvierà
alla fine della sua missione.
Di ELIO BARBUTI
...Quel Mazzolin di Fiori
Il nostro Web Magazine è aperto al contributo degli amici, dei soci, dei simpatizzanti e degli amanti della montagna
e delle escursioni. Se intendi partecipare condividendo con noi un tuo articolo, una foto, un racconto o comunque
un’emozione, saremo lieti di pubblicare il Tuo lavoro. Contattaci ad uno degli indirizzi seguenti:
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FLORA DEL MONTE CETONA,
PIETRAPORCIANA E DINTORNI
Nel numero passato di “Quel Mazzolin di Fiori” il nostro socio e naturalista Mario Morellini ha trattato gli aspetti
geologici del Monte Cetona, ora invece, per rendere più ampia la nostra conoscenza ecco un suo articolo sulla flora
di questa montagna della provincia di Siena, vicinissima a noi e visibile da qualsiasi altura dalla provinciale dei Setti
Ponti e oltre.
Le escursioni sul Monte Cetona permettono osservazioni floristiche di notevole interessa. La formazione boschiva di ceduo accompagna il visitatore fino alla vetta
sulle varie tipologie di suolo. La prima fascia arboricola
è composta da comuni roverelle, aceri, robinie, castagni. L’osservazione più interessante, specialmente nei
mesi invernali, salendo dal versante di Sarteano, è la
considerevole presenza sugli alberi di alto fusto del Vischio giallo o vischio quercino (Loranthus europaeus)
una semiparassita in via di rarefazione nel resto della Toscana, pertanto protetta dalla legge regionale N. 56 dell’anno
2000. Sulla parte più alta del monte dove prevale la formazione arboricola composta da faggi, carpini, aceri, la flora
più interessante è quella del sottobosco, osservabile soprattutto nei mesi primaverili. Cospicue formazioni di Bucaneve (Galanthus nivalis), di Piè di gallo (Eranthis hyemalis),
della Colombina cava o Piede d’allodola (Corydalis cava) e
Scilla silvestre (Scilla bifolia), di Elleboro del Bocconi
(Helleborus bocconei), di Elleboro puzzolente (Helleborus
foetidus), Polmonaria (Pulmonaria saccharata), Zafferano
alpino (Crocus albiflorus), Sigillo di Salomone (Polygonatum
multiflorum), Sigillo di Salomone (Polygonatum multiflorum), tappezzano in vario modo la lettiera. Nella tarda primavera, al principio dell’estate, la parte alta del monte
offre la possibilità di ammirare la fioritura di specie di grande interesse botanico come alcuni fiori. Il più importante è
la Centaura rupestris che ha come stazione più rilevante in
Toscana proprio il Monte Cetona ed è possibile rivederlo
solo nelle Alpi Apuane. Altrettanto significativa è anche le
presenza del Fiordaliso d’Abruzzo (Centaurea ambigua) endemismo meridionale che trova il limite vegetazionale in
Toscana e il Fiordaliso Triunfetti (Centaurea triunfetti). Da
ricordare che tutti i fiordalisi in Toscana sono protetti e ne è
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vietata la raccolta. Sporadica compare anche la Speronella lacerata (Delfinium fixum) mentre arricchiscono i prati
sassosi l’Erba viperina (Echium italicun), l’Enula montana (Inula montana), la Radichiella lacerata (Crepis lacera) un
endemismo appenninico nuovo per la flora toscana e la Siderite montana (Sideritis montana). Anche le orchidee
vegetano nei prati rocciosi come l’Elleborina rosea (Cephalantera rubra), l’Orchidea maschio (Orchis mascula), l’Orchidea piramidale (Anacamptis piramidalis) è la più alta di tutte le orchidee italiane, proveniente dal versante adriatico è l’Orchidea (Himantoglossus adriaticun). Nei mesi di Aprile – Maggio, più verso la base del monte, nel versante
che guarda Cetona si può trovare anche la caratteristica Orchidea degli impiccati (Himantoglossum adriaticum). Nella radura rocciosa esposta ad est domina il bel colore azzurro del Cardo pallottola o coccodrillo (Echinos ritro), una
specie di cardo molto decorativo che si ripete sul Monte Amiata, l’Hypericum montanum e l’Hypericum perforatum.
Lungo i sentieri i sentieri è possibile ammirare anche qualche raro esemplare di Giglio rosso (Lilium croceum) e di
Giglio martagone o Riccio di Dama (Lilium martagon) anch’essi rigorosamenti protetti dalla legge regionale. Sono
presenti anche due piante di notevole importanza medicinale, la Digitale meridionale (Digitale micranta) un endemismo appenninico, e la Digitale bruna (Digitalis ferrugina). Le piante di questo genere contengono dei principi attivi
ancora oggi non superati nel trattamento delle insufficienze cardiache gravi. Fra gli arbusti che colonizzano le radure
e le garighe fino al sottobosco troviamo il Ginepro (Juniperus comunis), il Biancospino (Crataegus oxycantha), il Sambuco (Sambucus nigra), il Corniolo (Cornus mas), la rosa di macchia, lo Spino nero (Prunum spinosum) dalle asprissime bacche blù scure. Fra gli alberi dominano i faggi nella parte terminale terminale della montagna, poi il carpino
nero, gli aceri, le acacie. Scendendo dal Cetona e passando per Sarteano, si sale fino alla Riserva Naturale di Pietraporciana che ospita una inconsueta faggeta di bassa quota compresa fra i 750 e gli 850 m di altitudine. Sicuramente
questa rara formazione boschiva relitta di origine post-glaciale, con la regressione dei ghiacciai di circa 10.che le garantisce un microclima fresco e umido000 anni fa, è riuscita a sopravvivere in questo biotipo vegetazionale grazie
alla sua esposizione a Nord e riparata a Sud da poggio di Pietraporciana che le garantisce un microclima fresco e
umido. A differenza degli altri faggi di bassa quota che pure compaiono in altri territori della provincia di Siena,
quelli di Pietraporciana formano una vera e propria faggeta con esemplari di dimensioni ragguardevoli per lo più
avviluppati da piante rampicanti come edera e vitalbe. Queste, a loro volta trovano uno sviluppo che permette loro
di raggiungere anche le chiome delle pianti ospitanti. Il tutto assume quasi un aspetto di vegetazione tropicale dove
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tutto è gigantesco. Dove il bosco è più rado compaiono anche il Cerro, il Carpino bianco, l’Acero opalo, l’Acero montano, il Carpino nero, il Sambuco, il Ciavardello, il Corniolo ed il Nocciolo. Nel sottobosco, il microclima particolare
permette lo sviluppo di una fra le più belle stazioni di Bucaneve. In primavera compare anche la Primula (Primula
acaulis), l’Anemone bianca (Anemone nemorosa) e l’Anemone epatica o Erba trinità (Hepatica nobilis), il Sigillo di
Salomone (Polygonatum multiflorum), la Dentaria a cinque foglie (Pentaria pentapyllos), la bianca Asperula delle
faggete (Asperula odorata). Ma l’assenza più significativa è la Belladonna (Atropa belladonna), pianta medicinale
della famiglia delle Solanacee, velenosissima e molto accattivante per le sue lucide bacche blu scure a maturazione.
L’Atropina estratta da questa pianta è utilizzata in oculistica per fare dilatare le pupille (azione midriatica) ed
effettuare visite esplorative. In primavera e in autunno si alternano anche i ciclamini: il Ciclamino primaverile
(Cyclamen repandum) in primavera e il Panporcino (Cyclamen hederifolium) in autunno. La più rara delle essenze
vegetali presenti nella faggeta è certamente la Berretta del prete maggiore o fusaggine maggiore (Euonymus latifolius), specie montano-mediterranea che in provincia di Siena si rinviene solo in una seconda stazione: l’abetina di
Vivo d’Orcia. Si distingue dalla Fusaggine comune per i fiori e i frutti. Prima di lasciare la faggeta anche una orchidea
merita di essere segnalata perché ha come habitat l’ombra dei faggi: l’Orchidea nido d’uccello (Neottia nidus avis)
dal colore sbiadito e ben mimetizzata, mentre ai margini boschivi compare l’Elleborina bianca (Cephalanthera longifolia). Sul pianoro del poggio più alto di Pietraporciana in primavera c’è una vera e propria esplosione di orchidee
che si susseguono nelle varie specie con l’avanzare della buona stagione. Le prime a comparire sono l’Orchidea
sambucina (Dactylorhiza sambucina) nelle sue forme bianca e rossa, il Fior ragno (Ophrys bertolonii) e l’Orchidea
maschio (Orchis mascula). La più preziosa delle orchidee invece la si può incontrare scendendo dal poggio verso il
fontanile. È noto che le orchidee, per belle che siano, sono prive di profumo tranne tre specie che fanno parte della
flora alpina. Una di questa specie, per l’appunto, è presente proprio ai margini della Riserva ed è Gimnadedia delle
zanzare o Orchidea odorosa (Gymnademia conopsea) dal delicatissimo profumo garofanato. Lungo i sentieri sono
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presenti due Ellebori: l’Helleborus foeditus, dall’odore acre e dai fiori verdi orlati di rosso, e l’Helleborus bocconei,
endemismo centro meridionale che ha in Toscana il suo limite vegetazionale. Sporadici lungo i sentieri ricompaiono
il Giglio rosso e il Giglio martagone. Anche le strade principali che portano verso le colline, le provinciali per interderci, hanno gli argini ricchi di flora spontanea di notevole interesse. Ad esempio, i margini stradali di roccia calcarea organogena che da Sarteano portano a Pietraporciana e Castiglioncello del Trinoro ospitano una varietà di piante aromatiche il cui profumo si diffonde nell’aria delle giornate calde della tarda primavera ed estate. Fanno mostra
di se i fiori a mazzetti dell’endemica Santolina etrusca (Santolina etrusca), dell’Elicrisio (Helichysum italicum), della
Nepitella (Calamintha nepeta), del Timo serpillo (Thymus serpillus), dell’Erba querciolina (Teucrium chamedris). Chi
dovesse andare per piante rare non può trascurare di esplorare la campagna che da Cetona si estende verso Palazzone. È questo l’unico luogo dove si può incontrare qualche esempio di Stramonio di Tatula (Datura tatula), una
Solanacea velenosa ma particolare perché, a differenza degli altri comuni stramoni pure presenti sul territorio, ha il
fusto e i rami vinati ed i fiori bianco candidi.
Mario Morellini
(Nel prossimo numero del giornalino sarà pubblicato l’articolo: Entomologia, notizie sugli insetti del Monte Cetona)
...Quel Mazzolin di Fiori
I numeri arretrati della nostra rivista sono reperibili on line sul
nostro sito.
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UMIDITÀ RELATIVA.
Nei bollettini meteo d’estate compare sempre più
spesso il valore della umidità relativa dell’aria, espresso in valore percentuale. Questo valore, se non spiegato bene, può generare confusione in chi legge il bollettino meteo e noi, nel numero precedente del nostro
giornalino avevamo preso l’impegno che nel “Mazzolin
di fiori” di settembre si sarebbe messo a fuoco questo
valore, per fare chiarezza e renderlo fruibile a tutti coloro che avevano lacune in merito. L’aria contiene sempre vapore acqueo, a volte in quantità maggiore e
quindi “più umida”, altre volte in quantità minore e
quindi “più secca”, L’ umidità contenuta nell’aria non si
vede e non si può annusare in quanto è sempre allo
stato gassoso. Tutti però possiamo fare osservazioni
sulla umidità dell’aria quando la mattina ci alziamo,
specie inizio estate, e troviamo i prati bagnati di rugiada. Lasciando fuori la macchina inoltre la mattina abbiamo i vetri appannati di una sottile patina di umidità che se è consistente, dà origine anche a particelle d’acqua
liquida che colano sul vetro. Umidità dell’erba e umidità sui vetri delle macchine e in altri posti, scompariscono rapidamente con l’avanzare della giornata dove si ha un aumento di temperatura rispetto a quella registrata la notte e
sul far dell’alba. Qui entra in gioco una legge chimico-fisica che è la legge sulla saturazione dei vapori in base alla
temperatura, la quale dice che ad una determinata temperatura, l’aria può sempre contenere solamente una ben
precisa quantità (espressa da noi in grammi) di vapore acqueo e quando questo limite viene raggiunto si ha la
“saturazione”, un ulteriore apporto di vapore acqueo o una diminuzione di temperatura determina la condensazione
del vapore eccedente, fenomeno che si manifesta sotto forma di minutissime goccioline delle quali sono costituite le
nubi, la nebbia, la foschia e la rugiada. Più l’aria è calda, più umidità (vapore acqueo) può contenere. Viceversa più la
temperatura dell’aria è minore, minore è anche la quantità di vapore contenuto. La chimica è una materia precisissima e ci dà per ogni kg di aria il corrispondente valore della umidità a temperature ben precise. Teniamo presente
che al suolo un Kg di aria corrisponde a circa 0,8 mc.
C°
-20
-10
0
10C°
20C°
30C°
40C°
gr/kg
1,1
2,4
4,8
9,4
17,3
30,3
45
Però se noi sappiamo che a una certa temperatura abbiamo in un kg di aria una umidità pari (esempio) a 10 grammi,
questo valore, che viene chiamato Umidità Assoluta, ha per noi un significato poco pratico e poco indicativo. Per
essere indicativo è necessario sapere l’Umidità Relativa perché questo valore si presta bene ad indicare se una
quantità di aria è prossima o no alla saturazione, cioè se questa quantità di aria a quella temperatura, può ancora
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contenere vapore acqueo. L’umidità relativa è il rapporto, in percentuale, tra la quantità di vapore effettivamente
presente in una massa d’aria e la quantità massima di vapore che l’aria può contenere a quella temperatura.
Faccio un esempio:
Un kg di aria (0,8 mc) che a 10 °C contiene 9,4 gr di vapore ha una umidità relativa del 100 %, quindi essendo già
satura non può contenere altro vapore e se la temperatura si abbassa si avrà la condensazione del vapore eccedente a quella temperatura più bassa.
Viceversa facendo riferimento ad una massa d’aria con un contenuto di vapore di 9,8 gr per kg di aria a una temperatura di 20 °C, poiché sappiamo che la quantità di vapore di saturazione a 20°C è 17,3 gr, l’umidità relativa sarà:
Da questi dati si capisce come nel primo caso ci può essere formazioni di nubi imminente e quindi poi anche pericolo di pioggia, nel secondo caso invece l’aria ha ancora margine per assorbire vapore acqueo.
Poiché più l’aria è calda e più vapore acqueo viene assorbito, la stessa percentuale di umidità relativa di una temperatura estiva paragonata con la stessa percentuale di umidità relativa specifica di una temperatura bassa invernale,
danno un valore assoluto della quantità di vapore molto diverso, alto in quella estiva e basso in quella invernale.
Vannetto Vannini
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SETTEMBRE
A settembre l’arenile si spopolava ed il gestore abusivo dell’abusivo stabilimento balneare riprendeva a tempo pieno la sua attività di venditore di sigarette di contrabbando. La spiaggia ora tornava ad essere nostra e dei pescatori
che placidi riparavano le loro reti. I volti di terracotta li facevano simili a personaggi di un presepe senza tempo.
Capri, col suo bellissimo profilo di donna, affiorava come una pupilla dilatata dall’iride azzurro del mare, una dea
dalla sensualità immota che il tempo non scalfisce e non consuma alla quale i pescatori, alzando di quando in quando lo sguardo dal loro lavoro, lanciavano occhiate distratte. Non coglievano, nella luce del tramonto che ne sfumava i contorni, la soffusa tristezza di chi aspetta qualcuno che non verrà. Non ne immaginavano la speranza avvilita
dall’attesa che tuttavia si sarebbe riaccesa ad ogni nuovo giorno, né l’amarezza dell’abbandono che l’avrebbe devastata ogni sera. Non sapevano che come Tantalo, come Sisifo, quella dea dimenticata in mezzo al mare scontava
forse un eterno castigo. Sordi a tanto dolore continuavano a riparare le loro reti con la maestria sapiente di chi da
sempre, come Posidonia, affonda le sue radici nel mare per trarne sostentamento e vita. Quel mare che, come noi,
essi amavano più di ogni altra cosa e che, come noi, non avrebbero lasciato per essere in nessun altro posto che
non fosse quella spiaggia dove settembre ti scivolava addosso un’estate senza soluzione di continuità perché aveva
corpo di salsedine, respiro salmastro e voce di risacca tutto l’anno. Con la scuola che iniziava soltanto il primo di
ottobre, settembre era la bassa marea che allontanava lentamente l’estate da quella spiaggia, come il mare dall’arenile, dilatandola nei cerchi concentrici di un tempo che, come in un ritratto di Dorian Grey, sembrava lasciare la
sua impronta solo sui teli da mare più lisi da un’estate all’altra, risparmiando i nostri giovani corpi abbronzati. Sarà
che il tempo rende presbiti facendoci vedere meglio le cose lontane che ho un ricordo così nitido di quella spiaggia.
E così caro di quei giorni di settembre. Ma settembre era caro anche agli antichi romani. Era il settimo mese dell’an-
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no (da cui il nome) essendo che fino al 153 a.C. l’anno cominciava a marzo. A settembre si svolgevano i Ludi Romani
o Ludi Magni in onore di Giove, la suprema divinità dell’Olimpo. La festa durava dal 4 al 19 con riti, preghiere, sacrifici e giochi pubblici gratuiti per tutti e in generale servivano a propiziarsi gli dei affinché proteggessero lo Stato.
Tutte le festività romane furono abolite con l’editto di Teodosio I nel 380 quando il cristianesimo divenne religione
di Stato. Vennero demoliti allora tutti i templi e messi a morte chi praticava culti pagani. Ma non tutto è andato perso e molte di queste feste si sono semplicemente trasformate, un esempio per tutti il 25 dicembre che prima di celebrare la nascita di Cristo, che fino al quarto secolo veniva festeggiata il 6 gennaio, era, nel calendario Giuliano, la
nascita del sole. E anche il mito del latte ritorna. Ercole, uno dei tanti figli illegittimi di Zeus, era minacciato dall’odio
di Era la quale mal digeriva le scappatelle di suo marito. Con uno stratagemma il piccolo fu attaccato al seno della
dea dormiente che svegliatasi lo respinse e nella foga un fiotto del suo latte si sparse nel cielo formando la Via
Lattea. Ma al piccolo Ercole anche una sola goccia era bastata per divenire immortale e salvarsi dalla sua collera. E
se il cielo conserva la scia diafana del latte di Era, a Montevarchi quello della Madonna è conservato in una teca e
celebrato con una festa che si svolgeva la seconda domenica dopo Pasqua. Nel 1709, restaurata ed ingrandita, la
chiesa della Collegiata accolse la preziosa reliquia con una solenne celebrazione che fu spostata alla prima domenica di settembre. Tuttavia l’usanza di sparare a salve durante i tre giorni della festa divenne presto un serio problema per la quiete pubblica, tanto che nel 1720 fu definitivamente proibita questa rumorosa manifestazione di giubilo. Ultima definitiva modifica alla festa fu apportata nel 1785 quando, con decreto granducale dei Lorena, furono
sciolte tutte le compagnie religiose tra cui anche la Confraternita del Latte che da secoli organizzava e finanziava
l’evento che da allora in poi divenne la festa del Perdono, perdono e remissione dai peccati concesso a tutti coloro
che avrebbero ascoltato messa e si fossero comunicati. Un settembre quindi caro anche ai montevarchini e ai valdarnesi tutti che con un pullulare di feste salutano l’estate che si dilegua silenziosa nelle profondità marine, col suo
corpo di salsedine, il suo respiro salmastro, la sua voce di risacca.
Pina Daniele Di Costanzo
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I FIORI DELLE VETTE E DEI GHIACCIAI
Il ghiacciaio è un ambiente particolare e quindi particolare deve essere la flora che vi nasce, ma soprattutto la vita
botanica prende forma nella morena centrale e in quelle laterale non costantemente ricoperte di ghiaccio o di neve, queste pur presentando condizioni ambientali molto severe, risultano maggiormente accessibili anche a diverse
specie vegetali. Sintetizzando cosa è un ghiacciaio occorre parlare del “limite delle nevi” che è fortemente legato
alla quantità di precipitazioni nevose durante l’anno, all’esposizione al sole e al vento. Fino a circa venti anni fa il
valore del limite delle nevi nelle Alpi si aggirava in media sui 3000 m di altezza, più esattamente 3200 m. sul Monte
Bianco, 3000m. nelle Alpi Retiche, 2800 sulle Alpi Bergamasche e 2500 sulle Alpi Giulie. La progressiva diminuzione
della quota da Occidente ad Oriente (dal Bianco alle Giulie) è dovuto alla maggiore quantità di precipitazioni nevose
dovute alla vicinanza della pianura e del Adriatico che fornisce materia prima (umidità) per la neve. Questi valori
attualmente sono di qualche decennio fa e ora saranno cambiati anche se di poco, con il progressivo ritiro dei
ghiacciai. Sopra il limite delle nevi persistenti, la neve subisce a causa della compressione, fusione e ricongelamento
un processo di trasformazione in quanto da neve soffice diventa compatta, poi vitrea e poi ghiaccio. Da tenere conto che 1 m3 di neve fresca pesa circa 80-100 kg e successivamente per le varie fasi di stratificazione e consolidamento ecc… il peso passa a 300 Kg/m3, poi a 600 Kg/m3 e infine a 900 Kg/m3 (da tenere presente che 1 m3 di acqua pesa
1000 Kg). In effetti si pensa che da 1 m di spessore di neve fresca possa derivare 10 cm di ghiaccio vivo in un processo che nelle Alpi dura da 3 a 5 anni. Si intuisce bene che nella massa ghiacciata piantine di una certa altezza, dette
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“piante superiori” non possono nascere né vivere, esistono però alcune specie in grado di insediarsi proprio sulla
superficie del ghiacciaio, fra le quali la più diffusa è un’alga pigmentata di rosso che forma tappeti piuttosto intensi
e si chiama Chlamydomonas nivalis, conosciuta con il nome di “neve rossa”. Questa alga vive dentro la neve e si
riproduce per spore all’interno della stessa, quando arriva l’estate e con il parziale scioglimento di una piccola parte
del manto ghiacciato, le spore appaiono in superficie e colorano di rosso tutta la zona interessata. Il colore rosso
delle spore di questa alga è dato dalla presenza di una sostanza detta “Astatantina” che è carotenoide, un pigmento rosso presente in natura in numerose piante vegetali. Fra le proprietà fondamentali delle molecole dei Carotenoidi c’è quella di proteggere dai raggi Uva (ultravioletti) e quindi questa alga è protetta da questi raggi che a certe
quote e nelle zone polari della terra sono molto forti. La Chlamydomonas nivalis è presente in tutto il cerchio alpino
e nel mondo eccetto in Africa, è capace di resistere alle basse temperature estreme dell’Artico essendo in grado di
riprodursi solamente a temperature inferiori a -10°C. È intuibile quindi che la più grande quantità di vegetazione
nasce sulla morena frontale e in quelle laterali. Cosa sono le morene di un ghiacciaio? Le morene sono costituite
dall’accumulo di materiali rocciosi e terrosi staccatisi dalle pareti delle valli e trasportati e depositati dai ghiacciai ai
loro margini laterali e alla loro fronte centrale e quindi dal punto di vista del materiale geologico adatti alla crescita
di alcune specie di piante. Le morene sono però zone molto particolari dal punto di vista dell’habitat vegetale e in
queste zone non soltanto le basse temperature, ma anche la breve durata della stagione vegetativa e la scarsa disponibilità idrica dovuta a lunghi periodi di gelo, sono evidenti fattori limitativi per la crescita della vegetazione. Per
questi motivi la popolazione vegetale delle aree intorno ai ghiacciai è formata prevalentemente da vegetazione
semplice in primo luogo piante erbacee, poi muschi e licheni e di rado piante legnose poco sviluppate in altezza, ma
la vita vegetale arriva fin quassù, lenta infaticabile, tenace pronta a conquistare gli ambienti alpini più ostili. La magia di questa vegetazione crea inattese fioriture che fanno capolino da sotto un masso, occhieggiano da una fenditura, chiazzano di colore una liscia parete verticale della morena e superato il limite perenne delle nevi, arrivano
anche su quelle cime rocciose dove il ghiacciaio non arriva, come sull’Adamello. La capacità di sopravvivere, fiorire,
riprodursi al limite delle nevi e oltre deriva da un adattamento lento e costante al duro clima alpino. Per ovviare a
certe situazioni come il freddo della notte, le piante reagiscono avvicinandosi alla roccia per assorbirne quel poco di
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calore ed inoltre la piantina deve offrire il minimo appiglio al soffio devastante del vento. Anche la scarsità d’acqua
diventa una grave difficoltà perché d’inverno l’acqua è imprigionata nei cristalli di ghiaccio e d’estate le piantine
combattono la loro lotta quotidiana contro l’arsura sulle rocce arroventate dove l’evaporazione è rapidissima, specialmente sul terriccio subito disseccato dal vento. Quando finalmente si apre il fiore che lo possiamo chiamare “un
miracolo della tenacia” rivela una grande bellezza anche se la durata della propria vita è effimera e se il fiore riuscirà a diventare seme, saranno le stesse tempeste invernali ad assicurarne la dispersione fino a molto lontano. Questo adattamento tanto perfetto non è nato dal nulla, ma ha richiesto milioni di anni per realizzarsi, andando di pari
passo con l’evoluzione geologica della catena montuosa. Ma quali sono l fiori, arbusti e piantine che troviamo in un
ambiente così difficile? Chiamandoli per i nomi che gli hanno dato i montanari e mettendo fra parentesi il nome
scientifico, abbiamo Il “Chiodo del ciabattino” (Gentiana bavarica), l’Erba dei Camosci (Ranunculus glacialis), La Sajunca (Valeriana celtica), Il bellissimo Muschio Rosa (Silene acaulis) così comune sulla Cresta del Redentore dei Monti Sibillini, il Cuscinetto alpino (Myosotis), tanti tipi di Saxifraghe, il Genepì, l’Achillea nana (una volta molto ricercata
nelle valli del Monviso per le sue proprietà di conciliare il sonno e vi posso dire per esperienza che è molto potente), l’Anemone alpina (Pulsatilla alpina) che può vivere fino a 3000 m di quota., l’Androsacea dei ghiacciai , l’Achillea
atrata, la Genziana a foglie corte (Genthiana brachyphylla) che vivono oltre i 4000 m. di quota e tante altre specie di
piante. La colonizzazione delle morene e zone limitrofe è stata da tempo oggetto di studio ad opera dei botanici.
Questo è un ottimo ambiente per capire la dinamica della nascita della vegetazione, un ambiente ancora in parte
sconosciuto ai quali gli studiosi riserbano grande attenzioni, perché in continua evoluzione e capace di offrire molte
soddisfazioni sia al botanico che al semplice escursionista.
Vannetto Vannini
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IL VINO:
Antica magia, storie di paesaggi e storie di uomini.
(54 sfumature di rosso ...o di bianco!)
L’autunno, con i suoi colori e l’aria limpida è la stagione ideale per riscoprire le atmosfere dell’antica civiltà contadina che molte volte, anche da noi, si rivela in antichi terrazzamenti sostenuti da muri a secco, veri capolavori dell’arte povera, coperti di viti e pampini che sono il frutto di una vecchia fatica indicibile. Nel Levante ligure è possibile
incamminarci fra strade e stretti carrugi, salire in alto fino a ammirare il paesaggio modellato a terrazze delle Cinque
Terre, dove il contadino- muratore ha strappato alla montagna pezzi di terra per piantarvi le viti e compiere ogni
anno la vendemmia, facilitata ora da i trenini monorotaia che hanno sostituito i muli e gli asini. Anche le vigne della
Costiera Amalfitana sono una cartolina bellissima per chi le ammira con zaino e scarponi dall’alto, come pure sono
incantevoli i vigneti della fascia costiera calabra e in tante parti dell’Italia peninsulare. Lontano dal mare, interi pendii della montagna, dal fondovalle fino al limite del bosco e spesso fino al limite dei ghiacciai, sono stati costruiti
nella zona alpina dove l’escursionista troverà pane per i suoi denti nell’attraversare sentieri che collegano i vari terrazzamenti spesso quasi sospesi nel vuoto. I vigneti terrazzati della Val di Susa, quelli valdostani , delle Terre Occitane dove si produce il vino del ghiaccio di Chiomonte in cui la vendemmia si svolge nelle più fredde notti invernali a
temperature non al di sotto di -8°C e al lume di torce e riflettori fra scenari surreali, i vigneti della Valtellina racchiusi
nel territorio aspro fra Alpi Retiche e Alpi Orobiche insieme ai vigneti a girapoggio della provincia di Bolzano fanno
parte di quella viticoltura eroica che ci lascia incantati. Tanti altri vigneti in tutto l’arco alpino e appenninico sono i
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protagonisti di paesaggi tra i più belli del mondo e conferiscono ai loro vini aromi e sapori senza uguali tanto è facile immaginare di avere un bicchiere in mano, pronti a degustare un pregiato Riesling, un profumato Pigato, un
fruttato Müller-Thurgau, un robusto Pinot Nero, un intenso Muscat. Il vino in montagna entra come fattore primario dell’economia di certe aree alpine, economia che è importantissima nel mantenere legati a certe zone morfologicamente difficili gli abitanti, i quali di conseguenza potendoci vivere, con il loro lavoro mantengono l’ambiente
integro contro l’abbandono. Per i vini di montagna vi sono oltre ad aspetti storici ed economici, anche aspetti propriamente enologici, i quali vantano aromi e profumi particolari. Addirittura come dimostrato, è maggiore nei vini
di montagna, specie nei “rossi”, la presenza di una sostanza, il Resvetranolo, che è un antiossidante con azione efficace contro il colesterolo e quindi di contrasto delle malattie cardiovascolari. Il rischio per queste coltivazioni è che
la caparbietà, l’attaccamento, la perseveranza e le inimmaginabili fatiche della antica popolazione che è stata capace di costruire pietra dopo pietra, chilometri di muretti a sostegno del difficile suolo coltivabile, possono scomparire
causa i costi di produzioni altissimi e da usanze agricole non più in linea con gli attuali sistemi di coltivazioni delle
viti.
Nella nostra regione, non abbiamo una viticoltura eroica, se non in alcune zone della Alpi Apuane dove si produce
in ridotti quantitativi e in piccoli terrazzamenti un ottimo vino –il Candia- che dovrebbe essere maggiormente valorizzato. Le nostre vigne realizzate un po’ in tutta la regione, dal Chianti alla Maremma, dal Senese alla Val di Chiana,
dalle Val d’Orcia alla Lucchesia, hanno in parte distrutto quella che era la viticoltura tradizionale a coltivazione promiscua e creato qualche problema paesaggistico e idrogeologico, in compenso hanno valorizzato turisticamente
aree prima marginali della Toscana e creato condizioni di stabilità economica e lavoro per gli abitanti. Oggi fare una
bella escursione durante l’autunno, fra i i sentieri del Chianti che circondano o addirittura si addentrano nelle vigne
caratterizzate da filari di viti ordinati geometricamente come linee di soldati, significa rilassamento fisico e psicologico nel godere di una condizione di privilegio dovuta all’ambiente e alla bellezza intima del luogo attraversato. Il
vino è antico quanto l’uomo e cammina di pari passo con quello della civiltà, la coltura della vite sembra avere origine nelle aree caucasiche e in questa bevanda si nasconde gran parte della storia umana. Il vino è sempre stato
fondamentale nelle celebrazioni civili e religiose di tutte quelle culture in cui il bisogno di assicurare la fertilità della
terra ha generato rituali e cerimoniali simbolici. Noi siamo portati oggi a considerare con la parola “vino” solo quello prodotto con l’uva, ma questa parola, che deriva dal vocabolo greco “oinos“, è un termine generico indicante
una bevanda fatta dalla fermentazione dello zucchero in alcool, ma tutti i frutti, anche le bacche e il miele sono stati
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utilizzati nel corso dei secoli dall’uomo per produrre questa bevanda, la stessa birra prodotta
dalla fermentazione di cereali era molto conosciuta nell’Antico Egitto circa 3000 anni prima di Cristo. Però il vino di uva ha avuta partita vinta su
tutti gli altri vini non di uva, diventando insieme
alla birra una bevanda mondiale o quanto meno
conosciuta ed esportata in tutto il mondo per la
sua proprietà di invecchiare, di essere trasportata
bene, per il gusto che varia da terreno a terreno,
da vite a vite e per la facilità di coltivazione della
stessa. Sappiamo anche che la tradizione indica in
Noè, il primo che alzò troppo il gomito andando in
“bala profonda”. Certo occorre stare attenti all’uso che facciamo di questa bevanda perché il vino,
nettare degli dei, inebria l’animo e se bevuto in
gran quantità offusca la mente e mette in pericolo
la salute. Io ricordo benissimo quando la televisione mise in risalto nel 1962 la tavola presidenziale della Casa Bianca in cui si vedeva Jacqueline Kennedy bere da un
calice di cristallo vino rosso italiano. Quello fu un momento storico in cui venne rotto un tabù in quanto fu sdoganato il vino anche per le donne, che di rado lo bevevano in pubblico. Da quel giorno però sembrano passate ere geosociologiche perché le donne oggi bevono vino quanto gli uomini e soprattutto sono cambiati il costume e l’approccio culturale e morale al mondo del vino e al modo di bere, fino ad arrivare alla società d’oggi in cui il fenomeno
“ubriacatura” giovanile d’ambo i sessi è diventata una deriva, un grosso problema, una piaga sociale. Però per questi giovani il problema non è tanto legato al vino, quanto al consumo
di birra e superalcolici, magari miscelati insieme. I giovani fanno il
grosso errore di considerare la birra solo un dissetante e ne bevono
in grande quantità e non sanno nemmeno che una “sbornia” di birra
intontisce per giorni, non hanno un rapporto diretto con il vino che in
questa brutta situazione di sballo giovanile incide nettamente in modo minore della birra e dei vari alcolici. È vero che tante persone perdono la padronanza di sé anche con un solo bicchier di vino, ma oltre
al problema di bere in maniera incosciente c’è l’altra grossa difficoltà
che è il permissivismo di questa società che tollera e giustifica tutto,
avendo ormai perso tanti valori storici, morali, umani, religiosi e civili
che prima erano i fondamenti della collettività. Questo problema dei
giovani “incoscienti e brilli”, noi Alpini lo sentiamo più di qualunque
persona e questi ragazzi ubriachi ci fanno pena, perché i montanari
hanno sempre avuto un rapporto diretto e molto corretto con il vino,
anche se intenso per motivi di duro lavoro e temperatura, riflessi poi
nel tipo di alimentazione. Gli alpini sanno bere e difficilmente perdono la padronanza di sé, anche se in occasioni di raduni l’incontro con i
vecchi commilitoni di un tempo, soprattutto quando esisteva ancora
una grande percentuale di Penne Nere che avevano fatto la guerra,
veniva e viene ancora festeggiato con grandi bevute. Quest’anno
all’adunata nazionale di Asti, ho ritrovato dopo 47 anni un pioniere
alpino del mio plotone, e poco prima che sfilasse la Sezione ANA di
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Firenze ho assistito e ho messo le foto sul mio profilo Facebook,
all’incontro casuale dopo sessant’anni fra un alpino di Scarperia e
uno di Pordenone che, anche loro, si sono riconosciuti dai distintivi
portati sul cappello alpino, è umano che non potevamo festeggiare i
nostri incontri con solo mezzo bicchiere di rosso, e meno che mai
con l’acqua minerale o con la gazzosa! Il binomio vino-alpino regge
però fino ad un certo punto, è vero che il miracolo più apprezzato
dalle Penne Nere è quello di Canaa, in cui Nostro Signore trasformò
l’acqua in vino, ma purtroppo nella storia degli Alpini italiani c’è
molto più sangue che vino e la regola, che io da “vecio tridentino”,
per esperienza diretta condivido pienamente è che: Donne, bufere e
vino non fan tremar l’alpino! Beviamo quindi con gusto e moderazione qualche bicchiere di buon vino durante i pasti e dopo a cena
specie d’inverno anche un grappino, qualunque cosa ne dicano
quelle persone contrarie solo per concetto o partito preso le quali
hanno la vista unidirezionale. Inoltre chi beve vino moderatamente
è consolato anche dalla ricerca scientifica che ammette la presenza
nel vino di sostanze antiossidanti come i Polifenoli, pigmenti naturali
che combattono i radicali liberi impedendo ai grassi di formare placche nelle arterie, gli Antociani potenti antiossidanti e il Resvetranolo sono preziosi nel combattere alcuni tipi di malattie soprattutto cardiovascolari. A Montalcino
esiste l’Associazione Vino e Salute che dal 2005 svolge una intensa attività di analisi, promozione e comunicazione agendo in sintonia con altre associazioni con l’Università di Siena. Ormai c’è la consapevolezza dei collegamenti
salutari che tengono unita la cosiddetta “dieta mediterranea”, per questo l’Associazione ha deciso di ampliare le
sue ricerche ad alimenti quali l’olio e il miele, tutti strettamente legati al territorio come il buon vino. Ma se nelle
montagne italiane abbiamo ancora una viticultura eroica che nel nostro territorio non è mai esistita, noi vantiamo
invece una viticultura storica che risale al tempo degli Etruschi e continuata poi fino ad oggi, anche se nel tardo e
basso Medioevo i parametri di giudizio sul vino erano diversi da quelli attuali. Il Prof. Cherubini Giovanni, docente
universitario scrive in “La società rurale del Valdarno Superiore nel XV secolo” che in quei secoli non era affatto il
Chianti il vino considerato migliore, perché nel Valdarno Superiore e in Valdambra si producevano vini fra i più pregiati del contado fiorentino. A quei tempi era molto più apprezzato il vino nuovo in quanto per il vino vecchio esistevano problemi di conservazione dati dalla bassa gradazione. Nel Valdarno si producevano vini importanti come il
trebbiano di Galatrona, di San Leolino e di Cennina, ma anche i trebbiani prodotti a Montevarchi e a San Giovanni
erano valutati molto come qualità e prezzo, cosi come i vini rossi della zona di Castelfranco, di Loro e della montagna di Loro. I vini di Terranuova, sicuramente trebbiani, vengono lodati in una lettera di Poggio Bracciolini, mentre i
vini meno pregiati erano considerati i rossi di Montevarchi e San Giovanni.La rinomanza dei vini del Valdarno continua poi nei secoli successivi ed è testimoniata da Francesco Redi (1627-1697) che nel suo capolavoro in rima “Bacco
in Toscana” scrive “ Han giudizio e non son gonzi / Quei toscani bevitori/ Che tracannano gli umori / Della vaga e
della bionda/ che di gioia i cuori inonda, Malvagia di Montegonzi”. Chi pensa allora che il vino sia solo una bevanda
sbaglia di grosso e non conosce la storia, il vino è una cultura di verità e leggenda che lo rende unico, una cultura
che appartiene intimamente al territorio come l’olio dei nostri oliveti. La viticultura è
diventata espressione dell’incredibile armonia tra terra, clima e uomini, perché avvicinarsi alle tradizioni vinicole di qualsiasi territorio, significa scoprire un mondo inaspettato che conserva un connubio perfetto e irripetibile fra reddito, gusto, ambiente
naturale e tradizione povere contadine, accanto a prodotti raffinati che ci portano
verso realtà insolite e affascinanti.
Vannetto Vannini
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ANELLO DI MODINE
IL COCOLLO DALL’ALTRA PARTE
È un anello escursionistico vario e interessante ed avendo una lunghezza di quasi otto km e con un dislivello in salita e in discesa di 350 m, può essere fatto benissimo in una mattinata o in un pomeriggio. Io e Luigi Cardelli abbiamo impiegato qualcosa
meno di tre ore. Questo percorso fu fatto in un pomeriggio del novembre 2006 partendo sempre da Modine, per ricordare lo
scultore lorese Venturino Venturi. Prima dell’escursione nella chiesetta di Modine ascoltammo musica medievale diretta dal M°
Orio Odori e durante la camminata, in un luogo adatto che fu scelto il Borro di Rigodi, furono lette delle poesie dello stesso
sculture che avevano come soggetto “l’acqua”. Si lascia la macchina a Modine. Modine 700 m. di quota è una delle frazioni di
Loro Ciuffenna situata lungo la strada comunale che finisce alla Rocca Ricciarda. Il paese è composto da più borgate (Poggiolo,
le Case, la Rota), sotto Modine c’è la frazione di Pieravilla che con il vecchio sentiero si raggiunge con un percorso in discesa di
poche centinaia di metri. Probabilmente il paese fu costruito durante le invasioni barbariche da persone fuggite dal fondovalle
e ha avuto una piccola cappellina già menzionata nel secolo XII dedicata al culto di San Jacopo dipendente dalla parrocchia di
San Niccolò del Cocollo e poi dalla parrocchia di Santa Maria di Querceto. La storia di Modine è strettamente legata a quella del
castello del Cocollo e quando questo castello perse importanza gli abitanti di Modine chiesero al vescovo di costruire nella borgata una chiesa, per evitare di fare quattro ore di cammino fra andata e ritorno per partecipare alle funzioni religiose sulla
vetta del monte Cocollo. Il vescovo Tommaso Salviati dette il permesso nel 1642 di edificare l’attuale chiesa se il popolo di Modine pagava tutta la costruzione. La chiesa fu edificata e nacque la parrocchia di San Jacopo a Modine. Particolare curioso che a
Modine e a Gorgiti ci sono alcune famiglie che portano per cognome “Cocollini”, che la tradizione dice siamo famiglie che si
trasferirono a Modine quando il castello o villaggio del Cocollo fu definitivamente abbandonato intorno all’ inizio del XVIII secolo. L’ ultimo parroco di Modine fu Don Basilio Fabbri, appassionato ricercatore di storia locale e responsabile dell’Archivio Comunale di Loro Ciuffenna. Don Basilio scomparve un po’ prima della fine del secolo scorso. All’interno della chiesa parrocchiale
di Modine c’è un’opera raffigurante “la Maternità” dello scultore lorese Venturino Venturi. Si parte dalla chiesa e si percorre in
leggera discesa e poi in piano una stradella seguendo bene i segni bianco rossi CAI del sentiero n° 37 arrivando poco dopo ad
attraversare il Borro Rigodi (il termine “Rigodi”, si pensa possa derivare da Rio o Rivo di Odo, che è un termine longobardo).
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Questo breve tratto percorso faceva parte della vecchia strada usata dagli abitanti di Modine per salire al castello del Cocollo.
Oltrepassato il Borro Rigodi occorre fare attenzione alla segnaletica CAI in quanto poco dopo si devia repentinamente a destra
in ripida salita, lasciando la larga stradella che prosegue nel bosco. In salita, seguendo sempre la segnaletica CAI si raggiunge il
crinale a quota 880 m. che dalla vetta del Cocollo porta a Poggio Montrago contrassegnato dal sentiero CAI 35. Il panorama
comincia ad aprirsi sul Pratomagno, sulle frazioni montane di Loro C. e sul Valdarno con lo scenario delle balze e con i grossi
paesi di fondovalle e quelli situati sulla Via dei Setteponti. Si percorre la larga strada bianca di crinale con i pali del metanodotto
algerino toccando sulla cima del Poggio Magliolini la quota più alta in m.899 di tutto l’itinerario che, in questo tratto di crinale,
fino al Varco d’Odina è il confine comunale fra Castelfranco-Piandiscò e Loro Ciuffenna; seguendo sempre la segnaletica CAI 35
si arriva fra saliscendi nei pressi della vetta del monte. Del castello e comunello montano del Cocollo esistito fino al 1764 è stato scritto nel percorso riportato nel numero precedente del Giornalino. Il nome Cocollo deriva dalla parola latina “cocullus” che
significa “cappuccio”, la forma che effettivamente ha il monte vedendolo dal versante che porta a Malva sulla Setteponti. In
ripida discesa, seguendo per un brevissimo tratto la segnaletica CAI e il percorso del metanodotto arriviamo ai piedi della discesa a quota 820 m. Occorre fare attenzione perché in questo punto si deve lasciare la segnaletica CAI e andare a sinistra cercando l’imbocco del sentiero che non è visibile perché ricoperto dall’erba per una decina di metri, ma che spostandosi a sinistra
verso gli alberi è poi ben visibile. Si percorre in discesa questo percorso, dapprima stretto, poi sempre più largo ma in questo
tratto poco frequentato (è la vecchia strada che da Modine portava al Cocollo che abbiamo lasciato poco dopo essere partiti da
Modine appena attraversato il Borro di Rigodi). Si percorre questa antichissima mulattiera oltrepassando alcuni torrentelli e
arrivando ad un bivio a quota 725 m. Si lascia la stradella di sinistra e si prende il sentiero meno evidente a destra che pero
subito dopo si allarga e si trova una costruzione in muratura che sta per crollare, è un seccatoio per castagne secche riportato
anche su Terre Alte. Si passa davanti al retro del seccatoio e proseguendo in discesa si arriva al Borro del Rigodi, dove si trova
un ponticello crollato e a suo tempo (integro) riportato su Terre Alte. Questo è un punto particolarmente caratteristico perché
il letto del torrente, per alcune decine di metri in forte pendenza ha come fondo un largo, levigato filone di arenaria (Macigno
del Pratomagno), dove l’acqua acquista una forte velocità ed è un bello spettacolo (questo fu il punto scelto per recitare nel
novembre 2006 le poesie sull’acqua scritte da Venturino Venturi in Albania durante la guerra). Siamo a quota 599m. (Carta del
Pratomagno del CAI dove è riportato anche il ponte, riportata quota e ponte anche nella vecchia cartina IGM, ma non su quelle
più recenti). Si attraversa il borro e proseguendo sul sentiero evidente in leggera salita, si cominciano a incontrare i primi campi
coltivati essendo in prossimità dell’abitato di Pieravilla che viene raggiunto poco dopo arrivando nella piazzetta della borgata.
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Questa borgata merita
una visita perché vi sono alcuni angoli veramente belli del “tempo
che fu” e alcune sculture ben visibili su alcune
facciate di case, e alcune di queste sculture
sono di non facile interpretazione, tanto che
meriterebbero uno studio approfondito; inoltre Pieravilla, il cui nome deriva da Piero o
Piera della Villa (Villa
con il significato di paese, quindi un termine
abbastanza arcaico), ha
avuto le scuole elementari fino al 1964. Prendendo il vecchio sentiero, non segnato ma facilmente individuabile dietro alle case della piazza, in ripida
salita acciottolata si ritorna alla chiesa di Modine, chiudendo il circolo e terminando l’escursione.
Nb. Per chi è interessato ha vedere la chiesa di Modine, la chiesa è aperta per la funzione religiosa solo la domenica mattina
alle 9,30.
Vannetto Vannini
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LE RICETTE DI ...DANIELA
Ciao a tutti,
Vi propongo una dolce ricetta, adatta ad adulti e bambini perché fatta con ingredienti
molto semplici. Anche l'Artusi ne parla nel suo libro dicendo che questo dolce lo regalavano i contadini ai loro padroni nelle feste religiose quindi è molto antico.
"Il LATTERUOLO"
Ingredienti:

500 ml di latte intero,

100 g. di zucchero semolato,

50 g di farina 00,

5 tuorli più 2 uova intere,

una bustina di vaniglina e

burro e farina per lo stampo .
Per prima cosa versare il latte in una casseruola con lo zucchero e la vaniglina, far sobbollire a fuoco basso
per 30 minuti mescolando ogni tanto, togliere dal fuoco e far raffreddare. In una ciotola montare tutti i
tuorli (7 in totale) con le fruste fino a che non diventino gonfi e spumosi, unire a pioggia la farina setacciata continuando a lavorare. Poi unire a filo il latte freddo. Montare i due albumi con un pizzico di sale e aggiungerli alla crema di uova mescolando dal basso verso l'alto con un mestolo a mano. Accendere il forno
statico a 180 gradi e versare il composto in una stampo dal diametro di 20 cm precedentemente imburrato e infarinato. Lasciar cuocere la torta per 35 minuti, fate la prova con lo stecchino se esce asciutto togliete la torta dal forno e lasciatela raffreddare. Prima di servire spolverizzatela di zucchero a velo.
Questo dolce vi farà leccare i baffi e... piacerà molto anche a chi i baffi non ce li ha!!!!!!
Provare per credere un saluto dalla vostra DANIELA VENTURI.
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LEGGENDE E STORIE LADINE:
LA BISCA BLANCIA
Lo stregone di San Vigilio chiamato a scacciare i serpenti di Fodara Vedla
A quattro ore di cammino da Al Plan, in direzione
di Ampezzo si trovano gli alpeggi di Fodara Vedla
dove ancora oggi i contadini di Marebbe portano
gli animali al pascolo durante il periodo estivo.
Qui è possibile sentire gli odori della fioritura
primaverile che con i suoi mille colori ci regala un
paesaggio spettacolare. Non molto tempo fa, tra
i suoni delle campane portate dal bestiame si
udivano le urla dei pastori, le quali echeggiavano
fino in cima al Sas dla Para e alle Nainores. Da
molto tempo i contadini della valle di Marebbe
portano i loro capi di bestiame in questa località,
nonostante le difficoltà che si incontravano tempo fa. Spesso essi venivano colpiti dalla sfortuna
e dalle disgrazie. Un grosso intralcio e pericolo
era costituito dalla presenza di molti serpenti
velenose sui prati e nelle vicinanze di Fodara
Vedla. Si racconta che non esisteva roccia o albero privo di questa presenza inquietante. I tanti
rettili trovavano rifugio sotto alle “üties” le tante
baite costruite a Fodara Vedla per avere un riparo durante il soggiorno estivo. Nessuno osava
gironzolare attorno a queste costruzioni senza
prestare la massima attenzione, bastava infatti
una minima disattenzione per calpestare una di
queste vipere ed essere morsi. Calpestare un
serpente significava spesso la morte, in quanto
gli antidoti erano difficilmente reperibili e la lontanaza dal primo medico era eccessiva. La costante presenza di vipere a Fodara
Vedla costituiva un pericolo anche per gli animali dei poveri contadini di San Vigilio. Questi si sdraiavano usualmente sul prato
per digerire, in queste occasioni le serpi trovavano riparo sotto i loro corpi e con il minimo movimento dell’animale i serpenti
non esitavano ad usare i loro denti veleniferi. Per alcuni anni i contadini di San Vigilio rinunciarono a frequentare quei posti, ma
nonostante i pericoli provavano una forte nostalgia per le giornate semplici a contatto con le montagne in alta quota. Non passarono molte estati che i primi contadini tornarono a seguire l’antica tradizione. Durante quell’estate le mucche smisero improvvisamente di dare il latte. Tutte le mattine quando i pastori tentavano di mungere il loro bestiame non riuscivano ad ottenere un solo bicchiere di latte. Tra i pastori nacque il sospetto che qualcuno potesse abusare del loro bestiame cosicché una
notte uno di loro si nascose tra il fieno in una delle stalle aspettando di scoprire cosa stava succedendo. Il pastore stava per
addormentarsi quando nel tenue albore della luna rimase allibito di fronte a quello che i suoi occhi videro. Un’infinità di serpenti entrarono con eleganti movimenti nella stalla e raggiunto il bestiame si attaccarono con i denti alle mammelle. La stalla
era invasa da serpenti che si stavano cibando succhiando tutto il latte a disposizione. Dopo un po' di tempo le prime serpi iniziarono ad allontanarsi raggiungendo l’oscurità. Il contadino era spaventato ma decisamente infastidito. L’istinto lo portò a
imbracciare una pala e con violenza iniziò a colpire il maggior numero possibile di serpenti. Ammazzò parecchi serpenti ma non
risolse nulla. Tutte le notti qualcuno doveva stare sveglio nella stalla a proteggere le mucche. Non distante da San Vigilio, in una
costruzione fatiscente e isolata viveva uno stregone che era noto per la sua capacità di dialogare con i serpenti. Non vedendo
più alcuna via d’uscita, i contadini si recarono dallo stregone e gli promisero una sostanziosa ricompensa se fosse riuscito a
scacciare i serpenti da Fodara Vedla. Lo stregone accettò, recuperò le sue cose e si avviò verso Fodara Vedla. Disse ai contadini
che dovevano avere pazienza e aspettare che calasse la notte affinché i suoi poteri riuscissero a attirare l’attenzione delle vipere. Passarono il pomeriggio a raccogliere enormi quantità di legna che sarebbero servite per accendere un focolare. Quando
calò la notte lo stregone accese il focolare vicino al quale iniziò a pronunciare frasi incomprensibili. I contadini erano raccolti
vicino alle loro üties ed osservavano impauriti la danza delle enormi ombre generate dal fuoco, l’atmosfera era davvero angosciante. Le parole dello stregone avevano lasciato il posto al silenzio quando i prati circostanti si riempirono di serpenti. Centinaia, migliaia di serpi accorrevano tra le fiamme passando di fronte allo stregone soddisfatto. Buttandosi tra le fiamme ogni
serpente provocava un gran frastuono e le fiamme si alzavano altissime in cielo illuminando le montagne circostanti. Tutto
sembrava procedere per il meglio e tra i contadini iniziarono a farsi vedere espressioni soddisfatte. Ma improvvisamente un
intenso sibilo dalle parti di Col de Rü iniziò ad avvicinarsi sempre di più. Lo stregone si allontanò bruscamente dalle fiamme e
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sbiancò quando comprese il significato di quei umori. “Questo è il serpente bianco, adesso sono finito!” gridò nella disperazione. Il sibilo era diventato insopportabile quando in un attimo apparve un serpente bianco come la neve che in testa portava
una corona d’oro. Il serpente raggiunse le fiamme e con estrema forza si avvolse attorno alle gambe dello stregone trascinandolo con sé tra le fiamme del focolare. Entrambi morirono bruciati tra le urla dei pastori. Questi corsero nelle loro üties e pregarono fino al giorno seguente dalla grande paura. Con le prime luci del giorno essi ritrovarono le forze per uscire e avvicinarsi
alle ceneri del focolare. Il loro sguardo si scontrò con un paesaggio rinnovato. Davanti a loro c’era un grande fossato che da
Fodara Vedla raggiungeva Pederü. Il veleno delle vipere aveva corroso i pascoli e gli alberi lasciando spazio alla nudità delle
rocce e scavato una profonda ferita nel terreno. I contadini frugarono tra le ceneri per vedere se ci fosse ancora qualche traccia
dello stregone. Nel mucchio di ceneri intravidero la corona d’oro portata dal serpente bianco che uno di loro intascò di fretta.
Si racconta che questo contadino ebbe soldi per tutta la vita. Dopo quel giorno raramente si incontrarono dei serpenti sui pascoli di Fodara Vedla, ma sul sentiero che porta alle malghe, l’enorme fossato scavato dal veleno dei serpenti ricordò a tutti e
per sempre l’accaduto.
Fodara Vedla è una località poco sopra Pederü vicino a San Vigilio di Marebbe dove da tanti anni si trovano tablà e üties
(malghe) che servivano da rifugio per animali e pastori che trascorrevano le estati in alta quota. Ancora oggi in questo posto
stupendo nel parco naturale Fanes-Senes-Braies si trovano malghe e un rifugio. Il fossato scavato dal veleno dei serpenti di Fodara Vedla è oggi costituito dal canyon che da Fodara Vedla raggiunge Pederü. Il questo spettacolare canyon, in cinque anni di
duro lavoro estivo la Compagnia Genio Alpini di Bressanone ha costruito una delle più ardite strade militari dell’Alto Adige che
collega il rifugio Pederü alla pista avio di Sennes, che è la pista per aerei leggeri più alta d’Europa.
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AMATA PHEGEA
Camminando nei boschi in piena estate (luglio-agosto), cercando funghi od altro, mi è capitato frequentemente di
incontrare una strana e curiosa farfallina nera con puntini gialli sulle ali che con il suo “sfarfallio discreto”, sola o in
gruppo, ha attratto la mia attenzione. Spinto dalla curiosità ho voluto sapere di più su chi o cosa essa sia, avventurandomi nel misterioso ed arcano mondo degli insetti. Prima di parlare della nostra “amata” riporto alcune nozioni
generali che, ad un neofita come me, sono sembrate utili ed interessanti.
Gli Insetti o Entomi (da cui Entomologo studioso degli insetti) sono una classe che rappresenta il più grande tra i
raggruppamenti di animali che popolano la Terra, annoverando oltre un milione di specie, pari ai cinque sesti
dell'intero regno animale. Si ritiene che siano tra i più antichi colonizzatori delle terre emerse in quanto fossili di
insetti rinvenuti risalgono ± tra 420 e 360 milioni di anni fa (Devoniano). Gli insetti, di conseguenza, in positivo o in
negativo, hanno una stretta relazione con l’Uomo e le sue attività, fino a condizionarne, più o meno direttamente,
l'alimentazione, le abitudini, la salute ed anche l’economia.
Le farfalle (diurne) o falene (notturne) appartengono all’ordine dei Lepidotteri composto da più di 157.000 specie.
Il nome (dal greco antico (lepis): squama, scaglia e (pteron): ala.) fa riferimento alle piccole squame ovali che ricoprono le ali di questi insetti, disposte le une sulle altre, come le tegole di un tetto, ma che all'occhio naturale sembrano un semplice pulviscolo.
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L’Amata phegea (dal latino “amatus”= amato, benvoluto e “Phegea”= figlia Fegeo re di Psofo nell’Arcadia) che è conosciuta
anche come “Pretino” e nel sud Italia “U’ carabiniere”, ama i climi caldi e secchi ma si rinviene ugualmente e spessissimo
in boschi umidi e freschi. Vola nelle ore più calde della giornata ma nel periodo di massima diffusione la si può rinvenire attiva anche con una leggera pioggia e con gradienti di umidità relativa molto accentuati. È tipica dei nostri
prati, d’abitudine nelle aree aperte e circondati da boschi di latifoglia e ricchi di infiorescenze dove spesso si radunano in gran numero. È specie invadente nel periodo centrale di sfarfallamento con presenze numerosissime. Preferisce basse quote altitudinali ma la si può riscontrare con facilità sui versanti montagnosi esposti al sole, fino ai
2000 m. Ha un volo librato ma lento e non ama percorrere lunghi tragitti. Vola abitualmente e continuamente di
fiore in fiore rimanendo spesso posata per lungo tempo a succhiarne il nettare.
Mimetismo mülleriano
Il Mimetismo mülleriano si ha quando specie anche molto lontane geneticamente tra loro di cui una o entrambi
tossiche si imitano a vicenda condividendo la stessa livrea in modo che quello più debole possa così inviare un unico
e più forte messaggio ai potenziali aggressori. L’Amata phegea e la Zygaena ephialtes, pur essendo entrambe tossiche o inappetibili, sono una delle più evidenti espressioni di questo mimetismo. Sarà compito degli “addetti ai lavori” entrare in merito alle specifiche differenze di identificazione delle due specie sotto riportate.
Biologia riproduttiva
La Phegea è specie monovoltina (con una sola generazione all’anno). Vola da maggio a tutto settembre per poi dare origine
nella tarda estate ad una nuova generazione di bruchi che trascorreranno l’inverno. Depone le uova su substrati vicini alle piante nutrici (1), di solito annuali, per cui l’inverno lo passa in prossimità del luogo dove poi ricresceranno le piante ospiti. Il bruco
ha il corpo totalmente ricoperto da una peluria lanuginosa di colore marrone scuro, segnato da fasce trasversali di colore leggermente più chiaro che lo fanno sembrare inanellato. È facilmente visibile nel mese di maggio e giugno quando, raggiunta la
maturazione, lo si trova spesso mentre attraversa, a velocità alquanto sostenuta, viottoli di campagna e strade asfaltate alla
ricerca del luogo dove impuparsi. A maturazione raggiunta i bruchi sono lunghi circa 4 cm. La crisalide viene fissata al suolo ed
è formata da detriti vegetali. (attenzione e rispetto per questi innocui insetti). L’uscita dalla crisalide (bozzolo) avviene dopo
circa tre settimane con il conseguente farfallamento o inizio del volo.
Nota: (1) Riporto alcune comuni piante o erbe selvatiche annuali che ospitano le larve ed i bruchi: Plantago (piantaggine), Rumex (romice crespo), Taraxacum (dente di leone), Galium (gallio) e raramente anche Rubus (rovo).
Vincenzo Monda
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(RI) CONOSCERE I FUNGHI di Vincenzo Monda
Pleurotus Ostreatus
Cresce cespitoso per tutto il periodo invernale su
legno morto di Pioppo, Salice, Gelso in zone molto
umide. I cappelli posizionati a forma di ventaglio di
colore grigio-brunastro o grigio-bluastro metallizzato, la cuticola è liscia, untuosa e staccabile. Le lamelle sono molto decorrenti, bianche o biancastre, spaziate e con molte biforcazioni. Il gambo è
tipicamente laterale come il manico del ventaglio,
corto, a volte assente, asciutto, sodo, tenace specialmente verso la base (da non consumare). La
carne è bianca, tenace, elastica abbondante
nell'inserzione del gambo; odore leggero col tempo
un po' di muffa, sapore dolce. È un ottimo commestibile dopo prolungata cottura per ammorbidire
la carne soda e tenace. È una specie tra le più coltivate e lo si può trovare in ogni punto vendita di
frutta e verdura. Quello naturale raccolto nel bosco è più saporito. Si consiglia di consumarlo fritto impanato dopo
prebollitura di circa 5 minuti.
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Il nome Pleorotus è composto dalle parole greche “pleuron” (“di fianco”) e “otos” (“orecchio”): dunque, “orecchio
al fianco”. Questo perché il fungo cresce su ceppaie e su tronchi vivi di alberi come gelsi e pioppi, formando le caratteristiche orecchiette. Ostreatus deriva invece dal latino “ostrea”, l’ostrica, e in effetti il suo cappello ricorda
questo mollusco. Si trova anche al supermercato. A parere di molti naturopati è sorprendentemente dotato anche
delle seguenti azioni biologiche:
1.
L’effetto contro il colesterolo alto è l’azione terapeutica più importante di questo fungo che riduce il colesterolo 'cattivo' LDL e VLDL. Questa importante azione è dovuta anche alla presenza di elevate quantità di lovastatina, una sostanza in commercio come farmaco contro le ipercolesterolemie. Pleurotus agisce riducendo
l’assorbimento e la biosintesi epatica di colesterolo. I dati sperimentali dicono che una dieta contenente il 510% di Pleurotus contrasta l’aterosclerosi anche a livello coronarico contribuendo alla prevenzione dell’infarto.
2.
Aiuta il sistema immunitario a tenere sotto controllo la crescita tumorale. In particolare, il fungo contiene
una proteina (ostreolisina) specializzata nell’uccidere le cellule neoplastiche. Per ora, comunque, mancano le
prove cliniche d’efficacia sull’uomo.
3.
È dotato di una notevole azione antiossidante. E secondo alcune ricerche aiuta il fegato a proteggersi dalle
sostanze tossiche dovute a una dieta scorretta (epatoprotettivo).
4.
Sono emerse interessanti proprietà antinfiammatorie, paragonabili a quelle di farmaci come il diclofenac.
Inoltre, inibisce l’aggregazione piastrinica suggerendo un potenziale utilizzo nelle malattie cardiovascolari
allo scopo di prevenire la formazione di trombi.
5.
Come integratore. In commercio sono presenti anche integratori di Pleurotus sotto forma di polveri ed
estratti. Si propongono per la ricchezza dei principi nutrizionali (proteine, ferro, fibre) ma anche come formula antiossidante e per trattare l’ipercolesterolemia.
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Attività Sezionale OTTOBRE – SETTEMBRE 2016
Ogni martedì si svolgono escursioni infrasettimanali, solitamente di tipo “E” e sempre con mezzi propri, sul territorio regionale; il programma delle escursioni è visibile, aggiornato mese per mese, nella sezione PROGRAMMA del sito, in sede e
presso le varie Pro Loco. Si raccomanda a tutti gli interessati (soci e non soci) di contattare il referente della singola es cursione (nome e recapito telefonico nella circolare) il pomeriggio del lunedì per avere conferma.
Da Giovedì 6 a Domenica 9 Ottobre
Domenica 20 Novembre
Sicilia:
VALDARNO:
Palermo— Isola di Ustica
Colline intorno Montevarchi
Pullman
Mezzi propri
DIFFICOLTA’: percorso di tipo T/E
DIFFICOLTA’: percorso di tipo E
Accompagnatori: Vincenzo Monda—Mauro BORCHI
Accompagnatori sez.: Franca DEBOLINI— Lia ROVAI
***
***
Domenica 23 Ottobre
Domenica 4 Dicembre
PRANZO SOCIALE
VALDARNO:
-
Castagnata + MTB
***
Mezzi propri
Giovedì 8 Dicembre
DIFFICOLTA’: percorsi di tipo T/E
TOSCANA: Pisa
Sezionale
Trekking urbano
***
Domenica 6 Novembre
Pullman
TOSCANA: Pratomagno
DIFFICOLTA’: percorsi di tipo T/E
Pontifogno—Massa nera—Lastroni
Accompagnatori : Francesca FAILLI
Mezzi propri
***
DIFFICOLTA’: percorsi di tipo E
Accompagnatori: Stefano DEL CUCINA—Alessandro SIMONTI
EDITORE
DIRETTORE RESP.
REDAZIONE
COLLABORATORI
Mario Bindi
Vannetto Vannini
Lorenzo Bigi
Daniele Menabeni
Ermanno Carnieri
Vincenzo Monda
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