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Il percorso letterario
di
Alessandro Manzoni
La società milanese e il giacobinismo
La prima formazione culturale di Manzoni è influenzata dalle vicende familiari. La separazione
della madre Giulia, figlia del famoso illuminista Cesare Beccaria, autore dei Delitti e delle pene, dal
più anziano marito, il conte Pietro Giordani, priva il giovanissimo Alessandro di ricevere
un’educazione consona al suo rango. E’ invece mandato in collegi religiosi caratterizzati da un
clima autoritario, conservatore e antiquato: il collegio dei padri Somaschi prima a Merate e poi a
Lugano. Solo il trasferimento, nel 1798, presso il collegio dei Barnabiti a Milano, scuola della
nobiltà cittadina, mette il Manzoni nella condizione di entrare in contatto con la cultura cittadina, di
frequentare la casa paterna e terminare il collegio e, successivamente di frequentare i circoli
culturali e i nomi più importanti della società culturale milanese.
Manzoni è orgoglioso della sua discendenza da uno dei più grandi illuministi europei e si avvicina
alla cultura illuministica e all’ideologia giacobina.
Siamo in piena età napoleonica e la città di Milano, centro della Repubblica Cisalpina, fondata nel
1797, è meta dell’intellettualità giacobina italiana, in particolare gli esuli della Repubblica
Partenopea come V. Cuoco, conosce Foscolo e Monti e si avvicina al Neoclassicismo. Scrive “Il
trionfo della libertà”, un componimento in terzine dantesche nel quale manifesta il suo spirito
libertario attraverso un inno alla Rivoluzione francese e violenti attacchi alla tirannide politica e
religiosa.
Il trasferimento a Parigi e l’illuminismo autocritico.
Come era stato per Foscolo, anche per Manzoni si prospetta una fase di riflessione e di
ripensamento dopo i giovanili entusiasmi a partire dal 1805, l’anno in cui raggiunge la madre a
Parigi dopo la morte del suo secondo marito Carlo Imbonati. Per il giovane Manzoni la madre è il
legame vivo e personale con la grande tradizione illuministica, è una donna colta e ben inserita nei
circoli intellettuali più esclusivi di Parigi. Manzoni ha così modo di confrontarsi con l’intenso
dibattito critico e autocritico che quegli intellettuali eredi della cultura illuministica stanno
conducendo sui limiti della filosofia dei lumi e sui discutibili sviluppi della Rivoluzione. Manzoni
vi partecipa , incontra e stabilisce un legame amichevole con uno degli ideologi Claude Fauriel.
Entra in crisi la giovanile fiducia nel potere dei Lumi e nella capacità umana di dirigere e
orientare la storia. La ragione può ancora orientare la storia ma deve fare i conti con i suoi limiti.
Così comincia a formarsi il concetto di sentimento, di popolo, di nazionalità e soprattutto inizia
il confronto con la storia che diviene il tema centrale della riflessione manzoniana.
La crisi del modello neoclassico.
Come il precedente giacobinismo appare astratto e lontano dal sentire dei popoli cui pure voleva
rivolgersi, così il Neoclassicismo inizia ad apparire una costruzione retta da regole accademiche e
razionalistiche , linguisticamente lontano perché più attento alla ricchezza formale delle immagini
mitologiche che al vero delle situazioni storiche. Prima testimonianza di questa evoluzione culturale
è l’ode in endecasillabi sciolti “In morte di Carlo Imbonati . In questo componimento compare
un elemento nuovo e significativo “…il santo vero mai non tradir..” = l’arte non deve
trasfigurare ma rappresentare la realtà storica; essa, inoltre, ha una finalità pedagogica e
pertanto vi deve essere un forte messaggio ideale.
La conversione- Manzoni verso il Romanticismo
Fondamentale per la transizione al Romanticismo è l’avvicinamento al Cattolicesimo, una
conversione lunga e meditata. Se la ragione è in grado di orientare la storia e illuminare gli
uomini, perché la Rivoluzione è stata un esplodere di passioni spesso irrazionali? Perché dal
desiderio di libertà è nato il terrore e perché nella storia umana appare dominante
l’oppressione? Forse la ragione non è in grado di dominare né di spiegare pienamente la storia,
Forse esiste un progetto superiore che gli uomini non sanno interpretare.
In questo periodo (parigino) Manzoni è particolarmente attratto dalla storia dei popoli europei e
tramite questa si avvicina al concetto romantico di nazionalità, come insieme di individui che
condividono lingua, tradizioni e credenze. Anche la fede e il sentimento religioso fanno parte di
questo sistema: può allora essere ignorato il cristianesimo come aspetto integrante della storia
dei popoli europei. E infine, i razionalistici ideali di Libertè, ègalitè, fraternità non sono già
presenti nella morale evangelica dell’amore per il prossimo?
1808: matrimonio con rito calvinista con la ginevrina Enrichetta Blondel.
La conversione.
Nei due anni successivi al matrimonio matura la conversione dell’intera famiglia Manzoni al
cattolicesimo grazie anche all’intenso rapporto spirituale con padre Degola.
Pare che questi fosse vicino alle dottrine gianseniste ovvero a quella corrente teologica interna al
cattolicesimo, forte nel Seicento e nel Settecento, nonostante la condanna per eresia.Tale dottrina
sottolinea l’incapacità da parte dell’uomo di ottenere la salvezza senza l’intervento imperscrutabile
della Grazia divina che orienta l’anima verso il bene spirituale. I giansenisti sostengono che la fede
deve manifestarsi attraverso le opere e i cattolici che ad esso si richiamano attribuivano un ruolo
fondamentale alle opere con le quali il credente doveva vivere la fede.
Quando alla fine del 1810 Manzoni ritorna a Milano con la famiglia, non è più un giacobino, ma un
intellettuale cattolico dal forte rigore morale.
L’avvio dell’attività letteraria.
A partire dal 1812 comincia a scrivere gli Inni Sacri. IL progetto prevede la stesura di dodici
componimenti poetici riferiti all’anno liturgico cristiano. L’opera è il tentativo manzoniano di
mostrare come il messaggi cristiano sia la risposta adeguata e razionale agli interrogativi che la
storia pone all’uomo. Tra il 1812 e il 1815, lo scrittore compone quattro dei dodici inni: La
Resurrezione, Il nome di Maria, La passione, Il Natale. Solo negli anni successivi si aggiungerà
La Pentecoste (1822).
La produzione teatrale
In coincidenza della fine dell’età napoleonica, Manzoni partecipa alla polemica dei classicisti e,
nell’ambito del genere teatrale sulla tragedia. La tradizione classicista vincolava la tragedia al
rispetto delle regole aristoteliche di unità, di luogo e di azione secondo la quale la vicenda tragica
doveva svolgersi in un solo scenario e nell’arco di una giornata solare. Manzoni, al pari dei
Romantici, ritiene che la rappresentazione della tragedia così regolata risulta artificiosa e lontana
dalla realtà delle vicende storiche, che hanno un andamento più complesso e vasto nel tempo, nel
luogo e nell’azione. Il bisogno manzoniano di rivolgersi ad un pubblico più vasto, il suo sentito
impegno morale dell’arte, lo spingono alla composizione di un’opera teatrale alla quale lavora tra il
1816 e il 1819.
Viene così pubblicata nel 1820 la prima tragedia manzoniana: Il conte di Carmagnola.
La tragedia è ambientata nel Quattrocento italiano e narra la vicenda di un contadino diventato
soldato di ventura al servizio di Filippo Maria Visconti, duca di Milano che lo insignisce del titolo
di conte di Carmagnola per il suo valore militare. Il carattere sospettoso del duca però, spinge il
carmagnola a offrire i suoi sevizi a Venezia. Quando tra la Serenissima e Milano scoppia la guerra,
il conte guida l’esercito veneziano nei primi successi, ma quando gli eventi volgono al peggio per
Venezia, il Senato inizia a sospettare del Carmagnola fino ad accusarlo ingiustamente di tradimento
e condannarlo a morte.
La tragica vicenda offre a Manzoni l’occasione per veicolare precisi messaggi morali. Vi è la
condanna della guerra fratricida tra italiani; a ciò si aggiunge la pessimistica riflessione cristiana sul
male che domina tra gli uomini.
Mentre lavora alla sua prima tragedia Manzoni lavora ad un’opera di carattere ideologico-filosofico:
Osservazioni sulla morale cattolica, pubblicata nel 1819. In quest’opera lo scrittore si pone il
problema filosofico che lo seguirà per tutto il percorso letterario successivo.
Quanto e cosa può fare l’uomo nella storia? Quanto può decidere del proprio detino?
Il nuovo soggiorno parigino: l’incontro con Thierry.
Mentre vengono pubblicate le Osservazioni e Il conte di Carmagnola, nel 1819-20, Manzoni e di
nuovo a Parigi dove incontra un giovane e brillante storico Thierry che sta lavorando intorno
all’idea della storia non come frutto delle azioni di grandi personalità, ma come prodotto del
doloroso e lento agire dei popoli che fanno e subiscono come oppressi la storia, ma dei quali non
restano tracce nei documenti storiografici.
Al rientro in Italia , nel 1820, Manzoni inizia subito a lavorare ad una seconda tragedia, Adelchi,
sulla base delle riflessioni maturate. Nel frattempo scoppiano i moti risorgimentali del 1820-21 e
Manzoni è intellettualmente e sentimentalmente coinvolto. Interrompe la tragedia e scrive su due
eventi: i moti e la morte di Napoleone.
Marzo 1821 è un ode, nella quale Manzoni manifesta la sua piena adesione ai sentimenti
d’indipendenza nazionale. Il cuore del componimento è focalizzato su ciò che accade in Piemonte
ma poi si estende a tutta la penisola. Quei moti si conclusero tragicamente ma vi fu un momento di
entusiasmo, la percezione che le cose potessero cambiare. Il componimento non potè essere
pubblicato fino al 1848 a causa della censura, ma circolò clandestinamente negli ambienti liberali.
Dall’ode emerge come lo scrittore pensi ad un’unità nazionalità interamente romantica. Non sono le
case regnanti che stabiliscono i confini tra le nazioni, ma l’identità dei popoli. Manzoni esalta
l’insurrezione del popolo italiano e contesta l’attesa di una liberazione che venga dall’esterno.
Infine invoca Dio a sostegno della causa dei popoli oppressi.
Nello stesso anno 1821, a maggio, moriva Napoleone: le illusioni, le delusioni, gli amori e gli odi,
gli entusiasmi e l’amarezza sono i sentimenti suscitati da quest’uomo. Manzoni esamina queste
contraddizioni nell’ode dedicata alla sua morte: Il cinque maggio.
Dall’analisi del testo emerge l’ammirazione per un personaggio che è stato arbitro della storia
europea, ma tale sentimento si orienta in due direzioni, una storica e una religiosa. Dal punto di
vista storico, Manzoni riconosce in Napoleone l’uomo che ha segnato il passaggio tra Settecento e
Ottocento; dal punto di vista religioso s’interroga sulla storia umana e sul rapporto tra questa e la
Provvidenza, fino ad ipotizzare l’idea che Napoleone sia stato uno strumento nelle mani di Dio.
Adelchi, 1822
L’Adelchi è accompagnata da un corposo Discorso di tipo storico ben più articolato di quello che
accompagnò Il conte di Carmagnola. Questo perché la vicenda narrata è di più ampio respiro. Lo
scrittore non sceglie infatti di raccontare le vicissitudini di un singolo personaggio ma tenta la
ricostruzione di un’età storica di trapasso quale quella che segue la fine del regno longobardo e la
fondazione del Sacro Romano Impero ad opera di Carlo Magno. Il sistema dei personaggi è quindi
molto più articolato: alle vicende dei singoli si aggiungono quelle dei popoli, i Franchi vincitori, i
Longobardi sconfitti e gli italiani che passano da un dominatore all’altro.
Sulla condizione del degrado e di sottomissione del popolo italiano all’epoca della guerra tra
Franchi e Longobardi, s’inserisce il messaggio politico di Manzoni sviluppato particolarmente nel
coro dell’atto III. Il popolo italiano vi è descritto come “volgo disperso che nome non ha”, perché
non ha la coscienza di prendere in mano il proprio destino e attende passivamente che la liberazione
dai longobardi avvenga tramite la discesa dei nuovi dominatori franchi. Il messaggio è esplicito: un
popolo può liberarsi solo con le proprie forze, la libertà va conquistata.
La libertà e la giustizia in Adelchi.
Ma è possibile affermare valori di libertà e giustizia nella storia umana? La risposta di Manzoni è
dubbiosa e pessimistica. Ciò è avvertibile nella vicenda del personaggio principale, Adelchi, figlio
del re longobardo Desiderio. Egli è animato dal desiderio di veder realizzati nel mondo terreno i
valori universali della fratellanza cristiana e in nome di questi s’impegna a combattere ma è
sconfitto sia come guerriero sia sul piano ideale: la storia umana è dominata dalla logica della forza
e non vi è spazio per realizzare il bene; meglio dunque essere uno sconfitto e un oppresso che un
vincitore o un potente, perché minori saranno le possibilità di compiere il male.
La sventura storica che abbatte e rende umili e perdenti è “provvidenziale”perché genera un male
esterno che impedisce di coltivare il male interiore: la forza, la superbia, la tracotanza, il
potere sugli altri. La provvidenza divina sembra intervenire nella storia umana solo donando la
Grazia attraverso il dolore e la sconfitta terrena. Rispetto a Marzo 1821 in cui Dio si faceva
difensore della libertà dei popoli, in Adelchi si avverte una cristiana rassegnazione rivolta più
all’al di là che al mondo terreno.
Ermengarda e la provvida sventura.
Il messaggio manzoniano è ancora più esplicito nella narrazione della vicenda di Ermengarda,
sorella di Adelchi e sposa innamorata di Carlo, re dei Franchi, ripudiata in nome della ragion di
stato, dopo la fine dell’alleanza tra Franchi e Longobardi. Se Adelchi è l’eroe romantico che riflette
e medita sulla sua sconfitta, Ermengarda è una vittima dell’ingiustizia umana. E’ una donna che
ha costruito un suo sogno d’amore e lo vede poi infrangersi. Finisce i suoi giorni in un
monastero, afflitta dal rimpianto dell’amore perduto. Per Ermengarda, Manzoni parla di
“provvida sventura”: essere una vittima in terra è una grazia che prepara ad una beatitudine
celeste.
La Pentecoste
Nello stesso anno in cui pubblica l’Adelchi,1822, Manzoni porta a termine il quinto inno sacro sul
quale ha lavorato, in diversi momenti, da ben cinque anni: la Pentecoste.
Sappiamo che la Pentecoste è un momento fondamentale della liturgia cristiana perché indica la
discesa dello Spirito Santo e l’inizio dell’opera di evangelizzazione del mondo con la predicazione
degli Apostoli. Nel componimento manzoniano si intersecano i temi della Grazia divina, del piano
provvidenziale, della presenza e del ruolo della Chiesa. Prevalente è il tema della forza rigeneratrice
dello Spirito e la fede nell’azione della Chiesa. La discesa dello Spirito e l’azione della Chiesa
non sembrano rivolte a modificare la storia umana e il male che vi domina , ma a preparare
gli uomini alla vera giustizia che non è su questa terra ma nel regno dei cieli.
Lettre à M. Chauvet
Gli anni Venti sono certamente i più fecondi e creativi della produzione manzoniana. Lo scrittore
partecipa a dibattiti su questioni letterarie. Testimonianza sono due lettere che non sono missive
private: esse costituiscono un saggio critico pubblico caratterizzato dall’agilità e brevità del
testo e dal tono del dialogo.
La prima è la lettera a Monsieur Chauvet ed è la risposta alla garbata critica che il francese aveva
rivolto all’opera manzoniana Il conte di Carmagnola. Secondo Chauvet, la tragedia aveva notevoli
pregi poetici, ma un limite che consisteva nel fatto che Manzoni non aveva rispettato i precetti
classicistici della tragedia , in particolare l’unità di tempo e spazio. Manzoni va oltre la questione
specifica e affronta il tema più generale del rapporto tra arte e realtà.
Manzoni definisce il rapporto tra vero storico, attinente ai fatti, agli ambienti e ai processi generali,
e il vero poetico o verosimile, connesso agli aspetti psicologici e alla creazione dei personaggi.
Il vero storico può essere oggetto di indagine documentaria o storiografica, mentre il verosimile
può essere oggetto dell’invenzione poetica. L’opera letteraria deve combinare il vero e
verosimile, il reale e l’invenzione poetica in modo che ne scaturisca l’utile ovvero la
trasmissione di un messaggio morale perché l’opera d’arte abbia un valore pedagogico.
Nel corso della lettera, il problema della tragedia e delle sue regole passa in secondo piano e
comincia ad emergere la tematica di un nuovo genere letterario, il romanzo, al quale Manzoni ha già
iniziato a lavorare.
La lettera sul Romanticismo.
Sempre nel 1823, Manzoni interviene anche sul dibattito culturale dominante: la polemica tra
romantici e classicisti. La lettera sul Romanticismo diretta a D’Azeglio gli procurò il ruolo di guida
culturale. Nella lettera Manzoni assume precise posizioni: contesta la presenza ingombrante della
mitologia classica; il dovere per un letterato di adeguarsi alle regole retoriche, linguistiche,
precettistiche tramandate dalla tradizione classica, l’obbligo di imitare gli antichi.
In definitiva, Manzoni sceglie la strada della modernità che per lui significa l’adesione alla storia e
sposa questo tipo di Romanticismo fortemente legato al vero e lontano dalle tendenze intimistiche.
Manzoni sta già lavorando ad un’opera in prosa dal contenuto storico: il romanzo, un lavoro che
assorbirà tutte le sue energie.
Genesi del romanzo manzoniano.
L’idea di cimentarsi in questo genere nuovo, il romanzo storico, nasce dalle affermazioni contenute
nelle lettere ma anche dallo stretto rapporto che ormai Manzoni sta stringendo con la storia e dai
contatti frequenti con Claude Fauriel e Thierry.
Un’opera in prosa sembra rispondere meglio delle tragedie e della poesia al bisogno di una
letteratura moderna, civilmente impegnata e capace di rivolgersi ad un pubblico vasto e nazionale.
C’è poi un particolare non trascurabile: nel 1820, Manzoni conosce il romanzo storico di Walter
Scott, “Ivanhoe”.
L’avvio del romanzo.
Nell’aprile del 1821, lo scrittore inizia a stendere i primi due capitoli poi si ferma, da un lato perché
sta lavorando ad altre opere, dall’altro perché inizia una rigorosa ricerca sulla storia lombarda del
Seicento, ma soprattutto perché, come rivela a Fauriel, si trova davanti a due problemi: come unire
armonicamente vero e verosimile e poi il problema della lingua letteraria italiana che non è ancora
nazionale.
Tra il 1822 e il 1823, terminate le altre opere, Manzoni si dedica esclusivamente al romanzo e in
due anni scrive la prima stesura, convenzionalmente chiamata Fermo e Lucia. Per lui è soltanto una
minuta da riscrivere e infatti, appena terminato il lavoro, se ne mostra profondamente insoddisfatto.
Vi scopre un eccesso di digressioni che spezzano il filo narrativo, ma soprattutto scopre gravi
carenze dal punto di vista del linguaggio. Per sua stessa ammissione la lingua del Fermo e Lucia
appariva un’invenzione letteraria fatta a tavolino, composta com’era di elementi della tradizione
toscana, modi di dire ed espressioni milanesi, francesismi di vario genere.
Per quattro anni lo scrittore lavora alla revisione del testo: rende più compatta e armonica la
struttura narrativa ed interviene sul linguaggio. La seconda stesura viene alla luce della tradizione
letteraria di stampo toscano, tentando però di tradurre in questa la vivacità del dialetto milanese. Ne
risulta una lingua sicuramente letteraria, ma non classicamente purista, e riconoscibile dal pubblico
letterario popolare, cioè non accademico. Dunque nel 1827 esce la prima edizione dei Promessi
sposi.
Il romanzo ottiene un positivo successo, ma Manzoni è ancora convinto di aver usato un linguaggio
libresco che, anche se moderno, non corrisponde ad alcuna lingua parlata. Per questo motivo, dopo
la pubblicazione, sempre nel 1827, si reca con la famiglia per un anno a Firenze dove entra in
contatto con i circoli intellettuali: si rende conto che esiste una versione reale e moderna della
tradizione letteraria toscana. Manzoni comincia subito la revisione del romanzo e questo lavoro
dura più di dieci anni, tra momenti intensi e fasi di stanchezza morale causata da una lunga serie di
lutti familiari.
L’edizione definitiva del romanzo.
Tra il 1840 e il ’42 esce l’edizione definitiva dei Promessi sposi. Il romanzo, costato tanta fatica, ha
un gran successo e , negli ambienti risorgimentali è accolto come egli sperava: un’opera nazionale
che può contribuire alla costruzione di una coscienza comune. Il successo dei Promessi sposi e
l’unificazione italiana raggiunta nel 1861 procurano al Manzoni la nomina di senatore del Regno e
poi Presidente della Commissione statale per l’unificazione della lingua. Manzoni muore nel 1873,
ulraottantenne, lasciando ai posteri non tanto la grammatica e il lessico della lingua nazionale, ma il
primo grande romanzo della letteratura italiana.