Cass. Sez. Un. Pen. n. 18/1996

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Cass. pen. Sez. Unite, (ud. 03-07-1996) 17-07-1996, n. 1
ESTORSIONE
SICUREZZA PUBBLICA
Composta dagli Ill.mi Sig.:
Dott. Antonio LA TORRE Presidente
Dott. Ferruccio SCORZELLI Componente
Dott. Gnnaro TRIDICO Componente
Dott. Giuseppe CONSOLI Componente
Dott. Renato TERESI Componente Rel. Componente
Dott. Umbeerto PAPADIA Componente
Dott. Giovanni D'URSO Componente
Dott. Giuseppe COSENTINO Componente
Dott. Adalberto ALBAMONTE Componente
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto dal P.G. c/
1) Simonelli Vincenzo n. il 2 luglio 1952 a Frignano
2) Agizza Antonio n. il 6 luglio 1945 a Napoli
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3) Romano Luigi n. 27 dicembre 1935 a Brusciano
4) Agizza Vincenzo n. il 26 novembre 1947 a Napoli
5) Nuvoletta Lorenzo n. l'1 gennaio 1931 a Marcano di Napoli
6) Chiodo Eugenio Mario nella dichiarata qualità di liquidatore della Hotel Castelsandra Di
Romano Leonida & C. s.a.s.
Avverso il decreto in data 21 luglio 1994 emesso dalla Corte di Appello di Napoli;
Sentita la relazione fatta dal Consigliere dott. Renato Teresi
Udite conclusioni del P.M. dott. Sebastiano Suraci con le quali chiede l'annullamento parziale
con rinvio sul punto che delibera la revoca della confisca dei beni di cui al capo a) del dispositivo 2) annullamento con rinvio sul punto in cui è rigettata la proposta di misura personale nei confronti
di Agizza Vincenzo e Antonio e revocata la confisca dei beni indicati al capo c) del dispositivo. 3)
Rigetto degli altri ricorsi
Uditi i difensori:
Avv. Gustavo Pensini del foro di Napoli,
Avv. Carlo Fiore del foro di Napoli,
Avv. Ivan Montone del foro di Napoli,
Avv. Pasquale Coppola del foro di Napoli,
Avv. Vincenzo Siniscalchi del foro di Napoli,
Avv. Riccardo Polidoro del foro di Napoli.
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Svolgimento del processo
Con decreto in data 21 luglio 1994 la Corte di appello di Napoli decideva sull'impugnazione
proposta da Nuvoletta Lorenzo, Romano Luigi, Agizza Vincenzo, Agizza Antonio, nonché
Simonelli Vincenzo, avverso il provvedimento adottato nei loro confronti dal locale Tribunale il 16
settembre 1992 ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia e
successive modificazioni), decreto con il quale erano state applicate misure di prevenzione
personali e patrimoniali.
La Corte di merito, tra l'altro, prendeva in esame anche l'incidente di esecuzione proposto dal
curatore fallimentare della s.r.l. CO.NA.C. ed all'esito emetteva le seguenti statuizioni:
a) dichiarava non luogo a provvedere nei confronti di Nuvoletta Lorenzo in ordine ad
entrambe le proposte di misure personali e patrimoniali per morte del proposto: con la conseguente
caducazione delle stesse;
b) riduceva la durata della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza irrogata a Romano
Luigi;
c) rigettava le proposte di misure personali e patrimoniali nei confronti di Agizza Vincenzo
ed Agizza Antonio e, dichiarate assorbite le impugnazioni proposte dai terzi intestatari, revocava il
sequestro dei beni in danno dei predetti, specificamente indicati e sottoposti a confisca;
d) rigettava la proposta di confisca in danno di Simonelli Vincenzo, confermando la sola
misura personale, nonché la cauzione al medesimo imposta;
e) confermava, nel resto l'impugnato decreto.
La Corte di merito poneva a fondamento della propria decisione e metteva in particolare rilievo
due eventi definiti di fondamentale importanza:
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- il primo, costituito dalla morte del Nuvoletta, sopravvenuta in data 7 aprile 1994, mentre
trovavasi agli "arresti domiciliari" nella propria abitazione e dopo che la misura della sorveglianza
speciale era stata definitivamente confermata in altra precedente procedura con decreto 3 febbraio
1987 della stessa Corte di Appello (seppure mai eseguita per la latitanza e la successiva
sottoposizione a custodia cautelare in carcere del prevenuto);
- il secondo, costituito dal passaggio in giudicato della sentenza che, da un lato, aveva
affermato la responsabilità del Romano e del Simonelli in ordine al contestato delitto
previsto dall'art. 416-bis c.p., e, dall'altro, aveva assolto Agizza Antonio ed Agizza Vincenzo dalla
stessa e da altra imputazione.
Dava atto la Corte di avere disposto - con ogni riserva e su richiesta del P.G. - la chiamata in
giudizio degli eredi di Nuvoletta Lorenzo.
Avverso detto decreto hanno proposto ricorso per Cassazione il Procuratore generale della
Repubblica presso la Corte di appello di Napoli, Agizza Antonio, Romano Luigi, Simonelli
Vincenzo e Chiodo Eugenio Mario quale liquidatore della "Hotel Castelsandra di Romano Leonida
& C. s.a.s.", società della quale, per un verso, era stato confiscato il patrimonio sociale nel valutare
la posizione del Romano - e ciò avuto riguardo all'oggettiva ed intrinseca illiceità della relativa
attività - mentre, per altro, era stata disposta la restituzione di quasi tutto l'intero capitale, siccome
costituito dalle quote di partecipazione alla Società di ritenuta spettanza degli Agizza.
Il Procuratore generale ha dedotto:
a) la nullità del decreto per violazione dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, sotto il
profilo della obbligatorietà della confisca, nonostante la sopravvenuta impossibilità di applicazione
della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, dovendosi assimilare, a suo avviso, la
predetta misura ablatoria a quella disciplinata dall'art. 240, comma 2, c.p. e, quindi, in senso
tecnico, di natura diversa da una misura di prevenzione: termine riconducibile in senso proprio
soltanto a quella di natura personale, avuto riguardo, in particolare, alla definitività del giudizio di
pericolosità ed alla indimostrata provenienza dei beni oggetto del provvedimento;
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b) la nullità del decreto per violazione degli artt. 1 e 2-ter della legge n. 575 del 1965, nonché
il difetto e la contraddittorietà del provvedimento, avuto riguardo, da un lato, alla sottolineata
autonomia del procedimento di prevenzione, rispetto al processo penale dal delitto di cui all'art.
416-bis c.p. - di "fatti storici" non esclusi dal giudice penale e come tali aventi quell'innegabile
valore "indiziario" costituente il presupposto necessario, ma al tempo stesso sufficiente, per
l'applicazione di entrambe le misure proposte.
Nell'interesse di Romano Luigi si è dedotta:
a) la violazione dell'art. 8 c.p.p., così reiterando la già dedotta eccezione di incompetenza
territoriale del Tribunale di Napoli - ritenuta infondata dalla Corte di merito - sotto il profilo che
riguardando gli addebiti "fatti e condotte legate alla gestione del complesso alberghiero dell'Hotel
Castelsandra" sito nel comune di Castellabate, "e non potendosi il ricorrente ritenere collegato al
gruppo di società facenti capo ai cognati Agizza", andava identificato nel Tribunale di Salerno il
giudice naturale competente a decidere sulle proposte misure, posto che il Romano era residente in
quel territorio ed ivi svolgeva tutte le sue attività;
b) la violazione dell'art. 649 c.p.p. avuto riguardo alla ritenuta insussistenza - da parte dei
giudici di merito - della preclusione processuale nascente dal precedente provvedimento
irrevocabile adottato dal Tribunale di Vallo della Lucania in data 19 dicembre 1991 (divenuto
irrevocabile il 24 marzo 1992) con il quale il Romano era stato sottoposto alla sorveglianza speciale
di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno in Castellabate: decreto fondato, secondo il
ricorrente, sugli stessi dati e condotte posti a base di quello per il quale risultava formulata la
proposta di cui al presente procedimento.
c) l'irritualità della confisca in quanto non preceduta da valido provvedimento di sequestro da
parte del giudice del procedimento di prevenzione, cui gli atti erano stati trasmessi da quello penale
a seguito dell'abrogazione dell'art. 24 della legge n. 646 del 1982: con la conseguente caducazione
dell'efficacia del decreto a suo tempo emesso dal G.I.
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Sotto tale profilo, pertanto, non si sarebbe potuto considerare operante il provvedimento di
proroga della validità del medesimo adottato dal Tribunale della prevenzione in data 16 ottobre
1991.
Nell'interesse di Agizza Antonio il ricorso è stato proposto limitatamente alla parte concernente
la confermata confisca dei beni costituenti il patrimonio sociale della Castelsandra s.a.s.
deducendosi in particolare il vizio di illogicità della motivazione, nonché quello di violazione, per
errata applicazione dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965.
Si è messo in evidenza, al riguardo, che, da un lato, entrambi i fratelli Agizza erano stati ritenuti
estranei a qualsivoglia coinvolgimento in attività di tipo camorristico - con il conseguente rigetto
delle proposte di misure personali e patrimoniali e la revoca del sequestro dei beni a suo tempo
disposto nei loro confronti - e, dall'altro, era stata confermata, invece, la confisca del patrimonio
sociale della "Castelsandra s.a.s." del quale essi Agizza detenevano - e, secondo la Corte di merito ,
lecitamente - la maggior parte delle quote, seppur avuto riguardo a quelle ritenute di pertinenza del
Romano e in quanto tali ricollegabili ai metodi di gestione camorristici della società.
Da ciò, ad avviso del ricorrente, nonostante che il provvedimento si riferisse allo specifica
situazione del Romano, l'interesse all'impugnazione, tenuto conto che l'impresa in questione non fu
creata, ma rilevata dal Romano insieme agli Agizza con il contributo, da parte di questi ultimi, per
l'avviamento e la gestione superiore ai tre miliardi.
Nell'interesse di Simonelli Vincenzo l'impugnazione è stata proposta per censurare quei capi e
punti del decreto concernenti la durata della misura di prevenzione personale e l'ammontare della
cauzione, ritenute, l'una e l'altra, sproporzionate in relazione al presupposto giudizio di pericolosità
sociale ed alle condizioni economiche del ricorrente.
Il liquidatore della "s.a.s. Hotel Castelsandra", infine, ha dedotto la manifesta illogicità della
decisione, sottolineando che il decreto impugnato, di fatto, paralizzava ogni attività mirata alla
soddisfazione dei crediti vantati nei confronti della predetta società, in quanto, da un lato disponeva
la restituzione (ai fratelli Agizza) delle quote rappresentanti la quasi totalità del capitale (3.300.000
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su 3.500.000) e, dall'altro, ribadiva invece la confisca dell'intero patrimonio sociale: da qui, ad
avviso del ricorrente, l'interesse a proporre ricorso.
Il ricorso veniva trattato innanzi alla I sezione penale di questa Corte all'udienza camerale del
28 febbraio 1996: avuto riguardo peraltro all'estrema rilevanza della questione prospettata dal
ricorrente P.G. circa la caducazione , o meno , della misura di prevenzione patrimoniale in caso di
decesso del proposto, nella specie già assoggettato - seppur in un precedente analogo procedimento
divenuto definitivo - alla misura di prevenzione personale, il Collegio rimetteva d'ufficio - ai sensi
dell'art. 618 c.p.p. - la decisione alla Sezioni Unite.
Il Primo presidente Aggiunto fissava di conseguenza la trattazione del ricorso in camera di
consiglio per l'udienza odierna.
Motivi della decisione
Ricorso del P.G.
1) Osserva preliminarmente il Collegio che la questione concernente la caducazione, o meno,
della "misura di prevenzione patrimoniale" della confisca in caso di decesso del proposto - la cui
rilevanza ha determinato la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite - ha formato oggetto di due
particolari decisioni di questa Corte, aventi ad oggetto fattispecie parzialmente analoghe, per quanto
meglio si preciserà oltre, ma di segno opposto.
Con la prima (Sez. I del 28 marzo 1995, Pres. De Lillo - est. Mocali - ric. Ranucci) si è
affermato, peraltro con motivazione estremamente succinta, che il decesso del proposto, intervenuto
prima che divenisse definitivo il provvedimento sulla confisca, comporta non solo il venir meno
della misura di prevenzione personale, ma anche quello "conseguenziale" di natura patrimoniale.
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Con la seconda (Sez. I del 17 luglio 1995, Pres. Franco - est. Silvestri - ric. D'Antoni) si è
invece affermato che la confisca, disciplinata dall'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (e successive
modificazioni) è correlata "ad una precisa connotazione di obiettiva illiceità della res e ne
determina, pertanto, la pericolosità in sé: con l'effetto di consentire l'ablazione anche quando la
misura di prevenzione personale, cui accede, sia cessata in conseguenza della morte del proposto".
In particolare, si è posto in evidenza che la funzione della "misura di prevenzione reale" deve
essere identificata nell'eliminazione dell'utile economico proveniente dall'attività criminosa: finalità
che verrebbe frustrata se i familiari o gli eventuali prestanome della persona affiliata ad
un'organizzazione criminale di tipo mafioso potessero riacquistare la disponibilità dei beni
confiscati per effetto della morte del proposto, socialmente pericoloso, la cui attività illecita ha
rappresentato la fonte dell'accumulo dei beni oggetto della misura.
Questi i precedenti più pertinenti, rispetto ai quali non pare possa avere incidenza l'unica
pronuncia emessa sinora dalla Corte Costituzionale sulla specifica problematica - ordinanza n. 721
del 23 giugno 1988 - alla quale, anche, si è fatto riferimento dalla difesa nel corso della discussione
orale - in quanto la Corte Costituzionale, investita della questione sotto il profilo di un'eccepita
illegittimità dell'art. 2-ter, commi 3, 4 e 6 della legge n. 575 del 1965 (così come modificato
dall'art. 14 della legge n. 646 del 1982) si è limitata a dichiararla manifestamente inammissibile,
siccome diretta a sollecitare - in ipotesi di accoglimento - un intervento additivo di competenza
esclusiva del legislatore.
2) Resta aperta, pertanto, ed appare preliminare ed al tempo stesso assorbente, ad avviso delle
Sezioni Unite, la questione concernente l'interpretazione della normativa richiamata - operazione
ermeneutica sicuramente di spettanza di questa Corte - avuto riguardo, in particolare, alla esatta
individuazione della natura del provvedimento di confisca ed alla "ratio" sottesa al suo inserimento
nell'ambito del preesistente procedimento di prevenzione.
Questo, infatti, appare il punto fondamentale, il nodo da sciogliere, tenuto conto, da un lato,
della prescritta obbligatorietà della confisca - una volta verificata la sussistenza dei presupposti cui
la stessa è ancorata secondo la specifica previsione contenuta nell'art. 2-ter, commi 2 e 3 della legge
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n. 575 del 1965) - e, dall'altro, la sua compatibilità con la prescrizione contenuta nel vigente testo
dell'art. 3-ter della stessa legge, secondo il quale "i provvedimenti che dispongono la confisca dei
beni sequestrati, la confisca della cauzione o l'esecuzione sui beni costituiti in garanzia, diventano
esecutivi con la definitività delle relative pronunce".
Il tutto, avuto riguardo alla situazione verificatasi nel caso di specie, nel quale la Corte di
merito ha ritenuto tra l'altro, la caducazione del provvedimento di confisca, per effetto del decesso
di Nuvoletta Lorenzo sopravvenuto prima del "passaggio in giudicato" della decisione sulle
proposte misure di prevenzione personali e reali.
Ritiene ora il Collegio che sia esatta l'interpretazione sostenuta dal Procuratore generale della
Repubblica ricorrente, specificamente illustrata con il primo motivo di censura, sul quale, quindi,
occorre soffermarsi.
3) Va innanzitutto sottolineato che l'originaria normativa - risalente alla legge 27 dicembre
1956, n. 1423 (vigente ancora, per quanto qui interessa richiamare, avuto riguardo, in particolare,
anche al regime delle impugnazioni, disciplinato appunto dall'art. 4) e alla legge 31 maggio 1965, n.
575 (e successive modificazioni) - seppur correlate tra di loro, avevano e continuano ad avere un
ambito di applicazione diverso.
La prima, infatti, ha introdotto misure dirette a proporre ed applicare, in via generale, ben
individuate misure al fine specifico di prevenire, attraverso una serie di limitazioni, le condotte di
soggetti ritenuti pericolosi per la sicurezza e per la pubblica moralità.
Da qui l'innegabile qualificazione, da ritenersi propria, di misure di prevenzione.
La seconda, invece, ha preso le mosse dalla necessità, avvertita dal legislatore, di predisporre in
modo specifico adeguati mezzi di contrasto nei confronti non di una indeterminata categoria di
soggetti - ma di coloro che apparivano indicati quali "indiziati di appartenere ad associazioni
mafiose" (art. 1 del testo originario) espressione, peraltro, significativamente modificata
dall'art. 13della legge 13 settembre 1982, n. 646 che ha sostituito la predetta formulazione con
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quella, ancor più specifica, di soggetti "indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla
camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità ed
agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso".
L'importanza delle innovazioni introdotte dalla legge n. 646 del 1982 - nei limiti in cui appare
rilevante metterle qui in evidenza - è data, oltreché dalla specificità dei destinatari, indiziati di una
"pericolosità qualificata", dalla introduzione, da un lato, nell'ambito delle "misure di prevenzione
personali" vere e proprie, dell'obbligo di soggiorno, e, dall'altro, per la prima volta, dei
provvedimenti di sequestro - anche preventivo - e della confisca (art. 2-ter della legge n. 646).
È dato di fatto incontrovertibile, ora, che la legge richiamata, sia nel titolo, che nel testo, fa
riferimento a "disposizioni in materia di prevenzione di carattere patrimoniale" e, in via generale
(capo II), a "disposizioni in materia di misure di prevenzione": ma è innegabile che, mentre in tema
di sorveglianza speciale di P.S., di obbligo di soggiorno e di imposizione di una cauzione, ci si
muove sicuramente nell'ambito giuridicamente riconducibile alle finalità vere e proprie di misure
preventive - nel senso già in precedenza sottolineato - e che alla stessa categoria può essere
senz'altro ricondotto il previsto provvedimento di sequestro, attesa la natura cautelare, propria dello
stesso - non altrettanto può dirsi avuto riguardo alla confisca.
La devoluzione allo Stato dei beni confiscati, prevista dalla legge 4 agosto 1989, n. 282 (art. 4)
e le finalità indiscutibilmente "ablative" dei corrispondenti provvedimenti, non consentono, invece,
di qualificare gli stessi, in senso tecnico/giuridico, quali misure di prevenzione, aggiunte a quelle,
specificamente previste, quali "personali": e ciò al di là delle formali espressioni adoperate dal
legislatore.
Trattasi, invero, ad avviso del Collegio, di improprietà lessicali, rispetto all'effettivo contenuto
normativo, non idonee come tali a modificare la natura del provvedimento di confisca - di carattere
sicuramente "ablatorio" - in una "misura di prevenzione" in senso tecnico ed a "condizionare"
pertanto l'interprete.
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Il che, a "fortiori" va detto, se si ha presente la "ratio" posta a base delle specifiche disposizioni
in materia, dirette, come si ritiene in modo pressoché concorde, ad eliminare dal circuito economico
beni provenienti da attività che, a seguito degli accertamenti disposti, devono ritenersi ricollegate
alla ritenuta appartenenza del soggetto ad un'associazione di tipo mafioso.
La confisca, invero, è prevista nell'ambito dello specifico procedimento di prevenzione: ne
segue, in linea di massima, le regole; ha per presupposto la pericolosità del soggetto - destinatario di
misure di prevenzione vere e proprie, ancorché non eseguite o non eseguibili; è diretta, peraltro, a
differenza della misura di prevenzione personale (o di quella patrimoniale, avuto riguardo alla
cauzione) a sottrarre "i beni", in via definitiva, alla disponibilità dell'indiziato di appartenenza ad
associazione di tipo mafioso: ancorché tale risultato sia conseguibile solo all'esito definitivo della
prevista procedura.
Su questi presupposti, pertanto, è esatto che non si può prescindere dalla valutazione obiettiva
di una concreta pericolosità - ancorché su base indiziaria - ma è altrettanto vero che, accertato
definitivamente che il soggetto che direttamente o indirettamente dispone dei "beni", ha un reddito
o un'attività economica sproporzionati al reddito dichiarato e si ha giustificato motivo di ritenere
quindi, anche a seguito delle indagini effettuate, che gli stessi siano frutto di attività illecite o ne
costituiscano il reimpiego, la confisca diventa obbligatoria.
A meno che (art. 2-ter, comma 4 della legge n. 575 del 1965), non sia dimostrata la loro
legittima provenienza.
Escluso, di conseguenza, il carattere sanzionatorio di natura penale e, parimenti, quello di un
provvedimento di "prevenzione", la confisca non può essere ricondotta che nell'ambito di quel
"tertium genus" costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile (quanto al contenuto ed agli
effetti) alla misura di sicurezza prevista dall'art. 240 cpv. c.p.: applicata, per scelta non sindacabile
del legislatore, nell'ambito dell'autonomo procedimento di prevenzione previsto e disciplinato
dalla legge n. 575 del 1965 e successive modificazioni.
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Solo alla luce di tale ricostruzione interpretativa, pertanto, possono essere inquadrate la
funzione ablativa in favore dello Stato, espressamente prevista dalla normativa in esame, e la sua
conseguenziale obbligatorietà.
È appena il caso di mettere in evidenza al riguardo, infatti, che la "ratio" sottesa ai
provvedimenti in esame - adottabili nell'ambito del procedimento di prevenzione - siccome diretta a
colpire beni e proventi di natura presuntivamente illeciti (sussistendo ovviamente i presupposti di
legge) per "escluderli dal cosiddetto circuito economico", si ricollega, seppur con un ambito di
estensione non identico, alle ipotesi previste dal citato art. 240 c.p., cpv. n. 1 e 2 che, come è noto,
prescindono dalla condanna - da un'affermazione di responsabilità accertata in sede penale - con la
conseguente applicabilità anche nel caso di proscioglimento: quale che sia la formula (art. 205 c.p.).
D'altra parte, è appena il caso di ricordare che, anche avuto riguardo alle misure amministrative
di sicurezza in senso stretto - previste e disciplinate dagli artt. 199 a 240 c.p. - dottrina e
giurisprudenza hanno sempre concordato, con particolare riferimento alla confisca, che tale istituto
non si presenta sempre con identica natura e configurazione, ma assume caratteristiche peculiari in
relazione alle diverse finalità che la legge le attribuisce e che, di conseguenza, la misura tende a
realizzare.
È pertanto applicabile, prescindendo anche dall'accertamento di una specifica responsabilità
penale - ove i presupposti in fatto siano ricollegabili ad una violazione di detto tipo - col solo
rispetto del principio di legalità (art. 25, comma 3, Cost.) : imponendosi soltanto, in ogni caso, che
il provvedimento sia espressamente previsto da una norma di legge.
E sotto tale profilo, di conseguenza, anche con riferimento alla citata disciplina penalistica,
sono previste sia la presunzione di persona socialmente pericolosa (art. 204, comma 2, c.p.), sia la
possibilità e, se del caso, l'obbligatorietà delle misure di sicurezza in genere - personali e
patrimoniali, confisca compresa - persino nel caso di proscioglimento.
5) Per quel che concerne ora la specifica materia, è appena il caso di mettere in evidenza che i
principi sopra richiamati trovano un preciso riscontro nelle modificazioni introdotte dalla legge 19
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marzo 1990, n. 55 che sanciscono l'autonomia dei due procedimenti - penale e di prevenzione (art.
9) e la possibilità di applicazione della confisca anche in caso di assenza, residenza o dimora
all'estero del soggetto al quale "potrebbe applicarsi la misura di prevenzione", ancorché il relativo
procedimento di prevenzione non sia stato iniziato: il tutto, sul presupposto "che si possa ritenere
che i beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego" (art. 2 legge citata).
Pacifica, anche, l'applicabilità nei confronti dei latitanti.
Sempre sulla stessa linea, poi, si devono ritenere inserite le sentenze di questa Corte (Sez. 1 - 18
maggio 1992 - c.c. - n. 2186 ric. Vincenti ed altri e Sez. 5 - 5 ottobre 1993 - c.c. - n. 3057 ric.
Oliveri).
Con la prima, si è messo in particolare rilievo che in considerazione della ritenuta appartenenza
del soggetto ad un'associazione mafiosa e, quindi, delle presunta illiceità delle modalità di
acquisizione o della riproducibilità di ricchezza inquinata all'origine, anche il benne (assoggettato a
confisca) finisce per le dette condizioni con l'essere "uno strumento di sviluppo dell'organizzazione
mafiosa, dei suoi membri e, quindi, pericoloso in sé".
Con la seconda, si è ritenuto che la revoca o la modifica della misura personale a seguito di
elementi indicativi della cessazione della pericolosità - sopravvenuti alla sua definitiva applicazione
- non eliminano la sussistenza "ab origine" degli elementi in base ai quali la misura venne adottata:
con l'esclusione, pertanto, di una invalidazione "ex tunc" della stessa e, quindi, di una revoca della
confisca dei beni.
6) Alla luce delle argomentazioni e dei riferimenti richiamati appare ora evidente che le
incertezze prospettabili al momento dell'entrata in vigore della legge n. 575 del 1965, devono
ritenersi superate dal successivo inserimento nel corpo della stessa di un nuovo impianto risultante
dalle particolari modificazioni introdotte nel prosieguo e, significativamente, dalle leggi n. 646 del
1982 e n. 55 del 1990.
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Il quadro normativo di riferimento, infatti, pur sempre collegato al soggetto - si è
inequivocabilmente incentrato sull'inserimento dello stesso in un ambito di appartenenza ad
un'associazione di tipo mafioso nei confronti della quale, appunto, agendo attraverso il soggetto che
ha la disponibilità dei "beni", è diretta l'azione di contrasto voluta dal legislatore.
D'altra parte, l'assoluta autonomia dei due procedimenti - penale e di prevenzione - comporta la
possibilità di applicazione dei provvedimenti, personali e/o patrimoniali, anche in contrasto con le
conclusioni cui possa pervenire il giudizio penale: e ciò, sia per diversità dei presupposti, sia per la
valenza diversa che la legge assegna agli elementi sulla cui base le singole procedure vengono
definite.
In conclusione, quindi, anche il venire meno del "proposto" - una volta che siano rimasti
accertati ai fini specifici della speciale legislazione in materia i presupposti di pericolosità
qualificata (nel senso di indiziato di appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso) e di
indimostrata legittima provenienza dei beni oggetto di confisca - non fa venir meno quest'ultima
misura, posto che le finalità perseguite dal legislatore, non prescindono, né potrebbero, dalla
"preesistenza" del soggetto, e neppure possono ritenersi necessariamente legate alla sua "persistenza
in vita": fra l'altro, si pensi che il decesso potrebbe avvenire anche per cause non naturali o
accidentali e che detto evento potrebbe essere deliberatamente perseguito da terzi proprio al fine di
"riciclare i beni", facendoli così rientrare proprio nel "circuito dell'associazione di tipo mafioso,
seppur, anche questa volta, attraverso l'interposizione di soggetti diversi.
E non pare dubbio che una interpretazione della normativa in esame che consentisse, con la
caducazione della confisca a seguito della morte del "proposto", il risultato ora prospettato, si
porrebbe in aperto contrasto con la precisa volontà espressa dal legislatore nel perseguire e
reprimere il "fenomeno mafioso".
7) Sulla base delle argomentazioni che precedono e passando all'esame del caso di specie, si
deve convenire ora, come esattamente messo in evidenza dal P.G. ricorrente, che la Corte di appello
di Napoli ha tratto dall'intervenuta morte del Nuvoletta conseguenze errate circa la caducazione del
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provvedimento di confisca già adottato nei confronti del predetto: così incorrendo nella denunciata
violazione dell'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575.
Al riguardo, infatti, il giudice di merito non ha tenuto conto che era già stato definito - nei
confronti di Nuvoletta Lorenzo - altro giudizio di pericolosità, con la confisca anche qui di alcuni
beni, rispetto al quale i provvedimenti emessi erano passati in cosa giudicata.
In tale precedente giudizio - definito prima dell'inizio del procedimento penale promosso nei
confronti del Nuvoletta e di altri soggetti, tra i quali il Romano, gli Agizza e Simonelli per i delitti
di cui agli artt. 416-bis c.p. ed altri e durante lo svolgimento del quale è deceduto il Nuvoletta quest'ultimo venne ritenuto come appartenente all'omonimo "clan camorristico" ed anzi l'indiscusso
capo.
Le proposte di "misure" (personali e cd. patrimoniali) promosse successivamente e di cui al
presente ricorso, si inseriscono pertanto nel contesto di una "pericolosità qualificata" già
definitivamente accertata e ne costituivano - come esattamente sottolineato dal P.G. ricorrente - in
parte, un'integrazione, in parte un aggravamento.
Senza ignorare, sempre in tema di accertata pericolosità, il valore additivo promanante dalla
condanna del Nuvoletta in primo grado in ordine al contestato delitto di cui all'art. 416-bis c.p.
Su questi presupposti, pertanto, avuto riguardo anche alla disposta integrazione del
contraddittorio nei confronti degli attuali titolari dei beni oggetto della confisca, la Corte di merito
avrebbe dovuto effettuare le previste verifiche richieste dalla legge, e, ove le deduzioni di tali parti,
in collegamento o meno con eventuali specifici motivi di appello proposti nell'interesse del
Nuvoletta, non avessero confermato la legittima provenienza dei beni, avrebbe dovuto provvedere
in conformità.
Al che, a seguito dell'annullamento con rinvio della decisione impugnata sullo specifico punto,
dovrà provvedere il nuovo giudice conformandosi ai principi ora enunciati: in particolare, a quello
della non caducazione della "misura" per effetto dello intervenuto decesso del "proposto"; il tutto,
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prendendo in esame le aspettative e le pretese di coloro (come l'Amodio Maria Rosaria ved.
Nuvoletta che ha fatto pervenire a questo Collegio una nota d'udienza in data 3 luglio 1996) rispetto
ai quali già venne disposta - seppur con riserva - l'integrazione del contraddittorio.
8) Ugualmente fondato, ad avviso del Collegio, è il secondo motivo di censura formulato dal
P.G. ricorrente avverso quella parte del decreto con la quale la Corte di appello di Napoli ha
rigettato le "misure personali e patrimoniali" nei confronti di Agizza Vincenzo e di Agizza Antonio,
revocando il sequestro dei beni in danno dei predetti, già sottoposti a confisca in primo grado.
Al riguardo la decisione impugnata risulta evidentemente viziata da contraddittorietà della
motivazione e da errata applicazione dei principi - già richiamati - di cui agli artt. 1 e 2ter dellalegge n. 575 del 1965, posto che proprio la sottolineata autonomia del procedimento di
prevenzione, rispetto a quello penale, escludeva la ritenuta assorbente rilevanza della sentenza di
assoluzione pronunciata nei confronti degli stessi in data 3 novembre 1993 e divenuta irrevocabile.
L'intervenuta assoluzione dei predetti dal delitto di cui all'art. 416-bis c.p. - contestato sotto il
profilo della loro appartenenza al "clan Nuvoletta" - e da quello di cui agli artt. 56 e 629 c.p.,
concernente una tentata estorsione in danno dell'Istituto Universitario Navale e ricollegato secondo l'accusa - ai rapporti di tipo camorristico con il congiunto Romano Luigi, non potevano
comportare "automaticamente", come appare invece dal decreto impugnato, la disposta caducazione
delle misure.
Basti porre mente, infatti, al rilievo secondo cui alla mancanza anche assoluta di prove o di
gravi indizi di colpevolezza richiesti dalla legge per giungere ad un'affermazione di responsabilità
in sede penale non corrisponde affatto un'analoga valenza in tema di "procedimento di prevenzione
, nel quale gli indizi di affiliazione ad un "clan mafioso" - e la indimostrata liceità dell'appartenenza
dei beni - possono essere desunti anche dagli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la
configurabilità di illiceità penale ovvero da altri acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio di
prevenzione.
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Ed al riguardo pare particolarmente rilevante il dato, sottolineato dal ricorrente - e sul quale non
è dato rinvenire una specifica valutazione nel decreto impugnato - del carattere fortemente
indiziario desumibile dall'assidua frequentazione (durata per anni e per tutto il tempo in cui la stessa
Corte di merito ha riconosciuto che il Romano era dedito a delitti di ogni genere) con il predetto
congiunto, con il quale entrambi i fratelli Agizza hanno operato in attività imprenditoriali che come sempre la stessa Corte ha sottolineato, avuto riguardo alla posizione del Romano - ha svolto
tutte le sue pluriennali attività con "metodi camorristici": tanto che i beni e le imprese di
quest'ultimo sono stati confiscati.
Alla stregua di tali elementi, del tutto inadeguata e al tempo stesso contraddittoria deve
considerarsi la decisione impugnata, avuto riguardo , da un lato - come messo in evidenza dal
ricorrente - alla significativa compartecipazione degli Agizza nella "Bitum Beton", alla gestione del
complesso alberghiero dell'Hotel Castelsandra ed ai fatti concernenti l'appalto delle pulizie
dell'Istituto Universitario Navale (rispetto ai quali la sentenza penale ha solo escluso che gli Agizza,
originari assegnatari, fossero gli autori del delitto di tentata estorsione) e, dall'altro, alla continuità
dei rapporti di affari intrattenuti dai predetti con il cognato.
E ciò anche dopo che l'appartenenza di quest'ultimo ad un'organizzazione di tipo mafioso era
stata affermata in giudizi penali ed in procedimenti di prevenzione.
È fuor di dubbio, ora, che il grado di parentela e/o di affinità non possono costituire, da soli,
dati aventi una sicura valenza indiziaria in reati o in condotte riconducibili a fenomeni di criminalità
organizzata: ma è anche vero che l'assiduità e la lunga durata di frequentazioni, a maggior ragione
di tipo imprenditoriale/affaristico con soggetti ufficialmente raggiunti da gravi sospetti di
appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso, quale deve ritenersi sicuramente il Romano, non
possono essere considerati elementi di scarso rilievo e, comunque, di nessuna obiettiva incidenza,
nel procedimento di prevenzione, avuto riguardo in particolare all'esclusione degli "indiziati" da
responsabilità di terzi nell'autonomo giudizio penale: quanto meno sulla base delle argomentazioni
addotte.
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Il decreto impugnato va pertanto annullato con rinvio anche su tale punto ed il nuovo giudice
provvederà, in piena di libertà di valutazione, ma con l'obbligo di attenersi agli enunciati principi di
esatta interpretazione degli artt. 1 e 2-ter della legge n. 575 del 1965 e di coerente ed adeguata
motivazione, ad una nuova delibazione della posizione personale di Agizza Vincenzo ed Agizza
Antonio.
9) Quanto agli altri ricorsi, osserva il Collegio che, parte, appaiono infondati, parte, invece,
devono essere dichiarati inammissibili.
10) Ricorso di Romano Luigi
Nell'interesse del Romano la difesa ha riproposto in sede di legittimità le questioni di
incompetenza territoriale e di violazione del principio "ne bis in idem" di cui all'art. 649
c.p.p. formulate in modo specifico davanti al giudice di merito e da questi ritenute infondate.
Ma, osserva il Collegio, le censure non appaiono fondate e corretta deve ritenersi su tali punti la
decisione adottata con il decreto impugnato.
È esatto, infatti, che nel procedimento di prevenzione la competenza si radica - in stretta
correlazione con il criterio dell'attualità della pericolosità sociale - nel luogo in cui, al momento
della proposta, o, per essere più precisi, della decisione, la pericolosità si manifesti: e, nell'ipotesi in
cui plurime siano le manifestazioni del tipo in esame e si verifichino, poi, in luoghi diversi, dove le
condotte di "tipo qualificato" appaiano di maggior spessore e rilevanza.
Ma, nella specie, il giudice di merito, con una valutazione dei fatti non sindacabile nella
presente sede, ha ritenuto di identificare tale ambito in quello del distretto di Napoli.
Quanto all'asserita violazione dell'art. 649 c.p.p. è appena il caso di rilevare che appaiono esatte
le affermazioni della Corte di appello secondo cui, attesa la peculiarità del procedimento di
prevenzione, la preclusione derivante dal giudicato opera sempre "rebus sic stantibus": non
impedisce, pertanto, la rivalutazione della "pericolosità qualificata" ove sopravvengano nuovi
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elementi indiziari - non precedentemente noti - che comportino una valutazione di maggior gravità
della pericolosità della stessa ed un giudizio di inadeguatezza delle misure in precedenza adottate.
In tali casi, pertanto, può darsi luogo ad un aggravamento delle misure e, occorrendo,
all'eventuale irrogazione di altre di tipo diverso.
Precisamente su questi presupposti, il decreto impugnato ha messo in evidenza, da un lato, che
in precedenza era stata adottata la sola misura della sorveglianza speciale di P.S., con obbligo di
soggiorno nel Comune di Castellabate, e, dall'altro, che le proposte portate all'esame del Tribunale
di Napoli si riferivano ad elementi e dati dei quali mancava qualsiasi riferimento nella decisione
precedente adottata dal Tribunale di Vallo della Lucania: con la conseguente mancanza di identità
delle due fattispecie.
Seppur non come specifico ed autonomo motivo di censura, la difesa del Romano ha reiterato
poi con il presente ricorso una serie di argomentazioni riproponenti l'inefficacia dei sequestri già
disposti dal G.I. penale ex art. 24 della legge n. 646 del 1982, sotto il profilo che, a seguito
dell'intervenuta abrogazione di tale norma per effetto dell'art. 36 della legge 19 marzo 1990, n. 55 e
della mancata emissione - da parte del giudice della prevenzione cui gli atti erano stati trasmessi - di
provvedimenti cautelari sostitutivi, non avrebbe potuto essere disposta la confisca dei beni.
Al riguardo il Collegio ritiene sufficiente sottolineare - conformemente alla conclusioni adottate
dal P.G. presso questa Corte ed all'ampia motivazione svolta sul punto dai giudici di merito - che ai
sensi dell'art. 35 della richiamata legge n. 55 del 1990 il decreto di sequestro emesso dal giudice
penale conserva la sua efficacia nel procedimento di prevenzione per il semplice trasferimento degli
atti dal giudice penale al giudice della prevenzione.
La dizione letterale del secondo comma dell'art. 35 della legge n. 55, infatti, disponendo
testualmente che "il procedimento relativo alla applicazione delle suddette misure prosegue innanzi
al giudice competente per l'applicazione della misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio
1965, n. 575, ferma restando l'efficacia dei provvedimenti già adottati dal giudice penale" , non
consente un'interpretazione come quella sostenuta nell'interesse del Romano, dovendosi ritenere
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esclusa, appunto, e comunque, la necessità di provvedimenti cautelari sostitutivi da parte del
giudice della prevenzione.
Ogni altra argomentazione resta assorbita dai rilievi che precedono.
Consegue, pertanto, il rigetto del ricorso.
11) Ricorso di Agizza Antonio
Per quel che concerne le censure mosse nell'interesse di Agizza Antonio, l'unico dei due fratelli
che ha impugnato il decreto 21 luglio 1994, va sottolineato che le stesse si riferiscono a quella parte
del provvedimento di merito con il quale è stata confermata la confisca dei beni costituenti il
"patrimonio sociale" della Castelsandra s.a.s. e sotto il particolare profilo secondo cui la pronuncia
"de qua" sarebbe affetta dal vizio di una radicale illogicità e, per tale via, da quello di erronea
applicazione dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965.
In particolare. è stato osservato che la Corte di appello, da un lato, ha espressamente specificato
che il dissequestro dei "beni, partecipazioni e consistenze sociali appartenenti" ai fratelli Agizza, era
comprensivo anche dei beni ed attività delle società cui avevano partecipato Romano Luigi ed i suoi
familiari (ferma, invece, restando la confermata confisca delle relative azioni o quote di capitale)" e ciò in aderenza all'operata separazione tra attività economiche facenti capo anche agli Agizza e
riconosciute lecite e la ritenuta pericolosità attribuita, invece, ad alcuni dei loro soci in determinati
affari - dall'altro, avrebbe smentito clamorosamente il suddetto principio, nella parte in cui,
occupandosi dell'Hotel Castelsandra, ha ritenuto di dover confermare la confisca di tutti i beni
costituenti il patrimonio sociale dell'omonima s.a.s.
E ciò, avuto riguardo all'oggettiva ed intrinseca illiceità della relativa attività, emersa dalle
modalità mafiose con le quali la struttura era stata ampliata e gestita, in prima persona, dal "predetto
proposto", in un quadro nel quale il mantenimento della confisca sul patrimonio sociale in questione
appariva legato esclusivamente ai metodi di gestione dell'impresa.
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Ma, osserva brevemente il Collegio, i rilievi che precedono, da una parte, si ricollegano in
modo pertinente ai motivi di ricorso - in precedenza esaminati e ritenuti fondati - formulati dal P.C.
proprio nei confronti di quella parte del decreto che ha provveduto sulle posizioni di entrambi i
fratelli Agizza e, dall'altra, come ammesso in modo esplicito dal ricorrente, investono direttamente
il diverso capo del provvedimento concernente la persona di Romano Luigi.
Ne consegue la manifesta inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione.
12) Ricorsi di Simonelli Vincenzo e di Chiodo Mario Eugenio.
Avuto riguardo ai motivi di censura dedotti nell'interesse dei predetti, va rilevato che si deve
dichiarare l'inammissibilità di entrambi i ricorsi.
Quanto al primo, perché le doglianze prospettate attengono in modo specifico ed inequivoco
all'entità della misura di prevenzione inflitta ed all'ammontare della cauzione: integrano, pertanto,
motivi di merito, non deducibili in sede di legittimità.
Quanto al secondo - che ha presentato il ricorso nella dichiarata qualità di liquidatore nominato
dai custodi giudiziari della "Hotel Castelsandra di Romano Leonida & C. s.a.s." - la dichiarazione di
inammissibilità consegue all'evidente carenza di un interesse tutelabile nella presente sede.
Ed infatti la censura investe il provvedimento impugnato sotto l'unico profilo - dedotto in modo
esclusivo - di un'asserita illogicità dello stesso, avuto riguardo agli effetti del decreto in relazione
alle pronunce emesse nei confronti dei fratelli Agizza e di Romano Luigi: gli effetti conseguenziali,
ad avviso del ricorrente, "paralizzerebbero materialmente ogni attività mirata alla soddisfazione dei
crediti vantati nei confronti della predetta Società".
Trattasi, all'evidenza, di un mere interesse di fatto, o, più esattamente, della semplice
prospettazione del venire meno di una possibile aspettativa, che, in quanto tale, non può formare
oggetto di esame da parte del giudice di legittimità.
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Al rigetto del ricorso di Romano Luigi segue la condanna al pagamento delle spese processuali
in solido con Agizza Antonio, Simonelli Vincenzo ed Eugenio Mario Chiodo nella qualità.
I predetti, ad eccezione di Romano Luigi, vanno condannati anche al versamento di una somma
- ritenuta congrua nella misura di lire un milione ciascuno - in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso del P.G., annulla il decreto impugnato limitatamente alle statuizioni
di natura patrimoniale di cui alla lettera a) del dispositivo, nonché a quelle relative ad Agizza
Antonio ed Agizza Vincenzo di cui alla lett. c) e rinvia per nuovo giudizio sui punti predetti alla
Corte di appello di Napoli.
Rigetta il ricorso di Romano Luigi e dichiara inammissibili i ricorsi di Agizza Antonio,
Simonelli Vincenzo e di Eugenio Mario Chiodo nella qualità, condannando i predetti, in solido, al
pagamento delle spese processuali, e ciascuno - ad eccezione di Romano Luigi - a versare la somma
di lire 1.000.000 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in camera di consiglio il 3 luglio 1996.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 17 LUGLIO 1996.