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Le nozze mancate di Mina

Lorenza Di Corinto 2

«È per lo sposo.» «Signora Elvira, parliamoci chiaramente: il matrimonio si fa, o non si fa?» «Don Leo, fatemi una cortesia, voi pregate, che al resto ci pensiamo noi.» La chiesa di San Rocco era piena di gente fin fuori le porte. Che Mina si sposava era stata una notizia grossa. Come nel paese, così su quelle panche, le mani si stringevano mentre la voce si spargeva.

Lina Bonagiornata era corsa giù dal vicolo appena la suocera l’aveva chiamata sulla soglia; la figlia di Giovanni forse non si sposava più. Prese posto nella panca in seconda fila, proprio dietro la sua vicina di casa.

«Donna Grazia, buongiorno», esordì. «Pensavo d’essere in ritardo, ma pare che ancora c’è tempo.» Grazia Montesano, la vicina di casa, aveva settantatré anni, non ci vedeva dall’occhio destro ed era quasi del tutto sorda: ad onta di ciò non le sfuggiva mai una notizia. Quel giorno, come tutte le domeniche, stava seduta al primo banco, col fazzolo grigio in testa e il rosario in mano.

Pregava perché lo sposo arrivasse presto e in salute, anche se era tanto più emozionante se invece non si presentava più. «Povera creatura.» «Mina?» «Il ragazzo.» «È morto?» «Ma vi pare che se era morto stavamo ancora qua a pregare?» La signora Lina ignorò il velato insulto, e domandò: «Allora che gl’è successo?» «Chi lo sa, povera creatura,» e Grazia Montesano riprendeva l’avemmaria da dove l’aveva interrotta.

Donna Lina cercò la sposa ma non la trovò, né vide nessuno della sua famiglia. I Felicissimi stavano tutti fuori, ad aspettare che quell’uomo si presentasse, e se il morto non c’era scappato già, ci scappava dopo. Ruppe l’attesa e domandò: «Lei dove sta?» «Nascosta dietro al refettorio.» «E nascosta resta, ve lo dico io, che per strada non la vediamo più.» Così li chiamavano: I Felicissimi. Non perché erano sempre felici, anzi, erano una famiglia di disgraziati. Li chiamano così perché di cognome facevano Dei Felici, e i maschi si chiamavano tutti Giovanni. Per non confonderli, allora, in paese avevano cominciato a chiamarli Giovanni Felice, Giovanni Felicissimo, Giovanni il figlio di Felicissimo, e così via, da molte generazioni.

Questo Giovanni, il padre di Mina, non faceva più di un metro e cinquanta in altezza, e tutto il suo peso, la sera, era capace di berselo in vino. Primo iscritto al partito comunista, già era un miracolo se, a suo tempo, Don Leo lo aveva fatto marito a Donna Santina, che c’aveva la cattiveria in corpo, però a Dio ci credeva per davvero.

Santina e Giovanni avevano avuto sette figli: due se li era presi il tifo del quarantatré, gli altri erano cresciuti in salute, tutti belli tranne una, Giuseppina, che però era tanto brava. Mina era l’ultima; bella, giovane e miracolata dalla Madonna, non una volta sola, bensì due, era nata con la camicia e il tifo, lei di soli tre anni, non l’aveva vinta, e tutti dicevano che fosse rimasta al mondo per servire il Signore. Mina, però, il Signore non lo voleva servire, e poi era comunista pure lei.

«Se il Creatore vuole riportare le sue pecore alla retta via, un modo lo trova», disse Marinella Fiore. Suo marito Domenico rispose: «Che vai dicendo? Questi sono cristiani, mica pecore.» «Non sono cristiani, sono socialisti.» «Comunisti.» «Peggio!» La signora Fiore era sposata e senza figli. Stava appoggiata sullo stipite della porta fregiata, all’ingresso della chiesa. Davanti a lei e a suo marito, nel piazzale di San Rocco, stava radunata la famiglia della sposa. Giovanni si era seduto coi figli sui gradini della casa di fianco al sagrato, ad asciugarsi la fronte. Santina, alta e dura, nel suo vestito nero, stampato a fiori per la festa, stava dritta e silenziosa a guardare un punto fisso.

«Criminale.» Quella parola solo disse, in tutto il tempo che era stata ferma sotto il sole ad aspettare.

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Se n’erano accorti subito, appena era nata, che Mina aveva ripreso la cattiveria della madre. Non taceva i cattivi pensieri, e non si faceva commiserare. Correva per casa col mattarello in mano e pure ai fratelli dava le botte sulle gambe. S’era fatta grande ed era sempre uguale, ma quel giorno Mina non fiatò. Stava seduta col parroco di fronte e aspettava. Don Leo nemmeno s’azzardava a parlare, anche se era l’unico che la pigliava per il verso giusto. Che ci stava da dire? Una figlia così bella rovinata da un delinquente.

Se lo meritava, avrebbero detto tutte, e Mina lo sapeva. L’invidia è nera più della fame, Santina lo diceva sempre.

Dalla discesa di San Nicola, ai piedi del quartiere, arrancando, salivano due guardie.

Si misero di fronte ai Felicissimi schierati e raccontarono qualcosa che in paese non si dimenticò mai, ma di cui nessuno parlò più: «Lo sposo sta in galera,» dissero.

Giovanni si fece di pietra, ma durò solo un istante. Mandò a chiamare la figlia dal refettorio. Ci mandò Giovina, la più piccola dei nipoti. All’altro capo della chiesa stava Mina con Don Leo, e lei là doveva arrivare, ma Giovina era una bambina, e i bambini dicono sempre la verità. Le mani dei vecchi le si stringevano addosso, la tiravano tra i banchi.

«Che è successo, Giovinè?» Chiesero, «Parla!» « stato un incidente?» «Ci sta una femmina di mezzo?» Giovina aveva sette anni e non le piaceva parlare con la gente. Aveva una sorella che non stava mai zitta, invece quel giorno era toccato a lei parlare.

«Lasciatela stare la creatura, non lo vedete che sta spaventata?» Menina, che aveva parlato, era una lontana parente. Veniva dal paese vicino, e quella mattina s’era svegliata prima dell’alba per vedere sposarsi la sua nipote più bella.

«Che è capitato? Dillo a me,» ordinò.

«Fuori ci stanno due guardie, vogliono a’ Mina.» Era tutto quello che la bambina sapeva, e fu tutto quello che disse. Mina camminava per la chiesa con gli occhi bassi e Don Leo al seguito, a proteggerla da domande e turbamenti. In fondo alla chiesa ci stava Nicola. Pesava più di cento chili e la panca lo reggeva a malapena. Prese Giovanni per la manica della giacca quando lo vide arrivare, erano quasi cinquant’anni che non entrava in chiesa, Giovanni. «Mi puzza la cera,» diceva.

La verità era che odiava i preti, e Giovina lo sapeva, glielo diceva sempre il nonno: «Attenta a quei corvi neri.» Oggi però doveva raggiungere sua figlia. Nicola gli si affiancò e gli chiese: «Ci sta da sistemare qualche affare col prete?» Giovanni fece cenno di no con la testa. Quella volta i cattolici non c’entravano. Al matrimonio del primo figlio, comunista manco a dirlo, il parroco aveva fatto storie, e Nicola se lo ricordava bene perché il pranzo di nozze l’aveva aspettato per più di due ore. Alla fine l’uomo s’era spazientito e aveva minacciato il prete che se non avesse messo in piedi quello sposalizio se lo sarebbe mangiato sano come si faceva coi bambini, e il matrimonio era stato il più bello che si ricordava in paese, c’erano venuti pure da lontano.

Giovanni raggiunse sua figlia sulla porta e se la prese sotto braccio. Mina lo guardò e non volle piangere.

Il padre disse solo: «Alza la testa, il primo che parla si ingoia i denti.» Donna Lina veloce e silenziosa si avvicinò loro e prese la mano di Mina: «Piangi se vuoi piangere,» disse.

Mina non seppe rispondere però lo fece Giovanni: «I miserabili piangono. Mina è felice.» La Madonna l’aveva miracolata un’altra volta, dissero i pii quando le guardie finirono di raccontare la storia del marito scomparso. Si chiamava Gianfranco Mirafiori ed era uomo ricco, ma era venuto fuori che aveva un giro scellerato nella capitale.

«Pare che c’avesse le prostitute a carico.» «E la creatura sarebbe stata la prossima», disse la signora Montesano, tenendosi stretta il crocefisso.

«Una grazia le hanno fatto, sentite a me», fece eco donna Lina, rivolgendosi a Santina.

La madre di Mina si mosse velocemente senza chiedere scusa a nessuno. Si fermò sulla soglia della chiesa, e disse a Marinella: «Correte dal pastore Donna Fiore, che se il dovere suo non lo fa lui, poi lo deve fare il cane.» Marinella Fiore stette zitta e non rispose. Santina c’aveva la vista lunga e la lingua 4

affilata, l’udito fine di una volpe. Che l’avesse sentito oppure immaginato quel suo commento le era arrivato, e mentre faceva questo pensiero la Felicissima ormai le dava già le spalle per raggiungere sua sorella Elvira.

Allora radunò tutta la famiglia e il vicinato. Quando tutti ebbero fatto silenzio e il vociare fu spento, disse: «La casa sta preparata a festa. Andiamo a mangiare.» «E che ci sta da festeggiare?», chiese Mina guardandola negli occhi. La mamma le accarezzò la guancia, e si fece vicina al suo orecchio, «Riempiamogli la pancia, così chiudono le bocche.» Non si seppe mai perché Santina chiamò quell’uomo criminale; se ci indovinò per caso, oppure se, avveduta com’era, avesse intuito per suo conto. L’uomo era ricco, e la sua famiglia stava sistemata bene. Con quel matrimonio avrebbe avuto una figlia nella capitale, e una bocca in meno da sfamare. Però, pure da disgraziati, i Felicissimi non erano rimasti mai senza mangiare.

Anzi quel giorno, col matrimonio all’aria, ci mangiò tutto il paese.

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