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Lc 17, 5-10
5Gli apostoli dissero al Signore: 6"Accresci in noi la fede!". Il Signore rispose: "Se aveste fede
quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed
esso vi obbedirebbe. 7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando
rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola"? 8Non gli dirà piuttosto: "Prepara da mangiare,
stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu"?
9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi,
quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto
quanto dovevamo fare"".
COMMENTO
Nella seconda parte della sezione dedicata al viaggio verso Gerusalemme (Lc 13,22 18,30), dopo la parabola del ricco e del povero che abbiamo analizzato domenica scorsa,
Luca riporta, come aveva fatto dopo la parabola dell’amministratore astuto, alcuni detti di
Gesù che ne approfondiscono l’interpretazione (17,1-10). È difficile però precisare il nesso
logico che collega questi detti tra di loro e con la parabola. I primi due, omessi dalla
liturgia di oggi, riguardano rispettivamente lo scandalo e il perdono (17,1-4). Il testo
liturgico riporta invece il terzo detto, che è un’istruzione riguardante la fede (vv. 5-6) e la
successiva parabola del servo che torna dalla campagna (vv. 7-10). Il primo si trova anche
in Matteo e in Marco, la seconda invece è esclusiva di Luca.
La forza della fede (vv. 5-6)
Il brano che la liturgia ci presenta, non è assolutamente comprensibile se non lo
collochiamo all'interno del capitolo 17. Gesù aveva posto ai discepoli, delle condizioni
bene precise per poterlo seguire e, prima dei versetti che oggi leggiamo, Gesù inizia con
un monito molto severo verso chi è causa di scandalo, dice che per lui sarebbe meglio se si
mettesse una pietra da mulino al collo e fosse gettato in mare. Lo scandalo, cioè "far
inciampare" è rivolto ai piccoli. Il termine greco adoperato dall’evangelista è μικρὸν micron
che significa "gli ultimi, gli invisibili".
Allora Gesù ha parole dure, contro quei membri della sua comunità, che, anziché aiutare i
deboli nella fede, le persone più fragili che avevano pensato di trovare nella comunità di
Gesù quell’ideale di amore e di fraternità, ed invece sono state scandalizzate, cioè "fatte
cadere". Qual è il motivo dello scandalo? Il motivo dello scandalo lo dice Gesù con parole
molto severe: “Attenti a voi; se tuo fratello commette una colpa, rimproveralo, ma se si pentirà,
perdonagli”.
Il motivo dello "scandalo", quindi, è la mancanza di perdono.
Questi
"piccoli", hanno sentito parlare che, nella comunità fondata da Gesù, domina la legge
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dell'amore vicendevole, dell'accoglienza, dove il perdono è una prassi condivisa ecc.
Purtroppo, anziché fare l'esperienza di questi doni, hanno dovuto constatare la presenza
di invidie, gelosie, rancori e povertà di fede. Questo è dare scandalo!
Gesù, parlando ai suoi, aveva detto: "Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma
se si pentirà, perdonagli. 4E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte
ritornerà a te dicendo: "Sono pentito", tu gli perdonerai". Gesù sta invitando i suoi a essere figli
dell’Altissimo, che ha un amore incondizionato verso tutti gli uomini, al punto da amare
anche gli ingrati e i malvagi.
Gesù propone ai suoi discepoli di arrivare a questo livello: sforzarsi di avere un amore
simile a quello del Padre,
incondizionato e ricco di misericordia. Agli esterrefatti
discepoli, questo sembra troppo ed allora reagiscono. Questo è il brano che la liturgia ci
presenta.
“Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!»” Di fronte all’esigenza di Gesù di un
amore che sia simile a quello di Dio, loro non si sentono capaci e chiedono un aiuto a Dio,
chiedono di accrescere la fede. Vivere lo stile di vita che Gesù propone, non è sicuramente
facile; gli apostoli si sentono inadeguati al loro compito, perché di poca fede (cfr. 8,25;
12,28).
La fede, però, non può essere aggiunta o accresciuta dall'Alto, perché essa non è data da
Dio, ma è la risposta al dono d’amore che il Padre fa a tutti. Come si vedrà nel testo
evangelico che commenteremo la prossima domenica, dei dieci lebbrosi sanati, uno solo
torna indietro; di questo che torna indietro a ringraziare per questo dono d’amore, Gesù
parla di fede. La fede, quindi, non è un dono che Dio fa per cui non può essere accresciuto
da Dio, ma la fede è la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa. E questo dono
d’amore deve essere manifestato in una altrettanta offerta d’amore agli altri. Come spesso
succede, la risposta di Gesù non è diretta, che si smorzi in una battuta, ma è indiretta,
parabolica, ricca di dottrina. Le immagini cui ricorre, nel loro simbolismo carico, vengono
dalla vita agricola per entrare nella vita spirituale. Dopo tanto stare con lui, ascoltandolo e
guardandolo operare prodigi, ancora tra i discepoli, insigniti del titolo di apostoli dal
Maestro stesso, alcuni non hanno coscienza di che cosa sia la fede richiesta.
Gesù comincia: «Se avete fede...». La risposta di Gesù è tuttavia paradossale: invita a porre
in atto ciò che essi già possiedono, perché anche una fede “minima” può produrre risultati
prodigiosi. Il confronto è enfatizzato dalla contrapposizione tra il seme più piccolo
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(senape) e la pianta più difficile da sradicare, per la presenza di aculei e radici profonde
(gelso). Ricordo che tra i traduttori non c’è accordo a riguardo del nome della pianta, resa
da alcuni come gelso e da altri sicomoro. Nell’Antico Testamento il termine è,
generalmente, riferito al sicomoro, poiché era risaputo che questa pianta poteva avere
radici che vivevano anche per 600 anni ed era dunque difficilmente sradicarle. In entrambi
i casi, il senso dell’iperbole è chiaro: nulla è impossibile per chi crede! Non si tratta
dunque di misurare la fede con il criterio della quantità, ma dell’autenticità.
…. quanto un granello di senape …”, cioè il chicco è proverbialmente il più piccolo, …
potreste dire a questo gelso”, o sicomoro: "Sradicati e piantati nel mare”. Il mare è il luogo dove
Gesù aveva detto che doveva andare chi è autore dello scandalo, quindi quello che
fomenta lo scandalo, questa difficoltà, deve essere sradicata. L’immagine di un albero che,
in obbedienza alla parola pronunziata dal credente, si sradica e si trapianta «nel mare» (o
meglio, «presso il mare»), è piuttosto curiosa. Si tratta chiaramente di una frase
paradossale, frequente nella letteratura rabbinica, usata per indicare la forza della fede
genuina. Per fede non bisogna intendere la semplice credenza nel potere divino, ma la
sequela di Gesù e l’adozione dello stile di vita che gli è proprio. Solo mediante una fede
forte e autentica è possibile adeguarsi al vangelo, le cui esigenze vanno contro i
comportamenti abituali degli umani almeno tanto quanto una pianta che si sradica e va a
piantarsi in un altro luogo. Seppur colorata con le forti tinte della cultura semitica, la
simbologia dell'albero che può essere piantato in mare, riusciamo a comprenderla: è
un'iperbole semitica per dire che con un po' di fede si possono ottenere molte cose.
Più problematica è la seconda paraola che sembra contraddire completamente quanto
affermato al capitolo 12, nel quale Gesù aveva parlato di un padrone che torna a casa a
notte fonda, trovava i servi ancora in piedi e cosa fa? Dice: “Li farà mettere a tavola, si cingerà
le vesti e si metterà a servirli”. Era l’immagine dell’Eucaristia, dove il Signore, a quelli che
l’hanno accolto e con lui e come lui orientano la propria vita per il bene degli altri,
comunica la sua stessa energia, la sua stessa capacità d’amore. Qui abbiamo tutto il
contrario: il padrone dice al sevo “cingiti le vesti”, atteggiamento di servizio, e servimi! La
parabola, propria del terzo evangelista, non è collocabile in un esatto ambiente, ed è
introdotta da una domanda retorica per renderla più viva e attirare l’attenzione degli
ascoltatori: "7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando
rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola"? Si parla di un padrone, il quale ha un
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servo tutto-fare che «ara o pascola»; sono queste le due azioni tipiche dell’apostolo:
l’annuncio = semina e la cura dei fratelli = pastore. Il servo o lo schiavo di cui si parla è
quindi proprio l’apostolo; egli non appartiene più a sé ma come lo schiavo appartiene al
padrone (= il Signore). A nessuno viene in mente che il servo debba mangiare prima del
padrone né che il padrone sia obbligato verso il servo per avere eseguito gli ordini
ricevuti. Per condurre i suoi uditori a interrogarsi, Gesù racconta loro questa parabola,
partendo da una situazione quotidiana e articolandola attorno a due domande retoriche
che Gesù pone per attirare l’attenzione degli ascoltatori e trasformarli in interlocutori. Il
significato della parabola potrebbe essere racchiuso in uno slogan: al servo è chiesto di
comportarsi da servo! Dopo aver lavorato tutto il giorno nel campo, è "normale" che continui
a servire il padrone a tavola. Ciò può risuonare socialmente ingiusto e fastidioso ai nostri
orecchi, ma nella Palestina del I secolo, in cui servizio e la schiavitù erano una realtà
comune, doveva essere un concetto ampiamente condiviso. Il servo non attende
gratitudine, giacché sta facendo ciò che deve fare. Qual è il significato di questa
espressione che contraddice apertamente quanto Gesù, aveva detto? Gesù vuole rendere i
discepoli Figli di Dio, cioè liberi, ma questa libertà si ha soltanto con un amore simile a
quello del Padre. Gesù vuole portare i suoi dall'antica alla nuova Alleanza; l'antica era
basata sull’obbedienza alla legge del Signore, mentre la nuova si fonda sull'accoglienza
dell’amore del Padre. Gesù vuole rendere i discepoli Figli di Dio, ma, per farlo, bisogna
innalzare la soglia del proprio amore e, per fare questo, bisogna abbandonare quel
rapporto servo-Signore che era stato imposto da Mosè. Mosè, servo del Signore, aveva
imposto un’alleanza tra dei servi e il loro Signore, basata appunto sull’obbedienza, in cui
l’uomo era un servo. Gesù, il Figlio di Dio, propone un’alleanza tra dei figli e il loro Padre,
non più basata sull’obbedienza, ma sull’accoglienza del suo amore. L'amore di Dio come si
manifesta? Come servizio! Se il nostro è un Dio che serve e non che si fa servire, è
naturale che i discepoli si pongano in questa lunghezza d'onda. Questo è il senso della
parabola!
v. 10 – «Siamo servi inutili»: l’uso dell’aggettivo ἀχρεῖος achreios, inutile, senza valore, non
vuole togliere valore all’azione umana ma spingere gli apostoli verso un sano realismo
offrendo un paragone. Nella consapevolezza di ciò che è, il servo non usa il proprio lavoro
come strumento di rivendicazione o vanto nei confronti del proprio padrone. Allo stesso
modo il discepolo / apostolo, sapendo che tutto ciò che è e possiede gli è stato donato, non
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vivrà nell’orgoglio, ma trasformerà la propria esistenza in un canto di lode a Colui da cui
tutto proviene. Ricordiamoci che Luca sta catechizzando la sua comunità, ricordando ad
alcuni suoi membri, che farsi "belli" con i doni di un altro non è il massimo della saggezza.
Hai ricevuto dei doni? Bene, usali per il bene degli altri! Possiamo ricordare la parabola
del fariseo e del pubblicano (18,10-14). Mentre il fariseo usa la propria impeccabile
osservanza della Legge per "ricattare" Dio, il pubblicano si pone dinanzi a lui nella verità e
proprio per questo viene giustificato da Dio. Il medesimo messaggio è presente negli scritti
rabbinici: «Se avrai praticato molto la Torah non vantartene; perche per questo sei stato creato».
Che cosa può vantare un albero di ciliegie se fa fiori di ciliegio e frutti? Nulla, perché per
questo è stato creato … se non lo facesse, sarebbe un albero secco e inutile. Quello che a
prima vista, nella conclusione della parabola, aveva un che di aspro e quasi d' irritante, in
realtà afferma quale deve essere l’atteggiamento interiore del discepolo nell’esecuzione del
suo mandato. Questa schiavitù per amore è la liberazione totale dall’egoismo: «Voi infatti,
fratelli, siete stati chiamati a liberta e questa non consiste nel vivere secondo l’egoismo, ma nell'
‘essere, mediante la carità, schiavi gli uni a servizio degli altri» (Gal 5,13).
L’aggettivo ἀχρεῖος che la CEI traduce «siamo servi inutili». Non è esatto, perché lo schiavo
che fa il suo servizio non è «inutile»! In greco si usa una parola che significa «inutile» o
«senza utile», ἀνωφελής anóphelés cioè senza guadagno. Una traduzione migliore
potrebbe essere, «siamo semplicemente servi», che fanno cioè semplicemente il loro lavoro.
L’espressione evangelica vuole esprimere che il “servire” non è qualcosa che si viene ad
aggiungere alla condizione umana, come un possibile merito, come una realtà superflua e
accidentale. L’essere opera del Creatore, implica la disponibilità e la normalità dell’essere
messi a disposizione, dell’essere chiamati a servire. Un uomo che non “servisse” avrebbe
fallito la sua stessa identità, avrebbe perso la sua vita, avrebbe perso se stesso. Colui,
invece, che vive la sua esistenza proprio come servitore, non fa altro che rispondere a quel
disegno iscritto nella sua stessa vita, nello stesso disegno divino che lo ha generato. Ecco
perché non è necessaria una ricompensa, perché il servire non divenga motivo di
rivendicazioni. Tornano alla mente le parole di Paolo: “Non è un vanto per me, l’annunciare il
vangelo. E’ un dovere per me. Guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9, 16).
Essere servi equivale dunque a «rinunciare a fare qualcosa di noi stessi» per lasciarci fare
da Dio. Soltanto perché lui ci precede, possiamo seguire; soltanto perché lui perdona,
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possiamo perdonare; soltanto perché lui è con noi, possiamo continuare ad annunciare
l’Evangelo «con forza e amore» persino nella persecuzione e nel martirio (2 Tm 2,6).
Il ministero apostolico è di sua natura gratuito, perché rivela la fonte da cui scaturisce:
"gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Mt 10,8). Per Paolo la ricompensa più alta
è predicare gratuitamente il Vangelo (1 Cor 9,18). La sostanziale povertà dei sevi di Dio è
evidente dal fatto che, nell’opera della salvezza, tutto risale al Signore. Paolo ammoniva i
Corinzi che parteggiavano per questo o per quell’evangelizzatore: "Io ho piantato, Apollo ha
irrigato, ma e Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta né chi irriga, è qualcosa, ma e Dio che fa
crescere" (1 Cor 3,6). Lo stesso apostolo, quasi a commento delle parole di Cristo, dice:
≪Non e per me un vanto predicare l’Evangelo, e per me un dovere: guai a me se non predicassi
l’Evangelo!" (1 Cor 9,16).
Ciò che Gesù vuole rilevare è che la fedeltà alla legge, come la pratica delle buone opere,
non comporta per sé il diritto alla ricompensa da parte di Dio. E neppure comporta tale
diritto una vita spesa per il vangelo, al seguito di Gesù e al servizio dei fratelli. Dopo aver
fatto tutto ciò che la sua fede gli ispirava, il discepolo deve abbandonarsi totalmente alla
misericordia gratuita di Dio. La comunione con lui, verso la quale tende una vita di fede,
trascende ogni prestazione umana e non può essere concepita come un salario, sulla base
del principio del do ut des. Dio non si lascia vincere in generosità: il premio ci sarà, ma
gratuito e in una misura infinitamente superiore ai meriti dell'uomo. Solo fidandosi di Dio,
senza preoccuparsi dei propri meriti, l’essere umano trova la capacità di operare
correttamente per il regno di Dio e al tempo stesso la pace interiore.
A cura di padre Umberto
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