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PRIMO PIANO
Giovedì 29 Settembre 2016
Chiedendo, ad esempio, che sia fatta chiarezza sull’opacità del sistema bancario tedesco
L’Italia si difenda dalla Ue
La polemica è sterile. Invece le accuse motivate, no
DI
AUGUSTO LODOLINI
È
uscito di recente un libro del premio Nobel
per l’economia Joseph
Stiglitz dal titolo «The
Euro: And its Threat to Europe», cioè «L’euro e la sua minaccia all’Europa», che ha destato qualche discussione. Non
avendo ancora letto il libro, mi
rifaccio ad alcune interviste
dello stesso Stiglitz che ne illustrano il contenuto, per esempio
quella rilasciata a un blog della
London School of Economics. La
critica di partenza di Stiglitz è
ormai scontata: senza un’unità
politica, un’unione monetaria
difficilmente può funzionare.
È un fatto ormai acquisito, ma
qualche commentatore ha fatto presente che gli Stati Uniti
ci sono riusciti, sia pure in più
di un secolo e con una guerra
civile in aggiunta. Argomento
che più che una contestazione
appare come una drammatica
dimostrazione dell’assunto iniziale.
È tuttavia interessante
l’osservazione che l’Eurozona
è stata costruita, non tanto su
ragioni economiche, quanto su
motivazioni politiche. Questo
rappresenta un capovolgimento
dell’assunto: l’euro è stato fatto
per portare all’unità politica,
utilizzando l’unità monetaria
come strumento. Evidentemente si è pensato, come diceva
Napoleone delle salmerie, che
l’economia e i popoli seguiranno,
ma, come per Napoleone, questa
si sta dimostrando un’illusione
anche per l’Eurozona.
Un altro punto principale del
discorso di Stiglitz è che non si
può dare per scontato che i costi
di uno smantellamento dell’euro
siano comunque e di gran lunga
superiori a quelli di un suo mantenimento a qualsiasi prezzo.
Quanto meno la questione dovrebbe essere verificata accuratamente e l’opinione di Stiglitz
che convenga smantellare l’euro
non sembra essere così isolata.
Il periodico riaffiorare dell’euro
«a due velocità», ipotesi delineata dalla Germania prima della
moneta unica, per esempio nei
confronti dell’Italia, prospetta
soluzioni molto vicine al «divorzio amichevole» cui accenna
il professore americano.
Il Brexit, pur non facendo
parte il Regno Unito dell’Eurozona, ne ha paradossalmente
accentuato le tensioni interne.
L’immagine usata da Stiglitz è
forte: piuttosto che soci solidali
tra loro, i Paesi dell’Ue sembrano dei compagni di prigione, che
stanno insieme per paura di essere puniti. Un paragone forse
eccessivo, ma che sembra giustificato dalle reazioni di Bruxelles
all’esito del referendum britannico. Stiglitz cita Juncker come
esempio, accusandolo inoltre di
aver trasformato il Lussembur-
go, quando ne era il Primo ministro, in un paradiso fiscale dentro l’Ue. Argomento cui fu dato
qualche risalto ai tempi dello
scandalo Panama Papers, ma
che non ha avuto alcun seguito
da parte degli altri governi o del
Parlamento europeo.
Per Stiglitz è anche sbagliata e dannosa la politica di
austerità imposta da Bruxelles,
o meglio dalla Germania, altro
argomento trattato qui da noi
quotidianamente. Lasciando
agli economisti come Stiglitz
il dibattito accademico sulle
politiche economiche, è però
da chiedere come mai l’Ue non
applichi la stessa austerità a se
stessa e alla sua costosa macchina burocratica. Un esempio
clamoroso è dato dall’organismo
che dovrebbe rappresentare
i cittadini europei, quelli tartassati dall’austerità. Il Parlamento europeo, come denuncia
con toni peraltro sobri lo stesso suo sito, «lavora» in ben tre
sedi: Strasburgo, Bruxelles e
Lussemburgo. Un perfetto manuale Cencelli dell’Europa non
virtuosa.
Uno degli argomenti portati in favore dell’euro, è che
ha impedito le svalutazioni
competitive e, quindi, eliminato la concorrenza sleale di
alcuni Stati. In effetti, anche
l’Italia ricorse a svalutazioni
competitive della lira e ciò le fu
fatto pagare al momento della
sua entrata nell’euro, non solo,
ma rimane probabilmente uno
dei fattori che ne sconsigliano
l’estromissione dall’euro. Ora,
se è corretta l’analisi di Stiglitz
e di molti altri, è lecito pensare
che vi sia chi pensa utile indebolire l’Italia prima che l’euro
si sfasci, così da diminuirne la
futura competitività. Né tantomeno stupisce che ciò avvenga
soprattutto da parte di Germania e Francia.
Stupisce semmai che i nostri
politici, Governo e Parlamento,
e i nostri imprenditori sembrino del tutto incapaci di reagire,
pur avendo diversi strumenti a
disposizione, a cominciare da
una ridiscussione delle sedi e
della ripartizione dei costi comunitari.
La crisi conclamata di
una «virtuosa» banca tedesca
come la Deutsche Bank dovrebbe spingere a spezzare il ben
poco virtuoso segreto bancario
che avvolge l’intero sistema
delle banche tedesche. Sarebbe
un’occasione per far luce sul
comportamento delle banche
francesi e tedesche nella crisi
greca e sul loro salvataggio da
parte dei due governi, a spese
dei greci e di altri Stati membri,
come l’Italia. Se poi Renzi, invece che nei proclami ai media,
prendesse posizione ufficiale a
Bruxelles contro la Germania
per la sua pesante violazione
degli accordi comunitari sui
surplus commerciali, verrebbe
sostenuto da molti altri Paesi,
troppo timorosi per prendere da
soli l’iniziativa.
Anche il problema dell’immigrazione andrebbe trattato
con ben altra grinta nei confronti
dei nostri «sodali» del nord e, in
particolare, dovremmo presentare un conto salato a Francia e
Regno Unito per la loro bella impresa in Libia. Ancora. Le sanzioni alla Russia, che non impediscono a Germania e ad altri di
continuare a fare affari, stanno
danneggiando pesantemente la
nostra economia. L’Italia dovrebbe abolire le sanzioni, che non
mi paiono derivare da nessun
trattato europeo, ma imposte da
Obama. Alle probabili indignate
reazioni dei notabili di Bruxelles
potremmo rispondere dove erano quando Londra e Parigi fecero il disastro libico. Potremmo
inoltre, con una parte dei soldi
risparmiati dalle sanzioni, dare
una mano all’economia ucraina,
investendoci seriamente e non a
parole come sta facendo l’Ue.
È probabile che a questo
punto le sanzioni di Bruxelles
sarebbero rivolte contro di noi,
ma questo segnerebbe la fine
dell’Eurozona e dell’Ue, solo
anticipando un risultato che
sembra essere ormai per molti
scontato. Ma almeno avremmo
smesso di far melina, giocando
all’attacco.
IlSussidiario.net
IN CONTROLUCE
Il partito comunista cinese ha proibito tutti i viaggi nel tempo.
In pratica ha sfrattato Harry Potter e la sua pericolosissima genia
DI
D
DIEGO GABUTTI
Ma lasciamo Hollywood (Harry
Potter e la maledizione dell’erede per il
momento è soltanto un testo teatrale e
non ancora un film, però c’è da credere
che lo sarà presto) e torniamo a Shangai. Citata prima a proposito dell’effetto farfalla, nonché città simbolo del moderno socialismo liberista, Shangai non
vuole neanche sentir parlare di viaggi
nel tempo. Idem il governo cinese. Se
il giovane Albus Potter, prima di mettere mano al «GiraTempo», un ordigno
magico che permette ai coraggiosi di
tuffarsi nell’altroquando alla recherche
e al riallineamento del tempo perduto,
avesse letto un recente documento del
partito comunista cinese, che mette
sostanzialmente fuorilegge i film nei
opo aver salvato il mondo da
Lord Valdemort, un Signore oscuro tra i più malvagi
ma stranamente privo di
naso, Harry Potter è diventato adulto, padre di famiglia, alto funzionario
del Ministero della Magia. Suo figlio
Albus, classico adolescente in crisi, vuole farla vedere al babbo, che tutti ammirano e applaudono, salvando a sua
volta qualcosa o qualcuno, ma per farlo
viaggia nel tempo, e invece di salvare
il mondo lo manda a gambe all’aria,
riconsegnandolo a Lord Valdemort e ai
suoi seguaci da film horror.
È il butterfly effect: una farfalla sbatte le ali a Shangai e,
un’increspatura degli evenSCOVATI
ti dopo l’altra, alla fine c’è
uno tsunami in California.
Rimettere a posto, nell’esatta sequenza, ogni zig e ogni
zag è l’abracadabra in cui
dovranno impegnarsi le
nuove e vecchie leve della magia hollywoodiana
nell’ultima avventura di
Harry Potter, H.P. e la maledizione dell’erede, un’opera
teatrale di John Tiffany e
Jack Thorne, su soggetto
di J.K. Rowling.
NELLA RETE
quali si viaggia attraverso il tempo,
non avrebbe tirato i dadi «e cambiato
da così a così» la storia del pianeta per
farsi bello con i compagni di scuola e
con mamma e papà. In Cina, ai piani
alti del partito, si teme che la farfalla
dell’apocalisse non sia una farfalla cinese ma una farfalla diavola straniera
che, sbattute le ali in California, finisce
per scatenare (di proposito) un terremoto o un’inondazione in Cina.
Per il partito comunista cinese
i viaggi nel tempo, che si propongono
di cambiare la storia e di mettersi sotto
le scarpe le ferree leggi del materialismo storico, sono «privi di pensieri
positivi e di significato». Gli autori di
storie di fantascienza, che si gingillano con viaggi nel tempo e
altre «puerili assurdità»
anticomuniste, «inventano miti con leggerezza,
costruiscono trame mostruose e strane e usano
tattiche assurde». Nemici
del popolo, costoro non si
fermano di fronte a niente e addirittura «arrivano
a promuovere il feudalesimo, la superstizione, il
fatalismo e la reincarnazione». Nell’elenco dei
peccati capitali dell’immaginazione letteraria e
cinematografica troppo accesa manca
soltanto la magia, che come avrete notato è invece molto praticata nei film
Made in China di cappa, spada, incantesimi e kung fu.
«A detta del New York Times», leggo
sul web, «il bersaglio principale delle
direttive del partito comunista è probabilmente il più recente successo
della Hunan Television, un network
regionale che, con la serie Palazzo, ha
negli ultimi tempi superato in share le
reti di stato. Palazzo («gong», in cinese)
tratta la storia («malsana», a detta del
governo cinese) d’una giovane donna
che, attratta da un antico dipinto, si
trova proiettata nella Cina della dinastia Qing, dove finisce coinvolta in un
triangolo sentimentale a corte». Come
Albus Potter, anche la giovane cinese
si perde in una storia che è contemporaneamente stracotta (si è già vista e
letta qualche migliaio di volte) e antimarxista («conosco una sola scienza, la
scienza della storia», diceva Marx, che
a dispetto della sua fervida fantasia
non ha mai parlato di «fantascienza
della storia»).
J.K. Rowling, John Tiffany e
Jack Thorne, Harry Potter e la
maledizione dell’erede,
Salani 2016, pp. 368, 19,80 euro,
eBook 14,99 euro.
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