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CULTURA
Corriere della Sera Giovedì 29 Settembre 2016
39
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Da Parigi si chiede il trasferimento
Disputa sulle spoglie
di Carlo X re di Francia
sepolto in Slovenia
Si è aperta una disputa sulle ceneri
del re Carlo X di Borbone, monarca di
Francia che venne spodestato
dall’insurrezione di Parigi del luglio
1830, in seguito alla quale ascese al
trono suo cugino Luigi Filippo
d’Orléans. Oggi le spoglie di Carlo X
riposano in Slovenia nel monastero
francescano di Konstanjevica, presso
Nova Gorica (la città controparte di
Gorizia oltre il confine), dove l’ex
sovrano morì in esilio nel 1836,
quando quella località era parte
dell’impero asburgico. Ora
un’associazione francese ha chiesto
al governo del suo Paese l’apertura
di un negoziato con Lubiana per il
trasferimento dei resti di Carlo X
nella necropoli reale della basilica di
Saint-Denis, presso Parigi, dove si
Il re di Francia Carlo X (1757-1836)
trovano le tombe di molti re.
L’iniziativa trova però contrarie le
autorità locali. Matej Arcon, sindaco
di Nova Gorica, ha dichiarato che
vanno rispettate le ultime volontà di
Carlo X, che aveva manifestato la
volontà di essere seppellito nel
monastero. D’altronde la cripta dove
riposa il re di Francia è per la città
slovena un’utile attrazione turistica.
L’attore e regista scomparso a 69 anni
Castelvecchi ripubblica l’opera dedicata all’epoca di Cesare e Augusto
L’avanguardia
di Simone Carella
amico dei poeti
La Roma antica narrata da Ferrero
somiglia tanto alla Belle Époque
di Franco Cordelli
Il testo
Simone Carella, al centro, nel 2001 (©Vitaliano Napolitano)
S
e la si guarda all’indietro, prima che la
storia di quell’uomo che Simone Carella
sempre è stato cominciasse, non vi sono
che artisti di arte visiva, il cuore dell’avanguardia romana degli anni Sessanta, da
Mario Merz a Pino Pascali, soprattutto a Gino
De Dominicis, che fu suo grande amico. C’è poi
l’Attico, la galleria di Fabio Sargentini, che frequentava assiduamente e in cui lavorò come
factotum: mai come artista (ripeteva sempre),
in nessun modo.
All’Attico vide tutte le mostre: fino a quella
dei cavalli di Jannis Kounellis. Ma accanto agli
artisti ci sono i musicisti, suoi maestri e, quasi,
compagni di strada, da Charlemagne Palestine
a La Monte Young a Terry Riley: Simone parlava
sempre della sua composizione più famosa, In
C, fu il fulcro della sua immaginazione. Essa si
manifestò prima dei suoi trent’anni.
Scomparso ieri, era nato a Bari il 27 novembre 1946, il padre era venuto a Roma per lavorare, lo considerammo subito uno dei grandi
teatranti pugliesi: Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Eugenio Barba. Incontrò Ulisse Benedetti, grande organizzatore e spericolato impresario sprovvisto di quattrini, e al Beat 72 fondò il
più importante teatro di avanguardia che abbia
avuto non già Roma (si parlava sempre di avanguardia romana) ma il nostro Paese.
Al Beat le esperienze artistiche e quelle musicali s’inverarono in quella teatrale, il teatro
come disciplina tanto severa (nel togliere, nell’impoverirsi) quanto molteplice (nel mescolare le arti e le arti e la vita). Vorrei ora dire: chi
non ha visto gli spettacoli di Carella è come chi
non ha visto Petrolini, o Eleonora Duse: non ha
avuto fortuna. Costui crede che l’avanguardia
sia quella che tale oggi si definisce, ma che
tutto deve a Simone Carella e ai suoi compagni
di strada: a Giuliano Vasilicò, a Giorgio Marini,
a Memè Perlini, a Giancarlo Nanni, a Bruno
Mazzali.
Ma penso, è naturale, ai suoi spettacoli. Essi,
quelli fulminanti, che stanno nella storia del
teatro, sono pochi. Ma sono irripetibili — nella
negazione di sé e dello stesso teatro, matrice di
ciò che è venuto dopo. Ne voglio ricordare due.
Autodiffamazione tratto da Peter Handke. In
scena non c’era che una sedia, nessun attore,
nessun monologhista. Del testo, se non ricordo
male, si sentiva una voce in lontananza, una
voce registrata. Ma soprattutto se ne sentiva
l’accompagnamento, era il Köln Concert di Keith Jarrett: un’ora di una concentrazione ineguagliata. L’altro è La morte di Danton. Ora Mario
Martone, che con Giorgio Barberio Corsetti
nacque al Beat 72, lo ha messo in scena in modo tradizionale. Carella non mostrò che bandiere nel buio (bandiere rosse) e, nel suo stile,
il testo di Büchner con voci registrate. Voglio
infine ricordare l’opera sua che tutti conoscono
e che lo ha reso famoso: il festival dei poeti di
Castelporziano. Cambiò il teatro (fu l’epilogo di
un cambiamento), cambiò la poesia, cambiò il
rapporto con il pubblico. Nulla di simile si ripeté mai. Oggi, i festival hanno polverizzato, di
quel festival della pura intensità, il ricordo ma
non la memoria profonda.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
R La cerimonia laica di saluto si tiene oggi dalle ore
11 alle ore 16, al Teatro India di Roma (Lungotevere Vittorio Gassman, 1)
 L’opera di
Guglielmo
Ferrero
(1871-1942)
Grandezza e
decadenza di
Roma, uscita in
cinque volumi
tra il 1902 e il
1907 con
enorme
successo per
l’editore
Treves, è ora
riproposta da
Castelvecchi
a cura e con
saggi
introduttivi di
Laura Cigliani e
Laura Mecella
(pagine 1.285,
e 69)
 Nato a
Portici ( Napoli)
da una famiglia
piemontese,
Guglielmo
Ferrero è noto
non solo per i
suoi libri di
storia antica,
ma anche per
le riflessioni su
potere e
legittimità.
Antifascista,
espatriò sotto il
regime e morì
in Svizzera
di Claudio Schiano
Q
uando Theodore Roosevelt, ex presidente degli Stati Uniti,
venne in Italia nell’aprile del 1910, in una visita
poco meno che di Stato, rinunciò a incontrare il Papa,
con grave scandalo dei cattolici, ma volle far visita a uno studioso famoso in America grazie alla sua storia delle guerre
civili in Roma nel I sec. a.C.;
Roosevelt poi si adoperò —
scrissero gli avversari — perché quello studioso fosse insignito di una cattedra universitaria: il tentativo fu affondato
in Parlamento da Benedetto
Croce e da una insolita coalizione di storici dell’antichità.
Lo studioso era Guglielmo
Ferrero e l’opera che gli aveva
garantito fama internazionale
di storico era Grandezza e decadenza di Roma, che ora è finalmente ripubblicata da Castelvecchi con due pregevoli
saggi di Laura Ciglioni e di
Laura Mecella e, per la prima
volta in italiano, le appendici
che Ferrero pubblicò nell’edizione francese.
Ancora nell’aprile 1910, poche settimane dopo la partenza di Roosevelt, Ferrero fu
chiamato dal sindaco romano
Ernesto Nathan a pronunciare
in Campidoglio un discorso su
Roma nella cultura moderna.
Roma — sostenne Ferrero —
dominò il mondo perché aveva saputo trovare una sintesi
delle forze in squilibrio che la
animavano: se la moderna civiltà italiana, pronta ad avviarsi in quegli anni a una nuova
esperienza coloniale, intendeva raggiungere la grandezza,
doveva apprendere dall’antica
Roma come armonizzare forze
sociali ed economiche contrapposte e recuperare il «senso dell’unità della vita».
L’opera storica di Ferrero,
apparsa fra il 1902 e il 1907,
aveva conosciuto un enorme
successo di pubblico: il pubblico — scrisse Karl Julius Beloch — «dei giornali, delle ri-
Canto d’amore (1914), un’opera di Giorgio de Chirico (1888-1978)
viste, dei romanzi e dei trattati
popolari», non certo degli
specialisti che lo tacciarono di
dilettantismo.
Quel pubblico aveva letto
con passione L’Europa giovane (1898), in cui Ferrero metteva a contrasto da un lato le nazioni latine, nelle quali il governo era affidato a classi non
produttive e privilegiate, inette a confrontarsi con i meccanismi di produzione, e dall’altro le giovani società della Germania e dell’Inghilterra con il
loro rampante capitalismo capace di solidarietà e giustizia.
La City di Londra era, per lui,
«davvero la Roma moderna»;
ma poi, sempre più, fu la società americana ad apparirgli
come modello positivo di una
civiltà in crescita. Risultò chiaro, così, che quando Ferrero
descriveva il conflitto tra classi
sociali nella Roma antica co-
me se scrivesse un editoriale
sugli intrighi alla Borsa di Milano, o quando parlava di «Catilina e la gran lotta contro i capitalisti», la sua Roma era, innanzi tutto, un modo per riflettere sul presente.
Ferrero, di temperamento
positivista, socialista e antimilitarista, si interrogava sul progresso e declino delle nazioni
europee, a partire da alcuni temi chiave che gli erano imposti dalla sua formazione giuridica: in primo luogo, la giustizia, la legalità e le istituzioni.
In seguito, l’accento si spostò
sul problema che poi segnò
tutta la sua riflessione teorica,
quello della legittimità del potere, e la tempesta delle guerre
civili gli offriva molto materiale di studio, a partire dalla figura di Cesare.
La categoria di «cesarismo»
era stata evocata, tra gli altri,
da Auguste Romieu e Giuseppe Mazzini (ma respinta da
Karl Marx), per Napoleone I e
Napoleone III, e per Bismarck,
come espressione di un potere
personale fondato su forza militare (o poliziesca) e carisma;
ma il Cesare di Ferrero appariva — per usare le parole di uno
scandalizzato Ettore Pais — un
«politicante mezzo imbroglione e mezzo ciarlatano», mosso
da ambizione e, sia pur geniale, privo però di un vero progetto politico. Il rifiuto del mito di Cesare salvatore di Roma
era il rifiuto di una visione teleologica della storia. Al contrario, la rinascita del potere
imperiale di Roma e il ristabilimento della legittimità del
potere si dovettero, secondo
Ferrero, ad Augusto restauratore della Repubblica: alla
stessa conclusione sarebbe
giunto a Berlino, dieci anni
dopo, Eduard Meyer.
È curioso che proprio nel
nome di Augusto, con la battaglia di Azio, si chiuda l’opera,
venendo meno alla promessa
del titolo: parlare dell’ascesa e
del declino di Roma. La scrittura su temi romani si interruppe, forse, perché l’attenzione di Ferrero fu deviata verso
altri temi. Ma, più probabilmente, l’assenza di uno sviluppo del racconto si spiega con il
fatto che egli mirava a riconoscere i germi della decadenza
proprio nel momento di massimo sviluppo della potenza
romana. Era facile, per il lettore, calare la riflessione sull’analisi delle nazioni europee,
che all’apice del loro sviluppo
mostravano forti elementi di
crisi: il difficile rapporto fra
borghesia industriale, ceti medi e masse proletarie; il declino del sistema liberale; le tensioni coloniali. Contro ogni
tentazione antiparlamentare,
Ferrero indicava, per il tramite
di Augusto, anche una soluzione: rinsaldare le istituzioni
democratiche e parlamentari,
evitare avventure demagogiche e militariste, combattere
la corruzione morale.
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Il caso La Regione toglie il sostegno all’evento romano per la piccola editoria. L’Aie protesta. La replica: non è una ripicca
Il Piemonte: via i fondi a «Più libri più liberi»
Presidenti
di Alessia Rastelli
S
 Dall’alto:
Sergio
Chiamparino,
presidente del
Piemonte;
Federico Motta,
presidente
dell’Aie
aloni senza pace. Nuove polemiche ieri tra Torino e Milano dopo che, la
scorsa settimana, sono fallite le trattative per una manifestazione condivisa. A
essere coinvolti sono l’Associazione italiana editori (Aie), promotrice della nuova
fiera milanese, e la Regione Piemonte, tra i
soci della Fondazione per il libro che organizza il Salone di Torino. L’occasione è la
notizia — appresa mentre è in corso a Bologna l’assemblea nazionale dei piccoli
editori dell’Aie — che la Regione Piemonte
non destinerà più fondi, già dal 2016, ai
piccoli editori per partecipare a «Più libri
più liberi». Ovvero, la Fiera nazionale della
piccola e media editoria, organizzata dall’Aie, che si svolge a dicembre a Roma.
Reagisce il presidente dell’Aie, Federico
Motta: «Siamo rimasti colpiti e perplessi.
Non è problema della nostra associazione
ma degli editori piemontesi, ai quali la Regione toglie il sostegno». «Sono sorpreso,
come editore e come piemontese. D’ora in
avanti — aggiunge Antonio Monaco, presidente dei piccoli editori Aie — la Regione chiederà alle imprese editoriali, come
requisito per accedere alle agevolazioni, di
fare un atto aggiuntivo di sudditanza?».
«Nessuna ripicca, non è una rappresaglia.
La decisione — risponde l’assessora alla
Cultura del Piemonte, Antonella Parigi —
è stata presa consultando i nostri editori.
Molti non si sono sentiti rispettati dopo le
Il dualismo con Milano
L’assessore: normale
concentrare le nostre risorse
sul Salone di Torino
ultime decisioni e, d’altra parte, stiamo lavorando per creare qui un Salone, è normale concentrare tutte le forze su questo
progetto». Anita Molino della Federazione
italiana editori indipendenti (Fidare) e
Giampaolo Verga, presidente del Comitato
editori Piemonte (Cep), inviano una nota:
«Siamo noi editori piemontesi ad aver suggerito di dirottare l’aiuto ad altra manifestazione a noi più favorevole».
Quanto all’Assemblea di Bologna, cui
hanno partecipato anche alcuni sostenitori del Salone torinese, i presenti parlano di
un clima di «cordialità». Anche se è stato
sollevato il tema delle date milanesi (ad
oggi, 19-23 aprile), con la richiesta di diversi editori di cambiarle, per distanziarsi dalla kermesse torinese (18-22 maggio), dalla
fiera del libro per ragazzi di Bologna (3-6
aprile) e da Bookpride a Milano (24-26
marzo).
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