Non credo che ti dimenticherò.

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Transcript Non credo che ti dimenticherò.

Non credo che ti dimenticherò
di Sandro Lunghini – Terzo classificato
Uscendo dall'auto, il ragazzino si guardò intorno, e pensò: “Questa mamma me la paga”.
C'era troppo silenzio, c'era troppo cielo, c'era troppa luce e c'era poco traffico. Soprattutto, c'era
poca gente. Pochissima gente. Suo zio Franco lo chiamò: «Ehi, turbine, mi dai una mano con i
bagagli?»
Il ragazzino si voltò: lo zio Franco aveva aperto il baule posteriore e aveva tirato fuori due valigie.
Il ragazzino si avvicinò: nell'auto c'era un'altra valigia, più piccola delle altre, e uno zaino; li prese.
Erano i suoi bagagli, ma lui non aveva idea di cosa ci avesse messo dentro la mamma. Solo una
cosa era certa: c'era troppa roba, per le due o tre settimane che doveva trascorrere lontano da casa.
Lo zio Franco, che lo avrebbe ospitato in quel periodo, era il fratello di sua madre, e lui gli era
molto affezionato. Anche se l'uomo abitava a quasi cento chilometri di distanza, capitava spesso a
Roma per vari motivi e li andava a trovare. Però la famiglia dello zio restava a casa, così non
vedeva mai né la zia né suo cugino, che era più piccolo di lui; il cugino Fabio era suo amico su FB,
ovviamente, ma non si scrivevano quasi mai. Sua madre, appena terminata la scuola, aveva insistito
perché passasse un paio di settimane a casa del fratello per due motivi: perché voleva che rivedesse
la zia e il cugino (l'ultima volta che si erano incontrati era stato circa quattro anni prima) e perché
voleva fargli respirare un'aria più salubre di quella di Roma.
Mentre seguiva l'uomo in casa, il ragazzino chiese: «Quanti abitanti ci sono qui, zio?»
«Vuoi dire nel quartiere?»
«No, nella città»
«Poco più di quindicimila»
«In tutta la città?!» esclamò il nipote.
«Eh, si. Mi rendo conto che per te sia un bel cambiamento, turbine. Solo nel rione Trastevere, a
Roma, ci sono più abitanti di qui» osservò lo zio, aprendo la porta della sua abitazione. Suo nipote
si chiamava Stefano, ma lo zio Franco (fin da quando il ragazzino riusciva a ricordare) lo chiamava
turbine. A lui non dava fastidio: c'erano soprannomi peggiori.
Lo zio, entrando in casa, disse a voce alta: «Sono tornato».
La voce della zia rispose dalla cucina.
Prima di seguire lo zio Franco all'interno, Stefano si voltò verso la strada. Si guardò intorno,
sconsolato. “L'aria sarà anche salubre, ma qui morirò di noia” pensò infine, prima di girarsi, entrare
in quella che per le successive settimane sarebbe stata la sua dimora, e chiudersi la porta alle spalle.
Passando davanti al negozio di frutta e verdura del signor Antonio, il ragazzino si affacciò
sorridendo. «Buongiorno» disse. Nel negozio c'erano tre clienti, due signore e un uomo. Stefano li
conosceva tutti, ormai.
Dalle casse posizionate su due alte mensole, Gianni Morandi chiedeva a qualcuno di accendere il
sole. «Ciao, turbine» lo salutò il signor Antonio. Anche i clienti lo salutarono chiamandolo con quel
soprannome: ogni adulto della città lo conosceva come turbine, per colpa dello zio Franco. Il signor
Antonio prese una susina e gliela tirò: Stefano la prese al volo.
«E così domani te ne vai, turbine?» domandò una delle signore.
«Già, torno a Roma» confermò Stefano, mordendo la susina.
«Così presto?»
«Presto? Sono qui da un mese, ormai»
«E allora? Non ti sei divertito?»
«Certo, ma mi manca casa mia. E poi mi mancano i miei genitori; ancora un po' e mi dimentico
pure che faccia hanno»
«Peccato, però. Tornerai a trovarci?»
«Ogni volta che potrò. Ci vediamo» concluse il ragazzino, tornando sul marciapiede.
Passeggiando, salutava chiunque incontrasse, e quasi tutti ricambiavano. Non ricordava i nomi di
ognuno di loro, ma i volti si. Impensabile, fino a un mese prima. Impossibile, da dove veniva lui.
Non gli mancava affatto la frenesia di Roma, come aveva temuto potesse accadere all'inizio di
quella vacanza. Gli mancavano i suoi familiari, i suoi amici, e casa sua (quella un po' meno, visto
che lo zio Franco viveva in una villetta a due piani in una strada tranquilla, che sembrava in tutto e
per tutto uscita da un film americano, mentre lui in città viveva in un grandissimo e grigio
condominio). In realtà, non aveva tanta voglia di andarsene. Non c'erano molti ragazzini della sua
età, ma quei pochi gli piacevano. Soprattutto, gli piaceva Luisa. La prima volta che l'aveva vista, da
lontano, non capiva che diavolo stesse facendo. La vedeva scorrere sulla strada. Poi, avvicinandosi,
comprese: stava provando un waveboard. Nel suo quartiere ne avevano tutti uno: era una delle
ultime mode e non si poteva non averlo. Lui non lo apprezzava un granché. Suo padre e suo zio lo
avevano iniziato al culto dello skate, e per lui gli altri tipi di tavole non avevano una grande
attrattiva. Però Luisa si, che lo attraeva. Voltando nella strada di casa della sua amica, ne vide la
testa bionda, coi capelli perennemente legati a coda di cavallo, spuntare da dietro un muretto. La
chiamò: la ragazzina si voltò, e ricambiò il saluto sorridendo. Stefano sospirò. “Gesù, ci si può
innamorare ad undici anni?” pensò.
«Sta tranquillo» gli disse lo zio Franco. «Sei un bravo ragazzo. Qui farai amicizia subito. Fabio ti
porterà a conoscere gli altri ragazzi del paese»
«Va bene» disse Stefano, con un sorriso forzato.
Suo cugino Fabio aveva otto anni. Otto! Lui ne aveva undici! Come poteva un uomo in gamba
come suo zio non capire la portata di tale differenza? Certo, andava d'accordo col cuginetto, ma
uscire insieme a lui? Era un'onta, uno scandalo! Avrebbe preferito restare in casa a giocare online a
Call of Duty, piuttosto. Ma sua madre, che sembrava leggergli nel pensiero, si era raccomandata
con lo zio di non farlo stare troppo davanti al computer.
«Preferirei uscire domani sera, però» disse, simulando una vocina patetica, «oggi sono un po'
stanco per il viaggio». Gli zii si guardarono, sorridendo. Avevano intuito subito la tattica del nipote.
«Non preoccuparti» gli disse la zia, «l'aria di qui è talmente sana che ti fa più bene uscire che
startene in casa»
«Ehm, forse ho un po' di febbre» tentò lui. Gli zii risero.
«Senti» gli disse lo zio Franco circondandogli le spalle con un braccio, «so cosa ti passa per la testa:
che ci siamo rimbecilliti a farti uscire con un bambino tanto più piccolo di te». Stefano arrossì,
abbassando lo sguardo: possibile che fosse un libro aperto per chiunque? «Sta tranquillo, però»
proseguì l'uomo, facendogli l'occhiolino, «anche se è soltanto il primo giorno che sei qui, credo che
quando incontrerai gli amici di Fabio mi ringrazierai per averti costretto a uscire subito».
Stefano osservò perplesso suo zio. Cosa potevano avere di speciale gli amici del cugino? Subito
dopo cena, Fabio uscì correndo, e con tutto l'impeto dei bambini della sua età saltò sulla bicicletta
urlando.
«Forza!» disse rivolto a Stefano. Gli zii avevano chiesto in prestito ai vicini una bicicletta adatta al
nipote. Lui la inforcò poco convinto.
«Andiamo!» esclamò Fabio, e partì a razzo, cantando una canzone di un cartone animato da
mocciosi. “Cominciamo bene” pensò Stefano, seguendolo. Gli zii li salutarono, e prima di rientrare
in casa restarono ad osservare i ragazzi finché non sparirono dietro la curva più vicina.
Stefano, prima di tutto, pensò che per quanto luminosa fosse quella città di giorno, tanto più era
buia di notte. A Roma, oltre all'illuminazione pubblica, ci sarebbero state decine di auto, di insegne,
di finestre: tutte fonti luminose extra. Lì c'erano solo i lampioni, praticamente. Eppure Fabio
sfrecciava nella semioscurità senza apparente disagio.
Stefano lo tallonava da vicino: aveva paura, ma non lo avrebbe mai ammesso col cugino più
piccolo.
Su un tratto di strada particolarmente buio, Stefano notò sul marciapiede una grossa sagoma scura,
in movimento. Sussultò, quando vide che era un gruppetto di ragazzi molto più grandi di lui, forse
di sedici, diciassette anni. Si preparò a una fuga precipitosa, ma (con suo sommo stupore) Fabio si
fermò.
«Ciao» salutò il bambino. Stefano, pensando: “È scemo, è scemo” si fermò a sua volta. Si aspettava
una selva di improperi, tipo: “Che vuoi, ragazzino?” “Non rompere”, invece i ragazzi grandi
risposero tranquilli al saluto.
«Questo è mio cugino. Viene da Roma» disse Fabio presentandolo.
«Ehi, beato te» disse una ragazza del gruppetto, rivolta a Stefano.
«Qui ci si spara sulle ginocchia dalla noia. Chissà quanto ti mancherà la città, eh?»
«Eh, un po'» ammise Stefano, dopo qualche secondo di incredulo silenzio. Nel suo quartiere, due
ragazzini soli, beccati in una strada buia da un gruppo di diciassettenni, come minimo sarebbero
stati bersaglio di urla e scherzi.
«Lo porto in piazzetta» disse Fabio, ripartendo.
«Ciao» salutò Stefano seguendo suo cugino. I ragazzi grandi ripresero la loro strada.
Turbato da quell'incontro, Stefano domandò: «Ma quelli... sono tuoi amici?»
«No» rispose Fabio. «Però sono gente del paese. Li conosco da quando sono nato».
In quel momento gli tornò alla mente una cosa che suo zio Franco gli ripeteva spesso: «Le grandi
città hanno i loro vantaggi, questo è certo; ma non potrei mai viverci. Milioni di persone che si
ammassano in ogni metro quadro ignorandosi completamente, addirittura terrorizzate le une dalle
altre. Poche persone in una piccola città, invece, sono tutte amiche tra loro»
«Davvero?» chiedeva il nipote perplesso
«Beh, quasi» concludeva lo zio. Stefano cominciò a rendersi conto che quel luogo era diverso da
come si era aspettato. Era molto diverso da quello che si era aspettato. Poi, quando fu in vista della
piazzetta, vide la coda bionda di una incantevole ragazza fluttuare nell'aria. Sul momento non capì
cosa stesse facendo. Non riusciva ancora a vedere le sue gambe, nascoste da una panchina, perciò
sul momento credette di trovarsi di fronte ad un angelo, che si librava in aria. Dopo pochi istanti
capì che stava solo andando su un waveboard. Fabio raggiunse un gruppetto di ragazzi accampati
attorno a una panchina, e si fermò. Tutti si voltarono verso Stefano, quando anche quest'ultimo
fermò la bicicletta. Al contrario di quanto aveva temuto, non c'erano solo bambini. Anzi, Fabio era
di sicuro uno dei più piccoli. Quella ragazza doveva avere la stessa età di Stefano, o quasi. Lei
fermò la sua tavola e lo guardò: trafitto da quegli occhi, Stefano ringraziò i suoi genitori per aver
insistito per mandarlo a trovare gli zii.
«Così, domani te ne vai?» domandò Luisa, guardando davanti a sé. Stefano annuì. Si conoscevano
da un mese, ma per degli undicenni è praticamente un secolo. Erano andati sulla collina che
dominava il paese. Era uno dei luoghi preferiti dalle coppiette, perché da lì si godeva una vista
spettacolare dell'intera città. Di sera quel posto era off limit per i ragazzini; di giorno, però, lassù
potevano starsene in santa pace. «Tornerai?» chiese ancora Luisa.
«Cavolo, si!» Luisa rise.
«Quanto impeto» disse. Lui, arrossendo, abbassò gli occhi.
«Ti mancherò?». A questo il ragazzino non rispose subito. Non aveva proprio pensato al momento
in cui si sarebbe trovato di nuovo a casa sua. Avrebbe ricominciato la sua routine abituale, così
diversa da quella che aveva caratterizzato quel suo ultimo mese.
«Credo di si» rispose, infine. «Mh, con tutte le ragazze che ci sono a Roma, mi dimenticherai
presto». Ancora silenzio. A questo non sapeva proprio che rispondere. Alzò le ginocchia fin sotto il
mento, vi appoggiò sopra la testa, e circondò le gambe con le braccia. In questa posizione,
contemplò il panorama. Disse: «Non credo che ti dimenticherò». Qualche secondo di riflessione, e
aggiunse: «È strano: nella mia città, quando la scuola finisce, faccio tutto di corsa e mi fiondo fuori
casa a giocare con gli amici appena possibile. Oppure mi attacco al computer e gioco online, oppure
sto su FB per ore. Insomma, non sto mai fermo da qualche parte. Quando mi fermo ho sempre la
sensazione di stare perdendo qualcosa, e allora corro in continuazione».
Luisa ascoltava in silenzio.
«Qui, invece» proseguì lui, «a volte passo anche delle ore seduto a guardare verso l'orizzonte,
parlando semplicemente con te. Eppure non ho l'impressione di sprecare tempo. Anzi, mi sembra
che abbia senso, stare con te. Non so se mi spiego bene».
Si voltò verso Luisa; lei lo guardava con degli occhi che gli misero i brividi. Prima che si rendesse
conto di ciò che succedeva, la ragazza gli si avvicinò e gli diede un bacio. Lui restò impietrito. Lei
allontanò le labbra da quelle di Stefano, poi si alzò, e prese la bicicletta. Ci salì sopra e lo guardò,
un po' rossa in viso.
«Andiamo?» chiese, iniziando a pedalare.
Il ragazzo si sfiorò le labbra con un dito. Sorrise. Mormorò: «Non credo che ti dimenticherò», poi
si alzò, prese la sua bicicletta, e cominciò a discendere la collina