Vincere le dipendenze

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Transcript Vincere le dipendenze

JOHN BOTTLE
VINCERE LE POLIDIPENDENZE
(VOLEVO FARE IL CARRELLISTA)
Con tenaglie incandescenti avrei desiderato strapparti i testicoli, o guardia giurata dalle
guance flaccide ed unte, guardia in servizio notturno al pronto soccorso l'altra sera. Con la
pistola che qualche deficiente ha stabilito tu avessi i requisiti di portare nella fondina, ti
avrei sparato da vicino sugli alluci, mentre le pupille tue di criceto terrorizzato fissavano il
vuoto implorando pietà.
Il fatto che di tanto in tanto ci sia bisogno della presenza di una guardia giurata al pronto
soccorso la dice lunga sul funzionamento del Nuovo Ospedale Apuano e della sanità della
provincia di Massa Carrara, un territorio che sta ancora pagando lo scotto della vecchia
voragine nei bilanci dell'azienda sanitaria. Perché una tiritera di questo genere all'inizio di
un trattato sul superamento delle poli dipendenze? Semplice: la salute va a braccetto col
dominio dell'ira, ed è necessario superare la dipendenza dal pronto soccorso per iniziare ad
incazzarsi il meno possibile. La dipendenza dal pronto soccorso si supera sperando di non
averne mai bisogno, schiattando di botto quando il Padreterno vorrà convocarci dinanzi al
Suo cospetto. Ma l'altra sera, in casa mia, occorse chiamare il 118, e giunto in ospedale
seguendo in auto l'ambulanza, per prima cosa avrei desiderato incendiare la sala d'attesa del
pronto soccorso. Qualcosa mi ha trattenuto: cosa? Il codice penale, il fatto che tra il dire e il
fare c'è di mezzo il mare, la mancanza di lanciafiamme ed infine il mio passato di obiettore
di coscienza, anche se quella scelta fu dettata da motivi non precisamente ideali, perché non
era vero che ero contrario all'uso delle armi (efficacissime per accordarsi con gli
amministratori condominiali e per interloquire con i vicini di casa): obiettai per non
allontanarmi dalla mamma ed andare a giocare a ping pong nel centro ricreativo a sei
chilometri da casa. Tengo a precisare però che considero il mio ignobile ideale sempre più
nobile di quello dei cristiani che obiettavano preparandosi una carriera ed una reputazione
nelle Caritas diocesane, altrettanto casalinghe. Ma perché racconto tutto questo? Alcuni
degli accadimenti celati, nascosti ed accumulati nel lento ammonticchiarsi dei
diciannovemilacinquecentoventicinque giorni trascorsi da quando mia madre mi sparò via
dal suo ansiogeno utero, sono per caso così interessanti? Sì, senza ombra di dubbio sono più
interessanti dei tuoi, di accadimenti, caro Mario Bianchi presidente dell'associazione
nazionale per la lotta all'anonimato. Questo trattato sul superamento delle poli dipendenze lo
dedicherei a te, o Bianchi, se potessi. Ma sei sfortunato, o Bianchi, perché nel preciso istante
in cui ho pensato di ringraziarti e dedicarti il mio piccolo, minuscolo capolavoro si è
abbattuta sul mio minuscolo, piccolo cervello una catena di ricordi e di riflessioni
concernenti le dediche ed i ringraziamenti saggistico-letterari, e l'ultimo anello della catena
cantava così: “Bottle, Bottle, ascoltami! Non dedicare niente a nessuno, non dedicare
invano!”. Gli altri anelli gorgheggiavano in coro che quando dedichiamo siamo specchi
quando va bene, semplici opportunisti quando va male e falsi d'autore quando va malissimo;
questo per le dediche “in uscita”, relative cioè ai libri che scriviamo. Delle dediche “in
entrata”, quelle che riceviamo sopra i libri che ci regalano, è meglio tacere, chiudere subito i
coperchi delle bare e lasciar marcire i morti: così cantò la catena. Io le chiesi: “Catena,
catena, permettimi almeno di indirizzarti “fenomenologia della dedica e del
ringraziamento!”: vuoi?”. Ella rispose: “Io non voglio e tu non puoi!”. Ma io, Bottle John
squallido conformista, trasgredisco il comandamento “Non dedicare”: le righe mai scritte
sulla fenomenologia della dedica le indirizzo alla guardia giurata immaginariamente
anorchide, mentre il resto, il resto non saprei. Anzi saprei: all'angelo del Signore che fermò
la mano di Abramo levata sopra Isacco. L'ignaro bimbo fu salvo, ed io, in fondo, solo un
paio di graffietti...
Credo di aver sempre scritto per sopravvivere, sopravvivere e fare lo scemo, ma soprattutto
sopravvivere, niente roba tipo “la gloria”, no, niente di quelle cose lì anche se sinceramente
mi sarebbe piaciuto ottenere un qualche tipo di riconoscimento visto che quasi tutti i miei
padri mi dicevano “sei uno scrittore”. Io sospettavo che me lo dicessero per farmi sentire
qualcuno, visto che ero un buono a nulla, ed un buono a nulla bisogna farlo sentire
qualcuno, ad esempio uno scrittore, (come se gli scrittori fossero buoni a qualcosa...). Sono
rimasto un buono a nulla, e dedico anche a tutti i miei padri, oltre che all'Angelo di Isacco,
questo breve trattato sul superamento delle poli dipendenze. Insomma sì, scrittura uguale
sopravvivenza, e generalizzando oserei quasi dichiarare che tutti coloro che scrivono lo
fanno per sopravvivere, in un modo o in un altro. A me servono poche parole per tirare
avanti, per questo il vocabolario in mia dotazione è misero. I muti disgrafici come
sopravvivono? Quali possibilità espressive offre il linguaggio dei segni? Cosa sono i segni,
cos'è sopravvivere? Respirare, mangiare, bere, rubare, insegnare, lavorare, chiedere
elemosina, ogni tipo di elemosina, elemosina di attenzioni ad esempio, ed un sacco di altre
cose è sopravvivere. Si può grugnire e non scrivere per reclamare un'attenzione, vero, ma
anche il grugnito è soggetto a fraintendimenti ed incomprensioni. Quando mai non si è
fraintesi? Quando davvero compresi? Sopravvivere, dunque. Sopravvivere ad una
indigestione: due dita in bocca e vomitare. Venero la mia vecchia Bibbia. Mi ha seguito
ovunque, nella vita. Persino quando la leggevo poco. Dedico anche a lei il breve trattato sul
superamento delle poli dipendenze. Perché la Bibbia dopo il vomito? Perché ho appena letto
“lo sciocco non ama riflettere, gli basta propalare le sue sciocchezze”, e mi son sentito
parte in causa. Giudizio duro, quello sullo sciocco. Ma anche gli sciocchi devono tirare
avanti, e chi più del buon Gesù, Sapienza incarnata, non lo sa? Propalare sciocchezze è la
modalità di sopravvivenza del cretino, me lo ha detto Lui, indicandomi strade alternative per
vivere meglio: tra queste la Sua, di strade. Voglio molto bene a Gesù, ma non lo capisco, e
per questo la Sua via mi pare stretta e tutta in salita. Un Calvario, per essere precisi. Io sto
con Gesù e lo stimo tantissimo, ma non lo capisco proprio, e in particolare non capisco il
suo comportamento dopo la resurrezione. Fossi stato in Lui, la mattina dello stampo sul
lenzuolo, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata quella di andare dai soldati romani che
mi avevano strappato il mantello e prenderli a calci in culo. A quello che mi aveva battuto
con la canna in testa gliel'avrei spaccata sulla schiena, li avrei fatti ballare sulla corona di
spine e quei dadi li avrebbero ingoiati e li avrei spaventati mortalmente, quei deficienti
dell'esercito romano, gliel'avrei insegnato io il rispetto per i prigionieri inermi, razza di
scommettitori viziosi e violenti e ubriaconi ai quali non regalerei mai il mio manuale di
sopravvivenza e superamento delle poli dipendenze, tanto meno con dedica. Vallo a capire,
Gesù...
Volevo fare il carrellista, non il trattatista breve. Cioè: non volevo fare il carrellista ma mi
accadde di dover fare il carrellista, e non sapendo da dove cominciare a imparare a fare il
carrellista, desiderai tanto riuscire a diventare un carrellista, e quando divenni un carrellista
intuii che “volevo fare il carrellista” sarebbe stato un bel racconto sulla vita dei carrellisti.
Il destino stabilì però che, una volta appresa l'arte nobile del carrellista, non mi sarebbe stato
concesso di praticarla a lungo. Tentare di spiegare perché il fato prese quella drastica
decisione senza consultarmi formerebbe l'oggetto di un altro trattato, ed io non posso
permettermi di scrivere due trattati alla volta, soprattutto adesso che sono impegnato sul
fronte della lotta alle poli dipendenze, che parenteticamente è il motivo per cui il verbo
“fare” ed il sostantivo “carrellista” si sono inseguiti con tanta pervicacia nelle righe
precedenti.
Nessuno avrebbe scommesso un dollaro su John Bottle in grado di guidare un carrello alla
Zanussi, nemmeno lo stesso Bottle avrebbe azzardato una scommessa del genere su se
stesso. Ma Bottle perse, cioè vinse, provvisoriamente ma vinse e domò quella bestia feroce
d'acciaio ad alimentazione elettrica e coi forconi ad altezza regolabile che gli incutevano
terrore solo a guardarli da lontano.
Il capannone della fabbrica era umido e gelato, come gli accordi tra l'inverno e la Toscana
centrale prevedevano, e l'inverno non ha mai infranto accordi, però mi riscaldava parecchio
l'allegria di essere riuscito ad imparare a giocare al pilota di carrello di formula uno
all'interno di quei programmati circuiti di produzione in serie di elettrodomestici, che
imparai addirittura ad assemblare. Quando assemblavo elettrodomestici il pensiero correva
inevitabilmente ad un regalo che ricevetti da bambino: un meccano, o “il piccolo
meccanico” che detestai con tutto il cuore perché a me dovevano regalare soldatini di
indiani e cow boys per farmi contento. Approfitto per chiedere perdono ai soldatini che ho
tradito, scegliendo il servizio civile per ignobili motivi. Guidare il carrello collocando
enormi scatoloni qua e là nel magazzino era meglio di assemblare elettrodomestici, in ogni
caso.
Vivevo solo, in una stanza affittatami da una vecchietta poco espansiva. Se non avessi letto
il romanzo del grande Dostoevskij forse mi sarebbe venuto in mente di derubarla e ucciderla
per scrivere qualcosa di interessante, ma la Provvidenza letteraria sa determinare con
esattezza le vecchiette giuste da finire ad asciate.
Vivevo solo, nel lavoro, solo durante la mensa lavoro, solo dopo la mensa lavoro e solo
dopo il lavoro lavoro. Vivevo solo dentro il sabato pomeriggio e vivevo solo dentro la
domenica mattina, prima e dopo la messa. Durante la messa ero solo ma il senso di
appartenenza alla messa rendeva meno sola la solitudine. Mi piaceva esser solo. Cioè, non
mi piaceva essere solo ma l'idea di esser solo. L'idea di esser solo fa un sacco di compagnia,
così uno non è mai davvero solo, ammesso che esista qualcuno che la solitudine la ami e se
la cerchi (avviene sempre il contrario: è la solitudine che cerca chi le pare e piace). La
domenica pomeriggio giravo in bicicletta e poi finivo in un prato, accanto alla ferrovia, e
scrivevo, scrivevo, scrivevo. Scrivevo lettere, le vecchie lettere a penna, centinaia e
centinaia di lettere alle stesse persone, persone molto lontane...
Dissipai una fortuna in francobolli, non sapendo che il tempo stava dalla mia parte nella
lotta contro la dipendenza da francobolli, e che due decenni dopo i servizi mail mi
avrebbero disintossicato. Scrivevo ai lontani informandoli di quanto fossi felice o di come
mi sentissi infelice, ritenendo che quelle persone distanti mi amassero. A quelle lettere non
rispondeva nessuno. Alle telefonate invece sì, qualcuno rispondeva, e dissipai una fortuna
anche in quei vecchi, bronzei gettoni oggi inutili ed obliati, gettoni e gettoni per telefonate
che accoglievano i miei pianti di solitario, e nel sapore delle lacrime, dimenticavo le ragioni
del piangere. Non sapevo che apparecchi chiamati “cellulari” avrebbero presto combattuto e
vinto, assieme a me, la lotta per l'indipendenza dai gettoni telefonici...
Non mi arrendevo facilmente all'idea della solitudine e dovette sgorgare dal mio profondo
una poesia affinché potessi iniziare una relazione con lei: “Ti chiamerò solitudine, e non ti
lascerò mai: tanto unisce questo amore che divide, e che ci fa liberi dentro”. Gli ex
carrellisti tendono istintivamente a scrivere poesie d'amore, che giudicano bellissime...
In quegli anni la Madonna piangeva, a Civitavecchia, mentre conducevo carrelli. Anch'io da
bambino vidi scendere una lacrima dalla Madonna in plastica e legno che stava sopra il letto
dei miei genitori: “Mamma, mamma! Ho visto una lacrima alla Madonna!”. Mia madre si
spaventò, e corse a controllare ed a dirmi che non era vero, che era una mia suggestione,
così non seppi mai se quella Madonna pianse davvero oppure no. Ma perché non rise, la
Madonna? Aveva davanti un bambino che prometteva bene in fatto di croci e doveva essere
soddisfatta. Però la Madonna non rise, di questo sono certissimo. Proverò a farti ridere io,
Madonna, e se mai accadrà prometto che non lo dirò a nessuno, nemmeno al nostro papa
Francesco, perché è ora di vincere questa battaglia contro la dipendenza da papi, da un papa
emerito e da un papa-papa. Antonio Socci pontefice potrebbe essere una soluzione.
Oggi che non sono più un carrellista, la mattina, quando ho terminato le faccende di casa e
mia moglie è al lavoro e non posso più allenarmi seriamente con la corsa come un tempo, un
tempo che sembra ieri ed in effetti è ieri, mi viene voglia di presentarmi al servizio
tossicodipendenze ed entrare negli alcolisti anonimi, per rompere l'isolamento sociale che le
ripetute attorno al fiume vicino casa mi impedivano di riconoscere. E' nato così questo
manuale per la lotta alle poli dipendenze: le grandi scoperte che rivoluzionano la medicina
avvengono spesso in modo casuale. Ho nella cartucciera un sacco di storie di presentazione
inventate e sono tutte lì, pronte per essere recitate, storie commoventi e strappa lacrime di
violenze domestiche, di infanzie violate, di abbandoni subiti, di abbracci negati: alla fine di
ogni racconto inserisco sempre una disperata richiesta d'aiuto con una spolverata di
amarezza miscelata con una besciamella di voglia di riscatto che forma invariabilmente
l'orgoglio identitario dell'ubriacone pronto per essere immesso nella comunità
risorgimentale (risorgono tutti, gli ex alcolisti: solo per i sommeliers non c'è speranza). Una
volta integrato nella famiglia degli alcolisti anonimi proporrei di creare un sotto gruppo
concepito per combattere l'anonimato puro, sulla falsariga dell'associazione di Mario
Bianchi, oppure illustrerei nuove strategie disintossicanti: ho inventato “l'ora del bicchiere”,
ad esempio. Nell'ora del bicchiere gli alcolisti in trattamento devono sedersi in circolo e
fissare un bicchiere di Oltrepò Pavese posto su un tavolo al centro della stanza, in assoluto
silenzio, prendendosi per mano. Sulla finalità dell'esercizio deve aleggiare il mistero, un
mistero iniziatico, pena la perdita della proprietà terapeutico-liberante dell'esercizio stesso.
Avevo pensato anche alla mia vecchia Bibbia come mezzo alcol-liberante, ma proprio
stamani ho riletto, sempre dal libro dai Proverbi “Date i liquori a chi viene meno, e vino a
chi è colmo di afflizione”: forse non è il caso di proporre i versetti in questione a dei
disintossicandi, o è meglio proporli dopo una adeguata contestualizzazione-interpretazionemetaforizzazione che solo un biblista coi fiocchi sarebbe in grado di fornire, ed attualmente
nessun biblista coi fiocchi è disposto ad accompagnarmi al servizio tossicodipendenze per
farmi interpretare la parte dell'ubriacone risorgimentale.
E' pronta anche una serie di articoli-testimonianza da consegnare alle pagine della cronaca
locale della mia città: in questi articoli scritti sotto forma di “intervista-verità”, consegno la
mia vittoria sulle poli dipendenze a qualche pischello che lavora alla Nazione o al Tirreno e
sogna di diventare Indro Montanelli ma nel frattempo ha bisogno di accumulare pezzi da
dieci euro per il suo radioso domani di free lance. “Non fatevi schiacciare dal gioco
d'azzardo!”, è il grido-civetta acchiappa lettori di uno di questi articoli. Nel pezzo sul gioco
d'azzardo narro l'angosciante storia di un pensionato che tenta la fortuna con la speranza di
vincere le migliaia di euro sufficienti per andare a vivere alle Canarie. “Ogni mattina mi
svegliavo col pensiero fisso di girare quella maledetta manovella – racconto – ed ero entrato
in un meccanismo soffocante del quale sarei rimasto prigioniero se un evento
provvidenziale non fosse venuto in mio soccorso. Un giorno, giunto all'ultima giocata
perché i soldi erano finiti, strattonai la manopola della slot con una rabbia immensa, da
gigante, una rabbia sconosciuta e che non credevo albergasse in me: feci appena in tempo a
voltarmi per sentire l'urlo agghiacciante del gestore del bar, con le mani tra i capelli, e poi il
buio. L'impeto malato col quale strattonai la machine la capovolse, e fui travolto da quel
dannato attrezzo al quale domandavo, quotidianamente e invano, un'altra vita. Ho creduto di
morire: prima di svenire, nell'attesa che qualcuno chiamasse i soccorsi, realizzai che ero
stato uno sciocco a lasciarmi schiacciare da una slot machine. Ero sopravvissuto ai carrelli
della Zanussi, molto più pesanti delle slot e che non mi avevano mai travolto e nemmeno
schiacciato, ed adesso stavo per morire sotto il peso di un sogno trasformatosi in un incubo.
Promisi a me stesso che se qualcuno mi avesse tirato fuori vivo da lì sotto, avrei speso il
resto dei miei giorni a suonare campanelli come i testimoni di Geova per dire a tutti: lasciate
stare il gioco d'azzardo, non cedete alla tentazione delle slot machine, perché una slot
machine può letteralmente schiacciarvi! Viva i Vigili del fuoco”. Mi pare un bel messaggio
di speranza da lanciare, una esperienza, anch'essa risorgimentale, da immettere nel circuito
dell'informazione per contribuire ad allargare gli orizzonti dei poveri forzati delle slot, gli
ergastolani delle scommesse.
Discorso a parte merita l'articolo dove racconto la mia vittoria sulla porno dipendenza da
internet. L'articolo è in fase di definizione perché non so come consegnarlo tirando in ballo
Marco Nappi, l'ex calciatore del Genoa e della Fiorentina (famoso un suo palleggio di testa
di quaranta metri per difendere il risultato contro il Werder Brema) negli anni novanta. Il
pezzo infatti è pensato come una sua testimonianza, anche se nulla mi fa pensare che Marco
Nappi non sia un uomo integerrimo, e solo casualmente e per gioco ho immaginato lui nella
veste di testimone contro la lotta alla pornografia in rete. Eccola: “Buongiorno direttore, mi
chiamo Marco Nappi, e nel mio nuovo impegno sociale desidero raccontare pubblicamente
come ho vinto la porno dipendenza. Dopo il mio ultimo esonero da allenatore ero caduto in
profonda depressione, mi ero isolato, e trascorrevo ore ed ore su youporn. Su quella
piattaforma per adulti, quando ci si rende conto di aver perduto il controllo della situazione
ed il dominio di sé, è troppo tardi: un filmato tira l'altro, novità chiama novità perché la
fantasia si appiattisce e la si cerca già pre confezionata in mille salse diverse, ed il tempo
refrattario si fa “minuti di recupero dopo il 90°”, minuti decretati da un arbitro infame che
gode nell'allungarli sempre più. Un giorno però incappai in un filmato cinquantacinquemila like e altrettante migliaia di condivisioni - che capovolse la mia triste
esistenza. Lì per lì non feci caso al titolo (“Valentina happy gang bang”), e lasciai partire il
download, ma dopo pochi secondi il volto dell'attrice protagonista mi fu famigliare:
Valentina, quella Valentina, era mia figlia, e se avessi letto il titolo con maggior attenzione
mi sarei accorto che il trailer di presentazione, molto meticoloso, precisava: “Valentina
Nappi acting her best gang bang, with nineteen double penetrations, after twenty double
blow jobs on ten chinese workers from Prato, Italy: don't miss it!”. Mi crollò il mondo
addosso e in un attimo rividi la mia vita di padre fallito e di allenatore senza squadra. Il mio
essere stato nel mondo valeva forse qualcosa solo in virtù dei gol e degli assist e di quei
quaranta metri con la palla incollata sulla testa col Werder Brema e lo stadio pieno di tifosi
viola in delirio? Cosa importava a me di uno stadio in delirio se tra i deliranti che mi
applaudivano magari erano già presenti – chi poteva saperlo? - quei dieci lavoratori cinesi di
Prato presenti nella gang bang? Scese su di me la cupa malinconia di padre, quella di tutti
padri del mondo, quella di mio suocero al quale girai il filmato via mail, e la tristezza di tutti
i genitori degli attori e delle attrici di porno. Non fu necessaria disintossicazione alcuna: il
giorno dopo mi misi alla ricerca di una nuova squadra da allenare e di Valentina, che non
vedevo da decenni. Quando la incontrai la abbracciai e le dissi: “Perdono, figlia mia! Ti
chiedo perdono, ma ti prego: non buttarti più via in questo modo, perché potrei morirne!”.
“Guardi, forse si sbaglia: io non sono sua figlia”, mi rispose. Allora l'illusione mi fu chiara:
non avevo porno figlie valentine, ma la sostanza non cambia. Vinsi la mia battaglia contro la
porno dipendenza e dovevo solo scusarmi con quello sconosciuto al quale avevo girato il
filmato via mail. Mi vergognai anche del tempo perduto a cambiare l'audio dei filmati che
guardavo, per renderli più eccitanti. Gli audio dei porno nauseano presto un ex calciatore:
“Mmmmm! Yeaaah! Fuck! Yeah! Mmmm! Aaah! Fuck! Yeaaah!”. Quasi sempre i medesimi
mugolii. Rimediai scaricando i filmati e doppiandoli a mio piacimento e gli accoppiamenti
divennero fonicamente più sostenibili. Ricordo di aver doppiato così un'attrice: “Sì... così...
scendi, allunga sulla fascia... più in fretta... sull'esterno, sull'esterno... adesso mettila al
centro... così... sì... crossa... elèvati... salta... ora insacca: gooool!”. Confesso che anche
l'esperimento di doppiaggio mi lasciò un enorme vuoto dentro: youporn dovrebbe essere
oscurato e spero che la mia storia serva a far capire che la pornografia inaridisce il cuore”.
Per ciò che concerne le dipendenze ed i problemi legati al cibo, dalla bulimia all'anoressia,
con l'ortoressia nel mezzo a dettare i tempi di gioco, la soluzione che propongo in veste di
trattatista breve è politica: se al referendum sulla riforma costituzionale vincerà il sì, mi
adopererò immediatamente per raccogliere le firme per un referendum propositivo che reintroduca una carestia obbligatoria e annuale, nel nostro ordinamento giuridico.
Non scriverò mai “volevo fare il carrellista e non il trattatista breve occupandomi di
poli dipendenze”, però trovo giusto assicurare una buona morte ad un romanzo di
formazione mai nato e benedire la nuova carriera di trattatista breve specializzato in
sopravvivenza. La mia fine di carrellista, o il mio inizio di trattatista, avvenne mediante un
colloquio telefonico col mio capo. Ricordate quel capo che aveva salvato Francesco
Tricarico? Quel capo che: “e il mio capo il mio capo mi ha salvato, il padre è solo un uomo
e gli uomini son tanti, scegli il migliore, seguilo e impara”. Bene, il mio capo non mi ha
salvato. Il mio capo mi ha licenziato. Mi liquidò via cavo, così:
“Buongiorno, capo. Non sono stato troppo bene nelle ultime due settimane”
“Sì, ho saputo. Ho saputo e ho letto”
“Il certificato di malattia, via fax?”
“No, i giornali”
“Il certificato lo ha ricevuto?”
“Non è arrivato secondo i termini di legge, ma non importa”
“Non importa, bene. Posso tornare sul carrello?”
“Scordatelo, Bottle”
“Perché, capo?”
“Hai fatto il funambolo sui bordi di un binario ferroviario Bottle e...”
“Non stavo bene capo...”
“... e dicevi di essere lucifero e di avere ucciso tuo padre, Bottle”
“Me lo hanno riferito. Forse mi ero un po' montato la testa, ma ripeto: non stavo bene, capo”
“Bottle: non salirà mai sopra i miei carrelli uno imbottito di psicofarmaci”. Clic: la linea
cadde. Il capo aveva riattaccato. Il telefono piangeva: tu tu tu tu tu tu tu tu. I telefoni
piangevano, tanti anni fa, quando si accorgevano che qualcuno era stato licenziato.
E non importa se i telefoni piangevano e la gente passava e rideva vedendo un uomo fare il
funambolo ai bordi di un binario ferroviario, rideva e passava lasciandolo lì dove si
trovava, non importa se a quell'uomo strapparono la sua venerata Bibbia per identificarlo
nel posto di Polizia ferroviaria, non importa se lo spaventarono e lo menarono e lo
denunciarono, non importa se l'avvocato d'ufficio disse al medesimo uomo: “Ti conviene
chiedere scusa, portare il certificato dello psichiatra e soprattutto non tirare in ballo il tuo
knock out ed il sangue dal naso”, e non importa se uno psichiatra può assumere
psicofarmaci e lavorare mentre un carrellista deve ricorrere all'omeopatia o cambiare
mestiere e fare il trattatista, non importano insomma un sacco di altre cose del tutto
irrilevanti per la prosecuzione del campionato della squadra allenata da Nappi, buon padre
di famiglia: il trattatista che si occupa di poli dipendenze e di sopravvivenza ha da lungo
tempo appreso che un guaio tira l'altro e che occorre focalizzarsi su un guaio alla volta, per
sopravvivere al meglio.
Dei poliziotti vennero in ospedale a restituirmi la venerata Bibbia, tante, tante vite fa...
Oggi ho terminato il libro dei Proverbi e l'Ecclesiaste 2,16 mi manda a dire che “nè del
carrellista né del trattatista rimane alcun ricordo nel mondo, e nei giorni avvenire tutt'e due
saranno dimenticati. Ecco dunque che il trattatista muore proprio come il carrellista”.