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CERTAME PRENESTINO
NUTRIRE L’ANIMA:
viaggiatori alla ricerca del perdono lungo la Via Lauretana.
a.s. 2015/2016
Bernini Edoardo, Cabrera Massimiliano, Campanari Sebastiano, Carella Martina, Cartechini
Valentina, Contigiani Lorenzo, Erasti Elia, Fuso Maria Chiara, Giacinti Martina (classe 3^ G)
Proff. Di Petta Grazia / Ciommei Laura
1
INDICE
CAPITOLO I – LETTERATURA DI VIAGGIO
A) Il giornale di Viaggio……………………………..pg 3
B) Il cibo dei pellelgrini….………………………….pg 7
C) La Via Lauretana: la storia e il percorso………...pg 10
CAPITOLO II – L’ALIMENTAZIONE NEL MEDIOEVO
A) Il linguaggio del cibo………………..………….pg 13
B) Alimentazione nel Medioevo………….………pg 14
C) Pietanze per nutrire il corpo……………….…..pg 16
BIBLIOGRAFIA……………………………………...pg 18
2
CAPITOLO I – LETTERATURA DI VIAGGIO
“Il viaggiare mi sembra un esercizio giovevole. L’anima vi si esercita continuamente notando le
cose sconosciute e nuove; e non conosco cosa migliore, come ho detto spesso, per la formazione
della vita, che presentarle continuamente la diversità di tante altre vite, opinione, usanze, e farle
assaggiare una così continua varietà di forme della natura.”
Michel Montaigne
A) – Il giornale di viaggio
Ogni viaggiatore quando decide di andare, di partire ha sempre una ragione che porta stressa a sé e i
passi che compie, la polvere che alza, le strade che percorre non sono altro che parte di un percorso
che lo porta in luoghi desiderati, ma quando arriva, bagnato dal sudore e sporco dalla fatica scopre
che il suo luogo di arrivo è solo una tappa, perché è il viaggio in sé che conta, è il viaggio di
formazione, di trasformazione, di ricerca di sé. Nel 1774 esce per la prima volta il Journal de
Voyage. Nella “Correspondance littéraire” Grimm e Diderot lo annunciano confermandone
autorevolmente l’attribuzione a Michel Montaigne.1
Il Jounal de Voyage en Italie par la Suisse et l’Allemagne en 1580 et 1581 - questo il titolo integrale
- segue fedelmente l’itinerario del viaggio che si snoda fra il 5 settembre 1580 e il 30 novembre
1
Michel Eyquem (1533-1592) nasce nel castello di Montaigne, nel Périgord (Sud-Ovest della Francia) dal matrimonio
con un’ebrea di origine spagnola, convertitasi al protestantesimo. Educato sotto la guida di insegnanti umanisti si
appassiona ai classici latini e frequenta lezioni di greco e di medicina. Nel corso del secondo viaggio presta giuramento
di fedeltà alla religione cattolica, così come richiesto, in via precauzionale, a tutti i magistrati, a seguito dell’Editto di
tolleranza (gennaio 1562) che consente libertà di culto agli ugonotti. Nel 1554, a trentun anni riceve la nomina a
Consigliere presso la Cour des Aides (tribunale per le cause civili e penali in materia fiscale) di Périgueux, poi, al
Parlamento di Bordeaux (al quale questa Corte viene incorporata nel 1557). Il 22 settembre 1565 sposa Françoise de la
Chassaigne dalla quale avrà sei figlie. Nel 1568 muore il padre, e Michel ne eredita il patrimonio, divenendo Signore di
Montaigne. Nel 1571 si ritira a Montaigne, per dedicarsi agli studi classici. Sulle travi della sua biblioteca (che, al
secondo piano della torre angolare, contiene ben mille volumi) fa inscrivere celebri sentenze dei suoi autori prediletti.
Partecipa ancora a episodi militari e a missioni. Nel 1578 comincia ad essere tormentato dal mal della pietra (calcoli ai
reni). Un male che non lo abbandonerà più e che lo porterà, tra le tante stazioni termali di allora, anche, per due volte ai
Bagni di Lucca. Da Parigi, dove si è recato parte per un viaggio in Italia, attraverso la Svizzera e la Germania. A
Ferrara visita il Tasso; il 30 novembre raggiunge Roma, dove è ricevuto dal papa Gregorio XIII. Il 5 aprile è insignito
della cittadinanza romana. Il 7 settembre lo raggiunge la notizia della nomina a sindaco di Bordeaux e parte per
raggiungere Montaigne il 30 novembre 1581.Nel corso del lungo viaggio detta e in parte scrive di suo pugno (in
italiano) il Journal de Voyagenon destinato alla pubblicazione, ma poi pubblicato postumo. Il 13 settembre 1592 muore
nella cappella del castello di Montaigne: viene sepolto a Bordeaux nella Chiesa dei Feulliants.
3
1581.
Il Giornale è un testo problematico, in esso si descrivono usi, comportamenti e costumi dei paesi
attraversati: Francia, Svizzera, Costanza, Augusta, Monaco, Innsbruck, il Brennero e la discesa in
Italia attraverso Trento, Verona, Vicenza, Padova, Venezia che definisce diversa da come
l’immaginava, poi Ferrara, Bologna, Firenze2 e Siena fino a Roma.3 Il Jounal si mostra al lettore
come una sorta di diario, un taccuino personale nel quale l’autore registrare le proprie impressioni.
Le annotazioni si muovono in quattro direzioni: vi sono osservazioni sull’aspetto paesaggistico, con
una particolare attenzione ai giardini che gli capita di visitare; altre osservazioni raccontano
l’aspetto culturale, usi e costumi dei luoghi che incontra. Non mancano considerazioni generali, a
partire dagli eventi di cui è testimone. Infine compare la sua condizione di malato, alle prese con i
medici che incontra e con le cure che gli vengono proposte. Il Giornale è un luogo che appartiene
all’autore per conservare la sua libertà, avere il suo più importante rifugio, godere della sua
solitudine.
Sono pagine che mettono a nudo anima e corpo, che trascrivono il parlare interiore dell’autore
talvolta doloroso, talvolta rabbioso, di un uomo in preda a una grande sofferenza. Montaigne si
mostra osservatore attento, descrivendo accuratamente le scene a cui assiste: prediche quaresimali
pratiche esorcistiche, cerimonie religiose, fra cui l’esposizione in San Giovanni in Laterano delle
teste degli apostoli Pietro e Paolo «ancora con la carne, il colorito e la barba come se fossero vivi
(…) Stanno in alto, in un luogo apposito; e li mostrano (…) lasciando ogni tanto cadere una tenda
dietro la quale sono le teste, l’una accanto all’altra. Li lasciano vedere il tempo di recitare un’Ave
Maria, e subito rialzano la tenda». Da Roma compie poi l’inevitabile pellegrinaggio a Loreto, dove
lascia un ex voto, raccoglie e riferisce i racconti dei miracoli. Quanto al «miracolo del trasporto di
questa casetta – che ritengono esser proprio quella ove in Nazaret nacque Gesù Cristo – e la sua
traslazione dapprima in Schiavonia e poi da queste parti…», nulla indica che non lo convinca, e
tutto che voglia convincersene.
<< LORETO, quindici miglia. E 'un piccolo villaggio racchiuso da mura, fortificato per l'incursione
dei Turchi, seduto su una pianta leggermente rialzata, e molto vicino al Mar Adriatico o Golfo di
Venezia; (…) Ci sono diversi ostelli e diversi oggetti, vale a dire che vendono immagini di cera,
pastorelli, Agnus dei (…) Il luogo di culto è un piccolo vecchio forte (…), vi è una porta di ferro
con un cancello di ferro. (…) si vede la parte superiore del muro, l'immagine della Madonna, fatta,
2
«Non so perché questa città sia chiamata bella per eccellenza; lo è certamente, ma senza alcun vantaggio su Bologna,
poco su Ferrara, e meno senza paragone di Venezia»
3
Qui racconta dell’udienza papale: due passi avanti, ginocchio a terra, benedizione, due passi avanti, ginocchio a terra,
altra benedizione, sette o otto passi avanti, due ginocchi a terra ecc.
4
dicono, di legno. >>4
L’autore descrive accuratamente il territorio che attraversa: tutto è in fiore, gli alberi offrono con
generosità frutta di ogni tipo, le messi biondeggiano sotto lo zefiro primaverile, e la lettura che va
fatta deve seguire un'angolazione ben precisa, cioè l'intento è di evidenziare e fare il punto sulle
condizioni di viaggio vissute dal protagonista, che è abbastanza puntuale nella descrizione della
qualità del vivere viaggiando.
A suggerire a Montaigne la decisione di intraprendere questo viaggio, per molti versi avventuroso,
pieno di insidie e difficoltà, è in parte il suo stato di salute5, ma in parte il "piacere nel visitare
paesi sconosciuti”, considerandolo dispendioso sia per la durata sia per il tenore di vita che i nobili
vogliono comunque mantenere elevato anche nei viaggi di devozione.
<< Ci rendevamo ben conto di trovarci sulla strada di Loreto, tanto la via era piena di gente diretta
in un senso o nell'altro, e in molti casi non si trattava di semplici privati da soli, ma anche di
comitive di ricchi, intenti a compiere il viaggio a piedi, in abito da pellegrino, e alcune precedute
da uno stemma e da un crocefisso sorretti da uomini in livrea>>. 6
Un certo risparmio lo si può ottenere viaggiando in compagnia perché si dividono le spese di
4
https://fr.wikisource.org/wiki/Journal_du_voyage_de_Montaigne/Texte_du_journal
Egli da alcuni anni soffre del 'mal della pietra' , calcolosi renale.
6
Ibidem
5
5
trasporto, servitù, guide, ma comunque i costi rimangono molto alti se si viaggia "accompagnati da
un gentiluomo, un cameriere, un mulo e da un mulattiere e due lacchè a piedi".
Per quanto riguarda i mezzi di trasporto, che incidono in maniera considerevole sul costo generale
del viaggio, il Montaigne alcune volte fa ricorso ai cavalli della posta e sembra stupirsi della
efficienza di tale servizio. 7 Particolare attenzione merita l'atteggiamento che ha nei confronti delle
abitudini alimentari e dello stare a tavola che incontra nel suo lungo viaggio8.
A Rovereto "a cena vennero servite uova affogate e un luccio, oltre a una gran quantità di carne
d'ogni specie". A Vicenza beve vini nuovi e torbidi, giudicati buoni anche se "quelli di Germania si
facevano rimpiangere, per quanto solitamente aromatizzati con tutti i sapori che vi conferiscono
per golosità, finanche di salvia". Si sofferma anche sull'uso che trova diffuso a Macerata di
cuocere e bollire il vino fino a ridurlo della metà "per renderlo migliore".
A Firenze giudica gli alberghi poco comodi, ciò non solo a causa dell'alloggio, ma anche per il cibo
poiché la carne è meno abbondante e meno condita rispetto alla Germania. In Italia si compiace
dell'usanza "di pranzare e cenare tardi secondo il gusto suo; poiché nelle case agiate non si pranza
che alle due del pomeriggio e si cena alle nove". Nella zona di Foligno "servono pesce marinato, e
quasi non ne hanno di fresco; in tutta Italia vi danno fave crude, piselli, mandorle verdi, e
lasciano i carciofi pressoché crudi".
A Pontremoli scrive che a tavola gli viene servito per prima cosa il cacio, come si fa verso Milano
7
<< (…) ve ne affittano per due o tre poste o per più giornate, senza che vi dobbiate preoccupare del cavallo,
ché di luogo in luogo i locandieri si prendono cura degli animali dei loro colleghi: cioè, se vi viene a mancare il
vostro, fanno conto che potete prenderne uno nuovo in un altro posto durante il tragitto. A Siena potemmo vedere coi
nostri occhi affidare un cavallo, da condurre sino a Roma, a un fiammingo che si trovava con noi, sconosciuto,
forestiero e tutto solo, dietro il solo versamento del nolo prima di partire; per il resto, il cavallo rimane a vostra
discrezione sulla parola che lo lascerete dove stabilito>.
8
In Svizzera le stufe, cioè le sale dove si consumano i pasti in comune "sono davvero sontuose. In ciascuna (del
resto assai bene ammobiliata) trovano facilmente posto cinque o sei tavole con le relative panche per far pranzare gli
ospiti tutti insieme, ma ogni comitiva ha una tavola separata".
In Svizzera il vino viene bevuto senza tagliarlo con l'acqua, vi è l'uso delle pere cotte abbinate all'arrosto, il posto che
hanno i gamberi a tavola ("per cortesia ne servono sempre un vassoio"), lo stupiscono, ma non più di tanto. "Perlopiù
hanno piatti di legno, ... ma tutto ciò appare pulito e terso ... alcuni sui piatti di legno ne pongono altri di stagno".
In Germania "quanto al trattamento a tavola vi si gode di vivande in abbondanza e così variate, in ogni sorta di
minestre, salsa e insalata (diversamente da quanto usa da noi, ci servirono minestre di cotogne; altri, mele cotte e
tagliate fini sulla zuppa, e insalate di cavoli cappucci. Approntano pure certi brodetti, senza pane, di varie specie, come
riso, in cui ciascuno pesca in comune, non essendovi coperti particolari), e tutto d'un sapore così gustoso, nei buoni
alberghi, che a malapena reggono al confronto le cucine dei nostri nobili francesi,... ben pochi dei quali dispongono
di sale altrettanto ben decorate. Hanno pesce buono e molto abbondante e lo servono con la carne; sdegnano le trote,
e non ne mangiano che il fegato; sono ricchi di cacciagione, beccacce e lepri, che preparano in modi assai diversi dai
nostri, ma almeno del pari buoni. Non gustammo mai vivande così delicate come quelle che qua si approntano
comunemente. In quanto alla frutta, non si tratta che di pere, mele e noci, cui aggiungono formaggio. Assieme alla
carne servono un vassoio d'argento o di stagno, a quattro scomparti, dove portano varie specie di droghe pestate, e
usano il cimino o un granello simile, forte e piccante, da mescolarsi al pane, che per solito è preparato con finocchio.
Dopo il pasto ripongono in tavola i bicchieri colmi e procedono a due o tre distribuzioni di vari mangiarini atti ad
aguzzare la sete..... non servono mai uova, se non sode e tagliate in quattro nell'insalata, che preparano molto bene e
con verdure freschissime; danno vino novello ...". Egli si adatta con piacere all'abitudine locale di "mangiare molte
lumache, assai più grandi e grosse che in Francia, però meno gustose; si mangiano inoltre tartufi, sbucciati e conditi a fettine sottili - con aglio e aceto, che non sono cattivi: a Trento ne servirono di conservati dell'anno prima. Di
nuovo, e con piacere ... trovammo molte arance, limoni e olive, ... e il più buon pane del mondo".
6
e Piacenza. “Mi furono date, secondo l'uso di Genova, delle olive senza anima acconce con olio e
aceto, in forma d'insalata, buonissime. Si dava a lavar le mani un bacile pieno d'acqua posto sopra
un scannetto. Bisognava che si lavasse ognuno le mani con esso l'acqua".
Infine per sottolineare il giudizio che il Montaigne dà della cucina italiana, si può riportare quanto
scrive dopo essersi lasciato alle spalle il nostro Paese: "... mi resi ben conto dell'eccellenza degli olii
italiani: ché quelli di qua cominciavano a farmi male allo stomaco, mentre gli altri non mi
rinvenivano mai in gola".
B) - Il cibo dei pellegrini
Per i primi cristiani Gerusalemme è la meta di un viaggio spirituale ambito, il pellegrinaggio9 a
Gerusalemme diventa per i cristiani un'usanza fissa a partire dal 313 d.C. con l'editto di Costantino
e la libertà di culto nell'Impero Romano. Si andava per cercare la Croce, i chiodi, la tunica di Cristo,
la Scala Santa o per ripercorrere i luoghi della sua sofferenza. Successivamente cresce anche la
devozione per gli apostoli Pietro e Paolo. Così Roma diventa la città benedetta e acquista
un'importanza sempre maggiore, soprattutto dal 638 d.C., anno in cui la città santa viene
conquistata dagli Arabi. Dal 500 fin verso l'anno 1000 il pellegrinaggio era un fenomeno
prevalentemente individuale. Verso la fine del primo millennio, invece, prende corpo il
pellegrinaggio collettivo. Una svolta nel carattere stesso del pellegrinaggio si ha a partire dal VII
secolo, quando si comincia a prescriverlo o ad imporlo, assieme all'elemosina, come penitenza per
peccati di una certa gravità. Si andava in pellegrinaggio non solo per visitare i luoghi santi di culto,
ma anche per sciogliere un voto, è sentito come pratica di penitenza e di riscatto morale al punto
tale da coinvolgere anche le classi sociali più alte, senza escludere re e imperatori10. I termini ad
esso connessi, peregrinus e homo viator, vengono comunemente usati come sinonimi. Tuttavia vi è
una notevole differenza semantica.
(Homo) viator si riferiva al messaggero o cursore pubblico incaricato di compiere un determinato
percorso per portare ordini, corrispondenza, messaggi o per altri incarichi simili. Il "viator"
9
Le radici del pellegrinaggio cristiano si ritrovano anche in illustri esempi biblici, sia del Vecchio che del Nuovo
Testamento: da Adamo che abbandona l'Eden, ad Abramo, Isacco e Giacobbe che peregrinano senza una fissa dimora, o
il popolo d'Israele che erra nel deserto.
10
Il primo sovrano a recarsi a Roma è stato Carlo Magno, nella Pasqua del 774.
7
percorreva la via, un cammino ben tracciato e individuabile nel territorio. Ma nella Patristica è
Cristo la via, quindi l’homo viator è consapevole di compiere un cammino seguendo le tracce di
Cristo, ma soprattutto che la sua via è Cristo e che solo in lui e con lui può procedere verso la sua
ultima meta. Il termine Peregrinus deriva dalla locuzione per agros e indica gli individui che
percorrono il territorio esterno alla città. Il peregrinus, in quanto non appartenente alla comunità con
cui viene in contatto, è straniero, sconosciuto. Viene da lontano e va altrove. Da straniero non
conosce i luoghi e gli itinerari e perciò deve trovare il suo cammino attraverso piste non sempre
giuste. Il peregrinus è soggetto a smarrirsi e deve chiedere la giusta direzione alla gente del luogo.
Ha bisogno di protezione giuridica, di trovare ospitalità e di ricevere cibo per sostentarsi. Fin
dall’alto medioevo è compreso fra le categorie sociali deboli, fra i pauperes, gli infermi, tutti gli
impotentes bisognosi di tutela e di provvidenze. Inanazitutto se i viaggiatori erano in grado di
pagarsi da mangiare allora non si potevano definire pellegrini ma erano detti "pittocchi". Loro
giravano e si fermavano in taverne e case per mangiare. I piatti che mangiavano erano rustici come
ad esempio il pulentum. I veri pellegrini invece erano quelle persone che si privavano di ogni bene
terreno ed erano ospitati dai signori dove mangiavano piatti raffinati ed elaborati con ingredienti di
stagione e locali. Questo perché più pellegrini un signore ospitava in casa propria più probabilità
aveva il signore di andare in paradiso. La cena comprendeva invece una razione di pesce bollito,
castagne alla brace e rape calde. Non vi erano le posate, mangiavano con le mani e ci si scambiava
le poche brocche presenti sul tavolo. La colazione per i pellegrini era molto semplice e veloce:
qualche pezzo di pane, ancora vino e frutta. Nel Medioevo vi erano numerose locande che
ospitavano i pellegrini per i pasti, il pranzo comprendeva pane a volontà, vino ed una zuppa di
borraggine con tocchi di maiale. Solitamente queste locande non erano molto sicure, si assisteva
infatti a numerosi scontri.Prima di entrare il proprietario della locanda faceva infatti varie domande
sul possibile cliente per evitare questi scontri. Il cibo dei pellegrini era facilmente conservabile visto
che dovevano percorre lunghe distanze a piedi, e non era detto che lungo la strada trovassero una
locanda dove sfamarsi nel loro cammino.
Il cibo era inoltre strettamente legato alla stagionalità. Solitamente nelle locande servivano cibo
assai salato, era una tecnica che usavano i proprietari perché inducevano molta sete ai viandanti che
per dissetarsi compravano più vino.
I pellegrini si sfamavano in base alla quantità di denaro che possedevano e preferivano dissetarsi
con il vino, anche se scadente e con poco alcool, perché l’acqua spesso era inquinata.
Il menù del pellegrino comprendeva zuppe e minestre (la PANICCIA a base di cereali e legumi, il
MACCO una vellutata fatta con legumi secchi), ma anche con salami, formaggi e frittatine.
L’alimento principale era il pane, grazie anche alla sua conservabilità, che non doveva essere
8
bianco, perché era simbolo di mollezza, ma nero (pane “della penitenza”) fatto con grano tenero,
spelta, orzo, crusca di frumento, farina di fava e di castagna.
Una volta arrivati in città i pellegrini facevano un piccolo gesto di solidarietà: acquistavano nei
panifici il “pane dell’accoglienza”, un pane con impresso il “Tau”, simbolo dell’ordine religioso dei
francescani, e l’ultima lettera dell’alfabeto. Questo pane veniva acquistato lasciando il conto pagato
per chi ne aveva bisogno.
La prima testimonianza scritta di una ricetta per pellegrini risale al XV secolo quando un cuoco di
origine tedesca, Giovanni Bockenheym, scriveva nel suo ricettario: “Prendi le fave, lavale bene in
acqua calda e lasciale così tutta una notte. Poi falle bollire in acqua fresca, tritale bene e aggiungi
vino bianco. Condisci con cipolla, olio di oliva o burro, e un po’ di zafferano” – questo piatto –
“sarà buono per i chierici vaganti e per i pellegrini”.
FOTO SCATTATA PRESSO IL CERMIS (CENTRO RICERCHE E SVILUPPO PER IL
MIGLIORAMENTO VEGETATIVO N. STRAMPELLI) DI TOLENTINO (MC)
C) – La Via
9
Lauretana: storia e percorso
L’esistenza del santuario lauretano è documentata sin dal 1294, in esso è custodita la Santa Casa di
Nazareth, luogo dell’Annunciazione. L’abitazione di Maria era costituita da una grotta, tuttora
venerata nella Basilica dell’Annunciazione, e da un manufatto in muratura ad essa addossato.
Secondo la tradizione, nel 1291, quando i crociati persero definitivamente la Palestina, con la
caduta di Akko, la Casa in muratura della Madonna tu trasportata, “per ministero angelico”, prima
in Illiria e poi nel territorio di Loreto. Oggi, in base a nuove indicazioni documentali, ai risultati
degli scavi archeologici nel sottosuolo della Santa Casa (1962-65) e a studi filologici e iconografici,
si va sempre più confermando l’ipotesi secondo cui le pietre della S. Casa sono state trasportate a
Loreto su nave, per iniziativa umana. La Santa casa di Loreto oltre ad essere una reliquia è anche
una icona concreta. Reliquia perchè è una parte della dimora di Maria invece è un icona perché
riflette la verità di fede della vita cristiana. Nel percorso della Via Lauretana si vedono i segni della
devozione verso Maria e si iniziano a creare le strutture di accoglienza necessaria per il
pellegrinaggio a partire dal XVI secolo.
La Via Lauretana si connette a grandi itinerari devozionali europei diventando parte di un sistema
complesso, che comprende le tre grandi mete della cristianità.
10
Il percorso della Via Lauretana comprende sette tappe: Assisi-Spello; Spello-Colfiorito; ColfioritoCamerino, Camerino-Belforte del Chienti; Belforte del Chienti-Tolentino; Tolentino-Macerata;
Macerata-Loreto11
11
Nell’ultima tappa da Macerata, in Via dei Velini che scende fino a fiancheggiare lo stadio Helvia Recina (15) e
raggiungere l’abitato di Villa Potenza, dove si immette nella Statale 77 (16) si prosegue lungo la statale fino all’abitato
di Sambucheto (10). Dopo circa 300 metri si giunge ad un bivio (8), si svolta a sinistra (Contrada Acquesalate) e si
scende rapidamente verso il fondovalle del Potenza. Dopo un chilometro di ripida discesa e un altro chilometro di
pianura, si passa il ponte sul Potenza (9) e si entra nell’abitato di Sambucheto, confluendo nella Statale 77 (10).. Dopo
circa 400 metri di svolta a sinistra (11), per una strada in direzione Nord. Dopo poco più di un chilometro si giunge ad
un quadrivio (17), si svolta a destra in direzione Est. La strada prosegue poco più di due chilometri. Subito dopo una
curva a gomito a sinistra e una a destra (18) inizia una strada in salita che conduce in due chilometri all’incrocio di
Costa dei Ricchi, collocato proprio sul crinale della collina. Si prosegue discendendo ripidamente verso il fondovalle
(fosso Ricale) e risalendo altrettanto ripidamente fino al convento dei Passionisti, poi si prosegue fino ad incrociare di
nuovo la Statale 77 che si segue per poco più di centro metri, imboccando a sinistra Via Le Grazie, al termine della
quale si prende a destra Via Spazzacamino, che immette in Via del Risorgimento. La si imbocca a destra, proseguendo
per Piaggia Castelnuovo ed entrando nel centro storico di Recanati fino a giungere in Piazza Duomo. Si attraversa
l’abitato di Recanati percorrendo la via principale e uscendo dalle mura per Via venti settembre. Seguendo quindi Viale
Dalmazia, Via di Varano e Via del Mare si giunge a riprendere la Statale 77 che si segue in direzione Loreto. Si
prosegue lungo la Statale 77 e in poco più di quattro chilometri si giunge alle porte di Loreto. Percorrendo la discesa di
Via Brancondi si giunge a Porta Romana, da dove si entra nel centro di Loreto, giungendo in breve in Piazza della
Madonna al santuario della Santa Casa, termine della Via Lauretana.
11
Attualmente i comuni delle regioni Marche e Toscana si stanno impegnando per recuperare,
valorizzare e riattivare l’antica via di pellegrinaggio, la“Via Lauretana”.
12
CAPITOLO II
L’ALIMENTAZIONE NEL MEDIOEVO
A) - Il linguaggio del cibo
Il cibo nell'epoca altomedievale si caratterizza come un fondamentale mezzo di identificazione in
campo economico e sociale, in quanto si mangia secundum qualitatum personae.
La parola 'qualitas' esprime una condizione a livello gerarchico intesa come manifestazione della
qualità personale. Il potens è “costretto” a mangiare molto e usare alimenti di maggior pregio,
mentre il pauper non deve cercare di cibarsi, ad esempio, di quegli alimenti che il proprio rango
sociale non può concedersi, accontentandosi quindi della propria collocazione sociale. Il concetto di
quantità diventa perciò primo elemento di distinzione sociale e il consumo di carne per
l’aristocrazia militare è un simbolo di forza, mentre, per il resto una sorta di sostentamento. L’etica
monastica, al contrario, sostiene un mantenimento del corpo “spirituale”, basandosi sull’astenersi
dal mangiare carne. Questa regola non vale però nell’alto corpo ecclesiastico che si sente parte
integrante dell’aristocrazia e aderisce alle regole di quest’ultima. Il pasto, all’interno del ceto
monastico, assume significati diversi: per alcuni è inteso come pasto terreno, mentre per altri come
pasto spirituale che permette la diffusione della parola di Dio.
Nei monasteri, oltretutto, vengono emanate regole come quella di Magistri che prevedono
l’assunzione di più alimenti durante le feste e quella di Benedetto, per il quale chi lavora e trascorre
il proprio tempo nei campi viene premiato con una razione maggiore di cibo.
Il cibo va assumendo così un significato per lo più simbolico in ambito religioso, il pane soprattutto
viene inteso come immagine quotidiana del miracolo eucaristico arrivando a materializzare il cibo
spirituale.
Il linguaggio del cibo vede così l’intrecciarsi di etica, religiosità e simbologia che non è soltanto
parte della cultura cristiana. Un altro significato è quello di essere strumento utilizzato per
accettazione o meno di quella identità nazionale ed etica condivisa, un esempio può essere quello
dei Franchi conosciuto come un popolo di forti poiché amano mangiare in grandi quantità e qualità,
e rappresenta una colonna portante nei rapporti tra le persone, i gruppi e le istituzioni. Un elemento
determinante di questa funzione è l’assegnazione del posto a tavola che esprime il grado di
importanza della specifica persona se, quest’ultima, siede più o meno vicino al capo, simbolo del
potere.
L’assegnazione del posto a tavola non è solo una caratteristica del mondo aristocratico, ma anche di
13
quello monastico: il grado di importanza, infatti, si determina in base alla spiritualità e alla moralità
del fedele. La figura dell’abate ha una propria mensa dove occasionalmente accoglie i pellegrini e
gli anziani offrendo loro un pasto. Inoltre, egli e i personaggi più in vista dell’aristocrazia
ecclesiastica hanno il potere di emarginare o scomunicare i membri della società come espiazione
delle proprie colpe ed esclusione sociale. Lo scomunicato viene così emarginato e portato a
mangiare in solitudine poiché chi condivide il proprio pasto con lui di conseguenza si macchia della
stessa colpa.
La condivisione del pasto, quindi, assume diversi significati simbolici: segno di solidarietà, intesa
come invito a far parte della proprio comunità, gruppo; segno di ricchezza per il potens, immaginato
come un capo che condivide il proprio bottino con i suoi seguaci; segno di inferiorità per il paupers
che offre i prodotti del raccolto a titolo fondiario. Questi gesti di buona riconoscenza verso i più
potenti si mutano in atti dovuti fino a riguardare le diverse istituzioni e includere anche gli enti
ecclesiastici. La società, quindi, si ritrova ad attribuire al cibo una forte carica emotiva e
comunicativa che entra in discussione a volte per la sua natura, a volte per essere simbolo di
contenuti ad esso estranei. Si può così definire il cibo un sistema complesso di comunicazione dove
la circostanza supera di molto l’importanza della sostanza e del valore nutritivo e un sistema di
identificazione sociale, religiosa ed etica che porta esso ad intraprendere una via del tutto lontana
dalla propria realtà biologica che è quella di “parlare” con la società altomedievale.
B) - Alimentazione nel Medioevo
Nel Medioevo non vi erano tutti gli alimenti che oggi possiamo trovare sulle nostre tavole e non vi
erano tutti quegli alimenti scoperti dopo il viaggio in America come il pomodoro, la patata, il
peperoncino, il mais, il caffè e il tabacco. Al contrario si poteva bere tutto il vino che si voleva
preferibilmente allungato, vi erano diversi tipi di spezie.
Nelle case contadine la cucina era costituita principalmente da un caminetto che veniva utilizzato
per qualsiasi tipo di cottura. Era anche un luogo per riscaldarsi mentre nelle case dei benestanti la
cucina costituiva un luogo separato dal resto della casa. Il forno non era una struttura domestica, ma
serviva ad un'intera comunità cittadina o rurale; il proprietario di solito era un fornaio che lo
metteva a disposizione per tutta la comunità. Nelle case dei benestanti vi era molto movimento nelle
cucine visto che vi lavoravano sguatteri e cuochi che si suddividevano i compiti. Nelle case
contadine vi era solo la casalinga che cucinava che era molto più avvantaggiata nel procurarsi gli
ingredienti una volta finiti, come per esempio la carne che proveniva dalle botteghe dei macellai o
da allevamenti domestici. Sempre da questi allevamenti si ricavava il latte, con cui si producevano i
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vari formaggi che si mangiavano al naturale oppure mischiati a ripieni. I pasticceri fornivano dolci
secchi e cialde, i fornai provvedevano al pane per la mensa (si appoggiava il cibo su di esso e quindi
serviva da piatto) ed a quello con cui accompagnare i cibi. La cacciagione arricchiva e diversificava
i menù. Il pesce fresco, salato o essiccato, era considerato il sostitutivo della carne. La varietà della
verdura e della frutta era certamente più limitata di oggi; includeva tuttavia varie erbette dell'orto,
insalate, bacche selvatiche, menta selvatica, borragine, portulaca, issopo, senecione, fior di
finocchio, cime di cavolo, maggiorana, ceci rossi, fiori di fave, radici di prezzemolo, fiori di
sambuco, corniole e altri ancora che entravano in dispensa insieme ad altre piante dell'orto per noi
più comuni come bietole, legumi, cavoli, ecc. L'alternanza grasso magro dell'anno liturgico e il
trascorrere delle stagioni imponevano un loro ritmo.
Alcuni prodotti erano messi in salamoia, i legumi e le zucche erano seccati; le confetture, cotte nel
miele, nello zucchero o nel mosto erano diverse dalle nostre preparazioni. L'aceto e l'uva acerba, il
cui succo o i cui acini conservati sotto sale erano chiamati "agresto", erano degli ingredienti
aromatici fondamentali. Il latte, sostanza molto deperibile, si consumava sul luogo di produzione.
Gli ingredienti fondamentali della cucina medioevale rimangono comunque sempre le spezie
vendute in polvere oppure già mischiate tra loro.
Si inizia a trovare qualche testo scritto di ricette medioevali dall'anno mille e solo all’interno delle
Abbazie. I frati di solito mangiavano al giorno una libbra di pane, una forma di formaggio, verdura
e circa sei uova. Poi vi erano dei giorni, più o meno ogni due settimane, che mangiavano carne
bovina o pesce, e tutti questi prodotti provenivano dai contadini vicini ai monasteri.
Un secondo motivo per cui non si trovano molte ricette medievali è che solo dal 1000 in avanti si
inizia a scrivere di cucina. I primi sono i monasteri e specialmente in Francia dove Santa Ildegarde
stila il primo ricettario del periodo.
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Esempio di ricetta:
“Agliata Agliata a ogni carne, toy l'aglio e coxilo sotto la braxa, poi pestalo bene e mitili aglio
crudo, e una molena de pan, e specie dolçe, e brodo; e maxena ogni cossa insema e fala un pocho
bolire e dala chalda”.
C) – Pietanze per nutrire il corpo
Il cuoco medioevale aveva un particolare gusto cromatico, da una stessa tinta si creavano diverse
tonalità, ad esempio il verde era ottenuto pestando le verdure. Il rosso variava asseconda del tipo di
piatto o con succo d’uva o di ciliegia o con petali di rosa o con aggiunta di radice di alkanna o succo
di legno di sandalo. Il colore principe era il giallo come richiamo alla ricchezza all’oro. Quindi dalla
cucina medioevale possiamo ricostruire quasi filologicamente quegli antichi sapori partendo dal
fatto acclarato che tre erano al tempo quelli fondamentali: il forte, l’acido, il dolce.
Il primo si otteneva grazie alle spezie. Per il secondo si ricorreva all’aceto, all’agresto (succo di uva
immatura), agli agrumi, ma anche al vino bianco che all’epoca era molto meno corposo e più acido
dell’attuale. Il sapore dolce infine era ottenuto impiegando il miele, i fichi, i datteri e l’uva passa.
Tra le spezie ltre al pepe, la cannella e i chiodi di garofano, erano considerati più sofisticati e
ricercati la calanga, lo zafferano, il cardamomo, i cosiddetti grani del paradiso (amomum
melegueta), il riso e lo zucchero. Una varietà di zuppe e minestre veniva servita sulle tavole povere,
unitamente ad un pane scuro, pesce affumicato o sotto sale e mai fresco. Poco consumata era invece
la frutta fresca, una qualche eccezione come nelle particolari festività religiose vigeva per la frutta
secca. Essendo fino al XIV secolo utilizzato il bue esclusivamente per lavori agricoli il maggior
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consumo riguardava gli animali da cortile ed in particolare il maiale, gli ovini, abbondante e la
selvaggina.
Importante è invece la cucina delle tavole patrizie e di queste ultime abbiamo una notevole
documentazione scritta. Più che di ricette come potrebbe intendersi oggi si tratta di una sequenza di
annotazioni mancanti spesso di indicazioni specifiche sulle dosi e tempi di cottura. Sono assenti
inoltre nei libri di cucina le pietanze di uso comune essendo il loro consumo così radicato da
ritenersi scontato. Eccezionale era invece la presentazione dei piatti, quasi a far sbalordire i
commensali con scenografie teatrali. Durante l’allestimento dei banchetti le tavole erano mobili e
quasi sempre di forma rettangolare, cioè formate da lunghi assi di legno posti su cavalletti. Le
mense venivano ricoperte con pesanti tappeti sui quali si ponevano le tovaglie in numero pari ai
servizi. I commensali sedevano su panche disposte su un solo lato, mentre all’ospite più importante
veniva riservata una comodissima seggiola. 12
Esempi di alcune ricette di grande stile culinario sono le quaglie ripiene allo spiedo, il cinghiale o il
maiale arrosto, l’anguilla in salsa, il piccione alle spezie, il pasticcio di coniglio o lepre, la torta di
zucche ela torta di ciliegie, l’emplemane di mele e l’ippocrasso.
Il Medioevo anche nel settore culinario dimostra di essere un periodo di grande ricerca. Accanto ad
alcune evidenti negatività si nota un notevole slancio verso la civiltà futura, ma qualunque sia il
giudizio espresso su quel periodo, come scrive Siedler “la storia è andata oltre gli storici e questi
ultimi difficilmente hanno creato un chiaro e giusto giudizio”.
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Nel Medioevo non esisteva il coperto individuale la norma era infatti quella di dividere il bicchiere e la scodella con
il proprio vicino, ma quasi tutti avevano un coltello personale ed anche un cucchiaio. I cibi posti in tavola dopo la
suntuosa preparazione venivano tagliati a bocconi direttamente sul piatto di servizio. In assenza di tovaglioli ci si puliva
le mani sull’estremità della tovaglia. Vi erano precise regole comportamentali, come lavarsi le mani prima di iniziale il
pasto, non soffiarsi mai il naso con i lembi della tovaglia, non usare il coltello per pulirsi i denti e per quest’operazione
venivano messi a disposizione pezzetti di legno aromatizzati, ma soprattutto bisognava mostrarsi ossequiosi con le
dame offrendole i bocconi più prelibati.
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BIBLIOGRAFIA
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secolo), in “Atti del XLV convegno di studi maceratesi”, Abbadia di Fiastra – Tolentino -28/29
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