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Audizione informale Commissione Affari Costituzionali Senato
Valutazioni UIL sullo schema di decreto legislativo recante la disciplina della dirigenza della
Repubblica
a cura dell’Ufficio Politiche Contrattuali Pubblico Impiego Uil
Roma 28.09.2016
Il Consiglio dei Ministri del 25 agosto 2016 ha approvato, in esame preliminare, il decreto
legislativo recante la disciplina della dirigenza della Repubblica ai sensi dell’articolo 11 della legge
7 agosto 2015, n. 124.
Il problema di fondo che questa riforma si propone di affrontare è quello di coniugare i requisiti
della legalità (tradizionalmente ancorati alla stabilità nel posto dei dirigenti, in modo tale che essi
possano opporsi a provvedimenti illegittimi) con i requisiti dell’efficienza e dell’efficacia (che
richiedono la possibilità di rimuovere il personale incapace e di premiare chi rende di più).
Il Governo per raggiungere tali obiettivi usa la carta della “competizione”, attraverso il superamento
dell’incarico fisso e con la creazione di un mercato della dirigenza.
Possiamo, tuttavia, dire, fin dalla premessa, che anche questa volta si è persa l’occasione per
innovare un regime che sempre più tende ad eclissare l’organo dirigente alle spalle di quello
politico, deresponsabilizzando quest’ultimo. Ma procediamo per punti.
Ebbene la nostra attenzione si è subito rivolta al meccanismo di competizione, su cui si fonda il
modello proposto dal decreto, il quale si lega a doppio filo con il sistema della valutazione, che non
risulta sostanzialmente modificato rispetto a quanto previsto dalla legge 150/2009, c.d. Brunetta.
La novità sostanziale che si introduce, infatti, riguarda l’istituzione di una Commissione atta a
vigilare su tutto il nuovo sistema della dirigenza pubblica. I primi dubbi sorgono, tuttavia, già dalla
composizione di quest’ultima. Ci saranno, infatti, tre commissioni (Stato, Regioni, Enti locali)
composte da sette persone, di cui cinque alti funzionari dello Stato (il Segretario generale del
Consiglio di Stato, il presidente dell’Anac, il Ragioniere generale dello Stato, il Segretario generale
del ministero degli Esteri e il Capo dipartimento per gli affari interni e territoriali del ministero
dell’Interno).
Innanzitutto non si comprende perché queste figure debbano essere in maggioranza di nomina
politica centrale nonostante giudichino anche Regioni ed Enti locali e, in secondo luogo, perché
siano state individuate tra pezzi di apparato pubblico non toccato dalla riforma. In ciò si potrebbe
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rinvenire una prospettiva di autonomia ed indipendenza dell’autorità, ma così non è perché sarebbe
opportuno quanto meno garantire una pari rappresentanza e conoscenza dei diversi livelli
amministrativi da valutare. Da verificare, inoltre, se i richiamati membri avranno modo e tempo di
dedicarsi in maniera adeguata, visti gli incarichi ricoperti, ad una valutazione di una rilevanza ed
incisività non da poco ai fini delle carriere degli interessati. Bisogna considerare, infatti, che gli
stessi, come già detto, saranno membri oltre che della commissione nazionale, anche di quella
regionale e locale, quindi il carico di lavoro, prevedendo anche l’elevato numero di domande – data
l’intercambiabilità delle posizioni - che seguiranno all’indizione dei bandi per le posizioni
dirigenziali da assegnare, non sarà da poco. Una tale coincidenza di ruoli non ci sembra una
consona garanzia dato il peso che la valutazione avrà sui dirigenti: non solo la conferma nel posto
per i due anni successivi ai quattro d’incarico ma anche una parte molto significativa della
remunerazione. Il decreto in esame stabilisce che la retribuzione variabile dovrà arrivare almeno al
50%, mentre quella di risultato ad almeno il 30% (60 e 40% per gli incarichi di direzione generale),
assorbendo tutti gli aumenti stipendiali futuri, fermo restando comunque il mantenimento del
trattamento fondamentale in godimento. Tra parentesi, nel far ciò, si svuota la contrattazione
collettiva e si enfatizza al contrario quel salario variabile tagliato sistematicamente nelle leggi di
stabilità. Come se già questo non rendesse abbastanza complicate le trattative dei rinnovi
contrattuali, il provvedimento detta, inoltre, disposizioni finalizzate ad una graduale convergenza,
nell’ambito dei contratti collettivi, del trattamento economico fondamentale di tutti coloro che sono
iscritti nei ruoli della dirigenza utilizzando le economie derivanti dalle nuove previsioni.
Tornando al meccanismo di controllo, insomma, rischia di essere flebile ed incapace di incidere sul
legame malsano fra politica (soprattutto locale) e amministrazione pubblica, su cui incomberà la
scure di una valutazione potenzialmente non oggettiva e difficilmente controllabile dalle
Commissioni. A fronte di ciò, l’aumento dei contenziosi appare dietro l’angolo.
Desta poi non minori preoccupazioni il fatto che, nell’integrare i casi di responsabilità dirigenziale
del D.lgs. 165/01, si preveda che “costituiscono mancato raggiungimento degli obiettivi (per i
dirigenti): la valutazione negativa della struttura di appartenenza, riscontrabile anche da
rilevazioni esterne […] che abbiano determinato un giudizio negativo dell’utenza sull’operato della
pubblica amministrazione e sull’accessibilità ai relativi servizi”. Ciò vuol dire, in altre parole, che
l’utenza esterna e, di fatto, chiunque abbia passato una giornata nera nel tal ufficio, possa esser
determinante ai fini del giudizio negativo di un dirigente. Un sì sacrosanto principio del controllo
sociale da parte della cittadinanza ma che appare privo di necessarie regole di ingaggio, col pericolo
di trasformarsi in una sorta di potenziale gogna mediatica.
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Ma non basta! Oltre ai pericoli che si celano dietro a una valutazione così come delineata, vogliamo
far suonare un altro campanello d’allarme sotto il profilo della separazione tra dirigenza ed organo
politico. L’atto di governo in questione spinge verso un’inesorabile “precarizzazione” della
dirigenza e, fondamentalmente, alla fine del diritto all’incarico e dell’autonomia amministrativa.
La dirigenza si ritroverà costretta a inseguire di volta in volta gli indirizzi politici di quel
determinato Governo eletto per cercare di garantirsi il rinnovo del mandato e/o il prossimo incarico
presso un’altra amministrazione.
Da questo punto di vista, non è chiaro, infatti, per quale motivo vi debba essere un’obbligatorietà
della rotazione di figure altamente professionalizzate, a prescindere sia dai risultati ottenuti sia dal
riscontro di effettivi fenomeni di corruzione. L’incarico avrà, come già riportato, una durata
quadriennale rinnovabile unicamente per due anni compatibilmente ad una valutazione positiva –
motivata - dell’operato di quell’amministrazione. Sarebbe poi da analizzare se tale ricambio
sistematico della dirigenza comporti in termini pratici dei benefici al servizio pubblico o, al
contrario, rischi di ingenerare confusione nella loro stessa gestione.
Questo sistema di rotazione, inoltre, non sembra in alcun modo disincentivare possibili ingerenze
dell’organo politico, anzi semmai il contrario, dato che, proprio per la durata prevista, il mandato
dirigenziale potrebbe tendere a legarsi con il rinnovo delle consiliature.
L'obiettivo evidente è quello di generare un mercato della dirigenza ampio, dove la politica possa
pescare una personalità piuttosto che un’altra, in base al profilo più confacente all’indirizzo di
quella determinata amministrazione. Il rischio di "precarizzare" ed indebolire una dirigenza già
fragile è sotto gli occhi di tutti.
La “lotta” per un posto da dirigente, pur se vincitore di concorso pubblico, assume connotati
“darwiniani” e ove, per motivi che nulla hanno a che fare con valutazioni negative, un incarico non
dovesse arrivare, ci si avvia verso la strada del licenziamento. I funzionari pubblici, che entreranno
nel Ruolo e non riusciranno a ricollocarsi, rimarranno in una sorta di stallo. Questi dovranno
partecipare ad almeno cinque interpelli l’anno e percepiranno nel primo anno il trattamento
economico fondamentale mentre nel secondo lo stesso decurtato di un terzo.
È necessario far presente, però, che il trattamento economico di questi dirigenti continuerà a gravare
sull’amministrazione che ha conferito loro l’incarico, in quanto titolare del rapporto di lavoro.
Pertanto, gli enti si troveranno, costretti dalla rotazione, con molta probabilità a dover retribuire per
un periodo sia il nuovo dirigente designato sia il vecchio fino al suo nuovo mandato in carico ad una
nuova amministrazione che, così, acquisirà la titolarità del contratto di lavoro.
Il Dipartimento della funzione pubblica può collocare d’ufficio i dirigenti privi di incarico in posti
vacanti ma in caso di rifiuto degli stessi conseguirà la decadenza dal Ruolo, salvo la possibilità di
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scegliere il sotto-inquadramento. Altro caso, invece, quello del dirigente cui venga revocato
l’incarico per inadempienza. Egli si dovrà cercare un nuovo mandato entro un anno per non
incorrere nel licenziamento, salvo, anche in questo caso, accettare il demansionamento. Prospettiva
che peraltro può esser formulata in qualsiasi momento.
Tutto ciò premesso non ci convince il criterio secondo il quale un cittadino veda scipparsi la
qualifica, ottenuta tramite concorso pubblico, per il solo scorrere del tempo utile a ricevere un
nuovo mandato. Come ancor più non ci persuade la previsione che consente in tal caso la
permanenza del dirigente privo di incarico subordinatamente ad una sua ricollocazione come
funzionario. Di fronte al licenziamento, in pratica, il dirigente è messo con le spalle al muro.
È questa la misura che dovrebbe contribuire in maniera sostanziosa ad una riduzione degli esborsi
per gli stipendi dei funzionari pubblici, partecipando in maniera consistente al miliardo di risparmi
atteso dal decreto sulla dirigenza pubblica. Il decreto, così, rischia di essere una mera operazione di
taglio dei costi.
Riteniamo che un modello simile possa ingenerare una questione di legittimità costituzionale o
quantomeno violare principi cardine del diritto del lavoro, perché se è pur vero che l’art. 2103 del
codice civile non trova nel pubblico impiego l’esatta e coincidente applicazione del settore privato,
è altrettanto vero che ciò trova ragione nell’impossibilità per la P.A. di riconoscere in caso di
temporanea assegnazione di mansioni superiori l’inquadramento corrispettivo, necessitando tale
posizione superiore un apposito bando di concorso. La ratio della differente applicazione nel
pubblico impiego del portato normativo di cui all’art. 2103 cod. civ. è quindi espressione della
diversa natura del reclutamento del personale tra impiego pubblico e privato, che ha la sua
discriminante proprio nel concorso bandito dalla Pubblica Amministrazione, ai sensi dell’art. 97
della Costituzione, per le singole carriere necessarie. Come del resto la mancata applicazione ai
dirigenti del 2103 si giustifica nel non ostacolare, con il mantenimento del trattamento economico
uscente, un eventuale passaggio del dirigente da un incarico ad un altro.
Tale disapplicazione, perciò, non può sfociare in una decadenza dalla carriera lavorativa guadagnata
tramite vittoria di pubblico concorso, special modo se non motivata da inadempienze o negligenze
dell’interessato – che ben potrebbe, infatti, anche esser stato riconfermato dopo l’incarico
quadriennale e quindi valutato positivamente – bensì giustificata dalla mancata assegnazione di un
incarico da parte di una nuova amministrazione, la cui scelta è comunque discrezionale e limitata
alle disponibilità delle singole piante organiche. Pertanto, non reputiamo assolutamente legittimo
che un vincitore di concorso pubblico per uno specifico profilo si veda costretto, incolpevolmente, a
mortificare la propria professionalità, accettando una posizione lavorativa inferiore a quella
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acquisita per l’appunto con concorso. Le nuove regole all’orizzonte sembrano svilire, così, un
diritto soggettivo garantito costituzionalmente, sostanzialmente azzerandolo.
A rincarare la dose ci sono i nuovi metodi di reclutamento. La previsione, infatti, di corsi-concorsi
anche per quei settori che non li prevedevano (Regioni ed Enti locali) non faranno altro che
ingrossare le fila dei vincitori di concorso e, di conseguenza, dei dirigenti potenziali precari e/o non
utilizzati, mentre non viene fatto alcun cenno del destino delle graduatorie esistenti che scadono il
prossimo 31 dicembre. Lo scandalo dei dirigenti senza incarico è un palese esempio di spreco di
risorse umane, di professionalità e di denaro pubblico nonché di inefficienza delle Amministrazioni.
Proprio il corso-concorso istituzionalizza difatti questo meccanismo di instabilità, in quanto si
prevede per i vincitori l'immissione in Ruolo come funzionari per tre anni (riducibile ad uno a
discrezione delle singole amministrazioni), a conclusione del quale fa seguito una valutazione da
parte della stessa amministrazione che, se positiva, porta al conferimento di un incarico a tempo
“indeterminato” in qualità di dirigente (ma per la durata di 4 anni) con la conseguente iscrizione al
rispettivo Ruolo. Mentre in caso di valutazione sufficiente, ma non fino al punto da trasformare il
corsista in vincitore, porta ad un contratto a tempo indeterminato come funzionario. A parte il
paradosso che risulta più stabile, quindi, questa seconda prospettiva, non è chiaro perché si debba
collocare come funzionario un vincitore di concorso per una posizione differente quale quella
dirigenziale. Tutto sembra portare verso riduzioni stipendiali che in alcuni casi divengono
l’anticamera del licenziamento o della retrocessione a funzionario.
Il risultato è una dirigenza itinerante e precaria sempre sotto ricatto dell'indirizzo politico, di cui
diviene mera esecutrice, con buona pace dell’imparzialità dell’azione amministrativa e della tutela
degli interessi dei cittadini. Nel caso della dirigenza locale il problema, poi, diviene ancora più
delicato perché lì il rapporto numerico fra politica e dirigenza vede crescere di molto il numeratore,
rispetto alle Amministrazioni statali, con una conseguente influenza politica più rilevante. Questa
particolarità, insieme alle altre specifiche caratteristiche degli ordinamenti territoriali, dovrebbe, fra
l'altro, far riflettere se non sia più realistico prendere atto delle diversità esistenti fra le varie
tipologie di Amministrazioni e delle incongruenze che potrebbe portare l’intercambiabilità della
dirigenza. Ed anzi proprio sull’istituzione del ruolo unico è doveroso aprire una parentesi, anche
questa critica, relativa al fatto che sarà ben prevedibile la presa d’assalto dei posti vacanti da parte
di migliaia di domande, data l’intercambiabilità tra amministrazioni nonostante le diverse
regolamentazioni (che richiederanno necessariamente un coordinamento).
Non poteva, poi, mancare nel decreto la ciliegina sulla torta: lo spoil system! Fattispecie
contemplata per gli incarichi super apicali che cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia
al Governo.
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Ulteriore aspetto dolente è quello della de-professionalizzazione della figura dei Segretari di
Comuni e Province, di cui vengono disperse nel ruolo unico le competenze professionali
specialistiche acquisite sia sul campo sia - per le ultime leve - attraverso anni di formazione mirata.
Siamo probabilmente alla conclusione di un ciclo inaugurato con la cd separazione fra politica e
amministrazione sulla quale si tentò di costruire, a partire dagli anni novanta, specialmente per gli
enti locali, una figura dirigenziale autonoma e competente. La figura del segretario comunale, un
forte presidio alla legalità dell'azione amministrativa dell'ente, così sparisce. A sostituirlo arriva il
dirigente apicale proveniente dal ruolo unico degli enti locali, con compiti di attuazione
dell'indirizzo politico, coordinamento dell'attività amministrativa e controllo della legalità
dell'azione amministrativa.
Suscita scalpore da parte nostra, poi, l’imposizione nei confronti della contrattazione collettiva di
destinare una percentuale delle risorse complessivamente destinate al trattamento economico - nella
misura del due per cento - ai premi che ciascun dirigente potrà attribuire annualmente a non più di
un decimo dei dipendenti. Oltre alla palese “invasione di campo” della norma sul terreno della
contrattazione, non si comprende in alcun modo perché si voglia regolare anche il trattamento del
personale non dirigente, che non rientra nemmeno tra le competenze dirigenziali.
Segnaliamo, inoltre, l’assenza di una salvaguardia dello status giuridico ed economico dei dirigenti
collocati in aspettativa, distacco o fuori ruolo a qualsiasi titolo.
In conclusione, la UIL ritiene che questa riforma non ottemperi ai suoi buoni propositi di legalità ed
efficacia/efficienza, anzi peggiori il sistema complessivo perché rischia di consegnarci una
dirigenza intimidita dall’insicurezza del proprio mandato.
Una riforma rispondente a propositi di modernizzazione dell’amministrazione pubblica, piuttosto
che puntare i riflettori – sul solco della ormai nota criminalizzazione del pubblico impiego sull’inefficienza della dirigenza, dovrebbe effettivamente consegnare loro poteri autonomi di
gestione delle risorse umane e finanziarie.
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