Di quel lontano mar, quei monti azzurri.

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Di quel lontano mar, quei monti azzurri
di Alice Ciccioli – Primo Classificato
La strada corre veloce, con la testa appoggiata al finestrino vedo passare gli alberi e le case che la
costeggiano. Il viaggio è più bello fatto da passeggero: senza nessuna attenzione alla guida, lasciare che
l'occhio vaghi e lo sguardo accarezzi le nuvole e il paesaggio senza pretese. Ogni cosa è fatta più bella
dallo stupore, e quale modo migliore per essere stupiti di osservare distrattamente il mondo esterno
mentre la mente galoppa? A me è successo: mi sono voltata e ho visto il sole rosso sospeso
all'orizzonte, ed è stato come se fosse la prima volta. Un cerchio di fuoco galleggiava nell'aria sopra ai
monti verdi di arbusti, e ho pensato: “Mi manca vedere il sole così, il cielo così. Io sono qui, in un
autobus che corre lungo il fianco di una montagna, e lui è lì, immobile, sospeso, e nulla è tra di noi.
Eccomi, sono a casa.”.
Nelle colline ai piedi dei Monti Sibillini il cielo non ha confini. Ampio, non può negarsi allo sguardo,
non può nascondere nulla dietro ai timidi declivi e abbraccia ogni cosa. Di notte non c'è distinzione tra
cielo e terra: i fianchi delle colline, che di giorno sono tinti dai campi coltivati, di notte sono neri, bui, e
le uniche luci che sfidano timidamente le stelle sono quelle dei paesi che si trovano sulla sommità. Chi
si ferma anche solo per un attimo è costretto a confrontarsi con questa vastità che inevitabilmente entra
dentro, parla al cuore e sussurra alla mente come un consigliere; allora - come scrive Sylvia Plath - il
cielo e io siamo in aperto colloquio.
L'autobus va, chiudo gli occhi e mi lascio cullare dai sobbalzi dovuti alla strada asfaltata ma rugosa,
costretta a esistere in un luogo testardo come gli Appennini, e la mia testa che ondeggia mi riporta ai
colli maceratesi. La punta del mio naso disegna nell'aria le loro linee morbide e li vedo fondersi
fluidamente pieni di sfumature, come un dipinto impressionista.
Ho visitato molti posti, ma se dovessi dare una forma alla pace sarebbe quella del profilo dei Sibillini
quando il sole sparisce alle loro spalle.
Per capirlo sono dovuta andare lontano, mi sentivo soffocare, sono scappata. Sono andata nel mondo
piena di sogni di libertà, pensando che non avrei rimpianto quello che lasciavo alle spalle. A parte la
famiglia, i miei amici, il mio cielo. Ma con una forza inversamente proporzionale alla distanza, ho
scoperto di essere legata, di essere stata plasmata da questa terra e cotta da questo sole, e che la mia
casa non è solo un edificio nel quale vivono le persone che amo. Che rabbia, una stretta soffocante fino
in fondo. Lasciami andare! Lasciami vivere fuori da qui, ovunque sia. E invece mi sorprendo a sentire
la mancanza di cose che non avevo mai notato, o apprezzato. Non pensavo che mi sarebbero mancati i
riti e le feste di paese, alle quali tutto sommato non partecipo attivamente da anni, né le strade buie,
nelle quali ho paura di guidare, ma che lasciano le stelle libere di brillare.
Il paese da cui vengo è famoso per il vino cotto, un vino dolce e liquoroso che impregna tutto, fin dai
primi ricordi dell'infanzia. L'autunno è la vendemmia e l'attesa nel veder bollire il mosto nel calderone
di rame finché non dimezza il suo volume. Un calderone per ogni famiglia, il profumo invade le strade,
i campi, le case, le chiese. Solo qui, Cristo si fa pane e vino cotto ad ogni Messa, e a fine estate c'è
un'altra ricorrenza quasi religiosa, pagana: la festa di paese, dove il dio questa volta non è uomo, e il
vino è rimasto tale. Nella mia mente sacro e profano si intrecciano in una tessuto denso e inestricabile,
il filo ambrato del vino lega tutte le cose.
La processione del venerdì santo è uno dei nodi, anzi è uno dei punti in cui la trama si fa più fitta. Un
uomo che ha un peccato da scontare cammina in testa alla processione, incappucciato, portando sulle
spalle una croce. I suoi passi sono scanditi con lenti colpi di tamburo, e una persona spazza la strada
che lui percorrerà a piedi scalzi. Nel silenzio tra una preghiera e un canto si sentono solo i colpi al
tamburo e il fruscìo della scopa di saggina, mentre dietro di lui il prete recita i passi della passione e il
rosario, uomini più forti sostengono la statua della Vergine Addolorata e il baldacchino con il cadavere
di Gesù, le catechiste accompagnano i bambini. Io ho percorso la processione a passo di gambero: da
bambina in prima fila, con il vestito bianco e le candele colorate, con l'attenzione durante le stazioni
tutta volta ad intingere le dita nella cera calda per vedere le impronte senza far spegnere la fiamma;
dopo i dodici anni più indietro, con la banda, troppo distanti dal parroco per coordinarci sul momento
in cui iniziare a suonare. Quest'anno per la prima volta ho partecipato in fondo, e ho sentito con più
forza quello che ho sempre pensato: la processione è un momento di estrema comunione del paese,
dove ognuno ha il suo ruolo e il suo posto, salvo forse il Signore.
Con la stessa solennità viene festeggiato il baccanale di fine estate: la festa del vino cotto
Per una settimana giovani e meno giovani vivono in simbiosi, montando e smontando palchi e panche,
pulendo e preparando per la sera. Il paese è una grande casa e loro si affannano per gli ospiti che
verranno in gran numero per quattro sere consecutive. Nessuno viene pagato, eppure tutti lavorano con
entusiasmo: litigano, ridono, corrono a destra e a manca, vanno a dormire alle tre di notte e alle undici
del giorno dopo sono di nuovo a pelare patate. Solo un visitatore distratto può non accorgersene, o
forse solo un Lorese può saperlo. Può sembrare un caso oppure una scelta che tutti i camerieri, gli
addetti alla cassa e alle bevande, siano belli e sorridenti, per me la seconda è conseguenza della prima.
La mia terra mi ha stretto come una madre apprensiva, mi ha fatto allontanare sapendo che mi sarei
presto accorta di cosa lasciavo, ed è stato così. Ho venticinque anni e non posso vincere l'eterna
saggezza dei campi di grano; qui il tempo scorre eppure è fermo. I ventenni di oggi hanno preso il
posto dei ventenni di qualche anno fa, cambiano i volti ma non i gesti: il paese ha un'anima immortale
che fluisce attraverso chi lo vive. Per questo mi sento abbracciata anche da chi non mi conosce per il
semplice fatto di essere Lorese, perché anche vedendomi una volta all'anno mi salutano come se ci
vedessimo tutti i giorni, figliola prodiga della mia terra. Rispondo ai saluti, parlo del più e del meno e
sorrido, perché tutto sembra essere già avvenuto e inevitabilmente avverrà di nuovo. Forse non tutti lo
sanno, forse sono io che lo vedo da fuori, ma non penso di sbagliarmi. Non si può sbagliare quando la
terra, le persone e il cielo si muovono insieme con una segreta armonia. La strada costeggia i campi e i
vigneti, e le case e i loro abitanti non sono intrusi ma semplicemente parte di essi.
Quando il sole scende, i rumori della festa si mescolano fluidamente nei vicoli che odorano di vino e
candele alla citronella. Ci sono tre piazze, e ognuna ha il suo profumo: pannocchie arrostite, frittelle
con lo zucchero, pesche al vino cotto, pizza appena sfornata, arachidi pralinate.
Il punto più alto del paese è il Girone, il giardino del convento. Girone dantesco, dove la musica finisce
più tardi ma il vino finisce prima, e quando la notte avanza i rumori e gli odori risalgono le strade verso
la cima, come i salmoni risalgono la corrente. Si mangia carne arrosto, si siede stretti in lunghe
tavolate, si urla per potersi sentire, si balla musica dal vivo. L'ultimo giorno è un baccanale. Il gruppo si
ferma per la durata dei fuochi d'artificio, in modo che tutti possano paragonarli a quelli dello scorso
anno, poi la musica riprende frenetica fino a tardi, i ragazzi di ogni stand hanno finito di lavorare e
confluiscono sotto al palco, e la festa è la loro.
Loro Piceno è una famiglia di 2000 abitanti distribuiti in quattro frazioni che vivono di vita propria,
come se fossero altrettanti piccoli paesi, con le loro chiese, le loro feste e le loro tradizioni. Chiusa in
questo gioco di matrioske, per me Macerata è stata per molto tempo la Città con la C maiuscola, la più
grande che le conteneva tutte. Così lontana, così vicina, vista solo sporadicamente per andare per
negozi o all'ospedale, Macerata è stata il mio primo caos, la tempesta dopo anni di quiete: le corse per
prendere l'autobus, il traffico in corso Cavour, gli attraversamenti imprudenti e il Liceo Classico. Ero
affascinata dalle persone che avrei potuto conoscere, altri come me che a Loro non ero stata in grado di
trovare, e dalla molteplicità di scelte che mi trovavo davanti. Oggi so che le migliaia di opportunità non
erano che qualche decina, e che Macerata non è che un grande paese, eppure ne resto innamorata come
lo ero a 15 anni. Passa il tempo e l'amore cambia: cercavo volti nuovi e li ho trovati, ma ho scoperto
volti sconosciuti eppure uguali a quelli che mi lasciavo alle spalle pensando che fossero appannaggio di
un piccolo comune. L'ho conosciuta e ora so che i passi che percorro sui sanpietrini li ho già percorsi
innumerevoli volte, le case e i viali hanno visto trascorrere la mia adolescenza turbolenta e ogni volta
che torno me la raccontano. Non vedo la città, ma la mia storia dentro di lei: Loro Piceno è l'infanzia e
la famiglia, ma Macerata è dove sono diventata me.
Per i maceratesi è diverso, quello che io credevo un oceano per loro è sempre stato uno stagno, ed ecco
che in scala la mia storia si ripete: la fuga verso un luogo più grande, con le sue opportunità e la sua
vastità, per poi voltarsi e vedere che in fondo quello che è rimasto alle spalle non era così male.
Il patrono di Macerata è San Giuliano l'ospitaliere e la sua festa è il 31 di agosto, e tutta la città è in
festa. Si mangiano pappardelle con la papera, si comprano gli ombrelli per la pioggia che arriva sempre
puntuale, si mangia croccante e si ascolta la musica, eppure chi viene dalle campagne sente la
mancanza di qualcosa tra il chiacchiericcio della folla e il rumore delle macchine dello zucchero filato.
Si sente la mancanza del paese che respira come un corpo solo e certamente come un'anima sola : i
maceratesi vivono la festa, non la fanno.
Così vicina, così lontana. L'autobus che mi sta portando a casa assomiglia a quelli che ogni giorno
partono dal paese carichi di studenti assonnati che d'inverno vi salgono prima che sia giorno per andare
a scuola. La corriera è l'unico mezzo che collega Macerata e l'arcipelago di comuni che la circondano,
che porta dal mare di Civitanova e Porto Recanati alle montagne che vengono abbracciate dalla sua
provincia, ai confini con l'Umbria.
Anche io sono così vicina e così lontana, ora.
I ricordi intrisi di vino mi danno alla testa come se ne bevessi un bicchiere intero. Qui, in un pullman
che risale la montagna vedo i vicoli e le stelle e le tende che strusciano sono le gonne delle fate della
Sibilla, che devono ballare in fretta per non scoprire i loro piedi caprini, dando vita al saltarello. In
passato si consigliava alle persone malate o cagionevoli di andare a curarsi al mare: l'aria iodata, la
temperatura mite, le passeggiate avrebbero riuscito dove la medicina aveva fallito. Il mio mare è un
mare di grano che sciaborda sferzato dal vento, che scintilla al piegarsi delle spighe. Come se
appoggiassi l'orecchio ad una conchiglia, se chiudo gli occhi posso sentire il rumore delle onde, ma
sento anche il profumo dei fiori e dell'erba.
Il mio soggiorno durerà due settimane, e in queste due settimane spero di guarire. Per andare avanti ho
bisogno di tornare indietro, per sapere quello che sono ho bisogno di ricordare quello che ero, o quello
che è stato prima di me. Le colline erano qui prima di me, le montagne erano qui prima di me. Hanno
visto la mia famiglia crescere, dividersi, spostarsi, e mi conoscono senza bisogno di presentarmi. Io
sono qui. Il silenzio dei campi mi abbraccia e mi parla: ed ecco che non è silenzio, ma mille voci di
uccelli, fruscii di lucertole, il canto dei galli, il vento tra le foglie, che mi dicono “lo sappiamo,
sappiamo già tutto”.