25 Settembre 2016 - La Repubblica.it

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il luglio del 2014, e mi
trovavo nella stanza di un motel di Tucumcari,
New Mexico, pronto a entrare in doccia. Io e
mia moglie eravamo partiti da due giorni dalla
nostra casa in California per un viaggio in auto
attraverso il paese e volevo rinfrescarmi prima di andare a
mangiare qualcosa in un locale vicino al parcheggio. Guardando il telefono riconobbi il numero e provai un tuffo al cuore. Era una mia cara amica. Il figlio ventitreenne, eroinomane, da anni lottava contro la dipendenza. Lo conoscevo. Era
un ragazzo sveglio, brillante, simpatico e incantevole, quando non era fatto, o in astinenza. Avrebbe dovuto chiamarmi
quel giorno per parlarmi della sua idea di riprendere gli studi.
Non lo aveva fatto.
C’era invece sua madre al telefono, in singhiozzi, balbettava le parole che sapevo avrebbe pronunciato. «Se n’è andato».
Quel pomeriggio, mi disse, il figlio stava andando a ricoverarsi in un centro terapeutico che alla fine gli aveva dato
la disponibilità di un letto, ma si era fermato per farsi un’ultima dose. Era morto sul marciapiede.
Restai un bel po’ al telefono con sua madre. Io più che altro ascoltavo: cosa c’era da dire? Poi entrai in doccia e piansi.
Sono più di vent’anni che scrivo e mi documento sulla cosiddetta “guerra della droga”. In tutto questo tempo ho partecipato a funerali, parlato con i familiari di killer adolescenti, spiegato alle persone perché i loro cari erano stati uccisi,
fornendo informazioni che il governo non avrebbe dato. Ho
studiato le foto delle autopsie nel tentativo di dare un nome
a vittime non identificate. Ho guardato video di atrocità.
Pensavo di essermi assuefatto, temprato all’insensibilità di
fronte al ripetersi sempre uguale di questa tragedia senza fine. Pensavo di essere arrivato oltre le lacrime. Ma questa volta stavo male. Quella morte mi toccava personalmente (QFS
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L’eroina che lo aveva ucciso veniva dal Messico. A coltivare i papaveri, fabbricare la droga e mandarla al nord erano i
membri dell’organizzazione di narcotraffico più potente del
Messico, e la morte del figlio della mia amica era il risultato
diretto della scelta imprenditoriale di alcuni di questi personaggi.
Uno di loro era Joaquín Guzmán Loera.
Il capo del Cartello di Sinaloa, la maggiore centrale mondiale del narcotraffico. Alias “El Chapo.”
Sì, proprio lui.
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diminutivo fa pensare più a un nanetto della Disney che va al lavoro fischiettando che al feroce assassino che è Guzmán). Ricordo i tempi in cui
il giovane Joaquín si impratichiva sulla QJTUBTFDSFUB come corriere per i
vecchi giganti del narcotraffico, gente come Pedro Avilés Pérez e Rafael
Caro Quintero. A forza di lavoro e di morti ammazzati si era ormai guadagnato un posto tra i pezzi grossi quando finì dentro per la prima volta, nel
1993. Mentre gestiva gli affari dalla sua suite all’interno del carcere federale di Puente Grande io lavoravo a *MQPUFSFEFMDBOF, il primo dei tre romanzi che ho scritto sull’evoluzione del narcotraffico messicano. Parlavo
con poliziotti e detenuti, trafficanti e tossici, con gli affiliati alle gang e i
loro familiari. Frequentavo le carceri e le strade, gli archivi e i tribunali, alla frontiera e oltreconfine. Ero ancora impegnato su quel libro quando Guzmán evase per la prima volta,
nel 2001.
All’epoca il narcotraffico messicano era gestito da una serie di grandi organizzazioni affiancate da
una dozzina di minori, le più importanti erano il Cartello di Juárez, il Cartello di Tijuana e il Cartello del
Golfo, con la sua ala armata iperviolenta, gli Zetas. Evaso da Puente Grande, Guzmán si pose l’obiettivo
di controllare l’intero narcotraffico messicano sotto il Cartello di Sinaloa. Nei dieci anni successivi mosse
guerra a tutti gli altri trafficanti.
Quella guerra fece più di centomila morti in Messico e più di ventiduemila persone risultano tuttora
“scomparse”. È stata una catastrofe anche da questa parte del confine e origine, tra l’altro, della recente
“epidemia” che ha visto migliaia di vittime dell’eroina, tra cui il figlio della mia amica. L’estate scorsa a
ogni tappa del tour promozionale per il mio romanzo *M$BSUFMMP ho conosciuto persone che avevano perso un loro caro in episodi di violenza collegati alla droga in Messico o per overdose qui negli Stati Uniti. A
Scottsdale una donna mi ha chiesto se sapevo dirle chi aveva ucciso il suo migliore amico (lo sapevo). A
Seattle un uomo mi ha domandato se avevo informazioni sul rapimento del cognato (non ne ave- riore, per di più a fronte di costi di trasporto e sicuvo). La sera dell’anniversario della morte del figlio rezza drasticamente inferiori.
In un solo anno il Cartello subì un crollo del quadella mia amica l’ho chiamata da Los Angeles prima di entrare nella libreria dove avrei dovuto par- ranta per cento delle vendite di marijuana, pari a
miliardi di dollari. La marijuana messicana divenlare del maledetto libro.
tò un prodotto privo di valore. Fondamentalmente hanno smesso di coltivarla: le immense pianta%PWFOPODSFTDFQJáMFSCB
Lo dico chiaro e tondo: l’eroina è diventata un’e- gioni di Durango oggi sono campi incolti.
Altre buone notizie, no?
pidemia a causa della legalizzazione della marijuaBeh, no. Guzmán e i suoi sono dei CVTJOFTTNFO.
na.
Volevamo l’erba legale e in gran parte l’abbia- Non esiste che subiscano una perdita così grave
mo ottenuta. In quattro stati degli Stati Uniti oggi senza reagire. Dovevano realizzare quei profitti in
è legalizzata, in altri il consumo non è più reato e qualche altro modo. Nel mercato della droga amein molte giurisdizioni la polizia rifiuta di applicare ricano videro un’opportunità. Un numero sempre
la normativa esistente, dando vita a una legalizza- maggiore di americani era dipendente da analgesici oppioidi come l’Oxycontin.
zione EFGBDUP. Buone notizie vero?
Ed era una dipendenza costosa. Una capsula di
Non per il Cartello di Sinaloa, che nel 2012,
quando il Colorado approvò l’Emendamento 64, Oxy in strada arrivava a trenta dollari e certi conera ormai il Cartello dominante in Messico. L’erba sumatori avevano bisogno di dieci dosi al giorno.
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era una delle loro massime fonti di profitto ma di
punto in bianco non riuscivano più a competere HJPOJEJQBQBWFSPTPOPUSBMFNJHMJPSJEFMNPOEP
col prodotto americano, qualitativamente supe- 0QQJPNPSGJOBFSPJOBGPOEBNFOUBMNFOUFTP
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Il Cartello di Sinaloa decise di battere sul prezzo
le case farmaceutiche. Incrementarono di quasi il
settanta per cento la produzione di eroina messicana e ne migliorarono la purezza, assoldando
“cuochi” colombiani per produrre eroina “cinnamon”, forte come quella dell’Asia orientale. Da un
prodotto puro al quarantasei per cento circa, passarono a vendere eroina pura al novanta per cento.
La loro terza mossa seguì la classica strategia
dell’economia di mercato, e cioè abbassarono il
prezzo. Un chilo di eroina toccava i duecentomila
dollari a New York qualche anno fa, ne costava ottantamila nel 2013 e oggi è sceso a cinquantamila
circa. Una maggior quantità di prodotto migliore
a un prezzo inferiore: imbattibile.
Intanto, le autorità americane, preoccupate della straordinaria impennata delle morti da overdose di oppioidi prescrivibili (centosessantacinquemila dal 1999 al 2014), diedero un giro di vite alla
distribuzione, sia legale che illegale, spalancando
così le porte all’eroina messicana, che costava dai
cinque ai dieci dollari a dose.
Ma i consumatori di pillole non erano abituati alla potenza di questa nuova eroina. Anche gli eroinomani furono colti alla sprovvista. Di conseguenza, le morti da overdose aumentarono vertiginosamente, sono raddoppiate tra il 2000 e il 2004. Nel
2014 morirono di overdose più di quarantasettemila persone, un primato annuale assoluto nella
storia americana. (Philip Seymour Hoffman, forse la vittima più famosa, morì il 2 febbraio 2014,
proprio al culmine dell’epidemia). Fanno in tutto
centoventicinque persone al giorno, più di cinque
morti l’ora, un tasso di mortalità pari a quello registrato al picco dell’epidemia di Aids nel 1995.
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Il 21 febbrario 2014, dopo tredici anni di latitanza da massimo ricercato in Messico (nonostante
frequenti apparizioni in ristoranti, a concerti e in
occasione delle festività), Guzmán fu nuovamente arrestato.
Ai giornalisti che mi chiedevano un commento
rispondevo con una sola parola: Iraq.
«In che senso?» domandavano, e io ricordavo loro che nel vuoto di potere seguito alla cattura e alla successiva esecuzione di Saddam Hussein, l’Iraq si era frantumato in schegge di violenza settaria, sciiti contro sunniti. La fine di Saddam aveva
la Repubblica
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%0.&/*$" 4&55&.#3& portato alla nascita dell’Is, che avrebbe invaso le
città irachene e siriane dando vita al regno del terrore.
Badate, non verso lacrime né per Saddam né
per Guzmán, entrambi assassini e torturatori. Ma
l’orrenda violenza della guerra di conquista di Guzmán nel 2014 si era ormai ampiamente placata,
proprio perché l’aveva vinta (con il contributo
quanto meno passivo del governo messicano e di
quello statunitense) dando origine alla cosiddetta
Pax Sinaloa.
Storicamente, il Cartello di Sinaloa è stata l’organizzazione meno violenta del narcotraffico messicano. A quei livelli non ci vuole molto, ma per un
lungo periodo il governo messicano considerò praticabile il dialogo con Guzmán e i suoi, inimmaginabile per esempio con gli Zetas.
Molti giornalisti e scrittori, me compreso, sono
convinti che il governo messicano finì per appoggiare il Cartello di Sinaloa durante gli anni peggiori della guerra tra narcotrafficanti, con l’intento di
stabilire un minimo di ordine. I numeri avallano
questa teoria — solo il dodici per cento delle migliaia di arresti e uccisioni di narcos compiuti dalla polizia e dai militari riguardano i membri di Sinaloa, di gran lunga l’organizzazione numericamente più forte. Si sapeva che Guzmán e i suoi erano contrari alle violenze sui civili (anche in questo
caso tutto è relativo). Per esempio proibì ai suoi di
effettuare rapimenti, attività redditizia per gli altri cartelli.
Lo strapotere del Cartello di Sinaloa, guidato da
Guzmán e dai suoi soci, Ismael “El Mayo” Zambada García e (il forse defunto) Juan José Esparragoza Moreno, manteneva una pace fragile fra numerosissime organizzazioni minori.
Questo spiega intanto il comportamento ambiguo, diciamo così, del governo messicano rispetto
alla cattura di Guzmán . Non nascondiamoci dietro a un dito: se la corruzione fosse una disciplina
olimpica il Messico vincerebbe perennemente l’oro. Il Cartello di Sinaloa aveva semplicemente
comprato elementi dell’amministrazione locale,
statale e federale. Zambada in particolare era il
gancio politico tra il cartello, il governo e i poteri
imprenditoriali.
Tutto questo, oltre al fatto che i cartelli controllano tra l’otto e il dodici per cento dell’economia
messicana, diedero ai narcos di Sinaloa potere e influenza enormi. I profitti miliardari della droga, investiti in attività legittime, rendono l’economia
messicana dipendente dal narcotraffico.
A soli sette mesi di distanza dalla cattura di Guzmán, col vacillare della pace di Sinaloa, in Messico
si verificò un massacro di livelli mai visti da anni. Il
26 settembre 2014, a Iguala, una città a tre ore di
distanza a sud di Città del Messico sparirono quarantatré studenti di un istituto di Ayotzinapa. A
causa dell’indignazione internazionale e delle proteste di massa il governo fu costretto a insabbiare,
FIN, ad avviare un’indagine da cui infine emerse
che la polizia aveva prelevato gli studenti dai quattro bus che questi ultimi avevano dirottato per recarsi a una manifestazione a Città del Messico,
per poi consegnarli a un’organizzazione di narcotrafficanti emergente, dal nome pretenzioso di
Guerreros Unidos.
Gli studenti erano stati portati in una discarica
alla periferia della città più vicina. Quindici erano
morti asfissiati nel corso del viaggio. Gli altri erano stati interrogati e uccisi, i loro corpi bruciati
usando benzina e vecchi pneumatici.
La loro colpa? Una versione dice che il sindaco
semplicemente non ne apprezzasse l’orientamento politico di sinistra. E allora li ha fatti consegnare
dalla polizia ai… narcos? Questo non ha senso, così
come non hanno senso tutte le bugie a cui il presidente Enrique Peña Nieto ci ha chiesto di credere.
La seconda versione è invece un classico messicano che viene riproposto a ogni massacro: i narcos di Guerreros Unidos sospettavano che gli studenti fossero associati all’organizzazione di narcotraffico rivale, Los Rojos.
È possibile, e qui vale l’analogia con l’Iraq. Come la caduta di Saddam scatenò odi antichi, la cattura di Guzmán riaccese vecchie faide sanguinarie, tanto complesse da riempire una stagione de
*MUSPOPEJTQBEF. In sintesi: Guzmán e i quattro fratelli Beltrán Leyva, un tempo molto amici, litigarono dopo che Guzmán fece arrestare uno di loro e
un altro fu ucciso nel corso di un tentativo di cattura. Uno dei campi di battaglia della successiva
guerra tra l’Organizzazione Beltrán Leyva (Obl) e
il Cartello di Sinaloa era lo stato del Guerrero, luogo del massacro degli studenti. Il Cartello di Sinaloa lo strappò alla Obl dopo una lotta sanguinosa.
I narcos dei Guerreros Unidos che hanno assassinato gli studenti erano fedeli alla Obl e solo a malincuore si erano sottomessi ai narcos di Sinaloa
dopo essere stati sconfitti nella guerra. Dopo la cattura di Guzmán i resti della Obl hanno visto l’opportunità di una rimonta.
Los Rojos, l’altro gruppo ribelle in lotta per la
conquista del Guerrero, ha a sua volta dei conti da
pareggiare sia con i Guerreros Unidos che con i
narcos di Sinaloa. In precedenza affiliato al vecchio Cartello del Golfo, aveva combattuto contro
la Obl quando quest’ultima faceva ancora parte
della coalizione di Sinaloa. Nel vuoto di potere seguito all’arresto di Guzmán, Los Rojos ha visto
l’opportunità di riguadagnare spazio.
Nel Guerrero, controllato dal Cartello di Sinaloa, l’assassinio di quarantatré studenti avrebbe
richiesto l’autorizzazione esplicita di Guzmán,
che non l’avrebbe mai data. Che i Guerreros Unidos si siano presi la libertà di perpetrare quel massacro è un fatto di estrema gravità per il futuro pacifico del Messico.
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È probabile che la fine della Pax Sinaloa abbia a
che fare anche con la seconda evasione di Guzmán
dal carcere, il 12 luglio 2015. I dettagli della fuga
sono stati miele per i media — Guzmán sarebbe
passato per una botola aperta nella sua doccia (ebbene sì, aveva una doccia tutta per sé con un muro
a tutela della privacy; vi lascio alle vostre riflessioni sul concetto di tutela della privacy in un carcere
di massima sicurezza) e avrebbe percorso in motocicletta un tunnel di circa un chilometro e mezzo
proprio sotto il naso delle autorità carcerarie distratte, a quanto pare fino a quel momento convinte di avere il giardino infestato dalle talpe.
Per la cronaca, Guzmán non è uscito dal tunnel
in moto. Steve McQueen evade in moto.
Scommetto che Guzmán in quel tunnel non c’è
neppure entrato; uno che può permettersi di pagare cinquanta milioni di dollari di mazzette e lo scavo di un tunnel lungo un chilometro e mezzo, può
anche permettersi di non usarlo.
Cari lettori, parliamo di un uomo che vale un miliardo di dollari. Meditava di acquistare il Chelsea.
È uscito senza dubbio dalla porta principale.
Dopo che Chapo Guzmán raggiunse la fama, i
media scandagliarono famelici la sua vita. Era cresciuto in povertà, raccogliendo oppio nelle piantagioni da quando aveva otto anni. A quindici aveva
iniziato a vendere la sua cocaina. Tutto vero. Dava
soldi ai poveri (vero). Ha costruito scuole, ospedali e chiese (vero, vero, vero). Era affettuoso con la
madre (vero).
Era evaso in precedenza (vero in parte). Meglio
andare per gradi, se no la storia degli arresti e del-
le evasioni di Guzmán rischia di creare confusione:
1993: Guzmán fu arrestato e condannato a
vent’anni di reclusione in un carcere di massima
sicurezza che gestiva come un circolo privato, con
tanto di squillo, cibi e vini raffinati e cinema una
volta la settimana.
2001: Guzmán compie la sua prima “evasione”,
che, come la più recente, non era affatto tale. (In
genere un’evasione non vede la partecipazione attiva dei propri carcerieri). La versione di quell’anno fu che era scappato dentro a un carrello della lavanderia ma, stando a fonti bene informate, in
realtà fu prelevato sul tetto del carcere da un elicottero.
2014: Guzmán fu ricatturato, probabilmente
dopo il patto concluso dal suo socio Zambada per
non far scontare al figlio la pena dai dieci anni
all’ergastolo prevista per il traffico di cocaina in
Arizona. (Il figlio di Zambada è sparito da tutti i registri delle carceri federali degli Stati Uniti — leggi: Programma protezione testimoni).
2015: Guzmán evade di nuovo, questa volta la
versione delle autorità è il tunnel.
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Se il Messico è diventato l’Iraq, il Cartello Nuova Generazione di Jalisco (Cjng) è l’Is del paese. Il
nome stesso indica che si considera in qualche modo diverso, una nuova razza di narcotrafficanti
pronta a subentrare alla generazione precedente
correggendone gli errori. C’è una verità di fondo
in questa tesi: uno dei problemi del Cartello di Sinaloa ha in effetti carattere generazionale. La leadership francamente geniale che lo ha portato a
primeggiare è morta o invecchiata.
Il Cjng era in precedenza un’ala del Cartello di
Sinaloa sotto la guida di Ignacio “Nacho” Coronel.
Ma l’organizzazione di Nacho si spaccò in due dopo la sua morte in uno scontro a fuoco con l’esercito messicano nel 2010 e una delle fazioni, Los Torcidos, si è evoluta nel Cjng.
Il boss del Cjng, Nemesio Oseguera Cervantes,
“El Mencho”, scontò tre anni in un carcere californiano per traffico di eroina, quindi tornò in Messico a capitanare lo squadrone della morte dei Torcidos.
All’epoca i loro bersagli principali erano i rivali
Zetas; El Mencho nel 2011 ne massacrò trentacinque a Veracruz, altri trentuno il mese dopo.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
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la Repubblica
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<SEGUE DALLE PAGINE PRECEDENTI
*
L FIGLIO DI EL MENCHO, INEVITABILMENTE SOPRANNOMINATO “El Menchito”, era un tempo stretto
alleato di Guzmán, ma fu catturato nel gennaio 2014. Un mese dopo, quando Guzmán fu arrestato, a El Mencho si presentò l’opportunità di staccarsi dal Cartello di Sinaloa.
Ciò che rende il Cjng simile all’Is è la totale spregiudicatezza. Per consolidare il proprio potere, El Mencho avrebbe autorizzato l’assassinio del ministro del turismo di Jalisco e di un
parlamentare. Nel marzo 2015, armati di mitra e bombe a mano, gli uomini del Cjng sono entrati in una città e hanno ucciso cinque poliziotti. Due settimane dopo, durante un’imboscata a un convoglio di polizia, hanno ucciso altri quindici agenti. Il giorno successivo hanno assassinato il capo della polizia di un’altra città. Nell’aprile 2016 hanno abbattuto un elicottero
militare con un lanciamissili. Ora stanno affrontando il Cartello di Sinaloa nella Bassa California, minacciando la stabilità della regione di confine. Fonti della polizia mi riferiscono che il
Cjng si è alleato anche con il redivivo gruppo Beltrán Leyva per affrontare i vecchi boss di Acapulco, con una ripresa della violenza in quella località turistica.
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Mentre la situazione si surriscaldava è entrata in scena una nuova droga — vecchia in realtà. Il Fentanyl è un oppioide sintetico dalle trenta alle cinquanta volte più forte dell’eroina. È stato creato nel 1960
dalla Janssen farmaceutici (oggi una divisione della Johnson & Johnson) come cura per gli atroci dolori
dei malati terminali di cancro. È talmente potente che la Dea (l’agenzia antidroga statunitense, OES), avverte gli agenti che è dannoso anche il semplice contatto con la sostanza; può essere assunto in pillole (denominazione commerciale: Duragesic, Actiq e Fentora), spray, sniffato, iniettato, usato come cerotto
transdermico o mescolato a eroina. Prince è morto per overdose di Fentanyl; come altri settecento americani lo scorso anno. Il Fentanyl è un killer versatile.
Il corpo di Crystal Sharee Moulden è stato ritrovato in un viale di Baltimora nel giugno scorso. La studentessa si era iniettata una dose di eroina tagliata col Fentanyl. Aveva sedici anni e il massimo dei voti a
scuola. Le foto sul suo necrologio mostrano una ragazza sorridente tra le sue compagne cheerleader. A
New Orleans, stando ai dati riportati dal5IF5J
NFT1JDBZVOF, nel primo mese del 2016 le vittime to: più di un milione di dollari per chilo, contro i duedel Fentanyl hanno superato il numero degli omici- centosettantunomila per chilo dell’eroina. Non medi. In Connecticut, le morti collegate all’oppioide raviglia che secondo le stime della Dea la sua imsono aumentate del centocinquantuno per cento portazione dal Messico sia aumentata del sessantatra il 2014 e il 2015 e si prevede che cresceranno di cinque per cento dal 2014 a oggi.
un ulteriore settantasette per cento nel 2016.
Dato che spesso viene mescolato all’eroina per
Per i narcos i vantaggi del Fentanyl rispetto all’e- aumentarne la potenza, gli eroinomani ignari muoroina sono enormi. Innanzitutto è fabbricato in la- iono per le stesse dosi che prima li facevano sempliboratorio, quindi non servono campi di papaveri cemente star bene. I tecnici del soccorso, il persoche possono essere oggetto di raid, fumigazioni o nale dei dipartimenti ospedalieri di emergenza e i
sequestri. Né servono centinaia di contadini per il poliziotti non capiscono la situazione e non sanno
raccolto e neppure c’è bisogno di acquisire o con- che serve una doppia dose di Naloxone, o Narcan,
trollare territori (beh, non territori da coltivare, per rianimare un tossico col sistema respiratorio
ma bisogna comunque controllare l’accesso alle bloccato dal Fentanyl. Quelli che sopravvivono auvie di spaccio, da qui le nuove violenze in Bassa Cali- mentano il livello di dipendenza dalla sostanza. I
fornia dove la percentuale di omicidi è triplicata). Cartelli la mescolano all’eroina perché una volta
Ma sono i profitti che faranno di questa sostanza il provato quel mix nessuno torna all’”eroina semplinuovo DSBDL, il derivato della cocaina che ha creato ce”, che improvvisamente non fa più sballare.
La produzione illegale di Fentanyl in laboratol’enorme ricchezza dei cartelli messicani negli anni Ottanta e Novanta. Un chilo di Fentanyl può es- rio, associata alla frattura del Cartello di Sinaloa,
sere tagliato da sedici a ventiquattro volte, produ- ha conseguenze catastrofiche per l’ordine pubblicendo uno straordinario utile sul capitale investi- co e la società civile ma è una manna per i narcos
che mirano a soppiantare il vecchio ordine. Gruppi
scissionisti come il Cjng possono sfruttare con facilità l’enorme potenziale redditizio del Fentanyl
per finanziare la ribellione e i profitti li incoraggeranno a usare la violenza per controllare le vie di
spaccio.
L’Is è in declino in Iraq in gran parte perché non
riesce più a pagare i suoi combattenti. Grazie al
Fentanyl i nuovi narcos non avranno questo problema. Serve solo la propensione alla violenza e quella
non manca. Il Messico ha fatto ben poco per riempire il vuoto creato dalla caduta di Guzmán. Di conseguenza non saranno tre gruppi a tentare l’impresa, bensì decine.
Sul versante americano l’ascesa dei gruppi scissionisti complica le operazioni di polizia che vogliono localizzare e intercettare la droga. Non si sa più
da dove venga e, peggio ancora, che cosa contenga. Di primo acchito nessuno sarà in grado di dire
se si tratta di eroina pura, eroina mista a Fentanyl,
Fentanyl puro o tagliato con chissà cosa. Regnerà
il caos farmacologico.
Per l’eroina si parla di epidemia. Il Fentanyl sarà
la peste.
4FBO1FOODIJ
I mesi di libertà di Guzmán dopo il luglio 2015 sono stati una farsa. Mentre i media si lanciavano in
una caccia al tesoro infinita (è in Colombia, in Costa Rica, a Los Angeles, dentro il ciuffo di Donald
Trump), l’intelligence messicana e quella statunitense con tutta probabilità erano al corrente dei
movimenti dell’uomo fin dal momento in cui non
era uscito dal tunnel.
Senza dubbio in autunno le autorità messicane
sapevano che Guzmán frequentava la città costiera di Los Mochis, nello stato di Sinaloa, dove è poi
avvenuta la sua cattura. Non abitava in un luogo
sperduto, aveva casa su un viale a quattro corsie, a
poca distanza dall’abitazione della madre del governatore di Sinaloa (non vi ricorda Abbottabad, il
nascondiglio di Osama Bin Laden?).
È palese che Guzmán ha peccato di presunzione
ed è stato maldestro facendosi influenzare dal clamore mediatico. Ha fatto pubblicare dal figlio
Ivan, che fa assomigliare Anthony Junior de*4P
QSBOP a Michael Corleone ne *MQBESJOP, una sua foto sui social con localizzazione Costa Rica. Subito si
è ipotizzato che avesse lasciato il Messico, anche se
qualcuno come me ha fatto presente che pure una
città dello stato di Sinaloa si chiama Costa Rica. A
la Repubblica
'050ª-06*&1"-6;6."13&44
%0.&/*$" 4&55&.#3& un certo punto Guzmán ha anche minacciato di far
uccidere Donald Trump (stranamente Trump non
ha risposto etichettandolo con un nomignolo dispregiativo, forse perché, tra tutti i messicani chiamati a pagare per la costruzione del muro, Guzmán avrebbe colto la palla al balzo, dato che aumenterebbe i suoi introiti). Poi ha fatto incazzare
un sacco di gente cercando di assumere il controllo
della vendita interna di droga, in particolare eroina, ai danni degli spacciatori indipendenti del Sinaloa. Questa mossa stranamente stupida ha creato
una rivolta nella parte meridionale dello stato, limitando la libertà di movimento di Guzmán. Le gang
che controllavano i mercati locali non volevano bastoni tra le ruote ed erano pronti a usare i mitragliatori per difendere il portafoglio, minacciando di far
saltare la miniera d’oro — decine di miliardi di dollari che i soci di Guzmán ricavavano dal traffico internazionale di eroina, cocaina, metanfetamina e,
in misura sempre minore, di marijuana.
I soci di Guzmán nel Cartello di Sinaloa ne avevano ormai abbastanza di queste spacconate —
Ismael Zambada, per esempio, non poteva gradire
il suo nuovo status di celebrità mediatica — ed erano pronti a far tornare il loro vecchio amico dietro
le sbarre, dove avrebbe avuto più difficoltà a rovinargli gli affari. Il Cartello deve aver concluso con il
governo messicano un patto di questo tipo:levatecelo di torno, fatene quel che volete ma non uccidetelo. Ci rende un sacco di soldi e continuiamo ad
avere forti legami con la sua famiglia e i suoi fedelissimi.
Gli unici a non rimanere uccisi nel raid che ha
portato alla nuova cattura di Guzmán sono stati lui
stesso e il suo braccio destro. E se pensate che sia
un caso, pensate al tunnel.
Nel frattempo sono entrati in scena Sean Penn e
Kate del Castillo protagonisti di uno squallido burlesque.
La del Castillo non aveva nascosto la sua ammirazione per Guzmán, dichiarando sui social che credeva in lui più che nei governi e lo esortava a essere
un Robin Hood contemporaneo diventando così
«l’eroe degli eroi». E aveva aggiunto: «Voglio un
traffico d’amore, tu sai come si fa». Guzmán era interessatissimo al traffico d’amore.
4FJMBDPTBQJáCFMMBEFMNPOEP
Certo, non è stato il primo a farsi infinocchiare
da un’attrice bella e ambiziosa che punta a far carriera e non sarà l’ultimo, ma spiace che il signore
della droga più potente del mondo, il creatore di
un impero multimiliardario, si sia fatto incastrare
da un bel faccino. Fa quasi pena. I suoi messaggi alla del Castillo sono patetici: «Ho proprio voglia di
conoscerti e di fare amicizia. Sei la cosa più bella
del mondo». Le chiede di andare a trovarlo. «Fidati, starai benissimo. Avrò cura di te più che dei miei
occhi». La del Castillo lo intorta: «Mi commuove
che tu voglia prenderti cura di me. Non lo ha mai
fatto nessuno».
Guzmán si impegna assieme ai suoi avvocati
per comunicare più facilmente con l’attrice e insiste perché il legale le faccia avere un BlackBerry rosa che, per somma sventura, la ditta non ha in produzione.
Poi la del Castillo informa l’avvocato che ha intenzione di portare con sé Sean Penn.
Guzmán non sapeva chi fosse Penn, ma non voleva che l’incontro sfumasse. «Falle portare l’attore.
Se vuole altra gente, che la porti pure. Tutto quello
che vuole».
Si incontrano il 2 ottobre 2015. Qualche giorno
dopo, con un’operazione che le autorità messicane
hanno in seguito definito «facilitata» dalla visita
del Castillo-Penn, ma che più probabilmente è stata il risultato di intercettazioni telefoniche da parte americana, i marine messicani assaltano il ranch in cui Guzmán si era rifugiato con i suoi due cuochi personali. I cecchini dicono che li avevano sotto
tiro ma hanno ricevuto l’ordine di non sparare perché il nostro eroe aveva una bambina in braccio a
fargli scudo.
L’8 gennaio 2016, Guzmán è stato catturato a
Los Mochis. Le autorità non hanno dovuto far altro
che seguire la scimmia.
Proprio così. Non è stato un attore di Hollywood
a far prendere Chapo Guzmán. Non è stata neanche la sensuale protagonista di telenovele che ha
portato alla sua nuova cattura a distanza di un anno dalla sua «spettacolare», «audace» (leggi: tarocca) “evasione” da un carcere messicano di massima sicurezza (non oso immaginarne uno di minima). È stata una scimmia.
Guzmán avrebbe chiesto di fargli avere nel suo
nascondiglio non troppo sicuro la scimmietta delle
figlie gemelle, Boots, e le autorità messicane lo sono venute a sapere. Quindi l’intelligence messicana e americana stavano già monitorando Guzmán
al momento del pellegrinaggio-farsa di Sean Penn
e Kate del Castillo, dopo il quale Guzmán, sempre
ottimista, si sarebbe recato a Tijuana a farsi opera-
re per disfunzione erettile. (Una storia del genere
è al di là di ogni invenzione).
Non si sa se grazie alla scimmia, alla starlette o
alle intercettazioni americane, comunque l’accordo era valido e i marine messicani hanno fatto irruzione sparando. Qualche ora dopo uno degli uomini più potenti del mondo saltava fuori da un tombino in mezzo alla strada come la talpa da prendere a
martellate nel famoso gioco da tavolo. Due poliziotti lo hanno tirato su scoprendo in seguito — DSJTUP
TBOUP — cosa avevano per le mani e si sono talmente spaventati che lo hanno consegnato, invece di
negoziare un cartoncino “Probabilità” del Monopoli: &TDJEJQSJHJPOFQBHBOEPVONJMJPOF.
In Medio Oriente abbiamo barattato il diavolo
che conoscevamo con diavoli sconosciuti. In Messico i diavoli che conosciamo saranno rimpiazzati da
una moltitudine di diavoli che non conosceremo
mai. La capacità di nascondere la produzione (diversamente dalle piantagioni di marijuana o papavero) e l’anonimità garantita dalle comunicazioni
sui social media creerà anarchia. L’era del Cartello
potrebbe essere prossima alla fine.
E Guzmán in tutto questo? Se non si sapesse
quello che ha fatto si sarebbe tentati di considerarlo una figura tragica, un personaggio di Gabriel
García Márquez che vive gli anni del declino all’ombra della sue perdute speranze.
Lo hanno trasferito in un carcere di Juárez, Cefereso #9, una struttura famosa per la violenza che vi
impera, in una città in cui Guzmán ha molti nemici. Il ministero degli esteri messicano ha aperto la
strada alla sua estradizione negli Stati Uniti, ma il
percorso giudiziario è ancora lungo. A detta di alcuni esperti messicani che ho consultato ci vorranno
ancora almeno due anni, se mai si arriverà all’estradizione. Personalmente dubito che Guzmán
venga estradato, ma non si sa mai. Ora come ora
potrebbe preferirlo al rischio di un suicidio assistito in una cella messicana.
In carcere ora fanno assaggiare ai cani il cibo a
lui destinato in caso sia avvelenato (personalmente non sacrificherei il mio Spot per salvare Guzmán), e due guardie di “elite”, con tanto di GoPro
sul casco, tengono sott’occhio il detenuto ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette.
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Così Guzmán è dietro le sbarre, è finita e noi abbiamo vinto. Proprio come è successo con Saddam
Hussein. Secondo il-PT"OHFMFT5JNFT due terzi dei
signori della droga messicani sono stati uccisi o imprigionati. Ma con quale risultato?
Le droghe sono disponibili in quantità più abbondante, più potenti e meno care che mai. Le morti per overdose hanno toccato il massimo storico.
In Messico la violenza, prima in calo, sta riprendendo piede. Proprio la scorsa settimana ho visto le foto dei cadaveri di quattro persone stipate nel bagagliaio di un’auto a Tijuana. Sui corpi erano visibili
segni di tortura.
La violenza delle gang cresce in tutte le grandi
città americane, soprattutto a Chicago e New
York, e i leoni codardi del congresso non faranno
un cazzo riguardo alle droghe o alle armi che alimentano e permettono gli omicidi e le morti: è più
di quanto l’Is abbia mai sognato.
Sembra di essere tornati indietro nel tempo. Ci
saranno altre telefonate e altre morti per overdose. Qualcuno rimpiazzerà El Chapo, propio come
lui ha rimpiazzato i suoi predecessori. Io scommetto su El Mencho, ma in realtà non ha importanza
chi sia. La storia si ripete all’infinito, nei secoli dei
secoli, amen. Guzmán aveva ragione: «Se non ci fosse il consumo non ci sarebbe la vendita». Mi stupisce sempre che i NJMMFOOJBM progressisti boicottino
una catena di alimentari perché non acquista caffè
certificato dal commercio equo e solidale ma poi
tornino a casa a farsi di droghe che gli arrivano dagli assassini, torturatori e sadici dei cartelli.
Siamo dipendenti dalla guerra alla droga quanto lo siamo dalle droghe stesse. Il nostro sistema
giudiziario è una macchina alimentata da centinaia di migliaia di arresti, processi e carcerazioni. Finché gli Stati Uniti e l’Europa continueranno a comprare droga per miliardi di dollari l’anno spendendo al contempo miliardi per intercettarla, creeremo una serie infinita di personaggi come Chapo e
Mencho.
Un’economia intera si fonda sulla proibizione
della droga e relative pene, una cosa come cinquanta miliardi di dollari l’anno, più del doppio dei ventidue miliardi che secondo le stime spendiamo per
l’eroina. Sono un sacco di soldi. È inevitabile che ci
sia un altro Guzmán, ma sarà a sua volta un diversivo.
Non seguite la scimmia. Seguite la grana.
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NEW YORK
L QUARTIERE DI FORT GREENE è assolato e malinconico oggi
mentre vado a salutare Jhumpa, in partenza per Roma. È
l’ultimo pomeriggio insieme a Brooklyn prima del suo
trasferimento a Princeton e considero la nostra inquietudine alle partenze e ai ritorni, ma anche come l’esperienza del viaggio si sia basata per noi non sulla necessità ma
su un privilegio anch’esso condiviso: l’amore per la letteratura. Siamo, insomma, due donne fortunate.
Sedute su di un divano, l’unico mobile rimasto nel soggiorno luminoso della sua bella casa, a parte la libreria a
muro, chiacchieriamo del nostro progetto comune: scrivere in un’altra lingua. Non quella madre, in cui si è agili,
padrone e nel nostro caso professioniste, ma quella del cuore, in cui si
saltella, si danza come la Sirenetta per il principe distratto; si muore
d’amore. Per Jhumpa l’italiano, per me l’inglese.
«Un atto di coraggio, abbiamo osato», precisa Jhumpa.
Tra l’addio a questa casa e il trasferimento a Princeton c’è un passaggio nella casa dell’amata Roma. Un ponte di pace.
«O il lato di un triangolo, il terzo elemento», suggerisce Jhumpa,
come fa lei quando sceglie le parole nella mia lingua, con la stessa attenzione con cui pescherebbe dallo scrigno i gioielli per adornarsi in
occasione della festa. Il terzo elemento, che per entrambe ha fornito
la risposta a quesiti difficili nelle nostre vite.
«Ha fatto sì che i nostri conflitti si siano distribuiti equamente dal
punto di vista emotivo. Come scrivo nel mio*OBMUSFQBSPMF l’italiano
ha sanato il dissidio tra il bengalese, la mia lingua d’origine, e l’inglese, la lingua adottiva, il dialogo feroce tra le due lingue».
Nel mio caso sono state invece le montagne nel Colorado, dove vissi per sette anni in semi isolamento e dove scrissi il primo romanzo, *M
MVOHPSJUPSOP, tentando di risanare un feroce dissidio interiore i cui
termini apparenti erano New York e l’Italia. Il Colorado, da dove poi
fuggii, abbandonandovi una parte di me che solo ora vado recuperando. Il ponte, questa volta? Il ponte è un romanzo in lingua inglese, ambientato lì.
È singolare il modo in cui una lingua si affaccia da dentro, la mappa che forma per farsi seguire. Scrivere in un’altra lingua significa
scrivere altro. Declamo Audre Lorde: ”Ma i luoghi non cambiano così
tanto come ciò che in essi cerchiamo”. Tornando alla casa d’origine ci
sorprende ogni volta l’amarezza di questo verso, finché ci si ostinerà
a considerare peregrinazioni quelli che sono in realtà complicati stanziamenti, finché non si chiarirà come le assenze sempre più prolungate — ma da dove? — mettono in dubbio la prospettiva del ritorno, e
dunque il significato di casa.
«Cercavi altro, dunque, quando hai iniziato a scrivere in inglese»,
coglie subito Jhumpa.
«O forse era sempre stato lì, ma non ero pronta», annuisco.
«Cerchiamo di raggiungere quello che abbiamo già dentro. E dunque la scoperta è emozionante perché c’è un riconoscimento così forte di qualcosa che non conosciamo. È un’andata ma anche un ritorno.
Io, per esempio, me ne sono scappata da questa casa di Brooklyn per
raggiungere un’altra casa, la casa di Roma».
Un gesto insieme reale ma anche metaforico. Rilevo: «La lingua è
nuova ma conosciamo bene lo strumento con cui l’adoperiamo, la
scrittura. E a un certo punto succede, ti accorgi che sei in grado di scrivere nell’altra lingua».
«Oppure è un passo trasgressivo, uno smantellamento del proprio
essere, perché bisogna pensare nuovamente — daccapo. I miei pensieri in italiano sono altri da quelli in inglese. A questo punto del mio
percorso linguistico sono in grado di raggiungere il significato di
ogni concetto in italiano, anche se, magari, mi mancano ancora alcuni vocaboli, ma è il modo in cui dico le cose che è diverso».
«Tu dirai sempre le cose in maniera insolita, Jhumpa. Nel tuo *OBM
USFQBSPMF, freschezza e particolarità diventano la tua voce».
«Anche la tua scrittura in inglese mi colpisce per lo stesso motivo.
Nel tuo inglese, Tiziana, c’è un ritmo assolutamente tuo, scelte singolari nella strutturazione delle frasi».
«L’unicità della propria voce sembra paradossalmente raddoppiata quando ci si dedica a scrivere in un’altra lingua; impossibile non arrivare alla nuova lingua dalla propria».
«Una duplice qualità. Quando scrivo in italiano, nonostante i miei
pensieri vengano in italiano, l’inglese mi bracca. Poi capisco che è un
compagno, che mi sostiene. Infine è una traccia che non scomparirà
mai. Per citare Lalla Romano: “La mia cecità è un punto di vista”».
«La lingua madre e la lingua d’amore seguono la stessa evoluzione
e si scambiano i valori: prima handicap, poi sfida, infine cifra».
«Tiziana, quando tu sei venuta a New York da ragazza è stato perché amavi la letteratura e la poesia americana. Perché hai iniziato così tardi a scrivere in inglese?».
«Mi sono data il permesso quando è morta mia madre. Non è stato
un passaggio immediato ma chiarissimo. Ero partita a diciotto anni,
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e avevo promesso che il mio sarebbe stato solo un viaggio, ma non sono più tornata».
«Quindi la partenza ha significato una doppia rottura con la Madre, quella personale e quella con la terra d’origine».
«Sì, ma l’ho capito solo quando lei se ne è andata. E come, in quanto madre, aveva rappresentato entrambe. È sorprendente, e a conti
fatti inquietante, come un percorso lavorativo, spirituale o artistico
che si immagina libero, possa rivelarsi un modo inconsapevole di continuare un dialogo tenuto in sospeso con il proprio passato, o persino
di scusarsi».
«Tua madre sarebbe rimasta perplessa nel leggerti in inglese?».
«Mia madre non conosceva l’inglese, la separazione tra noi sarebbe stata totale. Ecco perché solo dopo la sua morte sono emerse le parole in questa lingua».
«Dunque tua madre ha aperto una porta!... Ti capisco perfettamente. Andare in Italia per me è stata la prima separazione formale, anche geografica, dalla mia. E quando ho messo un oceano tra me e mia
madre ho iniziato a scrivere in una lingua per lei impenetrabile. Mi
dà uno spazio, una libertà straordinaria. L’inglese rappresenta la vita familiare mentre invece l’italiano è un percorso che ho costruito
io, un nuovo panorama in ogni senso, e per certi versi, sul piano simbolico, la morte del genitore, quindi la mia autonomia. Sul piano artistico questo è importante. Trovarsi in un nuovo paese per uno scrittore non può che intensificare il rapporto con la lingua originale — metti Hemingway che va in Francia e continua a scrivere in inglese circondato da un altro contesto linguistico — , o significare, come per
me, per te, per Nabokov e Beckett, un capovolgimento linguistico.
C’è un elemento della mia vita costruito: diventare italiana, entrare
nella vita italiana tramite la lingua, che è per me la chiave fondamentale. Un’invenzione, ma imprescindibile e molto reale. E il tuo percorso mi ispira, perché tu sei molto italiana ma colgo un’altra dimensione, che col tempo diventa un insieme. All’inizio, la tua divisione, certo, ma sei tu che lasci il tuo mondo per un altro, e cogli il nuovo».
«Certo, e il mondo rimane nuovo anche quando diventa tuo, ma
non è sempre un dono: io non sarò mai americana ma neppure più italiana — soprattutto dopo la morte dei genitori è normale che si acuiscano i ricordi del passato mentre al contempo si allenti il legame con
i luoghi. E c’è un momento in cui ci si accorge di aver superato una soglia: non si sarà più in grado di tornare indietro».
«È così, perché tu hai costruito una vita familiare in inglese, con le
tue figlie e con tuo marito che è americano. Ma oltre i legami affettivi, il legame più forte per te, così come per me, è con la letteratura e
con la città. Perché la città è le parole, e il luogo è il dizionario del luogo. Io non volevo conoscere Roma e la gente senza conoscere prima e
allo stesso tempo, sempre di più, la lingua. Ascoltare parlare l’italiano mi riporta a Roma e mi radica lì. E anche per te le parole in inglese
TPOP New York».
«Sì. Un rapporto strettissimo, e non solo attraverso i libri. Tutta intera la città è la sua lingua: i dialetti, il jazz e infine l’architettura di
questa città circondata dall’acqua, che può solo innalzarsi o implodere selvaggiamente intorno a icone statiche come tatuaggi. E a questa “isolarità” corrisponde infine l’idea della “gabbia” che non si può
lasciare. Anche tu l’hai sentita a Roma?».
«Sì, e il dialogo tra New York e Roma è stato davvero duro per me.
Essere stregati o schiacciati da queste città sembrano le uniche alternative, perché Roma è una città talmente forte, intensa, potente, bella, difficile, spigolosa che se non ti strega, ti mangia viva. E anche
New York, se non ti strega non c’è scampo, ti aliena. All’inizio, Roma
mi lasciava folgorata e, al ritorno, di New York non mi piaceva niente, ricordi?».
«Sì. E io cercavo di convincerti di quanto fosse bella! Ma la bellezza
di un luogo è legata al significato che questo ha per noi. Tornando là
da dove si è fuggiti, si opporrà resistenza finché non si farà pace con
le ragioni della propria partenza. E fin quando far pace con quelle ragioni non è il viatico del viaggio, i luoghi del cuore non saranno amori
maturi ma chimere».
«Ecco, per me era così Roma, che era stata la mia fuga, come per te
New York. Quando sono tornata a New York l’autunno scorso, Roma
era un amore inconsolabile».
Ma ecco di nuovo il terzo elemento, la lingua letteraria e il suo potere taumaturgico.
Racconta Jhumpa: «La traduzione di -BDDJ di Domenico Starnone
mi ha dato un nuovo appoggio per stare a cavallo tra l’italiano e l’inglese. Muovendomi costantemente tra le lingue, trovo quell’equilibrio che cercavo a settembre al ritorno dall’Italia. È stato un processo
complesso ma ora c’è una fusione fra le due città, una bella confusione, persino, ed è struggente questa partenza da New York. Amo da
morire Roma e resta ancora casa, però è meglio lasciare anche Brooklyn con malinconia, perché vuol dire accettare che una parte di me
appartiene a questo posto. Vorrei continuare a muovermi fra luoghi
diversi ma non voglio più scappare via. Bisogna abbracciare ogni tappa e muoversi tra l’una e l’altra con leggerezza, non è così?».
la Repubblica
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ICORDO ANCORA IL GIORNO IN CUI ASCOLTAI 'FBSPGUIF
%BSL degli Iron Maiden: da lì in poi nulla è più stato come prima». Sembra l’inizio di un’intervista con l’ennesimo cantante metallaro. E infatti Vulture Thrust canta, con voce gutturale, per gli Overthrust. La particolarità è che Tshomarelo Mosaka (vero nome di Vulture
Thrust) e gli altri vengono da Ghanzi, cittadina del Botswana occidentale. «Quando abbiamo iniziato, nel
2008, qui c’erano pochissimi metallari. Anzi, c’eravamo solo noi, ma poi si è sviluppata una piccola comunità di amici con la passione per il metal e ai nostri concerti oggi viene un sacco di gente. Abbiamo suonato
anche a Gaborone, la capitale, e anche in Sudafrica», racconta Mosaka che ha trentun’anni e di mestiere fa il poliziotto. «Non c’era nulla: niente negozi di dischi, niente negozi di abbigliamento». Si sono inventati tutto, gli Overthrust. Grazie a parenti emigrati in Europa e in America che tornavano a
casa con dischi e magliette, grazie a Internet. «E soprattutto ai Motörhead di "DFPG4QBEFT», aggiunge Mosaka. «Lemmy era il nostro modello: per come si vestiva, per come suonava, per come viveva. Ci sentivamo i cowboy del death metal, e così abbiamo iniziato a creare i nostri vestiti: qui la
pelle non manca, e la fantasia neppure».
Il risultato è nelle fotografie che pubblichiamo, scattate da un grande fotoreporter, Pep Bonet:
«Ho viaggiato e lavorato in tutta l’Africa e credo che un fenomeno come quello degli Overthrust e
della loro comunità metal possa nascere solo in un Paese dove si è raggiunto un livello minimo di democrazia. A settembre il Botswana festeggerà il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza. Poter suonare ciò che vuoi, poterti vestire come ti pare: credo che siano piccoli ma significativi indicatori di libertà». Oppure, come ha detto al 8BMM4USFFU+PVSOBM Roy Doron, docente di Storia africana
della Winston-Salem State University, «il metal è una di quelle cose che appare quando esiste un minimo sviluppo economico».Alla “diffusione globale dell’heavy metal”, definito “la vera world music”, il quotidiano finanziario ha dedicato un ampio servizio. Dalla Cina al Cile, dall’India al Sudafrica “l’heavy metal è la colonna sonora della globalizzazione”. In tutti i suoi possibili significati, se si
pensa al ripetuto uso di musica “pesante” fatto dai soldati americani in contesti di guerra per “bombardare” nemici e prigionieri spingendo al massimo volume i Metallica o gli Slayer. Non è un caso
dunque se gli Iron Maiden lo scorso anno sono andati in classifica in più di quarantatré paesi (dalla
Bolivia all’India, oltre che in Europa e in America) e se il presidente dell’Indonesia, Joko Widodo,
non nasconde la sua passione per il metal sfoggiando magliette dei Napalm Death.
«Nel metal, a differenza di altri generi, non esiste pregiudizio geografico: se una band suona bene
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e piace, non importa se è polacca, lituana o se viene dal Botswana», spiega Paolo Maiorino, direttore
del catalogo e del marketing strategico di Sony Music in Italia. «Dopo il boom degli anni Settanta e
quello tra la fine del decennio successivo e l’inizio degli anni Novanta, il mercato del metal si è stabilizzato. E sente meno di altri la crisi e l’impatto del digitale perché ha un pubblico tradizionalista,
che al novanta per cento sceglie ancora cd o vinili. L’apertura di nuovi mercati ha fatto il resto: Asia,
Oceania e Sudamerica sono territori da sempre sensibili al metal, ora sta emergendo l’Africa».
Forse tutto iniziò con i brasiliani Sepultura, che nel 1996 pubblicarono 3PPUT, album che mischiava thrash e percussioni tribali. Esperimento che li trasformò nelle prime star del metal dal Sud del
mondo. «Volevamo semplicemente metterci alla prova e fare qualcosa di diverso», ricorda oggi
Max Cavalera, chitarrista, cantante e compositore che dopo lo scioglimento della band ha dato vita
ai Soulfly. «Ma non sono d’accordo con il fatto che il metal sia la nuova world music: si diffonde come
fanno altri generi, forse di più. Tutto qui». Diffusione che si spiega anche «con quel che sta intorno
alla musica, lo stile di vita ribelle, l’estetica: i ragazzi di tutto il mondo ci si possono identificare», aggiunge Andrea Ferro, voce maschile e fondatore, insieme a Marco Coti Zelati e alla cantante Cristina Scabbia, dei Lacuna Coil. Band italiana da esportazione ed esempio della globalizzazione metal:
sette album e oltre due milioni di copie vendute in diciannove anni vissuti quasi perennemente in
tour: «Facciamo tra i duecento e i duecentocinquanta concerti all’anno, ma non siamo ancora stati a
suonare in Africa, nonostante gli inviti da Marocco, Tunisia e Sudafrica. È l’unico continente in cui
non ci siamo ancora esibiti». Per quel che hanno potuto constatare sui palchi dei festival in India, Cina, Filippine, oltre che in tutto il Sudamerica, «musicalmente non c’è contaminazione etnica o tribale», osserva Ferro. «Le band cantano in inglese e suonano ovunque allo stesso modo, semmai c’è la
ricerca dell’estremizzazione, dal grind al death-metal». Che è il genere scelto dagli Overthrust. I ragazzi della band di Ghanzi hanno appena concluso un breve tour europeo che li ha portati a esibirsi
sul palco del più grande festival metal del mondo: a Wacken, nel nord della Germania. «Esperienza
incredibile: centomila ragazzi bianchi che impazzivano per noi», ricorda Mosaka-Vulture Thrust,
che a proposito del suono della sua band dice: «I nostri riferimenti sono Morbid Angel e Napalm Death. Non ci piace la musica africana a meno che non sia metal, come i Wrust, veri pionieri del Botswana, o i sudafricani Boargazm. Ma ci sono ottimi gruppi anche in Namibia, Angola e Mozambico».
Dopo l’esperienza europea gli Overthrust sono pronti a tornare a Ghanzi, dove due di loro sono ufficiali di polizia come Mosaka, un altro lavora in un hotel e il quinto fatica per un’impresa di costruzioni. «Ma ci rimane abbastanza tempo per le prove», ride Mosaka. «All’inizio i colleghi mi prendevano in giro e in città ci guardavano tutti, poi si sono abituati e ora ci seguono sui social network, hanno anche votato per noi contribuendo a eleggerci “la più brutale metal band dell’Africa”». A proposito, ma di cosa parlano i vostri testi? «Uccisioni rituali, fantasmi e falsi profeti: piccole storie di vita e
di morte in Africa. Una via di mezzo tra l’incubo e la realtà».
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NEW YORK
IL LIBRO IDEALE DA LEGGERE DI RITORNO da un viaggio in Cina,
com’è accaduto a me in occasione del G20 di Hangzhou.
Mentre l’attenzione degli europei è dominata da guerre civili e flussi migratori, il presidente Xi Jinping sta cercando di
emulare gli antichi romani: costruisce le premesse di un impero fatto di porti, strade, ponti, acquedotti, più tutto l’equivalente moderno che i romani non potevano immaginare.
Lancia i “ganci” delle sue reti infrastrutturali lontanissimo,
dalla Cina fino al nostro Mediterraneo. Il libro ideale per capire questo grandioso piano cinese, e tante altre cose, è questo
$POOFDUPHSBQIZ del giovane esperto di geoeconomia e geostrategia Parag Khanna. È una mappa delle connessioni che
contano davvero, la nuova geografia che sostituisce le vecchie carte del pianeta. Di origine indiana, cresciuto tra America, Medio Oriente e Germania, Khanna è docente
all’università statale di Singapore. Poiché riesce a viaggiare perfino più di me, questa
intervista l’abbiamo condotta via Skype fra diversi continenti. La premessa di Khanna
è che l’umanità costruirà più infrastrutture nei prossimi quarant’anni di quante ne abbia costruite negli ultimi quattromila. Le grandi reti di trasporto e comunicazione (anche virtuale) sono ormai delle realtà più importanti degli Stati nazione. Le catene della
logistica sono talmente complesse, ramificate e diversificate, che su ogni prodotto andrebbe messa l’etichetta “Made in Everywhere”, cioè fabbricato dappertutto. Un possibile modello del nostro futuro è Dubai, un luogo creato da una visione del tutto a-storica, a-geografica, ovviamente popolato da apolidi.
Il suo saggio è quasi una provocazione, per diversi motivi. Comincerei da questo: per
le giovani generazioni la parola “connessione” evoca subito il mondo digitale, la Rete, le app sugli smartphone. Lei invece ci riporta all’importanza delle connessioni fisiche, fatte di acciaio, cemento armato, tubi di oleodotti…
«Certo, per i più i giovani il concetto di
connettersi è seguito automaticamente tico, dal Canada alla Russia. Tutto questo
da “online”. Ma neanche loro devono di- non è futurologia, sta succedendo mentre
menticare che le infrastrutture di traspor- parliamo. Ed è una spinta irresistibile a
to dei beni, delle persone, dell’energia, emigrare dal Sud verso zone che un temhanno preceduto il digitale di alcuni seco- po erano fredde, e diventano di anno in
li. E perfino la rete non esisterebbe senza anno sempre più abitabili».
una dimensione fisica, che richiede imLa Cina investe risorse gigantesche
mensi investimenti, per esempio le reti a
(ha già stanziato sessanta miliardi)
fibre ottiche o i ripetitori wi-fi».
nel progetto One Belt One Road (una
Lei si occupa molto di un fenomeno delcintura, una strada): autostrade e ferla connettività globale che sono le mirovie, oleodotti e porti, aeroporti e reti
grazioni, con particolare attenzione a
di distribuzione elettrica, dall’Asia centrale al Medio Oriente fino a casa noquella che secondo la sua analisi ne sastra. Che visione c’è dietro?
rà la causa più dirompente: il cambia«È la più grande iniziativa strategica
mento climatico. Oggi in primo piano
per noi ci sono i profughi dalla Siria, do- del ventunesimo secolo. È anche una delmani prevarranno coloro che fuggono le realizzazioni più concrete dei temi del
mio libro. La connessione attraverso le
da cataclismi naturali?
«La conclusione è scomoda ma inelutta- grandi reti infrastrutturali è centrale. È
bile. Se osserviamo le mappe della densi- perfino più importante del rafforzamentà di popolazione e dell’urbanizzazione, to militare. La Cina è disposta a investire
abbiamo forti concentrazioni umane in subito centinaia di miliardi nei paesi vicizone costiere dove i livelli dei mari si alza- ni, ed è la nazione che ha più paesi confino; mentre in altre parti del mondo avan- nanti di ogni altra. Vuole liberarsi dal vinzano siccità e desertificazione. Al tempo colo del passaggio delle merci e dell’enerstesso il riscaldamento climatico rende gia attraverso lo Stretto di Malacca. Punfertili e accoglienti delle aree vicine all’Ar- ta a raggiungere i suoi obiettivi strategici
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senza dover necessariamente inviare
truppe all’estero. Rende i suoi vicini dipendenti attraverso la finanza. Il precursore è la Banca Asiatica per gli Investimenti in Infrastrutture (Aiib): i suoi progetti coincidono con le mappe che ho disegnato per i prossimi vent’anni».
Quella Banca è stata osteggiata dagli
Stati Uniti, che hanno tentato — invano — di dissuadere i suoi alleati europei dall’aderirvi. Hanno sbagliato gli
americani?
«Non c’è ragione di temere quella Banca voluta dai cinesi. Gli europei ormai
commerciano con l’Asia
quasi quanto lo fanno con
gli Stati Uniti. L’Europa è
parte di quella grande massa continentale che chiamiamo Eurasia, ha bisogno
di espandere le sue connessioni a Oriente. Gli Stati Uniti hanno sbagliato, sì. Costruire infrastrutture è un
bene pubblico, al servizio di
tutti, perché opporsi? La
Banca Asiatica per gli Investimenti in Infrastrutture è
uno strumento di sviluppo, di modernizzazione, sarà per il ventunesimo secolo
quello che la Banca Mondiale voleva essere per il ventesimo secolo».
Il suo saggio è controcorrente per un’altra ragione: viviamo in un’epoca dove
soffiano impetuosi venti di protezionismo, anti-globalizzazione, ri-nazionalizzazione degli orizzonti politici. Da
Brexit a Donald Trump, piacciono quei
leader e quei movimenti che propongono di alzare il ponte levatoio, di isolarsi. E non è solo una moda politica, è un
trend visibile nei dati dell’economia: il
commercio internazionale rallenta,
non è più dinamico come una volta,
sembra che la globalizzazione sia entrata in una fase di stanchezza. Lei sceglie proprio questo momento per esaltare il ruolo delle connessioni globali.
«Non mi spaventa sostenere tesi controverse. Anzi, proprio perché tanti si oppongono ai benefici delle frontiere aperte
e della globalizzazione, è il momento che
qualcuno scenda in campo per farne una
difesa argomentata. Il fatto che la crescita degli scambi internazionali stia decelerando non contraddice la mia tesi sull’importanza delle connessioni. Circolano meno navi porta-container, ma la connessione attraverso smartphone tra il Canada e
il Congo è più facile che mai. Nove miliar-0456%*040
di di abitanti del pianeta sono più collega/"50","/163
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cicli dell’economia. Ci sono opposizioni
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tra Stati Uniti e Unione europea, il Ttip,
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ma questo non significa per forza che vin"--6/*7&34*5®
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dollari all’anno, continuerà anche se Do%"--"3*7*45"
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dati. Io parlo della realtà. A costo di sfida1&340/&
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flussi di stranieri. Ma se come nazione hai
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PORTOFERRAIO
O SCELTO l’Isola
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d’Elba considerando la dolcezza dei costumi
dei suoi abitanti e la bontà del
clima. Essi saranno l’oggetto costante del
mio interessamento più vivo”. La storia
racconta come Napoleone avesse deciso di vivere il suo esilio italiano a Portoferraio tra Forte Falcone e Forte Stella, sulla scogliera affacciata davanti al mare del continente. E come nelle rimesse della
Palazzina dei Mulini fosse sempre pronto il “calesse da pranzo”
trionfante di frutta, limoni, biscotti e Aleatico, il suo vino preferito.
L’Elba che in tanti amano per il suo mare, in realtà è prima di tutto terra. Una terra dal carattere fiero e mutevole quanto lo sono i
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molto spesso assemblati con verdure o in combinazione mare-monti. Perché il Monte Capanne, con i suoi oltre mille metri di altitudine, governa una dorsale montuosa con annesso habitat montano
di tutto rispetto: funghi e castagne, cinghiali e mufloni, aquile e picchi, per la gioia di raccoglitori, cacciatori, birdwatcher. A mitigare
e addolcire, non solo l’influsso marino, ma anche l’imponente dito
della vicina Corsica (cinquanta chilometri), che scherma i venti occidentali, creando un microclima marcatamente mediterraneo.
Per questo, le giornate di ottobre riescono morbide e luminose,
ideali per ritagliarsi un piccolo supplemento di vacanza, magari in
occasione della Festa dell’Uva di Capoliveri, che quest’anno si svolgerà nel secondo weekend del mese. Tema della ventunesima edizione, l’anno 1959, con il suo corollario di vestiti, musica, arredi, cibi, dalle radio a transitor all’imbollita di fichi passando per la zuppa
di TDSPGBOJ (scorfani) e il rosòlio di mandorle. Su tutti, la coppia di
dolci più sexy della storia: la TQPSUFMMB, a forma di ciambella, e il DFSJ
NJUP — scopertamente fallico — che i fidanzati si scambiavano a
Pasqua come pegno d’amore. Un’escursione in bicicletta o un’immersione nelle acque cristalline dello scoglio dell’Ogliera, ancora
cariche del sole estivo, aiuteranno a smaltire gli eccessi, gastronomici e non.
A CHI L’HA DETTO che le
isole sono isolate? È
vero il contrario. Le
terre sospese tra cielo
e mare sono le teste di
ponte della civiltà. E della gastronomia.
Che hanno sempre camminato di pari
passo, saltellando da un arcipelago
all’altro. Come insegna Ulisse. Che è
senza dubbio il primo gastronauta della
storia. Oltre che uno straordinario
storyteller alimentare. In fondo
l’”Odissea” è un formidabile compendio
della tavola mediterranea. Che, ora come
allora, ha i suoi emblemi più antichi
proprio nei prodotti isolani. Il vino di
Samo, il miele di Thassos, l’agnello di
Creta, i formaggi di Santorini, l’olio di
Capri, i capperi di Salina, la Malvasia
delle Lipari, il coniglio di Ischia. E il
vasellame di Pantelleria. Che ha
inondato tutto l’impero d’Oriente e
d’Occidente con le sue pentole resistenti
alle alte temperature. Erano le Le
Creuset dell’epoca.
In realtà le isole sono colpi di teatro di
una natura in stato di grazia. Ecco perché
tutto è più intenso ed estremo, sapori e
odori, situazioni e sensazioni. Dalla
solarità esplosiva dell’origano e dei
capperi di Favignana, di Ibiza, di Hvar
alla severità introspettiva della torba
delle terre che galleggiano nei mari del
Nord. Come Islay, la regina delle Ebridi,
dove il whisky prende
quell’inconfondibile “fumus
degustationis” che manda in visibilio i
patiti del single malt. O le Lofoten,
gettate come dadi nelle acque polari, che
hanno fatto al mondo il dono del baccalà
e dello stoccafisso. Un pesce rigido come
un pastore luterano che
paradossalmente ha scandito il
calendario gastronomico del mondo
cattolico. Col favore dei venti australi che
sigillano il merluzzo nel suo ritroso
candore e gli donano
quell’incomparabile sentore al tempo
stesso sexy e austero. E, come racconta il
“cocus in fabula” Fabio Picchi nel suo
bellissimo libro “Papale papale”,
qualcosa di simile fanno gli elbani
quando arricciano il polpo
immergendolo tre volte in acqua
bollente mentre cantano una formula
metrica per strappare al fuoco il ritmo
della vita. In realtà nelle isole la forza
degli elementi si trasforma in materia
prima, proprio come nelle fiabe. Così il
sole, il mare, il vento, le maree, la
macchia, la brughiera diventano
altrettanti ingredienti che trasfigurano il
mare in essenza profumata, in frontiera
equorea del gusto. Ecco perché un
animale primordiale come la capra
regna da sempre sugli arcipelaghi come
messaggera celeste e nutrice degli dei. È
proprio grazie al latte di Amaltea, l’ovino
più famoso di Creta, che Giove diventa
così forte da scalare le vette dell’Olimpo.
E l’Arturo di Elsa Morante, seguendo la
stessa dieta, diventa simbolo di una
insularità universale che fa di Procida
una regione dell’anima.
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paesaggi disegnati dai minerali — oltre centocinquanta tipologie
differenti — che affiorano dalle sue viscere. Gli otto comuni che si
spartiscono in modo non equanime i trentatremila abitanti dell’isola — dai dodicimila di Portoferraio ai mille di Rio nell’Elba — esprimono una biodiversità a tutto tondo: vigne e miniere, campi e uliveti di cui andare orgogliosi ben oltre il semplice campanilismo.
Le coste sono diventate amiche in tempi relativamente recenti,
quando pirati e predoni sono entrati a far parte dell’agiografia isolana e andar per mare ha smesso di essere pericoloso ben oltre le
bizze del meteo. Non dovendo più impegnarsi nella difesa dalle predazioni, la pesca è diventata un’attività diffusa, importante, redditizia. Lo stesso Bonaparte, assaggiato un caciucco cucinato sulla
banchina dai pescatori con gli avanzi del pesce venduto, pare si fosse entusiasmato a tal punto da invitare l’improvvisato cuoco nella
sua dimora.
Qui è il regno della palamita, parente povero — ma solo per notorietà — del tonno, vantando a suo vantaggio carni più delicate e fragranti. Dalla pesca al vasetto, il passo è lungo quanto il tempo di dissanguamento, bollitura e messa sott’olio (extravergine, nella ricetta degli artigiani migliori).
Ma non di solo pesce azzurro vive la pesca elbana, se è vero che
prosperano le ricette che declinano totani e polpi, gamberi e zerri,
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Nato a Parma da una famiglia di grandi costruttori, al cinema ci arrivò grazie ai due anni passati da ragazzo in sanatorio (“a Davos,
stessa stanza di Thomas Mann, capii che non ero fatto per tirare
su dei muri”) e a quei tanti mostri sacri, da Cecchi D’Amico a Leone, “che mi hanno fatto lo sgarbo di andarsene prima di me”. Ha
scritto quasi tutti i film di Visconti (“fu bello vestire Helmut Berger da Marlene Dietrich”) ma anche “C’era una volta in America”
(“dopo quella faticaccia Sergio tro c’è un attore con i tacchi alti, ma non c’è Marlene. Posso dire che quella fu un’imia: vestire Helmut da Marlene Dietrich e fargli cantare una canzone dall’"O
HFMPB[[VSSP. Mentre guardavamo lo spettacolo teatrale, Marinetti mi faceva nomi disse: mò facciamo insieme dea
tare l’attualità di quel film. La destra oggi aleggia in tutta Europa: in Austria, in
Francia, in Germania...». -BDBEVUBEFHMJEFJ è ispirato al .BDCFUI, ma al posto delpreferiste il nazismo. «Non ricordo di chi sia stata l’idea del nazipure “Via col vento”). A novan- lasmo,corteforsescozzese
mia o di Luchino. Non di Badalucco. La prima proiezione è stata alle Bahamas, in un festival della Warner — quando finirono i soldi per fortuna arrivaroi produttori americani — e durante la conferenza stampa chiesero a Luchino:
tuno anni, sempre elegante, si noperché,
invece del nazismo, non ha fatto il fascismo? Ma perché volevo una tragedia non una farsa, rispose lui».
è nato a Parma da una famiglia di costruttori importanti e con un destiguarda indietro e dice: “Quanta noMedioli
già tracciato. Come arrivò al cinema? «Potrei darle molte risposte. La prima sarebbe: passando per un sanatorio. La seconda: grazie a tante persone che mi sono
state amiche, da Attilio Bertolucci a Suso Cecchi D’Amico, passando per gli altri —
vita, cara mia, quanta vita”
Valerio Zurlini, Sergio Leone, Burt Lancaster, Maurizio Chiari — che hanno fatto
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ORVIETO
l’eleganza, e
quella traccia ancora evidente di una bellezza che è stata
assoluta. A novantuno anni Enrico Medioli, sceneggiatore di quasi tutti i film di Luchino Visconti, ma anche de
-BSBHB[[BDPOMBWBMJHJB e di $FSBVOBWPMUBJO"NFSJ
DB, è un uomo diritto, lucido, curioso. L’altra sera sua nipote Marina — che lui, con delizioso snobismo, chiama
sin da bambina “Marinetti” — ha collegato il computer
alla televisione e insieme hanno visto la registrazione di
-FTEBNOÏT, lo spettacolo teatrale del quale tra poco parleremo. Seduti nella biblioteca della casa appena fuori
Orvieto, nella quale più di venticinque anni fa venne ad
abitare assieme al grande scenografo Maurizio Chiari (morto nel 2003), compagno di tutta una vita, Enrico Medioli preferirà sempre il passato prossimo a quello
remoto. E ogni tanto, scuotendo la testa e quasi sottovoce, dirà: «Quanta vita, cara
mia, quanta vita».
Messo in scena dal regi-star olandese Ivo van Hove e trionfante in luglio al festival di Avignone, -FTEBNOÏT è la versione teatrale de -BDBEVUBEFHMJEFJ di Visconti. Ne segue
quasi per intero la sceneggiatura per la quale Visconti, Medioli e Nicola Badalucco furono candi-
AA
A PRIMA COSA CHE COLPISCE È L’ALTEZZA. Poi
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dati all’Oscar nel 1970. Destinato a essere uno degli eventi della stagione teatrale parigina, lo spettacolo ha debuttato ieri alla Comédie Française, e vi rimarrà fino al 13 gennaio. Per la cronaca: Enrico Medioli non è
stato interprellato dal regista, né invitato alla prima di Avignone o di Parigi. «Quando ho saputo che avrebbero messo in scena -BDBEVUBEFHMJEFJ
mi sono chiesto: ma come faranno?», ci dice finalmente seduto in poltrona,
estenuato dalla battaglia per fare uscire dalla biblioteca la Baronessa, incrocio tra uno spinone e chissà che altro, a lui devotissima. «-FTEBNOÏT è assolutamente un ibrido. Intelligente, ben fatto, molto ben recitato, ma un ibrido. Trovo che il regista abbia sottolineato certe cose che Luchino ha solo accennato. È piu caricaturale, e anche più macabro del film. Quelle bare con telecamera interna nelle quali finiscono gli uccisi, che poi vi si agitano dentro,
sono cose da pittura fiamminga. E anche da Edgar Allan Poe. Poi manca del
tutto il grande colpo di scena di Helmut Berger travestito da Marlene; in tea-
lo sgarbo di morire prima di me». Iniziamo dalla prima risposta, allora. «Mi sono
iscritto al Politecnico di Milano, architettura, ma alla fine dell’anno non stavo bene. Mi hanno mandato a Davos dove ho passato due inverni. Non solo nello stesso
sanatorio, ma nella stessa stanza dove era stato Thomas Mann quando ha scritto
-BNPOUBHOBJODBOUBUB. Avevo ventitré anni. Sono rimasto lì due inverni e quando me ne sono andato avevo capito che tirar su muri non era il mio mestiere. Ancora oggi non so fare bene le divisioni. Davos è stata una grande sprovincializzazione, e la malattia, forse, una fortuna. Mi ha dato il coraggio di non continuare per
una strada che non era la mia. Quindi, siccome mi sarebbe piaciuto fare il cinema,
sono arrivato a Roma e ho iniziato a tradurre sceneggiature dall’inglese e dal francese che sono le lingue che conosco. Traducendole ne ho capito il meccanismo. Poi
ho conosciuto la Suso, quindi Luchino e ho cominciato quel lavoro». Non erano
mondi facili da penetrare. Essere bellissimo (in America fecero una lista di una decina di bellissimi e Medioli veniva prima di Paul Newman) e di ottima famiglia fu
un vantaggio? «Non ne ho mai fatto conto, di queste cose».
Quella di Medioli è una carriera più di qualità che di quantità, tanto che viene
considerato uno sceneggiatore letterario. «Al liceo Maria Luigia ho avuto grandi
educatori, perché la cultura parmigiana non aveva niente di provinciale a quell’epoca. Per esempio uno dei miei professori era il poeta Attilio Bertolucci, il padre di
Bernardo. È lui che mi ha fatto scoprire Proust. Andavo ai Baccanelli, una frazione
di Parma dove lui abitava, prendevo in prestito-BTJHOPSB4XBOO lo leggevo e poi
lo riportavo, poi prendevo "MMPNCSBEFMMFGBODJVMMFJOGJPSF e gli altri. Così l’ho letto tutto. Quando poi la 3FDIFSDIF uscì in nuova versione per Gallimard, chiesi a
mio padre i soldi per andarlo a comprare a Parigi. Ma lui mi disse: non solo non ti
do i soldi, ma non lo voglio neanche in casa quel libro lì». Era un problema di omosessualità? «Mio padre non era un intellettuale, lui leggeva soltanto la #JCCJB, -B
TUPSJBEFJ1BQJ di von Pastor e i libri sulla Grande guerra, che aveva combattuto.
Aveva la passione dei giornali, cosa che mi ha trasmesso; ne leggeva tre al mattino e tre al pomeriggio e certamente avrà letto un articolo su Proust e sull’omossessualità, quelle cose lì».
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Non avere fatto un film sulla 3FDIFSDIF fu il grande rimpianto di Visconti. «Non
riuscimmo mai a farlo. Credo che Luchino avesse un eccessivo rispetto per quell’opera, sapeva che sarebbe stata una grande scommessa. All’inzio lavorammo alla
sceneggiatura Enzo Siciliano, due francesi e io. Luchino si lamentava: troppo lungo, adesso ci penso io, e allungava delle cose. Poi ha passato la sceneggiatura alla
Suso e lei l’ha fatta a modo suo. E Luchino ha deciso che non si poteva fare, non che
fosse scontento, ma non si poteva fare. Lui voleva fare +FBO4BOUFVJM. Quel romanzo è la prova generale della 3FDIFSDIF. Avevano detto che il budget non era sufficiente. Luchino aveva già il suo cast: Marlon Brando come Monsieur Charlus, Brigitte Bardot come Albertina, la Deneuve come Odette, Delon il Narratore, Helmut Berger come Morel, e anche Greta Garbo. Con un cast del genere non
avrebbe trovato i soldi? Gli sarebbero corsi dietro».
Come si fa a passare da Visconti a Sergio Leone? «Quando mi ha
chiamato e mi ha proposto di scrivere $FSBVOBWPMUBJO"NFSJDB
mi sono molto stupito. Dopo tutti quei western... Invece la nostra è
stata un intesa perfetta. Siamo diventati amici e ne abbiamo avuto
il tempo. Quel film è durato anni, a un certo punto era sparito il produttore, poi non c’era piu l’attore. È stato il film più difficile che ho
fatto. Ho pianto tutte le mie lacrime quando è mancato Leone. Ci sono film assassini. $FSBVOBWPMUBJO"NFSJDB lo fu per Leone come
-VEXJH per Visconti. E ci sono film che rimangono nel cassetto, come la 3FDIFSDIF per Luchino. O, per Zurlini, la storia di Rimbaud e
Verlaine. E io, probabilmente sbagliando, gli dicevo: non è per te,
non sei omosessuale. Ricordo che una mattina presto Leone mi ha
chiamato, io ancora dormivo, e lui con tono di dolcezza nella voce
mi dice: senti’n po’, ma tu non faresti con me 7JBDPMWFOUP? Io
esterrefatto. E lui ha aggiunto: mò je faccio vedè io come se fa 7JB
DPMWFOUP. Non lo fece mai. Morì troppo presto». Da anni in molti le
chiedono un libro su Luchino Visconti. Perché non ha mai voluto
scriverlo? «È una questione di riserbo, una cosa che non esiste più».
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