canti per la morte

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Transcript canti per la morte

Servitium, III 171 (2007), 109-121
canti per la morte
David M. Turoldo
Riproponiamo sul tema del presente quaderno quanto padre David Maria Turoldo aveva scritto su Servitium, serie I, n. 24 (1972), dal titolo: Vivere la morte. Egli aveva proposto nell’articolo alcune poesie, tratte dalle raccolte: Udii
una voce (1952) e Se tu non riappari (1963), ma rivedute nella versione pubblicata nell’antologia: Poesie, Neri Pozza, Vicenza 1971. Riprendendo quelle
pagine, riportiamo il testo originale delle poesie come figura nell’ultima antologia curata dallo stesso Turoldo e da Giorgio Luzzi, pubblicata da Rizzoli nel
1990, O sensi miei…, rispettivamente alle pagine: 145, 143-144, 125, 135-137,
141-142, 276. Aggiungiamo a quell’articolo del 1972 la poesia «Qualcuno crederà ancora» dalla raccolta: Il sesto angelo. Poesie scelte (prima e dopo il 1968),
Mondadori, Milano 1976, ora in O sensi miei..., cit., pp. 444-446.
Ad altri ragionare o discorrere sulla morte, a me riesce più facilmente di cantare. La morte non è il cadavere; il cadavere appartiene
già ad altra forma di vita, continuazione d’altro modo di esistere e di
vivere nelle cose. La morte per me è una presenza familiare, dolorosa e amorosa insieme; veramente drammatica. Chi nasce entra nel
fiume della morte; nel senso esistenziale, nel senso della coscienza
individuale, il primo giorno è già un giorno di meno appunto di esistere. Ma non è questo meraviglioso? Non può dirsi questo il primo
giorno di cammino verso l’Essere? Ecco, è proprio per la presenza
della morte che io vedo «nuove tutte le cose» ogni giorno; umiliato
semmai e triste di non sapere cantare questa novità perenne che nasce dal quotidiano morire. La mia amarezza è di non essere alla pari col miracolo della continua creazione. Pensare: la luce di ieri non
è la luce di oggi; e questa non è la luce di domani; e la presente primavera non è la primavera passata, ma è un’altra primavera. E an[389]
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che l’uomo è sempre nuovo, è sempre altro. E così Dio! Il Dio di ieri non è il Dio di oggi. Riuscissi a tenere il passo con questa realtà di
morte-vita, vero sacramento di Dio nel mondo, allora sarei davvero
un creatore, sarei come Dio. Il male è restare indietro; sentire che le
parole non riescono a dire, sono foglie che cadono dall’albero appena spuntate. Ecco perché canto, o meglio tento di cantare per dire l’“ineffabile”. E sento la morte come una gloria.
Anche se non esiste più la bella morte all’antica, la morte naturale; e ora siamo nell’ultimo periodo della morte organizzata e violenta: periodo di assassini, di morti schiacciati nella fabbrica o sull’autostrada. Ma questa è la cronaca nera della morte.
Resta comunque il mistero della morte, il mistero dell’ultimo silenzio, violato solo dalla risurrezione del Signore, unico futuro di
questa storia di morte.
Ecco perché anch’io cupio dissolvi. E vorrei finire magari a cent’anni o anche subito (la lunghezza dell’esistere ha un’importanza
relativa), vorrei finire, dico, pregando con le parole del Salmo: «Finalmente salirò all’altare di Dio, di quel Dio che rallegra la mia
giovinezza» (43, 4). E per me il vero altare di Dio è l’accettazione
del quotidiano morire, fino all’estremo, cioè fino all’ultima morte.
«Quando cominceranno ad accadere queste cose alzatevi e levate
il capo, perché la vostra liberazione è vicina [...]. Il fico e tutte le
piante quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi
che ormai l’estate s’approssima... » (Luca 21, 28-30).
amore e morte
è la morte un’aurora
Ma quando da morte passerò alla vita,
sento già che dovrò darti ragione, Signore.
E come un punto sarà nella memoria
questo mare di giorni.
Allora avrò capito come belli
erano i salmi della sera;
e quanta rugiada spargevi
con delicate mani, la notte, nei prati,
non visto. Mi ricorderò del lichene
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che un giorno avevi fatto nascere
sul muro diroccato del Convento,
e sarà come un albero immenso
a coprire le macerie. Allora
riudirò la dolcezza degli squilli mattutini
per cui tanta malinconia sentii
ad ogni incontro con la luce.
Allora saprò la pazienza
con cui m’attendevi; e quanto
mi preparavi, con amore, alle nozze.
Ed io non riuscivo a morire.
Piangevo, mentre ti pascevi,
della mia solitudine. Mai
canto di gioia intonò il mio cuore
stordito dalla fragranza delle creature.
Ogni voce d’amore era un singulto. Invece
eri Tu che odoravi nella carne,
Tu celato in ogni desiderio,
o Infinito, che pesavi sugli abbracci.
Uno stesso tremolio – o bufera – sulla sperficie
del mare come dentro le onde del calice. Eri
dovunque. E gli altri intanto
si baciavano solo sulla bocca,
ma io Ti mangiavo tutte le mattine.
E allora, perché, perché
dunque ero così triste?
Oh, questi fratelli che vanno a nozze
come a un giorno d’allegria!
Così invece io vado a Morte.
È la carne il punto degli incontri,
la carne bianca d’avorio
riassunto della vita, e quella
nera d’ebano o del color della terra.
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Oh, questi fratelli che nulla sanno
Della Morte, vero anello
Di più profonde nozze, ove
Ognuno entra nel più grande talamo.
Raggiunge il suo possesso
Ed è raggiunto
Dall’affannoso Amore.
per uscire dalla vita
e assorbire la Morte,
per giudicare la vita da lontano
e mettersi a cercarla.
Egli se n’è andato da Lui
Per sentire la gioia del richiamo,
e gustare tutti i giorni
il Suo bacio fulminante.
È per la morte che Cristo è nato
per la gioia di morire, e sentire
questo dolcissimo ritorno.
Egli non ha lasciato più la carne
da quando è nato, d’allora
non ha lasciato un giorno di morire.
So che il corpo è la cattedrale viva,
so che Dio non lo posso mai baciare,
fratelli, so tante cose! Il corpo
è il grappolo dell’anima, dove
la stessa vita si condensa,
e il sangue è vino profumato.
È il corpo a renderci visibili, il corpo
La casa ove Dio e l’uomo
Siedono a mensa.
non è ancora la morte
Spezzata è la cetra,
rotta la speranza;
e polveri e sterpi
le imprese a lungo tentate; i giorni
una caterva di parole.
Ma la Morte è come varcar la soglia
e uscire al sole.
La Morte, atto d’amore,
ingresso all’universale presenza.
Quel farsi silenzio, intrisi
Di pietra , di radici,
leggeri come la luce,
non circoscritti, non più soli.
È la fine prima della morte,
una strana fine
nata dal connubio
dello strepito e della città.
Non è la Morte amorosa e lucente
la Morte gloriosa e decisiva,
liberazione dello spazio incerto,
della condizione non stabilita.
È la morte un attimo d’aurora
che appena dispiega il nero involucro
della notte ai suoi piedi abbandonato.
Pura essenza, scheletro bellissimo,
bianco, indistruttibile.
O fratelli, Cristo si è incarnato
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È il tuo, tempo di cadavere
che prende coscienza,
ridestandosi al rumore
di stagioni disseminate ovuneur,
in lento sfacelo;
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un rumore carcerante
dentro un rodio di rimorsi
dentro una pazza immobilità.
Ora morte è venuta. Ghirlandata
come una sposa. Ed io la coltivo
quasi mia creatura, la cullo al grande
letto delle memorie, l’abbevero
del mio sangue, divenuta alfine
e padre e madre ed amica, ed è lei
ora ad attendere di farsi me stesso.
È cimitero la memoria
e il cuore lampada rossa
e cieca, cui la sola
grande Morte
porrà rimedio.
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Ma ora che i miei genitori son morti,
ora che mio padre e mia madre sanno
ogni cosa di me, non posso più oltre
tacere le parole che per loro
pudore fingevo non mie. Attendevo
quel giorno, lo contavo sul mio
almanacco, come, fanciullo, la festa
della venuta di Dio. Così
attendevo d’imparentarmi alla Morte.
Oh, la lunga pazienza della Morte!
Io li avrei portati sulle braccia
come due colombi alla nuova
colombaia, forse a primavera o forse
d’estate ché sentissero il caldo
della Morte. Invece lei, più giovane,
d’autunno; ed egli, più maturo, d’inverno.
Avanti la sposa, più confidente;
dietro, l’uomo che ha più cose
d’abbandonare. A lei è bastato un soffio
di vento: non aveva più corpo; a lui
invece la vita sostenne guerra
fino all’ultimo istante. E il sangue
intorno scalpitava, ed il respiro
era d’eroe, e conquistò la Morte.
Era il mio cuore nella lunga attesa
un campo di battaglia seminato
a bandiere, come il suo passo
avanzava; ma erano sempre case
di amici e vicini visitate. Ora,
ora invece, pure la casa nostra
è invasa dal vuoto immane. Il nostro orto
abbandonato (mia madre non più
curva a cogliere la ruta; ora
diritta, orizzontale, immensa
di sotto due metri di terra),
e il cortile e il campo, l’unico campo
tenuto a giardino da mio padre.
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O morte, o chiara Morte, mai
i loro volti furono così giovani
e belli (mia madre ancora le trecce
bionde e mio padre ancora
l’ampia dentatura); mai così docili
e tenere mani ed occhi
sì sereni e lucenti, come il giorno
che ti degnasti sostare nella nostra
casa di poveri. Mai tanti fiori
ebbero a mensa lungo tutta la vita
quanti sopra le bare,
navi salutate da tutto il paese.
salmi in morte di mio padre e di mia madre
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David M. Turoldo
canti per la morte
Ed io a cantare dietro,
a cantare sul loro silenzio
perché tu eri divenuta e mio padre
e mia madre e sorella, Morte,
o giardiniera divina.
tutti i giorni, eletta
amante di calme, di beate
alcove. Conosco ebbrezze
inaudite, gioie che mi fanno
delirare, ma l’amplesso della Morte,
questo finir di morire
sono la mia montagna, la mia aurora stupenda,
la mia danza inimitabile.
Questo cessar di mentite
questo finire di voci
la mia musica. Mi esalta
perfino la certezza che Egli
potrebbe anche annientarmi
senza lesione alcuna, il fatto
di non esserGli necessario.
Nato per gioco, gratuitamente,
mi soccorre il ricordo
che né bestemmia né pianto Lo scalfisce
o Lo vincola. E se Egli continua a creare
è senza ragione. Egli
è nudo Spirito, Amore folle
che nessuno può dire ingiusto
per cosa alcuna. E se Lo perdiamo
tutto nostro è l’errore; se ci salviamo
Egli è la salvezza. Ma da quando
Tu hai deciso per la carne, da quando
Tu hai voluto nascere, Tu hai scelto la morte,
o Dio consorte dell’uomo.
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Ora dunque giunti, approdati a tanta
chiarezza, ora che paura più non li adombra
e le anime dei figli le vedono
dal di dentro, e leggono i giorni nudi
e sanno più che profeti il mistero,
ora che vita e morte ci hanno
tramandato, alfine usciti
di solitudine, ove più non trincerano
studii e passioni; e tutto
è semplice, disvelato; ora
non vale che a lungo trascini
segreti il cui peso non posso più reggere.
O parenti miei, in vita io vi dicevo
solo di cose pacifiche e dolci;
pure senza mentire io vi parlava
di lieti messaggi e agevoli incontri,
di lacrime asciugate e rassegnazioni
sante; vi narravo di campi arati
con fatica, ma colmi di rugiade,
di messi... O miei parenti, finalmente
siete morti.
[...]
Allora nessuno pianga, nessuno
più la profani, l’insulti.
Ognuno invece la nutra, viva
per forgiare la sua Morte,
per morire della Sua inconfondibile Morte.
[...]
come una barca di canne
[...]
O santi! felici voi
che avete pranzato con la Morte,
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allora riderò della sua delusione
del mio spirito
inutilmente versato.
Armata di falce verrà
pronta ad ingaggiar battaglia.
Altri forse avranno un gesto
di pietà:
fonde pensavano
fossero le radici.
E certo non sapevano
che celavo una continua
attesa d’andarmene.
Già di monasteri famosi avviene
quanto è avvenuto di antichi castelli
un tempo giardini
all’amore e alla gioia;
la stessa chiesa, così,
non avrà discendenti
ora sterile come il ventre di Sara.
Ma qualcuno crederà ancora
e questo è il prodigio.
(O saranno appena altri
sussulti per un avvenire
che non ha speranza?)
qualcuno crederà ancora
I
Tu hai generato, fratello,
nella speranza, pure se inconscia,
di sopravvivere alla morte.
Per quanto dura il tuo sangue
qualcuno ti ricorderà;
qualcuno dirà: questo
è frutto di mio padre.
Dei nuovi figli avranno il tuo volto
e tu sarai nella pace
(o neppure questo è più certo?)
Eppure non posso rinunciare
al mio essere che si propaga:
questo il futuro che cerco
la tua risurrezione, o Cristo.
II
Misterioso Tu vivi nell’umile
Tu sei in questa oscura
attesa del mondo
nella inquietudine senza fine!
Non è così del mio destino:
di me non resterà memoria, nessuno mi evocherà.
Pure la casa
piantata con queste mani
costruita pietra su pietra
forse non avrà avvenire.
Pari al moto del nuovo mare
di gridi e canti in delirio a frangersi
dalle tue coste, America,
nella fossa dei grattacieli.
È necessità che accetti la morte
che mi faccia cenere finissima,
più che pensiero, vita
nel cuore della massa.
Non avrò discepoli!
Né ancora conventi ci saranno
a tramandare il sangue
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canti per la morte
Ogni altro amore
è incantesimo di nulla:
uno che ama è oltre
oltre l’individuale.
Signore, mandaci la morte.
Signore, non guardare alle nostre colpe,
bensì alle nostre facce.
Mandaci la morte, Signore,
la grande morte,
la bella morte.
Il sangue è una trincea
di morte; (pure questa
chiesa mi dona
una falsa immortalità):
Perdonaci, Signore,
se ci siamo lamentati un tempo
perché si moriva.
sparire, ecco la soluzione,
amare e sparire incarnandosi
nell’ultimo di tutti,
è l’ultimo
il tormento immortale
l’unica via alla vita.
Perdonaci se non abbiamo saputo
essere felici
come tu volevi.
Perdonaci, Signore,
se non abbiamo capito.
Perdonaci.
Allora sarai
il corpo della creazione
in perpetua fioritura.
È la morte l’albero della bilancia.
È la morte il porto della salvezza.
È la morte l’ingresso al tuo palazzo.
è la morte l’albero della bilancia1
Passarono secoli e non accadde nulla di nuovo.
I bonzi veramente tentarono qualcosa di nuovo. Cercarono, con tutti
i mezzi, di conservar la fede. Un miracolo ancor più sorprendente di
ogni altro. Si prodigarono in tutte le maniere; visitavano le case, passavano di città in città; dicevano a tutti: «Gioia a questa casa». In occasione di missioni popolari dicevano: «Sperate, sperate: la morte ritornerà». Ma gli altri dicevano: «Sperare è più difficile che credere».
Eran soli, da secoli; ed eran sempre le stesse parole. Ognuno sapeva a memoria, prima che aprisse bocca, la predica del suo bonzo. Dopo secoli!... E si addormentavano ad ogni sermone. Le missioni finivano sempre con le invocazioni alla morte:
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La vita è distanza.
La vita ci esilia l’uno dall’altro.
La vita ci porta al deserto.
La bella morte,
la grande morte,
la divina morte.
Signore, liberaci dalla vita.
Signore, tu sei un fanciullo
e non sai cosa vuol dire
essere un uomo di mille anni.
D.M. Turoldo, ... e poi la morte dell’ultimo teologo, Gribaudi, Torino 1969, pp. 53-54.
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