le forme del silenzio

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Servitium, III 188 (2010), 9-18
le forme del silenzio
introduzione al quaderno
Francesco Geremia
Sul silenzio bisognerebbe tacere. E ascoltare. Chiudere gli occhi e
guardare. Lasciare che le terminazioni dei sensi raccolgano ogni
irradiazione di luce e di calore. Donarsi alla contemplazione:
Ritorni il contemplativo,
uomo della misura: lui solo!
E dopo anni di benedetto silenzio
ritorni a dirci, lui solo
cosa veramente importa. – Ma dopo!1
Occorre dunque integrare il silenzio come componente essenziale e
primaria del vivere quotidiano, perché siamo sommersi da “parole
rumorose”. Uomini e donne di tutti i tempi e di tutte le latitudini ci
hanno lasciato pagine splendide su questo tema, a lungo amato e ampiamente analizzato. In questi nostri tempi i loro inviti e le loro sollecitazioni sembrano per molti non trovare accoglienza2.
In Essere e tempo, Martin Heidegger scrive:
Nel corso di una comunicazione, chi tace può “far capire”, cioè promuovere,
la comprensione più autenticamente di chi non finisce mai di parlare [...]. Ta1
D.M. Turoldo, «Papa, amore ci ridoni al silenzio», in O sensi miei..., Milano 1990, p. 563.
Per la stesura di questa nota ho attinto ampiamente agli scritti di: A. Nesti, Il silenzio come altrove, Borla, Roma 1989; R. Panikkar, «L’origine: il silenzio», in Mistica pienezza di vita, “Opera omnia” I/I, Jaca Book, Milano 2008, pp. 102-122; M. Picard, Il mondo del silenzio, Servitium, Troina 2007.
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cere non significa però essere muti [...]. Solo il vero discorso rende possibile
il silenzio autentico. Per poter tacere l’uomo deve avere qualcosa da dire, deve cioè poter contare su un’apertura di se stesso ampia e autentica. In tal caso il silenzio rivela e mette a tacere la “chiacchera” (p. 264).
Una panoramica sintetica delle forme del silenzio si impone, prima di entrare nell’analisi di singoli aspetti raccolta nei contributi
raccolti nel quaderno.
modi e tempi del silenzio...
Le manifestazioni e le percezioni del silenzio sono molteplici, intrecciate a situazioni corporee, psichiche e ambientali quanto mai
fluide e variabili. Sono metafore, messaggi, figure, comunicazioni
talvolta deformate dal linguaggio con cui si nominano le cose e associate a figure come la notte, il buio, la grotta, la nicchia, il deserto, la montagna. Esse assumono talora un tono chiaramente positivo: ci sono i silenzi di chi è giunto al limite del dicibile, di chi ha
maturato un alto senso di riservatezza, di chi è preso dentro l’ammirazione, l’esperienza dell’amore e dell’amicizia, di chi conserva
come Maria «tutte queste cose» nel proprio intimo e ne cerca una
connessione profonda, di chi va oltre l’epidermide dei nudi fatti e
si pone in ascolto accogliente della realtà viva delle cose e degli
eventi, di chi interpreta la propria esistenza come un impegno costante di ascolto e di comprensione dell’altro...
Esiste però anche il volto triste del “mutismo” scatenato da fattori
diversi oppure quello di chi affoga nell’onda impetuosa e travolgente delle parole e dei rumori: c’è chi si chiude nel proprio io senza proferire parola perché non ha o non riesce a dire nulla, chi continua a
consumare la tragica violenza sulle parole svuotandole di energia e
asservendole a strumenti di demagogia e di dipendenza, chi tace perché vittima dell’indifferenza o di estraniazione alla socializzazione
con l’altro, chi fa del silenzio una modalità di minaccia e di rancore,
chi lo rende l’atto di morte del dialogo e dell’ascolto e di rifiuto dell’altro, chi lo tramuta in uno stato di sonnolenza dell’animo e domina le cosiddette “maggioranze silenziose”, chi lo impone con mille
raffinati stratagemmi a quanti vengono in contatto con lui...
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I mille volti del silenzio avvolgono sempre il nostro vivere e plasmano le nostre giornate e le nostre relazioni.
Il silenzio, se è assenza di suoni-parole, non è assenza di senso, non è il vuoto della trama comunicazionale. Ci sono silenzi, per dirla con Barthes, che
hanno il fragore del tuono3.
In sintesi si potrebbe dire che esistono tre grandi classi del tacere:
La prima è quella in cui il tacere è accompagnato dal gesto e che tende quindi verso una dimensione intersemiotica in cui il movimento del corpo si sostituisce alla parola.
La seconda è quella che raccoglie i silenzi che sono passive negazioni del parlare; si presenta in varie forme: una è di tipo mistico e racchiude sia la preservazione di segreti («so, ma taccio»), quali, ad esempio, i misteri iniziatici,
sia il tacere che si rende necessario per trovarsi di fronte a un’entità ineffabile («non so le parole»); un altro è il silenzio che è radicale negazione del dire,
una silenziosità che investe tutta l’esistenza, quasi la parola non avesse più
senso di esistere, perché incapace di apportare modificazioni all’esistenza,
come se tutto fosse accettato (tutti i contrasti: vita/morte, gioia/dolore, ecc.).
La terza classe è una dimensione in cui il silenzio si trasforma in un’attività,
quella dell’ascolto che è attivo in due modi: primo, perché produce il rumore di ciò che tace; secondo, perché non è affatto silenzioso; esso produce infatti una retorica fatica che amplifica i rumori del silenzio4.
... nelle tradizioni religiose
Al cuore delle tradizioni religiose, in particolare di quelle ebraicocristiana, induista-buddhista e islamica, la realtà del silenzio occupa un ruolo cardine. Pur nella innegabile diversità delle specifiche
visioni, è possibile rintracciare in esse una serie di elementi comuni. Anzitutto il dato fondante di ognuna di esse: Dio e la relazione
con lui. Il principio, l’assoluto, la fonte unitaria dell’indefinita varietà delle cose si assimila al “nulla”, al silenzio, a ciò che non ha
nome né determinazione. Di fronte a lui resiste solo l’ascolto, l’accoglienza, l’apertura, la disponibilità. Anzi uno dei suoi nomi è il
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Nesti, Il silenzio come altrove, cit., p. 10.
Ivi, pp. 10-11.
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“silenzio”, il nulla. Da questo «infinito silenzio» (D.M. Turoldo)
trae origine la Parola che dà consistenza ai mondi, alle innumerevoli forme di vita e di linguaggi.
La sorgente dell’Essere è il silenzio, il nulla, dal quale la parola è generata.
Dal silenzio del Padre è sorta la parola. Ignazio di Antiochia dice: «Cristo, il
Lógos di Dio, proviene dal silenzio». Parola e silenzio stanno dunque in un
rapporto che non è dialettico, ma dialogico, trinitario. Non si escludono reciprocamente, ma si includono... Il connubio tra parola e silenzio costituisce
oggi forse la sfida più significativa in vista di un fruttuoso incontro tra le forme di spiritualità abramiche e asiatiche... Solo nel silenzio può essere sentito
il divino, e in ciò si ritrovano quasi tutte le tradizioni spirituali... Il silenzio è
lo spazio vuoto nell’intimo del nostro proprio essere, il vuoto che “fa spazio”
alla théosis, alla divinizzazione. In questo spazio vuoto possiamo accogliere la
parola, il lógos, che proviene dal silenzio, e con essa il silenzio stesso. Tale accoglienza può prodursi unicamente in modo “vergineo”. Verginità è il simbolo della disponibilità al vuoto, all’essere vigili, al non essere contratti, alla
presenza: accogliere e lasciare che si incarni in noi, che operi e si dispieghi.
«E la parola si è fatta carne.» Tale è il destino di ogni uomo e di ogni parola5.
L’incontro con Dio non si realizza anzitutto nei gesti esteriori (riti,
preghiere, pellegrinaggi, ecc.), ma rivolgendosi alla propria interiorità: l’autentico pellegrinaggio consiste nell’andare verso il tempio del
proprio intimo. Rumi, il grande poeta mistico sufi, afferma:
O gente partita in pellegrinaggio! Dove mai siete, dove mai siete?
L’Amato è qui, tornate, tornate!...
Il Padrone e la Casa e la Ka’ba siete voi!...6
Versi che sembrano riecheggiare l’invito fatto da Gesù ai discepoli:
Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti
nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e
il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà (Matteo 6, 56).
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Panikkar, op. cit., pp. 104-105.
Rumi, Poesie mistiche, p. 93.
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Su questi fondamenti si imposta tutta una serie di indicazioni
ascetiche e spirituali dentro le diverse scuole religiose: esse vanno
dal distacco da ogni dottrina o cose materiali, da un giusto rapporto con il maestro, dall’attenzione al modo di usare le parole,
dalla forte e rigorosa concentrazione sul proprio essere, dal rispetto del silenzio materiale, al silenzio interiore, al raccoglimento nella caverna, alla cura del digiuno, alla scelta di vita cenobitica o eremitica, alla lettura silenziosa delle scritture sacre.
Questo brano di una lettera di un grande mistico siriano del V-VI
secolo, Giovanni il Solitario, può ben riassumere le attitudini verso il silenzio di generazioni di cercatori di Dio appartenenti a luoghi e tradizioni religiose differenti:
Silenzio è Dio e nel silenzio è cantato a Dio quel cantico che è degno di lui.
Non dico nel silenzio della lingua. Se uno tace con la lingua, non sapendo
cantare in mente e in spirito, questi nel silenzio è ozioso [...]. Vi è infatti un
silenzio della lingua e c’è un silenzio i tutto il corpo e c’è un silenzio dell’anima e c’è un silenzio della mente e c’è un silenzio spirituale. Silenzio della lingua, quando non si muove al discorso. Silenzio di tutto il corpo, quando cessano tutti i sensi. Silenzio della mente quando non riflette una scienza e una
sapienza composte. Silenzio spirituale, quando [essa] desiste anche dai movimenti (indotti) dalle creature spirituali e solo nell’Essenza si producono i
suoi movimenti nello stupore che [è] su di essa [...]. E quando tu ripeti le parole della preghiera che ho scritto per te, ti sia cura di non ripeterle, ma di divenire tu stesso quelle parole. Non nella ripetizione, infatti, è il nostro profitto, ma [nel fatto] che la parola si incorpori in te e divenga opera, e tu sia visto entro il mondo, uomo di Dio7.
... nel pensiero filosofico e artistico
Anche nella riflessione filosofica il tema del silenzio occupa un posto centrale. A titolo esemplificativo possono valere le intuizioni di
tre grandi pensatori del secolo scorso: Ludwig Wittgenstein
(1889-1951), Karl Jaspers (1883-1969), Martin Heidegger (18891976).
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Citato in A. Nesti, op. cit., pp. 41-42.
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Nello sviluppo della sua analisi il filosofo viennese Wittgenstein muove dalla constatazione che in faccia all’apparire del mondo non si può
che tacere, restare in uno stato di afasia superabile solo con lo stupore del silenzio. Ciò vale in particolare per la condizione umana:
Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche
hanno avuto risposta, i nostri problemi umani non sono stati neppure toccati8.
Riprendendo poi la lezione di Meister Eckhart, giungerà a dire
che del divino e dell’importante per la vita umana non si può parlare. Rimane solo la meraviglia e il senso di dipendenza da una volontà superiore:
Di Dio non si può parlare, ma interrogandolo, lo si può invocare. Solo dopo
averlo invocato, sarà forse possibile parlare di lui. L’invocazione costituisce, in
definitiva, la soglia su cui si attesta. Quando dalla invocazione si volesse passare
a costruire una teoria, si rischia di cadere inequivocabilmente nell’errore9.
Nel periodo fra le due guerre mondiali Jaspers, facendo tesoro dei
suoi contatti con Max Weber, offre una critica spietata al modo con
cui l’uomo contemporaneo si percepisce all’interno del vivere sociale e ai modi con cui si afferma attraverso i mezzi di comunicazione
(giornali, televisioni, stampa, ...): disinteressato a lasciarsi coinvolgere nella realtà vive di virtualità, di facili consensi e figure passeggere.
Solo rientrando nel profondo del proprio essere e instaurando rapporti comunicativi autentici con gli altri l’uomo può aprirsi al mistero della vita che rimarrà comunque sempre inaccessibile.
In questo spazio problematico si innesta la rilevanza del silenzio. Il silenzio
della ragione non è un vuoto tacere: nella sua negatività è cifra che esprime
una nuova possibilità di interpretazione e di ascolto della radicale ulteriorità
dell’essere. È questa tensione verso un’ulteriorità che non è dato afferrare,
capire, possedere, ma unicamente desiderare, che salva il solido spessore dell’esistere dalla vacuità del nichilismo e dalla “gabbia di acciaio” del totalitarismo tecnologico-sistematico10.
8
Tractatus logico philosophicus, 6.52.
Nesti, Il silenzio come altrove, cit., p. 91.
10
Ivi, pp. 98-99.
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In stretto legame con le intuizioni mistiche di Meister Eckhart,
Heidegger parte dal convincimento dell’Essere come realtà inconoscibile e inattingibile e di esso solo l’arte e la poesia possono comunicarci dei riflessi. Criticando tutto l’impianto fil o s o fico occidentale, asserisce che solo nell’“abbandono” e nel rispetto del silenzio dell’Essere è possibile un nostro avvicinamento a esso.
L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero si appartengono l’uno
all’altra [...]. Essi ci permettono di intravedere la possibilità di un nuovo modo di radicarsi dell’uomo nel proprio terreno [...]. L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero non accadono mai senza il nostro consenso,
non sono affatto degli accadimenti casuali11.
Solo così è possibile l’ascolto della “musica dell’essere”.
Il pensiero dei tre filosofi, qui richiamato in estrema sintesi e con
le accentuazioni specifiche di ognuno di essi, ha influito su altri
ambiti dell’attività umana, in particolare in quella artistica e poetica. Dato lo spazio limitato, invio a uno studio che possa offrire un
quadro complessivo di tale vicende12.
questo quaderno
I contributi raccolti in questo quaderno segnalano anzitutto un’esperienza di “silenzio” perché frutto di un “ascolto” di sé e della
realtà circostante analizzata con attenzione e vagliata con un seria
riflessione: il quaderno stesso diventa per questo testimonianza
concreta del “fare silenzio” e del liberare le giuste parole.
Da un’espressione del commento al disegno di copertina, si può
individuare il taglio dato all’intero quaderno: «Nel silenzio della
notte riecheggia la purezza del Verbo, scevro da chiacchiere e dai
rumori assordanti che non vogliono che venga alla luce qualcosa
di vero». L’angelo del disegno è come il “gufo”, simbolo dei monaci, che perfora il buio e vigila sui dormienti.
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M. Heidegger, L’abbandono, pp. 39-40.
M. Baldini, Elogio del silenzio e della parola: i filosofi, i mistici, i poeti, Rubbettino 2005.
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Dopo un rapido sguardo alle modalità che il silenzio assume nei
comportamenti umani, l’attenzione si concentra sul silenzio riconosciuto come “anima” del vivere, come sua origine autentica, come dimensione indispensabile nel porsi dentro l’esistenza e possibilità per una reale trasformazione di sé e di ciò che ci attornia. Solo da un ascolto “silenzioso” nascono le parole portatrici di vitalità e di creatività. Questa è la sostanza delle svariate esperienze
umane e religiose di tutti gli orizzonti.
Ma cos’è silenzio di Dio e cos’è parola di Dio e come stanno in relazione silenzio e parola? I grandi mistici e gli eventi tragici della
nostra recente storia ci mettono in guardia dall’usare con troppo
facilità questi termini in rapporto al divino, consapevoli del carattere antropomorfico del nostro dire l’ineffabile e l’indicibile. L’assenza-silenzio di Dio stanno lì, a partire da Gesù e dentro tutte le
vicende umane, come invito a “ripensare” sempre e di nuovo il
suo “mistero”, quel «sussurro di una brezza leggera» (Elia), a riconoscerlo come intrinseco all’essere stesso divino, a non confonderlo banalmente con i silenzi umani, a coltivare con cura la discrezione su quando i credenti devono parlare e quando devono
imporsi limiti al dire.
La dialettica silenzio-parola investe direttamente le relazioni dell’insieme delle chiese della tradizione cattolica: dalle aperture conciliari e dal carisma giovanneo teso a una chiara e onesta rimeditazione delle condizioni di vita sociali e intraeccesiali era sorto un atteggiamento dialogico nei confronti del mondo e dei problemi esistenziali. Il papa che ha “dato la parola ai vescovi e a tutti i credenti” non avrebbe certo potuto immaginare che col tempo si sarebbe tornati a un rivolgimento verso la centralità dell’autorità ecclesiastica e del “pensiero unico” dell’insegnamento teologico romano. La parola concessa a tutti si è nuovamente concentrata su
pochi e la creatività sancita dalla interpretazione delle scritture si
è venuta lentamente spegnendo. Al posto della diversità delle voci si è instaurato un monologo che ha prodotto chiusure e silenzi
imposti, ma
la pluralità, le differenze delle voci è un dato di fatto inarrestabile [...]. La
creatività è nella ricerca continua delle radici che generano carità, verità e li-
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bertà [...]. Molte voci che parlano in gruppi, in seminari, nel con-venire, in lezioni, in scritti, non sono silenzio, non sono r u m o u r, non sono inerzia. Sono altre pratiche, altri registri comunicativi, già vivi e da crescere (Italo De Sandre).
Nella sezione “note” si sviluppa la riflessione su alcuni aspetti significativi: essi spaziano dal posto e dal ruolo che svolge il silenzio nell’attività teatrale e nella poesia, alla funzione che esso compie nell’educazione scolastica, all’importanza della creazione di luoghi in cui
si possa ascoltare il silenzio, fino alla riduzione al silenzio e ai silenzi imposti all’interno della vita familiare e nella storia personale di
Alda Merini e Primo Levi. Appena alcuni esempi tra i tanti possibili di forme ed esperienze del silenzio: squarci di esistenza che danno
forma concreta a quanto fissato negli articoli di fondo.
Due brevi e intense esperienze sono poste a chiusura del tentativo del
quaderno per una lettura del silenzio nel nostro presente: la testimonianza poetica di un attento osservatore partecipe delle vite umane e
quella di un monastero di clausura femminile presente in Italia.
A chiusura di questo articolo introduttivo è giusto rifarsi ad alcuni aforismi di un grande pensatore:
Il silenzio appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo [...]. L’uomo è
grazie alla parola, non grazie al silenzio. La parola prevale sul silenzio. Ma la
parola deperisce se perde la connessione con il silenzio. Perciò sia reso nuovamente manifesto il mondo del silenzio, oggi occultato, non per amore del
silenzio, ma per amore della parola [...]. La parola e il silenzio si implicano reciprocamente: la parola sa del silenzio come il silenzio sa della parola [...].
Dove il silenzio è presente, l’uomo è osservato dal silenzio; esso osserva l’uomo più di quanto l’uomo non lo osservi. L’uomo non mette alla prova del silenzio, ma è quest’ultimo a mettere alla prova l’uomo [...]. Il silenzio ha tutto in sé, non è in attesa di nulla, è sempre interamente presente e dove appare riempie sempre interamente lo spazio. Il silenzio non si sviluppa né aumenta nel tempo, è piuttosto il tempo a crescere nel silenzio [...]. il silenzio è
il suolo nel quale il tempo raggiunge la sua pienezza13.
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M. Picard, Il mondo del silenzio, cit., pp. 17-19.
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