20/8/2016 - studio ducoli

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Sabato, 20 agosto 2016
IL CASO DEL GIORNO
FISCO
Società “in house
providing” di difficile
collocazione ai fini IVA
Per l’errore sulla competenza ravvedimento
senza limiti temporali
/ Mirco GAZZERA
Negli ultimi decenni si è assistito a
una forte crescita della domanda di
prestazioni socio-sanitarie e assistenziali da parte di categorie bisognose sempre più ampie (anziani,
tossicodipendenti, soggetti diversamente abili, minori, migranti, detenuti, ecc.). I principali motivi sono:
l’allungamento della speranza di vita,
l’incremento della conflittualità familiare, la diffusione delle situazioni
di degrado sociale e i flussi migratori che stanno interessando il nostro
Paese, specie negli ultimi anni. La risposta a questa esigenza di tutela
può essere fornita attraverso forme
giuridiche differenti, coinvolgendo
anche enti privati.
La direttiva 2006/112/CE, riconoscendo l’importante ruolo sociale svolto
in questo settore dagli enti interessati, qualifica come esenti IVA “le prestazioni di servizi e le cessioni di beni strettamente connesse con l’assistenza e la previdenza sociale, comprese quelle fornite dalle case di riposo, effettuate da enti di diritto pubblico o da altri organismi [...]
Ma spetta sempre il rimborso delle imposte, attuabile con integrativa a favore o
apposita domanda
/ Alfio CISSELLO e Silvia LATORRACA
È pacifico che, se il contribuente
commette un errore nell’imputazione a periodo delle componenti reddituali, da un lato, l’errore dà luogo
ad un’infedeltà dichiarativa (sebbene le sanzioni siano state mitigate
dal DLgs. 158/2015, che ha modificato l’art. 1 del DLgs. 471/97), dall’altro,
spetta, in caso di accertamento o di
ravvedimento operoso, il rimborso
delle maggiori imposte che il contribuente ha pagato per non aver dedotto il costo o per aver tassato il ricavo nell’anno corretto/scorretto.
Si tratta di un principio che opera
non solo per il reddito d’impresa, ma
altresì nel reddito di lavoro autonomo, ove si applica il principio di cassa e non di competenza.
È assodato anche che, se l’errore è
stato accertato dall’Agenzia delle
Entrate, scaturisce il diritto al rimborso, e la domanda va presentata, a
pena di decadenza, entro due anni
da quando l’accertamento è diventato definitivo (circolare n. 23 del
2010). Poi, come chiarito nella suc-
cessiva circolare n. 31 del 2012, la vertenza può essere definita con adesione, mediante una sorta di “compensazione” tra posta creditoria e debitoria,
eventualità che dovrebbe ammettersi
anche per la mediazione e la conciliazione giudiziale.
Se la definitività dell’accertamento
scaturisce da giudicato delle Commissioni tributarie, il rimborso, secondo recenti sentenze, soggiace all’ordinario termine di prescrizione decennale (Cass. 8 giugno 2016 n. 11728;
Cass. 4 marzo 2016 n. 4342).
Nulla vieta che l’errore sulla competenza o sul principio di cassa sia oggetto di ravvedimento operoso, specie nel contesto attuale, ove il ravvedimento, a seguito della L. 190/2014,
opera senza limiti temporali.
Bisogna in tal caso effettuare alcune
precisazioni.
Ipotizziamo che un professionista deduca un costo nell’anno 2014 (UNICO
2015), che avrebbe dovuto essere dedotto nell’anno prima, quindi nel 2013
( [...]
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IN EVIDENZA
Limiti ai vantaggi compensativi per amministratori infedeli con
rischi
Litisconsorzio necessario “dribblato” dall’accertamento con
adesione
Nel licenziamento collettivo comunicazioni “sincronizzate”
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FISCO
Legittima la costituzione
di una spa per l’affitto dei
terreni al golf club
/ Francesco NAPOLITANO
Nella sentenza n. 3203/1/16 della C.T.
Reg. di Milano, tra i numerosi aspetti
esaminati e posti a base dei recuperi
del Fisco negli atti di accertamento
emanati, è stato affrontato [...]
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ancora
IL CASO DEL GIORNO
STUDIO DUCOLI
Società “in house providing” di difficile collocazione
ai fini IVA
Sulla loro inclusione nella nozione di organismo di diritto pubblico prassi e giurisprudenza restano
divise
/ Mirco GAZZERA
Negli ultimi decenni si è assistito a una forte crescita
della domanda di prestazioni socio-sanitarie e assistenziali da parte di categorie bisognose sempre più
ampie (anziani, tossicodipendenti, soggetti diversamente abili, minori, migranti, detenuti, ecc.). I principali motivi sono: l’allungamento della speranza di vita,
l’incremento della conflittualità familiare, la diffusione delle situazioni di degrado sociale e i flussi migratori che stanno interessando il nostro Paese, specie
negli ultimi anni. La risposta a questa esigenza di tutela può essere fornita attraverso forme giuridiche differenti, coinvolgendo anche enti privati.
La direttiva 2006/112/CE, riconoscendo l’importante
ruolo sociale svolto in questo settore dagli enti interessati, qualifica come esenti IVA “le prestazioni di servizi e le cessioni di beni strettamente connesse con l’assistenza e la previdenza sociale, comprese quelle fornite dalle case di riposo, effettuate da enti di diritto
pubblico o da altri organismi riconosciuti dallo Stato
membro interessato come aventi carattere sociale”
(art. 132, par. 1, lett. g). Nella normativa nazionale la citata fattispecie di esenzione, recepita dall’art. 10 comma 1 n. 27-ter) del DPR 633/72, riguarda le “prestazioni
socio-sanitarie, di assistenza domiciliare o ambulatoriale in comunità e simili”. L’applicazione dell’esenzione richiede che i soggetti fruitori appartengano alle categorie indicate (es. anziani, inabili adulti, tossicodipendenti, persone migranti, ecc.) e che l’ente erogatore abbia natura di organismo di diritto pubblico, istituzione sanitaria riconosciuta che eroga assistenza pubblica o di ente con finalità di assistenza sociale e di
ONLUS.
La nozione di “organismo di diritto pubblico“, in particolare, è oggetto d’interpretazione non univoca con riguardo all’inclusione delle c.d. società “in house providing”. Tale espressione, rilevante per escludere l’applicabilità della disciplina dell’evidenza pubblica in materia di appalti pubblici, individua una persona giuridica:
sulla quale l’amministrazione esercita un controllo
analogo a quello sui propri servizi, che svolge oltre l’ottanta per cento dell’attività verso l’amministrazione
aggiudicatrice o sue controllate e non è partecipata direttamente da privati, salvo deroghe (art. 5 del DLgs. 18
aprile 2016 n. 50). Il rispetto di questi requisiti qualifica
la società “in house” come una “derivazione” dell’amministrazione pubblica nell’ambito di un rapporto di
“delegazione interorganica” (Consiglio di Stato, Adu-
Eutekne.Info / Sabato, 20 agosto 2016
nanza plenaria, decisione del 3 marzo 2008 n. 1).
L’Amministrazione finanziaria ha escluso, sinora, che
una società di capitali “in house” possa costituire un
“organismo di diritto pubblico” ai fini dell’esenzione ex
art. 10 comma 1 n. 27-ter) del DPR 633/72. Questa interpretazione appare consolidata nell’ambito della prassi
(si veda, da ultimo, ris. 8 marzo 2007 n. 37 e interrogazione parlamentare 17 novembre 2010 n. 5-03815), in
base al principio che “la definizione di organismo di diritto pubblico dettata dal codice in materia di appalti
pubblici non può ritenersi, in mancanza di qualsiasi
indicazione normativa al riguardo, immediatamente
applicabile ai fini fiscali per la delimitazione dell’ambito applicativo delle norme tributarie riferite ad enti ed
organismi pubblici” (ris. Agenzia delle Entrate 9 novembre 2006 n. 129).
Tesi erariale restrittiva
La tesi restrittiva erariale, tuttavia, non sembra trovare pieno supporto nella giurisprudenza. La Corte di
Giustizia Ue, pur riconoscendo un potere discrezionale degli Stati membri nell’attribuzione della natura di
“organismo riconosciuto avente carattere sociale”, ha
sancito alcuni limiti. In base a quest’ultimi, rilevanti
anche per interpretare la nozione italiana di “organismo di diritto pubblico”, si possano considerare “organismi” anche gli enti privati che perseguono uno scopo lucrativo, come le società (sentenza 12 marzo 2015
relativa alla causa C-594/13).
L’esenzione IVA, inoltre, non è preclusa dal mancato
ottenimento di “sovvenzioni o di qualsiasi altra forma
di vantaggio o di partecipazione finanziaria da parte
delle autorità pubbliche” ovvero dall’offerta di servizi a
pagamento strettamente connessi alle prestazioni
esenti con carattere sociale (sentenza 21 gennaio 2016
relativa alla causa C-335/14).
Nella giurisprudenza nazionale si segnala quanto sancito dalla C.T. Reg. della Lombardia, sez. Brescia (sent.
22 febbraio 2016 n. 1017 e 6 maggio 2014 n. 2341) che ha
riconosciuto l’esenzione IVA alle prestazioni socio-sanitarie e assistenziali offerte da società “in house”. Secondo i giudici bresciani, contrariamente a quanto indicato nella prassi, la definizione di “organismo di diritto pubblico” in materia di appalti pubblici può trovare applicazione anche in ambito tributario.
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FISCO
STUDIO DUCOLI
Per l’errore sulla competenza ravvedimento senza
limiti temporali
Ma spetta sempre il rimborso delle imposte, attuabile con integrativa a favore o apposita domanda
/ Alfio CISSELLO e Silvia LATORRACA
È pacifico che, se il contribuente commette un errore
nell’imputazione a periodo delle componenti reddituali, da un lato, l’errore dà luogo ad un’infedeltà dichiarativa (sebbene le sanzioni siano state mitigate dal DLgs.
158/2015, che ha modificato l’art. 1 del DLgs. 471/97),
dall’altro, spetta, in caso di accertamento o di ravvedimento operoso, il rimborso delle maggiori imposte che
il contribuente ha pagato per non aver dedotto il costo
o per aver tassato il ricavo nell’anno corretto/scorretto.
Si tratta di un principio che opera non solo per il reddito d’impresa, ma altresì nel reddito di lavoro autonomo,
ove si applica il principio di cassa e non di competenza.
È assodato anche che, se l’errore è stato accertato
dall’Agenzia delle Entrate, scaturisce il diritto al rimborso, e la domanda va presentata, a pena di decadenza, entro due anni da quando l’accertamento è diventato definitivo (circolare n. 23 del 2010). Poi, come chiarito nella successiva circolare n. 31 del 2012, la vertenza
può essere definita con adesione, mediante una sorta
di “compensazione” tra posta creditoria e debitoria,
eventualità che dovrebbe ammettersi anche per la mediazione e la conciliazione giudiziale.
Se la definitività dell’accertamento scaturisce da giudicato delle Commissioni tributarie, il rimborso, secondo recenti sentenze, soggiace all’ordinario termine di
prescrizione decennale (Cass. 8 giugno 2016 n. 11728;
Cass. 4 marzo 2016 n. 4342).
Nulla vieta che l’errore sulla competenza o sul principio di cassa sia oggetto di ravvedimento operoso, specie nel contesto attuale, ove il ravvedimento, a seguito
della L. 190/2014, opera senza limiti temporali.
Bisogna in tal caso effettuare alcune precisazioni.
Ipotizziamo che un professionista deduca un costo
nell’anno 2014 (UNICO 2015), che avrebbe dovuto essere dedotto nell’anno prima, quindi nel 2013 (UNICO
2014).
Sul versante del ravvedimento, bisogna regolarizzare
l’anno 2014 (UNICO 2015), e la violazione da dichiara-
Eutekne.Info / Sabato, 20 agosto 2016
zione infedele è pari al 60% (90% ridotto di un terzo, ex
art. 1 comma 4 del DLgs. 471/97), ridotta a 1/8 se il tutto
avviene entro il 30 settembre 2016 (art. 13 comma 1 lettera b) del DLgs. 472/97).
Ove, sulla base delle circostanze di fatto, l’errore non
avesse causato alcun danno erariale, non avendo avuto effetto sulle aliquote IRPEF marginali, occorrerebbe
versare, a titolo di sanzione, solo 31,25 euro (250/8).
Naturalmente, bisogna pagare anche le imposte, gli interessi legali e presentare una dichiarazione integrativa.
In relazione all’anno 2013 (UNICO 2014), l’unica via per
evitare la duplicazione d’imposta è la domanda di rimborso, non essendo più possibile presentare l’integrativa a favore compensando il credito che ne deriva (si
veda il limite temporale della dichiarazione relativa
all’anno successivo, di cui all’art. 2 comma 8-bis del
DPR 322/98).
Cautela nel computo del termine per il rimborso
Emergono problemi interpretativi inerenti al termine
per il rimborso; in effetti, non è chiaro se debba applicarsi il termine dell’art. 38 del DPR 602/73 (48 mesi dal
pagamento indebito) o quello dell’art. 21 del DLgs.
546/92 (due anni da quando è stato effettuato il ravvedimento, momento da cui, secondo una certa tesi, sorgerebbe il diritto alla restituzione delle imposte
sull’anno 2013).
Per cautela, a prescindere da quale sia la soluzione
corretta, è bene riferirsi al termine biennale, siccome,
cronologicamente, ha cadenza anteriore.
Si evidenzia che, se l’errore riguardasse il reddito d’impresa, qualora il tutto origini da un errore contabile il
contribuente potrebbe utilizzare la procedura indicata
nella circ. Agenzia delle Entrate 24 settembre 2013 n.
31, che presuppone, però, la correzione dell’errore contabile e la sua “sterilizzazione” ai fini fiscali.
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ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
Legittima la costituzione di una spa per l’affitto dei
terreni al golf club
Non rileva la circostanza che gli associati dell’ASD siano anche i soci della spa
/ Francesco NAPOLITANO
Nella sentenza n. 3203/1/16 della C.T. Reg. di Milano,
tra i numerosi aspetti esaminati e posti a base dei recuperi del Fisco negli atti di accertamento emanati, è
stato affrontato il particolare tema relativo alla compresenza di una associazione sportiva dilettantistica
(ASD) ed una spa, ove gli associati della prima erano
obbligatoriamente anche soci della seconda, che era
proprietaria dell’unico immobile (terreno con fabbricato entrostante) locato alla ASD per l’esercizio della propria attività sportiva (golf).
Tale situazione, non raramente riscontrabile, era stata
ritenuta dai funzionari del Fisco come indice di grave
violazione alla regola di indiretta distribuzione di utili
per effetto del pagamento di un canone di locazione
passiva da parte della ASD che – di fatto – diventava
reddito per i soci della spa (e quindi di tutti gli associati) e per tale motivo (unitamente ad altri) erano state
disconosciute le agevolazioni previste per l’ente sportivo.
L’Ufficio aveva appellato la sentenza di primo grado
per difetto di motivazione ed erroneità della stessa,
laddove la C.T. Prov. aveva “considerato pienamente
legittima la creazione di una società per azioni i cui
soci e membri del consiglio di amministrazione sono i
soci effettivi (…) che diventavano soci della predetta
Spa proprio in virtù della loro affiliazione all’ente”.
Inoltre, sempre secondo l’Ufficio, la C.T. Prov. aveva
ancora errato non considerando che, in tal modo “la
proprietà dell’immobile essenziale per lo svolgimento
dell’attività (…) non appartiene a questo ente, ma solo
agli associati (…) mentre la normativa di favore (…) è
stata di fatto svilita dalla creazione di un sistema che
artatamente fa sostenere i costi all’ente, ma al contempo ne sottrae al suo patrimonio il suo bene più rilevante, destinandolo ad una Spa”.
In forma sintetica, la C.T. Reg., nel respingere in toto
l’appello dell’Ufficio, con una serie di passaggi mirati,
sul punto in rassegna ha evidenziato che la spa era
stata creata per uno scopo del tutto lecito e che la coincidenza dei soci con gli associati della ASD non costituiva un elemento tale da incidere sulla liceità
dell’operazione. Inoltre, l’identità degli associati e dei
soci della Spa “appare perseguire di fatto anche lo scopo di conservare all’associazione la facoltà di utilizzarli per l’attività sportiva senza dipendere da decisioni
prese da soggetti che potrebbero essere indotti ad aumentare il canone di locazione”. In buona sostanza, secondo la C.T. Reg. tale situazione costituiva – anzi –
una forma di tutela e di garanzia per l’ASD.
La regola in questione, tra le altre, è prevista dal com-
Eutekne.Info / Sabato, 20 agosto 2016
ma 8 dell’art. 148 del TUIR, per effetto del quale l’ente
sportivo deve riportare nel proprio statuto tutta una serie di clausole se vuole godere delle agevolazioni fiscali previste dalle norme di settore, e tra queste vi è quella che prevede il divieto di distribuzione – anche indiretta – degli utili o avanzi di gestione dell’ente. Ma oltre alla formale previsione, è necessaria la reale attuazione di tali previsioni, cristallizzata ormai in un netto
solco giurisprudenziale di legittimità (ad es. in Cass.
nn. 4872/2015 e 8623/2012).
Ma a parte quanto sopra, nel caso trattato emerge l’assenza di riscontro in rapporto ad un’altra norma, quella di cui all’art. 10, comma 6 del DLgs. 460/97, a mente
del quale “si considerano in ogni caso distribuzione indiretta di utili (…): b) l’acquisto di beni o servizi per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano
superiori al loro valore normale”.
La norma citata è definita anche “norma antielusiva di
carattere generale”, ed opera “in ogni caso”, ossia ad
ogni acclaramento della fattispecie ivi prevista.
Nel caso di specie, pare mancare del tutto un’analisi
economica del canone di locazione passiva pagato
dall’ASD alla Spa, avendo puntato tutto sull’aspetto formale “associati ASD = soci Spa”, e sul punto, correttamente, la CTR ha risposto con un rigetto, rimanendo
ancorata al petitum.
Sarebbe invece rilevante un canone superiore ai valori
di mercato
In altri termini, a parte il riscontro della norma di carattere specifico (art. 148, comma 8 del TUIR), l’esame
della congruità del costo della locazione poteva tendere all’emersione della fattispecie prevista dalla norma
da ultimo citata, laddove, “in ogni caso”, l’appuramento
del pagamento di un canone (sensibilmente) superiore ai valori di mercato avrebbe costituito una sicura
violazione al principio in rassegna, con perdita ipso iure delle agevolazioni fiscali previste dalle norme in
materia.
Di conseguenza, non è vietata la compresenza di una
società di capitali proprietaria di un immobile che viene locato ad un ente sportivo per la propria attività e la
perfetta identità dei soci della prima ed associati della
seconda: l’importante è che i rapporti siano del tutto
trasparenti e senza eccedere i valori normali delle operazioni poste in essere, tenuto conto del fatto che, comunque, i redditi dei soci della spa sono soggetti a tassazione, essendo redditi di capitale.
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ancora
IMPRESA
STUDIO DUCOLI
Limiti ai vantaggi compensativi per amministratori
infedeli con rischi
Di recente la Cassazione si è espressa con severità, ma possono essere paradossali le conseguenze
se non si rinvengono tali vantaggi
/ Ciro SANTORIELLO
La disciplina in tema di conflitto di interessi e appropriazione indebita commessa dall’amministratore di
una società presenta sempre più aspetti paradossali,
specie quando la condotta di questi consista nell’utilizzare risorse di una società a vantaggio di altri enti imprenditoriali a vario titolo collegati o partecipati dalla
prima.
Non è infrequente, infatti, che nell’ambito della gestione di più società facenti parte di un unico gruppo di
imprese o comunque a vario titolo collegate fra loro, i
vari amministratori – per far fronte a situazioni di difficoltà di alcune di queste società o per ragioni inerenti al gruppo complessivamente inteso – utilizzino parte del patrimonio di una delle diverse aziende nell’interesse delle altre imprese collegate.
A tale risultato si può pervenire in diversi modi: a prescindere dall’ipotesi in cui si assiste a vere e proprie
distrazioni di beni e denaro di una società a vantaggio
delle altre, nelle vicende più complesse è frequente, ad
esempio, la cessione di beni a prezzi di favore più bassi di quello di mercato o l’acquisto a prezzi maggiorati
(a seconda che si intenda favorire la società acquirente o la cessionaria), la dazione di prestiti a tassi di interessi particolarmente favorevoli ecc.
Condotte del genere sono state da sempre viste con
scarsissimo favore in sede penale. In caso di fallimento della società, i comportamenti intesi a beneficiare le
altre imprese del medesimo gruppo erano senz’altro
qualificate come ipotesi di bancarotta fraudolenta – e
ciò anche se il fallimento non dipendeva affatto da tali
vicende –, mentre, in assenza della dichiarazione di
insolvenza, da più parti si affermava che le vicende sopra descritte andavano qualificate come ipotesi di appropriazione indebita.
Queste conclusioni sono state revocate in dubbio dopo
l’innovazione rappresentata dal comma 3° dell’art.
2634 c.c., a norma del quale “non è ingiusto il profitto
della società collegata o del gruppo, se compensato da
vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”.
Tale norma – dettata con riferimento al reato di infedeltà patrimoniale e a fatica estesa dalla giurisprudenza anche ai fatti di bancarotta (in senso negativo, Cass.
n. 23241/2003; in senso favorevole, invece, Cass. n.
49787/2013) – evidentemente consente all’imprenditore, accusato di aver illegittimamente depauperato
l’azienda da lui diretta a vantaggio di altre imprese alla prima collegate o facenti parte del medesimo gruppo, di andare esente da pena dimostrando che la sua
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condotta non ha danneggiato la società da lui diretta,
ma anzi ha finito per avvantaggiarla in ragione del fatto che, in conseguenza della stessa, ha ricevuto un beneficio il gruppo al quale la persona giuridica apparentemente depauperata appartiene; e che, quindi, proprio
in ragione di tale appartenenza, gode dei vantaggi di
cui per l’appunto usufruiscono le varie imprese collegate.
Va detto che la giurisprudenza è assai parca nell’applicare tale disposizione. A prescindere dalle riferite perplessità circa la possibilità di applicare il comma 3° del
citato art. 2634 c.c. anche ai fatti di bancarotta, va evidenziato come la Cassazione ritenga che quando l’atto
non risponda all’interesse diretto della società il cui
amministratore lo ha compiuto e ne è scaturito
nell’immediato un danno al patrimonio sociale, il medesimo amministratore deve dimostrare innanzitutto
l’esistenza di un gruppo alla luce del quale anche
quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi.
In secondo luogo, il titolare del potere di gestione deve
allegare e provare che gli ipotizzati benefici indiretti
della società fallita risultino non solo effettivamente
connessi a un vantaggio complessivo del gruppo, ma
altresì idonei a compensare efficacemente gli effetti
immediatamente negativi dell’operazione compiuta, in
guisa tale da non renderla capace di incidere (perlomeno nella ragionevole previsione dell’agente) sulle
ragioni dei creditori della società.
Ciò in quanto l’interesse che può escludere l’effettività
della distrazione non può ridursi al fatto stesso della
partecipazione al gruppo, né può identificarsi nel vantaggio della società controllante, perché il collegamento tra le società e l’appartenenza a un gruppo imprenditoriale unitario è solo la premessa dalla quale muovere per individuare uno specifico e concreto vantaggio per la società che compie l’atto di disposizione del
proprio patrimonio, perdurando l’autonomia soggettiva delle singole società facenti parte del gruppo (cfr.
Cass. n. 32131/2016).
In particolare, quanto alla prima condizione, occorre
che l’imputato dimostri che le società protagoniste a
vario titolo della vicenda siano società facenti parte di
un “gruppo” (inteso empiricamente per le modalità di
gestione accentrata di un’impresa economicamente
unitaria, ma articolata in più soggetti giuridicamente
autonomi), ovvero siano collegate, ai sensi delle norme del medesimo codice civile e delle disposizioni ricavabili da altre norme di legge, senza che possano ri-
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ancora
STUDIO DUCOLI
levare eventuali rapporti familiari correnti fra i gestori
delle società o forme di collegamento di mero fatto
(cfr. Cass. n. 32131/2016).
Su questa severità e rigore nella ricostruzione dei presupposti per l’operatività della clausola di favore dei
cosiddetti “vantaggi compensativi” di cui all’art. 2634,
comma 3 c.c., si può concordare, ma tuttavia sono paradossali, come si accennava all’inizio, le conseguenze che vengono tratte qualora tali vantaggi non si rinvengano. Se infatti non vi è nessun dubbio circa il fatto che la condotta descritta, in caso di fallimento della
società danneggiata, integri un’ipotesi di bancarotta
fraudolenta per distrazione, è assai dubbio quale disciplina applicare quando la società “depredata” non fallisca.
In proposito, la giurisprudenza sostiene, correttamente, che in tali ipotesi non può ritenersi sussistente il
delitto di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 c.c.,
che presuppone una situazione di conflitto di interessi,
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non ricorrente nel caso in esame (Cass. n. 29172/2016).
Alcune decisioni, perciò, fanno ricorso al reato di appropriazione indebita (Cass. nn. 29172/2016 e
40578/2014), ma anche tale conclusione lascia perplessi su quante volte l’amministratore abbia comunque
agito non nel proprio esclusivo interesse, ma per il perseguimento di un interesse sociale, sia pur malamente inteso e comunque di non immediata realizzazione
(Cass. n. 30942/2015): si pensi alla creazione di fondi
neri, solo formalmente non riconducibili alla società, e
poi utilizzati per il perseguimento, sia pure con mezzi
illeciti – ad esempio mediante corruzione – di fini non
estranei agli interessi sociali (Cass. nn. 10041/1998 e
1245/1998) o per sottrarli all’imposizione fiscale (Cass.
n. 20062/2011).
In conclusione, un’adeguata disciplina penalistica delle infedeltà degli amministratori di società è ben lungi
dal potersi rinvenire.
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ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
Litisconsorzio necessario “dribblato”
dall’accertamento con adesione
Sarebbe opportuno prevedere una dimensione litisconsortile anche nell’accertamento con adesione
/ Giovambattista PALUMBO
La Cassazione, con la sentenza n. 14490/2016, ha
espresso considerazioni su una tematica che merita
una qualche riflessione, relativa ai nessi tra istituti deflativi del contenzioso e litisconsorzio necessario.
Nel caso di specie era stato emesso un accertamento
nei confronti di un contribuente sulla base della definizione concordata, ex art. 3 del DL 30 settembre 1994
n. 564, della rettifica dei redditi di alcune società di
persone dallo stesso partecipate. Sia la C.T. Prov. che la
C.T. Reg. avevano ritenuto la pretesa illegittima.
Avverso tale sentenza della C.T. Reg. proponeva quindi ricorso l’Agenzia, sostenendo che fosse errata l’interpretazione secondo cui l’intervenuta definizione dei
redditi sociali mediante accertamento con adesione
non potesse costituire titolo per l’accertamento nei
confronti del contribuente. Il ricorso, secondo i giudici
di legittimità, era fondato.
Evidenzia infatti la Corte che l’intervenuta definizione
del reddito da parte della società di persone costituisce titolo per l’accertamento nei confronti delle persone fisiche, che non hanno a loro volta definito i redditi
prodotti in forma associata, ancorché in relazione a
periodi d’imposta anteriori all’entrata in vigore del DL
n. 79 del 1997. Tale conclusione discende dal principio
di trasparenza, ex art. 5 del TUIR, in forza del quale il
reddito delle società di persone, enti che possiedono
un’autonoma soggettività passiva tributaria solo ai fini ILOR, prima, e IRAP, successivamente, è imputato
automaticamente e direttamente, in misura proporzionale alla rispettiva quota di partecipazione agli utili, ai
soci, indipendentemente dalla effettiva percezione.
Il che, aggiunge la Corte, equivale ad ammettere la sussistenza di una presunzione legale (relativa) di avvenuta percezione di tali utili. E pertanto, ove il socio non
abbia dichiarato, per la parte di sua spettanza, il reddito societario nella misura risultante dalla rettifica operata a carico della società, detto socio è tenuto al pagamento della conseguente maggiore IRPEF dovuta. In
ogni caso l’intervenuta definizione dell’accertamento
con adesione da parte di una società di persone costituisce titolo per l’accertamento nei confronti dei soci
per il conseguente reddito da partecipazione.
Una volta divenuto incontestabile il reddito della società di persone a seguito della definizione, nel giudizio di impugnazione promosso dal socio avverso l’avviso di rettifica del reddito da partecipazione non è del
resto nemmeno configurabile, secondo la Corte, un litisconsorzio necessario con la società e gli altri soci, dato che l’esigenza di unitarietà dell’accertamento viene
Eutekne.Info / Sabato, 20 agosto 2016
meno con l’intervenuta definizione, costituente appunto titolo per l’accertamento nei confronti delle persone fisiche, ai sensi dell’art. 41-bis del DPR 600/73.
Sicché, non controvertendosi della qualità di socio, ovvero della quota partecipativa spettante, ma degli effetti della definizione agevolata da parte della società
sui soci, ognuno di questi può opporre soltanto ragioni
di impugnativa di carattere personale.
L’aspetto su cui, in conclusione, è interessante fare
qualche osservazione attiene alla possibilità di contestazione, da parte del socio, del merito della pretesa già
definita dalla società (nel caso in cui appunto non si
sia svolto sulla medesima pretesa un giudizio in litisconsorzio necessario, previsto per far sì che non ci
sia la possibilità di giudicati contrastanti e ammettendo, quindi, in quella sede, la possibilità di autonoma
contestazione da parte del socio della pretesa originaria).
Ma la sentenza della Cassazione presenta aspetti
dubbi
La stessa Cassazione, con la sentenza n. 27145/2011, ha
del resto affermato che l’intervenuta definizione da
parte delle società di cui all’art. 5 del TUIR costituisce
titolo per l’accertamento nei confronti delle persone fisiche che non hanno definito i redditi prodotti in forma associata e che tuttavia “resta evidentemente salva la possibilità del socio di contestare la pretesa tributaria spiegata contro di lui convenendo in giudizio anche la società e gli altri soci, attesa la unitarietà del
presupposto impositivo (Cass. 14815/2008)”.
Vero è che l’art. 4, comma 2 del DLgs. 218/97 stabilisce
oggi, espressamente, che nei confronti dei soggetti che
non aderiscono alla definizione o che, benché ritualmente convocati, non hanno partecipato al contraddittorio, gli uffici competenti procedono all’accertamento
sulla base della stessa. Ma un conto dovrebbe essere la
(più che ragionevole) possibilità per l’Amministrazione di fare valere un titolo in sede accertativa e un altro consentire comunque al socio una difesa in giudizio, laddove appunto, al di là della convocazione, non
abbia poi materialmente partecipato al contraddittorio
amministrativo.
Insomma, ci dovrebbe essere, almeno al fine di poter
invocare un’incontestabilità dell’accertamento (con, in
sostanza, una presunzione legale assoluta), una sorta
di litisconsorzio necessario amministrativo corrispondente al litisconsorzio necessario processuale.
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LAVORO & PREVIDENZA
STUDIO DUCOLI
Nel licenziamento collettivo comunicazioni
“sincronizzate”
Il superamento dei termini previsti per legge comporta l’illegittimità del provvedimento di recesso
ante L. 92/2012
/ Luca MAMONE
Con riferimento alla procedura per la dichiarazione di
mobilità ex art. 4 della L. 223/91, si ricorda come la legge Fornero (L. 92/2012) abbia parzialmente modificato i
termini per inviare le comunicazioni a sindacati e uffici pubblici competenti, rimuovendo l’obbligo di comunicarle “contestualmente” alla comunicazione scritta
di licenziamento al lavoratore.
Pertanto, a decorrere dal 18 luglio 2012 (data di entrata
in vigore della legge Fornero), il datore di lavoro che ha
attivato la procedura di mobilità deve inviare alle Organizzazioni sindacali e agli uffici pubblici entro 7
giorni dall’avvenuta comunicazione al lavoratore del
licenziamento, l’elenco dei lavoratori licenziati con
l’indicazione, per ciascuno di essi, del nominativo, del
luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento dell’età, del carico di famiglia. Con l’occasione, l’azienda deve altresì indicare con puntualità le
modalità con le quali sono stati applicati i criteri di
scelta dei lavoratori da licenziare.
Ciò premesso, il requisito della “contestualità” rimane
pertanto valido ai fini di accertare la legittimità dei licenziamenti operati ante L. 92/2012, come nel caso
della recente sentenza n. 15679/2016, con cui la Corte
di Cassazione è intervenuta con riferimento ad una
procedura di mobilità attivata nel 2009.
Nel caso di specie, la comunicazione alle rappresentanze sindacali e agli uffici del lavoro era stata effettuata dal datore di lavoro proprio 7 giorni dopo aver comunicato al dipendente il licenziamento.
Nel ricorso, il lavoratore evidenzia la discrasia temporale tra le due comunicazioni previste dal comma 9
dell’art. 4 della L. 223/91, sostenendo la conseguente illegittimità del provvedimento di recesso.
I giudici di Cassazione chiariscono in primis che la
contestualità richiesta a pena d’inefficacia del licenziamento, deve essere valutata nel senso di una indispensabile contemporaneità delle due comunicazioni,
la cui mancanza può non determinare l’inefficacia del
recesso solo se sostenuta da giustificati motivi di natura oggettiva, della cui prova è comunque onerato il
datore di lavoro.
La ratio di tale disposizione risiede nel fatto che il licenziamento in argomento veniva comunicato per
iscritto senza necessità di ulteriore motivazione, e solo attraverso le comunicazioni ai sindacati il lavoratore poteva apprendere, seppur in via indiretta, le ragioni della messa in mobilità. Pertanto, tali comunicazioni rispondono sostanzialmente alla funzione di rende-
re visibile – e, quindi, controllabile dalle organizzazioni sindacali e, tramite queste, anche dai singoli lavoratori – la correttezza del datore di lavoro in relazione alle modalità di applicazione dei criteri di scelta. La concreta possibilità di tale controllo è l’indispensabile presupposto affinché il lavoratore possa motivatamente
sollecitare il datore di lavoro a revocare il licenziamento, magari evidenziando la violazione dei criteri dì
scelta, e poi, se del caso, impugnare in sede giudiziaria
il recesso.
In estrema sintesi, si ribadisce la necessità che nel licenziamento collettivo la comunicazione alle OOSS e
agli uffici pubblici, su lavoratori licenziati e criteri sia
contestuale o al massimo preventiva rispetto alla comunicazione della risoluzione al lavoratore, ma mai
successiva.
Invece, riferendosi al caso in esame, la Cassazione ritiene che i 7 giorni di ritardo – rispetto al licenziamento – nell’invio della comunicazione alle organizzazioni sindacali e agli uffici del lavoro siano tali da compromettere il requisito della contestualità prescritto
dall’art. 4 comma 9 della L. 223/91 (nella versione ante
riforma Fornero), rendendo illegittimo il licenziamento.
A tal proposito, giova ricordare come la disciplina sanzionatoria da applicare in questi casi sia cambiata in
seguito alle novità apportate dal DLgs. 23/2015, valide
per tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato dal
7 marzo 2015 (con il c.d. contratto di lavoro a tutele crescenti). In pratica, per questi lavoratori, la tipica tutela
“reale” ex art. 18 della L. 300/70, caratterizzata dalla
reintegrazione sul posto di lavoro (o dalla corresponsione di un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
TFR), nonché gli effetti risarcitori pieni, rimangono solo laddove il licenziamento collettivo sia stato comunicato oralmente.
Invece, qualora vi sia violazione dei criteri di scelta dei
lavoratori da licenziare, si passa dalla tutela reale ad
una tutela esclusivamente indennitaria, che si sostanzia nel pagamento di un’indennità pari a 2 mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
TFR per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 e un
massimo di 24 mensilità.
Infine, qualora l’illegittimità derivi dalla violazione della procedura di carattere consultivo, sopravvive la tutela esclusivamente indennitaria, seppur calcolata con
la nuova modalità previste dal DLgs. 23/2015.
Direttore Editoriale: Michela DAMASCO
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