La Vita Segreta degli Alberi

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“Non finirò mai di imparare dagli alberi,
ma già quello che ho scoperto finora
sotto la volta delle loro chiome
è qualcosa che prima non avrei mai immaginato”.
Peter Wohlleben
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La Vita segreta degli Alberi
disponibile da settembre 2016 su
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Peter Wohlleben
La Vita Segreta degli Alberi
Gli alberi come non li avete mai visti
Nel bosco accadono le cose più stupefacenti: gli alberi
comunicano fra loro. Non solo circondano la prole di
amorevoli cure, ma si preoccupano anche dei vecchi vicini malati, provano sensazioni ed emozioni, sono dotati di
memoria. Incredibile, ma vero!
Il guardaboschi Peter Wohlleben fa luce nella foresta
intricata e ci permette di gettare uno sguardo su un universo sorprendente e misterioso: nelle sue affascinanti
storie sulle insospettate capacità degli alberi, l’autore dà
spazio alle più recenti scoperte scientifiche oltre che alle
sue esperienze dirette.
Una dichiarazione d’amore indirizzata al bosco.
Peter Wohlleben, oggi cinquantenne, voleva diventare
ambientalista fin da bambino. Ha studiato scienze forestali e ha prestato servizio per più di vent’anni presso il
Corpo Forestale.
Dopo essersi licenziato per mettere in pratica le sue convinzioni ecologiche, oggi dirige un’azienda forestale ambientalista in cui pratica il ritorno alla foresta vergine.
È ospite di diverse trasmissioni televisive, tiene conferenze e seminari ed è autore di libri sui temi del bosco e
della protezione ambientale.
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Dalla Prefazione
Quando ho cominciato la mia carriera professionale di
guardia forestale, le mie conoscenze sulla vita segreta degli alberi erano grossomodo pari a quelle di un macellaio sulle emozioni degli animali. [...] Leggendo le riviste
specializzate, ci si fa rapidamente l’idea che il bene del
bosco sia di interesse solo nella misura in cui è necessario
per una gestione economica ottimale.
Una ventina d’anni fa ho cominciato a organizzare training
di sopravvivenza e giri dei rifugi per turisti. A queste attività si sono poi aggiunti un “cimitero del bosco” e alcune
riserve naturali intatte. Nelle conversazioni con i numerosi
visitatori la mia immagine del bosco è cambiata. Alberi curvi e nodosi, che all’epoca catalogavo ancora come scadenti,
suscitavano entusiasmo negli escursionisti. Insieme a loro,
ho imparato a non prendere in considerazione solo i tronchi e la loro qualità, ma a prestare attenzione anche a radici
bizzarre, a particolari forme di crescita o a soffici cuscini di
muschio sulla corteccia. L’amore per la natura che aveva iniziato a pervadermi già quando avevo sei anni si era riacceso.
All’improvviso avevo scoperto innumerevoli prodigi che
riuscivo a malapena a spiegarmi. Inoltre, l’Università di
Aquisgrana aveva cominciato a effettuare regolari lavori di
ricerca nel mio distretto forestale. Molte domande avevano
trovato una risposta, e infinite altre ne sorgevano.
La mia vita di guardaboschi era tornata a essere appassionante, ogni giorno nel bosco era un viaggio di esplo-
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razione. Questo richiedeva attenzioni e riguardi insoliti
nella gestione forestale.
Chi sa che gli alberi provano dolore e hanno una memoria, e che i genitori alberi vivono insieme ai loro figli,
non riesce più ad abbatterli tanto facilmente e a imperversare fra l’uno e l’altro con pesanti mezzi meccanici.
Già da due decenni questi ultimi sono stati banditi dal
mio distretto e quando capita di dover tagliare singoli
tronchi, il lavoro viene svolto delicatamente dai boscaioli
con i loro cavalli.
Un bosco sano, magari addirittura felice, è nettamente
più produttivo, e ne conseguono maggiori introiti. Questa argomentazione ha convinto anche il mio datore di lavoro, il comune di Hümmel, e così nel minuscolo paesino
dell’Eifel anche in futuro non si prenderà in considerazione nessun altro sistema di coltivazione. Gli alberi tirano un
sospiro di sollievo e rivelano ancora più segreti, soprattutto
i gruppi che vivono nelle aree protette create di recente,
dove sono del tutto indisturbati. Non finirò mai di imparare da loro, ma già quello che ho scoperto finora sotto
la volta delle loro chiome è qualcosa che prima non avrei
mai immaginato.
Vi invito a condividere con me la felicità che possono
darci gli alberi. E chissà, forse durante la vostra prossima passeggiata nel bosco anche voi scoprirete piccole e
grandi meraviglie.
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Amicizie
Anni fa, in una delle vecchie riserve naturali di faggi nel
mio distretto, mi ero imbattuto in alcune strane pietre
ricoperte di muschio. Ripensandoci ora, mi è chiaro che
dovevo esserci passato accanto molte volte senza notarle
prima di quel momento, ma un giorno mi ero fermato
e chinato a osservarle. La forma era singolare, le pietre
erano leggermente curve con alcune cavità, e sollevando
un po’ il muschio avevo scoperto che sotto c’era della corteccia. Non si trattava quindi di una pietra, ma di legno
vecchio. E dato che quello di faggio marcisce nel giro di
pochi anni sul suolo umido, ero rimasto sorpreso dalla
durezza di quel blocco. Ma soprattutto non era possibile
sollevarlo, a quanto pareva era saldamente fissato a terra.
Servendomi del coltellino avevo raschiato con cautela un
po’ di corteccia, fino a quando avevo urtato contro uno
strato verde. Verde? L’unica sostanza di questo colore è
la clorofilla presente nelle foglie fresche e immagazzinata
come riserva anche nei tronchi degli alberi vivi. Questo
poteva solo significare che quel pezzo di legno non era
morto! Le altre “pietre” avevano rapidamente fornito un
quadro logico, dato che si trovavano in un cerchio del
diametro di un metro e mezzo: si trattava dei resti nodosi
di un enorme e antichissimo ceppo. Erano sopravvissuti solo i residui del bordo, mentre l’interno era completamente imputridito e ormai trasformato in humus, un
chiaro indizio del fatto che il tronco doveva essere stato
abbattuto 400-500 anni prima. Ma i resti come avevano
fatto a rimanere vivi così a lungo? In fin dei conti, le cel-
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lule consumano il nutrimento sotto forma di zucchero,
devono respirare e perlomeno crescere un po’. Ma senza
foglie, e quindi senza fotosintesi, questo non è possibile.
Nessuna creatura sul nostro pianeta sopravvive a secoli di digiuno, e questo vale anche per i resti degli alberi,
quantomeno per i ceppi isolati. Per quell’esemplare però
le cose andavano decisamente in modo diverso: riceveva
sostegno dagli alberi vicini, e precisamente attraverso
le radici. A volte si tratta solo di un tenue collegamento
mediante il micelio che avvolge le punte delle radici e
le aiuta nello scambio di sostanze nutritive, altre volte
si tratta anche di vere e proprie concrescenze. In quel
caso non ero riuscito a capire quale fosse la situazione,
poiché non avevo voluto danneggiare il vecchio ceppo
praticando degli scavi. Una cosa tuttavia era evidente: i
faggi circostanti gli pompavano una soluzione zuccherina per tenerlo in vita. Nelle scarpate è talvolta possibile vedere che gli alberi si consociano tramite le radici:
lì la terra viene dilavata dalla pioggia e mette a nudo il
reticolo sotterraneo.
Nello Harz (catena montuosa della Germania, ndr), alcuni scienziati hanno scoperto che si tratta davvero di un
sistema intrecciato che collega fra loro la maggior parte degli individui della stessa specie. A quanto pare, lo
scambio di sostanze nutritive e l’aiuto tra vicini in caso
di necessità sono la regola e hanno fatto giungere alla
conclusione che le foreste sono superorganismi, ossia
strutture analoghe a un formicaio.
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Naturalmente ci si potrebbe anche domandare se le radici degli alberi non crescano semplicemente in modo indistinto e senza meta propagandosi nel suolo, per unirsi a
individui della stessa specie ogni volta che ne incontrano.
Da quel momento si scambierebbero necessariamente le
sostanze nutritive, creerebbero una presunta comunità
sociale, sperimentando nient’altro che un dare e un ricevere casuali. La bella immagine di un aiuto attivo verrebbe sostituita dal principio di casualità, fermo restando
che anche meccanismi di questo tipo offrirebbero vantaggi all’ecosistema foresta. Ma la natura non funziona
in modo così semplice, come osserva Massimo Maffei
dell’Università di Torino nella rivista «MaxPlanckForschung» (3/2007, p. 65): le piante, e di conseguenza anche
gli alberi, sono perfettamente in grado di distinguere le proprie radici da quelle delle specie estranee e perfino da quelle di
altri esemplari del loro genere.
Ma come mai gli alberi sono esseri così sociali e perché
condividono il nutrimento con i loro simili, rimettendo
in forze i loro concorrenti? I motivi sono gli stessi su cui
si fondano le comunità umane: insieme si sta meglio.
Un albero non è una foresta, non è in grado di generare
un clima locale equilibrato, ed è in totale balia del vento
e delle condizioni atmosferiche. Insieme invece, molti alberi creano un ecosistema che mitiga gli eccessi di calore
e di freddo, immagazzina un mucchio d’acqua e produce
aria molto umida. In un ambiente del genere gli alberi
possono vivere al sicuro e diventare vecchissimi. Per ottenere questo risultato, la comunità deve essere conser-
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vata a qualsiasi prezzo. Se tutti gli esemplari si occupassero solo di se stessi, molti di loro non raggiungerebbero
la vecchiaia. Continui decessi comporterebbero grossi
buchi nella canopia (in biologia, la canopia o canopea è
la porzione superiore di una comunità di piante o colture
formata dalle chiome delle piante, ndr), permettendo alle
tempeste di penetrare più facilmente e far cadere altri
tronchi. La calura estiva si spingerebbe fino al suolo boschivo e lo renderebbe arido. Tutti gli elementi del bosco
ne soffrirebbero.
Ogni albero è quindi prezioso per la comunità e merita
di essere tenuto in vita il più a lungo possibile. Per questo perfino gli esemplari malati ricevono aiuto e nutrimento fino a quando le loro condizioni non migliorano.
La volta dopo la situazione potrebbe ribaltarsi, e l’albero
che ha fornito sostegno potrebbe aver bisogno di aiuto. I
grossi faggi grigio-argento che si comportano in questo
modo mi ricordano un branco di elefanti. Anche il branco si prende cura dei suoi membri, aiuta quelli malati e
deboli a rimettersi in piedi, e lascia malvolentieri indietro
perfino gli elementi morti.
Ciascun albero è parte di questa comunità, tuttavia ci
sono alcune differenziazioni. Infatti la maggior parte dei ceppi marcisce e diventa humus dopo un paio di
decenni (per gli alberi è un periodo molto breve). Solo
alcuni esemplari vengono tenuti in vita per secoli come
la “pietra ricoperta di muschio” che ho descritto prima.
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Qual è il motivo di questa differenza? Anche fra gli alberi esiste forse una società composta da due classi? Pare
di sì, sebbene il termine “classe” non sia molto calzante.
È semmai il grado di attaccamento o forse addirittura di
affetto a decidere della disponibilità all’aiuto da parte
dei colleghi.
Ve ne potete rendere conto da soli dando un’occhiata
alle chiome degli alberi: un albero medio si allarga con
i suoi rami fino a toccare le punte di quelli di un vicino
di pari altezza.
Oltre non può andare, poiché lo spazio aereo, o meglio
luminoso, è già occupato.
Ciononostante i rami si rafforzano notevolmente, al
punto da dare l’impressione che lassù sia in corso una
vera e propria lotta. Un’autentica coppia di amici invece
bada fin dall’inizio a non formare rami troppo spessi
nella direzione dell’altro.
Nessuno dei due vuole sottrarre qualcosa all’altro e così
entrambi formano chiome robuste solo verso l’esterno,
cioè in direzione dei “non-amici”. Queste coppie sono
così intimamente connesse mediante le radici che a
volte muoiono perfino insieme.
Amicizie di questo genere, che si spingono fino al sostentamento dei ceppi, di solito si incontrano solo nelle
foreste naturali. Forse è un comportamento comune a
tutte le specie: io stesso, oltre che nei faggi, ho osservato
ceppi di alberi segati che continuavano a vivere anche
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vicino a querce, abeti, abeti rossi e douglasie. A quanto
pare, le foreste piantumate, come la maggior parte dei
boschi di conifere dell’Europa centrale, si comportano
piuttosto come i bambini di strada dell’omonimo capitolo (che potete trovare nel libro). Dato che subiscono un
danno permanente a causa della piantumazione, le radici
sembrano pressoché incapaci di ricostituire un reticolo.
Di solito gli alberi di queste foreste si presentano come
individui solitari e perciò hanno una vita particolarmente
dura. Nella maggior parte dei casi comunque non diventano vecchi, dato che, a seconda della specie, già intorno
ai cent’anni i loro tronchi vengono ritenuti pronti per
essere abbattuti.
Il linguaggio degli alberi
Secondo il dizionario, il linguaggio è la capacità propria
dell’essere umano di comunicare. In quest’ottica, solo
noi uomini siamo in grado di parlare, perché il concetto è limitato alla nostra specie. Eppure, non sarebbe interessante sapere se anche gli alberi sono in grado di
esprimersi? Ma come? Non si può certo udirli, perché
i loro toni sono decisamente sommessi. Lo scricchiolio
dei rami che il vento sfrega l’uno contro l’altro e il fruscio delle foglie sono rumori passivi su cui gli alberi non
esercitano alcun influsso.
Tuttavia si fanno notare in un altro modo: tramite le sostanze odorose. Odori come veicolo di comunicazione? Un fenomeno che non è ignoto nemmeno tra gli
umani, altrimenti perché usare deodoranti e profumi?
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E anche senza il loro impiego, il nostro odore corporeo arriva comunque alla mente conscia e subconscia di
chi ci è vicino. Alcune persone hanno un odore insopportabile, mentre altre ci attirano fortemente a livello
olfattivo. La scienza afferma che i feromoni contenuti
nel sudore sono addirittura determinanti per la scelta
del partner, cioè dell’individuo con il quale intendiamo
generare discendenti.
Noi tutti disponiamo perciò di un linguaggio olfattivo segreto, e almeno su questo possono contare anche
gli alberi.
Risale ormai a quarant’anni fa un’osservazione compiuta
nella savana africana. Qui le giraffe brucano la chioma
delle acacie a ombrello, che non apprezzano per nulla tale
trattamento. Per liberarsi dei grossi erbivori, nel giro di
pochi minuti le acacie depositano sostanze tossiche nelle
proprie foglie. Le giraffe lo sanno e si rivolgono agli alberi vicini. Ma quanto vicini?
Non molto, in realtà: i grossi quadrupedi passano davanti a svariati esemplari ignorandoli e riprendono il pasto
non prima di aver percorso circa cento metri. Il motivo
è sconcertante: l’acacia da loro brucata esala come avvertimento un gas (in questo caso l’etilene) che segnala agli
alberi della stessa specie presenti nei paraggi il pericolo
incombente. Come risposta, anche tutti gli individui così
preallertati inviano alle foglie sostanze tossiche per prepararsi all’incursione. [...]
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Fenomeni simili avvengono anche nei nostri boschi:
faggi, abeti e querce, tutti senza differenza si accorgono con dolore se c’è chi rosicchia le loro foglie. Quando
un bruco ne addenta una voracemente, il tessuto tutt’intorno alla porzione danneggiata si trasforma. Inoltre la
foglia invia segnali elettrici esattamente come avviene
nel corpo umano quando gli viene inflitta una ferita. Tuttavia, questo impulso non si propaga nel giro di millisecondi come nel nostro organismo, ma alla velocità di un
solo centimetro al minuto. Poi occorre ancora un’altra
ora perché gli anticorpi si depositino nelle foglie così da
rovinare il pasto ai parassiti: gli alberi sono lenti, e anche in caso di pericolo la velocità massima sembra essere
questa. Ciononostante, le singole parti di un albero non
funzionano in isolamento l’una dall’altra. [...]
Spesso però non occorre nemmeno che l’albero lanci lo
speciale grido d’allarme necessario a respingere un particolare insetto. In linea di massima, il mondo animale
registra i messaggi chimici degli alberi, e sa perciò che
in un certo luogo avviene un’aggressione e che devono essere all’opera determinate specie predatrici. Chi
ha appetito di tali piccoli organismi si sente attratto in
modo irresistibile.
Ma gli alberi si sanno difendere anche da soli. Le querce, per esempio, inviano alla corteccia e alle foglie tannini
amari e velenosi che uccidono gli insetti parassiti o cambiano il sapore delle foglie non meno di quanto accadrebbe
a una saporita insalata che si trasformasse in amarissimo
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fiele. I salici, per difendersi, sintetizzano la salicina che ha
effetti simili. Non per noi umani, però: una tisana di corteccia di salice allevia addirittura il mal di testa e la febbre
ed è considerata un precursore dell’aspirina.
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