Il neo-liberismo italiano

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Transcript Il neo-liberismo italiano

Il neo-liberismo italiano: dal crollo della Prima Repubblica ai
giorni nostri. Conferenza
per il ciclo “L'Università e il territorio”: otto seminari per capire il
presente, coordinato dal prof. Salvatore Cingari, Università per
stranieri di Perugia, 11 aprile 2016
di Luca Michelini
Professore di Storia del pensiero economico
Dipartimento di Scienze Politiche, Università di Pisa
e-mail: [email protected]
La conferenza analizza la cultura economica dei due schieramenti politici che hanno governato l'Italia dal
1992 ad oggi.
Una prima parte è dedicata alla definizione, sintetica, del contesto economico, nazionale e globale, nel
q u a l e va i n s e r i t a l a s t a g i o n e n e o - l i b e r i s t a . P i ù i n p a r t i c o l a r e s i i n s i s t e s u l n e s s o
liberalizzazioni/privatizzazioni e sull'importanza dell'apertura di tre fondamentali mercati (forza-lavoro,
capitali e merci) come fattore che ha dato un contributo notevole a ristrutturare e rifondare le fondamenta
politicche, culturali e istituzionali del Paese.
Una seconda parte è dedicata all'analisi della cultura economica del centro-sinistra e del centro-destra.
Particolare attenzione sarà data all'evoluzione della cultura economica delle forze di centro-sinistra che
sono andate al governo, con particolare riferimento al Partito Democratico. Altrettanta attenzione è data
alla cultura politico-economica del partito egemone del centro-destra, Forza Italia.
Un terza e conclusiva parte è dedicata all'analisi delle criticità di queste due culture, valutate in prospettiva
storica e in riferimento alle epocali trasformazioni economiche e sociali innescate dalla crisi del 2007-2008.
Su queste tematiche di storia delle idee economico-politiche contemporanee Luca Michelini, professore di
Storia delle dottrine economiche presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università di Pisa, ha
offerto diversi contributi, tra i quali si segnalano:
- Appunti sul riformismo comunista. Il percorso intellettuale e politico di Silvio Leonardi, in Aa.Vv., Giorgio
Amendola. La politica economica e il capitalismo italiano, Guerini e Associati, Milano, pp. 107 – 127;
- La fine del liberismo di sinistra, 1998-2008, Il Ponte Editore, Firenze, 2008;
- Dallo Stato imprenditore all'imprenditore-Stato, “Il Ponte”, aprile 2009;
- L'homo distrectualis: crisi economica, imprenditorialità, socialismo. A proposito della teoria dei distretti industriali,
“Il Ponte, 2010;
- Del nazionalismo economico di Giulio Tremonti, “Il Ponte”, maggio 2012;
- Berlusconi “neoliberista e criminale”: un quadro senza cornice, Micromega, maggio 2011;
- Dalla dottrina Krugman-Stiglitz alla dottrina Marx-Keynes, in “Studi economici”, 2011, n. 103, p. 49 – 73;
- Keynes o Marx? Sulle origini e i rimedi delle crisi, “Studi economici”, 2011, n. 105, pp. 149 – 160;
- (in collaborazione con A. Ferrari) Gli economisti italiani e Berlusconi, relazione al XIV Convegno AISPE,
Università di Lecce, 28-30 aprile 2016.
1. Il contesto economico
Per comprendere le dinamiche storiche di questi ultimi anni italiani è necessario
ricordare, molto sinteticamente, alcune profonde trasformazioni strutturali avvenute in
Europa e nel mondo. Come è noto, si tratta di anni di trionfo indiscusso del neoliberismo. Un trionfo che va inteso, in primo luogo, sul piano economico.
Il crollo del Muro di Berlino ha avuto conseguenze geopolitiche ed economiche
immense. Si è avuto un processo di globalizzazione dei mercati senza precedenti, con
fenomeni di privatizzazione dell'economia (una sorta di “accumulazione originaria”) su
scala planetaria. Il capitalismo, cioè, ha avuto davanti a sé spazi di conquista quasi
sconfinati. I mercati si sono ampliati e si sono liberalizzati.
Più in particolare sono stati liberalizzati i mercati del lavoro, delle merci e dei capitali,
secondo linee evolutivo-istituzionali ancora in corso. Il tutto favorito da una
disgregazione delle statualità uscite dalla II Guerra Mondiale, con epicentro nell'area del
cosiddetto “socialismo reale”. Anche la Cina si è avviata sulla via di una
industrializzazione neo-capitalistica forzata, che l'ha interconnessa al sistema capitalistico
mondiale, facendone un protagonista della competizione geopolitica su scala planetaria.
Nasce l'Euro, cioè un unico mercato europeo, privando gli Stati centrali dell'autonomia
monetaria, uno strumento fondamentale di politica economica. Mentre nasce la Banca
Centrale Europea, non nasce, però, una politica economica europea, cioè un centro di
potere politico in grado di governare l'economia europea. Questo governo è lasciato ai
rapporti di forza esistenti tra i diversi Stati nazionali.
In Europa, centrale risulta la riunificazione della Germania e la sua espansione
economico-egemonica anche ad Est, nell'ex-impero sovietico, attraverso una politica
“neomercantilista”, rivolta anche verso l'Occidente, cioè volta a rafforzare senza fine,
sembrerebbe, le esportazioni tedesche e dunque la sua industria a discapito di altre
industrie.
In Italia con Tangentopoli entra in crisi il sitema di potere economico-politico italiano
fondato sullo “Stato imprenditore”, nato durante il fascismo come risposta emergenziale
alla grande crisi del '29 e poi riconfermato con la Repubblica e diventato un elemento
caratterizzante dell'economia italiana. A cominciare dal 1993 questo Stato imprenditore è
stato liquidato, con un processo di privatizzazioni immenso e ancora in corso.
Mentre gli artefici di questo processo ne sbandierano le virtù modernizzanti anche in
termini di crescita economica, l'Italia conosce un certificato processo di declino
industriale ed economico, che ha come cardine la persistenza di micro-realtà industriali (i
distretti industriali), mentre alcune grandi realtà aziendali multinazionali entrano in crisi
o addirittura abbandonano l'Italia (vedi il caso Fiat).
Contemporaneamente avviene, come in Europa, un processo di concentrazione bancaria
senza precedenti, che corre di pari passo alla riproposizione di un rapporto tra banca e
industria molto stretto. Gli imprenditori italiani lavorano con i soldi degli altri,
rivolgendosi alle Banche. E' il modello che venne travolto dalla crisi del '29.
Sempre in Italia nasce un movimento politico “eversivo” (il termine è di Norberto
Bobbio) delle istituzioni repubblicane fondato da un protagonista indiscusso della vita
economica italiana: televisione, carta stampata, finanza, editoria, calcio, pubblicità,
edilizia. Mentre questo magnate si presenta come un imprenditore fattosi da sé, si tratta,
al contrario, di una nuova forma di imprenditore, che deve le sue fortune anche alle sue
capacità politiche.
Mentre il capitalismo sembra non incontrare più alcun ostacolo sul proprio cammino, nel
2007-2008 divampa una crisi economico-finanziaria paragonabile per intensità a quella
del 1929 e che, sviluppatasi nel cuore dell'Occidente, in USA, dilaga in tutto il mondo,
Europa compresa, colpendo soprattutto le economie più deboli.
Avviene, di conseguenza, un progressivo e irripagabile aumento dell'esposizione
debitoria sia dei privati (imprese e famiglie verso le banche) sia degli Stati (debito
bubblico). L'esposizione debitoria diventa uno dei terreni e degli strumenti di contesa
geopolitica tra gli Stati nazionali, anche all'interno della Comunità Europea.
Nonostante la crisi e l'opera di salvataggi pubblici intrapresa, dilaga sempre più
incontrollata (deregolamentata) la speculazione finanziaria a livello planetario. Abbiamo
una Banca centrale europea che letteralmente regala denaro alle banche, che, come è
noto agli studiosi, si guardano bene da immetterlo nel circuito dell'economia reale e che,
invece, contribuisce al ingigantire il gioco della speculazione finanziaria. Si crea profitto
per alcuni, senza più passare dalla produzione di merci. E' stato un liberale, J.M. Keynes,
a dimostrare che l'unico modo per uscire da questa trappola è “la socializzazione degli
investimenti”, cioè un massiccio programma di investimenti pubblici e il controllo da
parte dello Stato del processo finanziario (una nazionalizzazione di fatto delle banche) e
della produzione di moneta.
Il progresso tecnologico, parallelamente, porta, tendenzialmente, ad un aumento a
dismisura della disoccupazione, mentre i mercati liberalizzati, soprattuto quello del
lavoro, innescano un processo di redistribuzione della ricchezza tra le classi sociali a
netto vantaggio dei ceti più abbienti, con proletarizzazione e sotto-proletarizzazione di
larghi ceti di media e piccola borghesia (di cui si vuole erodere anche il patrimonio, non
solo il mestiere) e distruzione del potere contrattuale del salariato.
Lo sviluppo di processi di immigrazione quantitativamente e culturalmente molto
significativi da paesi extra-europei si traduce nella nascita di una nuova classe operaia
(uso deliberatamente un termine quasi bandito dal lessico politico e scientifico
contemporaneo), priva, a differenza di quanto avvenuto con l'immigrazione intranazionale (si pensi a quella Sud-Nord che interessò l'Italia), di alcun diritto politico ed
estranea alla cultura, anche politica, occidentale. Il potere contrattuale di tutti i lavoratori
crolla, come il ruolo dei sindacati.
Dilaga su scala planetaria, ma con epicentro in Medio Oriente, la conflittualità geopolitica
per il controllo delle risorse energetiche. Ma dal Medio Oriente alla Russia e alla Cina il
passo è breve (il caso Ucraina, il conflitto turco-russo) ed alcuni giustamente hanno
parlato di inizio della Terza Guerra Mondiale. Non meno significativa risulta la
conflittualità intra-europea: il caso della Libia dimostra una notevole aggressività della
Francia nei confronti dell'Italia.
Questa rapsodica carrellata raffigura un quadro economico semplicemente
rivoluzionario. Quali ne sono le conseguenze sul piano sociale?
Il quadro in parte è già composto da quanto esposto. Sintetizzando, questo immenso
processo di trionfo e di globalizzazione dei mercati destabilizza completamente, sul piano
sociale, le comunità che vi sono coinvolte. Interi settori produttivi entrano in crisi,
pubblici e privati. Si verificano immensi trasferimenti di ricchezza tra classi sociali e tra
Stati. Il confronto con abitudini e culture di emigranti provenienti da paesi extraerupei
sollecita fortemente l'identità sociale dei paesi ospitanti. I rapporti geopolitici vedono un
imperioso ritorno all'utilizzo delle armi, se scala sempre più vasta. Sul piano sociale si
tratta di un vero e proprio terremoto.
2. Il trionfo politico del neo-liberismo
Quali sono state le conseguenze di questi processi strutturali sul piano politico?
Il neo-liberismo angloamericano degli anni '80 trionfa in tutta Europa (nel mondo, in
effetti) e permea anche le culture di governo delle forze di centro-sinistra.
L'indebitamento pubblico è utilizzato in alcuni Paesi, ove più incisive e notevoli erano
state le conquiste democratiche e sociali, come in Italia, per smantellare gradualmente
ma inesorabilmente lo stato sociale e l'apparato produttivo: scuola pubblica, politica
industriale, sanità, previdenza.
La redistribuzione di ricchezza messa in moto dalle forze “spontanee” del mercato
capitalistico è amplificata dalla politica economica dei governi, anche di centro-sinistra.
Vengono attaccati i diritti dei lavoratori con riforme che sono vere e proprio
controriforme. Controriforme che gli studiosi sanno benissimo essere inutili sul piano
dell'occupazione: esse servono solo a ridurre i lavoratori in semi-schivitù, come quelli
immigrati.
La Banca Centrale Europea salva la finanza, ma impedisce agli Stati di salvare la società
ed utilizza una parte delle classi dirigenti dei Paesi, che gratifica in varie forme, per
impedire, con le politiche dell'austerità, qualsivoglia cambiamento di paradigma di
politica economica. Il caso Grecia è paradigmatico di come la posizione debitoria e la
politica monetaria della Banca centrale obbediscano a logiche di concorrenza economica
tra Stati, soprattutto all'interno della Comunità Europea.
Per quanto rigurada l'Italia, è particolarmente rilevante il tentativo bipartisan, che ora
sembra riuscito, di cambiare radicalmente, senza peraltro alcun reale e legittimo mandato
morale e politico, il patto costituente, secondo un rafforzamento del potere in senso
presidenzialistico, svuotando di capacità rappresentativa il Parlamento e intaccando, di
fatto, anche la prima parte della Costituzione. Come ricorda l'articolo terzo, infatti, un
potere politico che si prefigge di non rimuovere gli impedimenti di carattere economico e
sociale che impediscono il godimento dei diritti fondamentali, e che anzi fa di tutto
perché questi ostacoli si accumulino, è tutto, fuorché un potere democratico.
Questo il quadro di carattere generale. Scopo delle pagine seguenti è di dar conto di
alcune, limitate caratteristiche delle culture politiche del centro destra e del centro
sinistra italiani.
3. Il Partito Democratico, ovvero il “liberismo di sinistra”
Il crollo del Muro di Berlino si traduce nel disfacimento di tutti i partiti che avevano dato
vita alla Repubblica e alla Costituzione. Il PCI scompare e, dopo un percorso più o meno
lineare, converge, nella sua parte maggioritaria, con il cattolicesimo democratico,
formando il Partito Democratico. Ma questa convergenza, nella Prima Repubblica molto
fruttuosa, anche se contraddittoria, sul piano del progresso dei diritti e delle opportunità
sociali, si realizza su un piano culturale che, sostanzialmente, fa tabula rasa di qualsivoglia
cultura realmente riformatrice. In nome di una terminologia che del “moderno
riformismo” fa una vera e propria ossesssione (e ricordo il periodico “Il Riformista”),
bollando di “radicalismo” qualsiasi critica alle politiche neo-liberiste e accettando come
“normali” le istanze realmente radicali e sovvertitrici che vengono dal centro-destra,
viene semplicemente cancellata qualsiasi memoria del reale valore delle culture,
composite (da qualla comunista, a quella libera-conservatice), che aveva portato alla
codificazione della Costituzione italiana. Più in particolare, nessuna vestigia di liberalsocialismo, che pure avrebbe potuto e dovuto costituire il terreno culturale per tentare di
costruire una sintesi nuova, su basi solide, che sapesse far tesoro sia degli errori
commessi nel passato, sia delle capacità conoscitive e pragmatiche delle antiche culture,
certamente da rinnovare. Il motivo di questa tabula rasa a mio giudizio può essere
ricostruito, per il caso precipuo dell'Italia, in questi termini. Il nostro Paese con la
Repubblica ha tentato di passare da un processo descrivibile in termini gramsciani di
“rivoluzione passiva”, alimentato dall'incontro tra il cattolicesimo democratico e il
socialismo riformista, ad una nuova, inedita forma di rivoluzione attiva, con l'inserimento
a pieno titolo del partito comunista nei meccanismi non solo del potere politico, ma
anche e soprattutto di quello economico, contraddistinto dalla presenza di un importante
e spesso innovativo “Stato imprenditore”. Poiché la forma di questo passaggio, a
differenza che nel “biennio rosso”, si prosepttava come pacifica, graduale, democratica (e
quindi la rivoluzione passiva repubblicana è stata anche diversa da quella fascista,
totalitaria e bellicista), diversa è stata la forma della contro-rivoluzione innescatasi con il
fallimento di questo tentativo, fallimento dovuto soprattutto a motivazioni geopolitiche,
incardinate sul confrontro tra Nato e Patto di Varsavia.
Alla ricostruzioe della cultura economica del Partito Democratico ho dedicato un
libricino, pubblicato dalla rivista “Il Ponte” di Firenze nel 2008, una rivista che apprezzo
per il rigetto del settarismo dottrinale che ne anima la politica editoriale. L'ho intitolato,
fiducioso che lo scoppio della crisi mondiale segnasse la fine della fortuna a sinistra, ma
non solo a sinistra, dell'ideologia neo-liberista, La fine del liberismo di sinistra.
Sul piano metodologico non è impresa semplice ricostruire la cultura economica di un
partito, per diversi motivi, non da ultimo perché esiste uno iato tra teoria e prassi e
bisogna ricostruire sia i loro momenti definitori sia la loro complessa dialettica.
Limitandomi solo al primo aspetto della questione, e dunque rinucniando ad un'analisi
della politica economica dei governi di centro-sinistra, ho tentato di fare il punto
analizzando criticamente alcuni testi, autori e testate periodiche che ho ritenuto
particolarmente significativi. Allo storico del futuro ricostruire nella sua complessità
questo scenario.
Prima di presentare, sinteticamente, questa panoramica, qualche cenno al post-2008. Ho
continuato a seguire l'evolversi del panorama culturale del Partito Democratico anche
dopo il 2008, sperando, visto l'avvitarsi della crisi, che sul piano culturale qualche
significativo cambiamento maturasse.
Sul piano scientifico è forse noto che, dopo anni in cui Keynes sembrava essere diventato
lettera morta, ora su Keynes e sulle politiche neo-keynesiane fioccano articoli, convegni,
pubblicazioni, scientifiche e divulgative. Se ne contano a decine anche in Italia. Dopo la
crisi, anche gli economisti e gli scienziati sociali, sono stati costretti a riprendere in mano
alcuni classici del pensiero economico. Si è arrivati a rispolverare perfino Marx, che il
crollo del Muro di Berlino sembrava aver relegato nel dimentcatoio. Perfino sul piano
politico qualche cosa pare si sia mosso, anche se con tempi di reazione a dir poco
sorprendenti per lentezza. Mentre Keynes era utlizzato e dibattutto, incredibile a dirsi ma
dato molto significativo sul piano culturale, nei congressi di Rifondazione Comunista,
dopo l'ingresso di Matteo Renzi nell'arena politica una piccola minoranza del Partito
Democratico si dichiara apertamente keynesiana.
Sul piano delle politiche economiche, ma anche della dialettica interna al PD, tuttavia,
siamo ancora in neo-liberismo imperante: basti guardare al provvedimento del Governo
in carica in merito alla privatizzazione delle partecipate dagli enti locali, uno di quei
provvedimenti che da sempre, cioè dal 1993, è stato indicato come obiettivo prioritario
per “modernizzare” il Paese e che caratterizza partiti neo-liberisti come quello fondato da
Passera, cioè da uno dei principali protagonisti della finanza italiana. Senza poi parlare
della curiosissima introduzione che M. Renzi ha dedicato alla ripubblicazione di un testo
classico di N. Bobbio, Destra e sinistra. Segno che sul piano culturale non vi è stato un
mutamento significativo, cioè capace di farsi egemonia. Tanto che gran parte del lessico
politico attuale del Partito Democratico è comprensibile ancora alla luce di quanto
scrivevo nel 2008.
Vorrei però sottolineare che non ritengo molto significativa l'attuale dialettica interna al
PD. L'emarginazione di P.L. Bersani e il passaggio che da E. Letta ha portato a M. Renzi è
infatti la logica conseguenza di processi evolutivi inizati nel 1992-93. Questo non significa
che la logica del conflitto tra élites di potere all'interno di uno stesso partito non abbia la
sua rilevanza. In questo caso, la rilevanza si traduce anche nel superamento della
contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra, all'insegna di politiche per ora
ancora neo-liberiste; e si traduce, almeno sul piano politico, nel successo politico dello
sfarinamento dello schieramento di centro-destra. Non credo, tuttavia, che sia dalla
minoranza del PD che ci si possa aspettare il motore di un rinnovamento reale della
cultura economica del PD, proprio perché l'anima di questa minoranza è all'origine del
“liberismo di sinistra”. Piuttosto, potrebbe essere la logica delle cose, cioè le urgenze
imposte dall'evoluzione economica, a portare a cambiamenti significativi, e non solo per
l'avanza di una destra nazionalista in cerca di una reale ri-sovranizzazione della politica
economica e di quella monetaria.
Quali sono gli autori e i luoghi significativi per cogliere la cifra della proposta culturale
del PD?
Intanto i luoghi, intesi, soprattutto, come istituzioni editoriali, molto importanti come
grumi di potere economico e culturale. Più che di editori, ho sottolineato l'importanza
che nella definizione del liberismo di sinistra hanno avuto testate come il “Corriere della
sera” e il “Sole24ore”. Non tanto come fucina “organica” di egemonia culturale (come
poteva essere per il PCI una rivista come “Critica marxista”); quanto come legittimazione
che il “liberismo di sinitra” ha avuto da parte della più autorevole borghesia nazionale.
Gli editoriali di Alberto Alesina e di Francesco Giavazzi si sono infatti dimostrati del tutto
all'unisono con le analisi dei “democratici”, trovando un preciso tratto d'unione
nell'editorialismo di Michele Salvati (e un discorso a parte meriterebbe Pietro Ichino, che
però non ho analizzato nel mio lavoro). Molto rilevante, ovviamente, l'analisi del
“Riformista” e dunque il ruolo giocatovi da Antonio Polito, non a caso poi approdato al
“Corsera”. E ancora la rivista “Il Mulino” (e discorso a parte avrebbe meritato
“Italianieuropei”).
Nel testo del 2008 ho analizzato testi di economisti come Piero Barucci, Marcello De
Cecco, Stefano Fassina, Michele Salvati, Marcello Messori, Pier Carlo Padoan, Romano
Prodi, Franco Reviglio, Nicola Rossi, Vincenzo Visco; di storici economici come Giulio
Sapelli e Gianni Toniolo; di storici come Giuseppe Vacca, residuo pivot del tentativo della
dirigenza ex-comunista per la creazione di una “egeminia culturale” della sinistra. Sono
nomi significativi, ritengo, per ricostruire il lavorio culturale, editoriale e politco, molto
importante in ultima analisi sul piano della politica economica, che ha accompagnato la
vicenda del centro-sinistra italiano dopo Tangentopoli.
Per venire ad alcuni testi particolarmente rilevanti sul piano economico, ricordo i
seguenti. Di Piero Barucci L’isola italiana del tesoro. Ricordi di un naufragio evitato (19911994) (Milano, Rizzoli, 1995, da poco ripubblicato in seconda edizione). Di Michele Salvati
diversi testi: Il Partito democratico. Alle origini di un'idea politica (Bologna, il Mulino, 2003); e
Il Partito democratico per la rivoluzione liberale Imilano, Feltrinelli, 2007). Il liberismo è di
sinistra, del 2007 (Milano, il Saggiatore), di Alesina e Giavazzi. Di Messori, Padoan e Rossi,
con molto significativa prefazione di M. D'Alema, Proposte per l’economia italiana (Bari,
Laterza, 1998). Di Nicola Rossi Riformisti per forza, del 2002 (Il Mulino). Sul riformismo, di
Sapelli, del 2003 (Milano, Bruno Mondadori). Curato da R. Costi e M. Messori Per lo
sviluppo. Un capitalismo senza rendite e con capitale Bologna, Il Mulino, 2005). Quindi
Governare il mercato. Le culture economiche del Partito democratico, un volume curato da
Fassina e Visco ( Donzelli, Roma 2008).
Non meno rilevanti alcuni testi storici ritengo che siano alcuni testi, ora giornalistici ora
di introduzione storica, dedicati, p.es., alla rilettura delle figure di Carlo Rosselli e, per
l'europeismo, di Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli. Rilevanti perché molto accurata e
deliberata è stata la rimozione di quegli aspetti del loro pensiero dall'indubbio e
articolato contenuto socialista, giusto quanto la stessa Costituzione repubblicana aveva
attestato indirettamente e quanto aveva praticato la Prima Repubblica in tema di
“economia a due settori”, cioè di “pianificato” intervento pubblico in campo economico.
Qual è il contenuto economico-politico di questo “liberismo di sinitra”?
In estrema sintesi, il nesso privatizzazioni-liberalizzazioni, pur con diversi distinguo, è
sempre, direi ossessivamente ribadito. L'analisi della realtà italiana mostra sempre
diverse “tare originarie” e “ritardi” e “occasione mancate,” prima di tutte quella di attuare
privatizzazioni che non aprissero al monopolio privato o ad una totale
deregolamentazione del mercato del lavoro e che fossero uno strumento non di manovra
finanziaria per ripagare il debito, ma, niente meno, che di “politica industriale” rivolta a
rilanciare la crescita del Paese. E' significativo che nei testi in cui si invocava l'abolizione
dell'articolo 18, si criticava come “ingiusto” un mercato del lavoro segmentato tra tutelati
e non tutelati e si attaccava l'immobilismo monopolistico soprattutto della CGIL (e
rimando a testo Non basta dire no!, curato da Franco Debenedetti per la Mondadori nel
2002), si rifutasse la politica del centro-destra dei due tempi, con il secondo dedicato alla
riforma degli ammortizzatori sociali (perorando la nascita di una flex-security alla danese);
ma alla fine, cioè oggi, dopo il jobs act, pare proprio sia stata questa la via che si è scelta.
Notevole che la cultura economica democratica non abbia prodotto un'analisi
approfondita del berlusconismo, che è stato interpretato anzitutto come “normale”
manifestazione della logica liberal-democratica e, in secondo luogo, come blocco di
potere ancora ancorato alla rendita politico-economica (anche a livello locale, con le
partecipate dagli enti-locali), piuttosto che al profitto fondato sull'imprenditore
innovatore. La rinuncia ad una legislazione sul cosiddetto “conflitto d'interessi” corre
parallela alla sostanziale mancanza di un'analisi del significato, non solo nazionale, che la
parabola del magnate milanese ha avuto nel contesto del capitalismo e, più in generale,
della società italiana. Mentre si aggrediscono quelle che vengono definite le rendite
economico-politiche a livello locale, si rinuncia a fare i conti con l'eccezzionale caso che
vede protagonista il creatore della Finivest, capace di trasformare il sistema televisivo
italiano e di rendere perno di un partito, e poi del governo e del parlamento, una società
di raccolta pubblicitaria.
4. L'ideologia neo-liberista di Berlusconi
E' bene precisare, per gli scettici e per coloro che danno già per estinta e considerano
una accidentale parentesi l'esperienza politica di Berlusconi – che nel frattempo ha
acquistato la Rizzoli e chissà mai che non acquisisca anche Telecom –, che per l'Italia
parlano di “Ventennio berlusconiano” non solo eminenti giornalisti 1, ma anche una
schiera di autorevoli studiosi, nei più diversi campi del sapere. Esiste, cioè, una indubbia
discontinuità sul piano storico, tra la storia italiana dell'ultimo ventennio, quello che
inizia con Tangentopoli, e la storia di quella che, a torto o a ragione (ma anche dalla
storiografia), è viene definita come “Prima Repubblica”. E questa discontinuità è data
anzitutto proprio dal “fenomeno Berlusconi”.
Propongo anche in questo caso un elenco significativo di testi, dove il berlusconismo
assume rilievo periodizzante.
Di Emanuela Poli Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale (Il Mulino,
2001); di P. Ginsborg, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica
(Einaudi, 2003); di Nicola Tranfaglia Vent'anni con Berlusconi (1993-2013). L'estinzione della
sinistra (Garzanti, 2009); di Giuseppe Mammarella L'Italia di oggi. Storia e cronaca di un
ventennio 1992-2012 (Il Mulino, 2012); di Marc Lazar Democrazia alla prova. L'Italia dopo
Berlusconi (Laterza, 2006) e L’Italia sul filo del rasoio. La democrazia nel paese di Berlusconi (Rizzoli,
2009); di Giovanni Orsina Il berlusconismo nella storia d'Italia (Marislio, 2013); di Nicola
Tranfaglia Vent'anni con Berlusconi (1993-2013). L'estinzione della sinistra (Garzanti, 2009); di
A. Gibelli, Berlusconi passato alla storia. L’Italia nell’era della democrazia autoritaria
(Donzelli, 2010); di S. Colarizi e M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda
Repubblica 1989-2012 (Laterza, 2012); di G. Crainz, Il paese reale. Dall’assassinio di Moro
all’Italia di oggi (Donzelli, 2012); di Giuseppe Mammarella L'Italia di oggi. Storia e cronaca
di un ventennio 1992-2012 (Il Mulino, 2012); di G. Amato e A. Graziosi, Grandi illusioni.
Ragionando sull’Italia (Il Mulino, 2013); di Piero Ignazi Ventanni dopo. La parabola del
berlusconismo (Il Mulino, 2014); di A. De Bernardi, Un paese in bilico. L’Italia degli ultimi
trent’anni (Laterza, 2014).
Vale la pena ricordare che a giudizio di alcuni costituzionalisti è stato addirittura il
conflitto di interessi ad informare il tentativo di cambiare radicalmente la nostra
costituzione, reale e formale. Definito, con le parole di F. Rimoli, il conflitto di interessi
come “la sovrapposizione, in un unico soggetto, di interessi pubblici e privati, tra loro
contrapposti, e tali da condizionare inevitabilmente le decisioni del soggeto stesso, ove
questo venfa ad essere titolare di cariche pubbliche di rilievo e di altrettanto rilevanti
attività economiche” (Le riforme, Laterza, 2002, p. 48), Giorgio Sorbino scrive che esso ha
contraddistinto il ventennio di profonde trasformazioni della forma di governo italiana,
seguito all'introduzione del sistema elettorale maggioritario. Il conflitto di interessi “ha
avuto delle indubbie implicazioni (…) sulla forma di governo e sul suo sviluppo effettivo”:
“Si tratta (…) dell'affermazione di una concezione del parlamentarismo maggioritario
(della quale il leader del centrodestra è stato sostenitore convinto, tanto da far approvare
1Mi limitio a segnalare i seguenti testi: F. Colombo, A. Padellaro, Il libro nero della democrazia.
Vivere sotto il governo Berlusconi, Milano, Baldini&Castoldi, 2002; G. Bocca, Piccolo Cesare,
Milano, Feltrinelli, 2003; D. Lane, L'ombra del potere, Bari, Laterza, 2005; A. Stille, Citizen
Berlusconi. Il cavalier miracolo, Milano, Garzanti, 2006; F. Pinotti, U. Goempel, L'unto del
Signore, Milano, Rizzoli, 2009; M. Travvaglio, Ad personam, Milano, Chiarelettere, 2010. Classica
è la biografia di Berlusconi scritta da G. Fiori, Il venditore, Milano, Garzanti, 1994.
addirittura una revisione della Carta costitutuzionale in tal senso) improntata ad una
preminenza assoluta del Governo sul potere legislativo, nojnché del Presidente del
Consiglio sui singoli ministri all'interno dellesecutivo stesso”; in stretta connessione,
dell'approvazione di una legislazione elettorale (…) volta ad attribuire alla maggioranza
parlamentare (guidata dal 'capo della coalizione' e candidato Premier) un numero di
seggi eccessivamente elevato e a discapito della rappresentanza parlamenta delle
opposizioni; del tentativo di depotenziare (…) i controlli di legalità sull'operato degli
organi politici e, in particolare, del potere esecutivo; della conseguente aspra
contrapposizione tra gli stessi organi politici e il potere giudiziario, da un lato, e gli organi
di garanzia costituzionale dall'altro lato (quali, in particolare, il Presidente della
Repubblica e la Corte costituzionale”2.
Il panorama del berlusconismo è senz'altro contraddistinto da una esaltazione del
liberismo, in chiave fortemente antistatalista. Due termini, quelli di “statalismo” e di
“antistatalismo” che, è bene rimarcarlo, pervadono anche la pubblicistica di Michele
Salvati. Gabrile Turi, nel ricostruire i luoghi della cultura della destra italiana (fondazioni,
pubblicazioni, riviste come “Liberal” o “Ideazione”, ecc.), insiste, appunto, su questo
assunto. “Coniato negli anni Ottanta per rappresentare le capacità imprenditoriali e la
fiducia nel raggiungimento del successo economico, quando nel 1994 Berlusconi ha
fondato Forza Italia il termine 'berlusconismo' ha acquistato un significato politico e
culturale” che “esprime la forma peculiare assunta nel nostro Paese da tendenze presenti
in tutta Europa”: “il culto del liberismo e dell'affermazione individuale, la richiesta di
uno 'Stato leggero' e, sul piano culturale, la crisi dello storicismo e dei grandi paradigmi,
la sfiducia nella razionalità con la variante filosofica italiana del 'pensiero debole',
l'estetizzazione della politica e la cultura come spettacolo” (La cultura delle destre. Alla
ricerca dell'egemonima culturale in Italia (Bollati Borignhieri, 2013, pp.16-17).
A proposito della cultura liberista di Berlusconi e del suo partito potremmo richiamare
gran parte degli autori prima menzionati. Anche Marco Tarchi insiste sul tema,
rendendolo addirittura parte costitutiva della proposta di politica economica del
populismo berlusconiano, che per ciò stesso deve essere distinto dalla cultura
propriamente di destra. Ricostruito puntualmente il dibattito intorno alla definizione,
molto problematica, di “populismo”; schieratosi quindi per una sua determinata
definizione – “populismo è identificabile in una specifica forma mentis, dipendente da
una visione dell'ordine sociale alla cui base sta la credenza nelle virtù innate del popolo,
il cui primato quale fonte di legittimazione dell'azione politica e di governo è
apertamento rivendicato” ( Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (Il Mulino,
2015, p. 52), dove l'idea di popolo si concretizza in una “totalità fondamentalmente
omogenea ma non indifferenziata né egualitaria, perché accetta e valorizza le gerarchie e
le funzioni ritenute naturali” (p. 57; per i populisti, insomma, “la lotta di classe è
inammissibile”: p. 58); distinto il populismo dalla democrazia, poiché viene giudicato
“distorcente della volontà popolare il sistema rappresentativo”, viene presa in “scarsa o
nulla considerazione” i diritti delle minoranze, è propenso “ad affidarsi a uomini forti”
con latenti “tentazioni autoritarie” (pp. 78-79) e diffida del pluralismo (p. 81);
differenziato il populismo dalla destra estrema perché, tra le altre cose, hanno idee
diverse circa il rapporto tra Stato e società civile, la destra confidando nel primo
2G. Sorbino, La forma di Governo, in Vent'ani di Costituzione (1993-2013). Dibattiti e riforme
nell'Italia tra due secoli, a cura di S. Sicardi, M. Cavino, L. Imarisio, Bologna, Il Mulino, 2015, p.
87.
considerando il mercato “negativamente” e da subordinare “alle esigenze della nazione e
controllato attraverso nazionalizzazioni o un corporativismo guidato dallo Stato”, il
populismo nella seconda, poiché il mercato è considerato “positivamente, da temperare
attraverso misure protettive riservate alla popolazione autoctona” (p. 119 e il riquadro a p.
125): tutto ciò premesso e puntualizzato Tarchi dedica un capitolo all'ascesa al potere di
Berlusconi accogliendo la definizione datane da Giovanni Orsina come “emulsione di
populismo e liberalismo” (p. 301). Populista in quanto “politico manager” e imprenditore
fattosi da sé, estraneo al ceto politico dominante e di professione, allergico alla forma
partito (e si rifiuta di considerare Forza Italia un partito), esaltatore della “sovranità
dell'opinione pubblica” insofferente di limitazioni ad opere delle istituzioni elettive,
mentre sul piano argomentativo Berlusconi rientra a pieno titolo nel novero dei
populisti, sul piano della concreta azione di governo ha invece fallito essendo riuscito a
moderare la spinta genuinamente populista della Lega (pp. 299-300), finendo per
infrangere una delle “regole d'oro” del populismo: “l'esemplare limpidezza morale” (p.
301).
Berlusconismo, insomma, come una delle varianti del populismo, così come proposto
anche da altri autorevoli autori, come Nicola Tranfaglia in Populismo. Un carattere originale
nella storia italiana (Castelvecchi, 2014).
Lo stesso Berlusconi, naturalmente, presenta sé stesso appunto come un imprenditore
fattosi da sé e capace, per ciò stesso, di dirigere, come un'azienda, l'intero Paese. In uno
dei sui discorsi, Berluscini dichiara che la Fininvest “non è soltanto un patrimonio
famigliare del presidente del Consiglio ma anche e soprattutto una libera impresa, forse
l'unica tra i grandi gruppi del Paese che non ha mai vissuto dell'assistenza pubblica né
beneficiato di contributi dello Stato, di cui ha invece l'orgoglio di essere tra i primi e
principali contribuenti”3.
Sul piano culturale ritengo molto importante il fatto che alcuni autorevoli economisti del
centro-destra berlusconiano, impegnati anche in decisivi ruoli di governo, non si siano
minimamente interrogati sul significato della scesa in campo di un imprenditore che
controlla uno degli apparati produttivi più significativi in una democrazia
rappresentativa: quello che presiede alla costruzione dell'opinione pubblica. E' notevole
constatare come, sul piano culturale, economisti liberali e liberisti che hanno avuto un
ruolo notevole nell'esperienza politica di Berlusconi, attualizzino, per così dire,
l'insegnamento economico di Adam Smith senza nemmeno fare un accenno, ma
nemmeno per sbaglio, alla ben nota opposizione smithiana al governo politico
dell'imprenditore e degli imprenditori4: e basti fare il nome dell'economista Antonio
Martino5. Anche se volgiamo la nostra attenzione al liberalismo più attento alle ragioni
dell'interevento pubblico, e mi riferisco a Giulio Tremonti, non troveremo alcuna analisi
del “caso” e, paradossalmente, la critica, moralistica e superficiale, di quello che viene
definito il “mercatismo consumistico” dimentica, guarda caso, di ricordare che è proprio
la televisone commerciale ad essere stata uno dei suoi fondamentali viatici6.
3Cfr. S. Berlusconi, Discorsi per la democrazia, Milano, Mondadori, 2001, p. 78.
4Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Torino, Utet, 1975, p. 375.
5Cfr. A. Martino, Liberalismo quotidiano, Macerata, Liberilibri, pp. 116-119. La casa editrice
maceratese è un importante cricevia della cultura neo-liberista italiana contemporanea. Nel testo,
Martino raccoglie gli editoriali apparsi su diversi quotidiani, tra i quali “Il Giornale” di P.
Berlusconi.
6Cfr. di G. Tremonti: La paura e la speranza, Milano, Mondardori, 2008; Uscita di sicurezza,
Milano, Rizzoli, 2012.
Il civettare con gli autori del passato, di Martino con Smith e di Tremonti con Keynes,
nasconde, esattamente come per il centro-sinistra, la totale e deliberata perdita di
memoria storica e analitica.
5. Il “problema” Berlusconi: economia e politica
Un autorevole storico, sostenitore di Forza Italia, sottolineando l'importanza
dell'esperienza politica di Berlusconi in quanto argine politico al trionfo della sinistra
italiana (in quanto, cioè, argine al comunismo), ha lucidamente individuato il problema
che questa stessa esperienza rappresenta per la cultura liberale e liberista, di cui egli
stesso è stato attento studioso: Berlusconi rappresenta un tipico caso di imprenditorialità
assistita dallo Stato7. E' fresco di stampa un volumetto che approfondisce questa linea
interpretativa, facendo di Berlusconi e dele politiche economiche del suo Governo un
tipico caso “paretiano” di “plutocrazia demagogica”.
Questa è la tesi sostenuta in Democrazia e plutocrazia nell'Italia di Berlusconi, scritto da
Giovanni Barbieri (FrancoAngeli, 2016), che inserisce le vicende politiche ed economiche
di Berlusconi all'interno della categorie paretiane della sociologia politica. L'autore
riesuma la categoria di “plutocrazia demogogica” per interpretare l'Italia del Nuovo
Ventennio, che, alla luce della tradizione teorica che l'ha elaborata (e che nel testo
ricostruisce), ripropone in questi termini: “la plutocrazia si caratterizza soprattutto per
l'uso politico del capitale, per la commistione che genera fra la sfera politica e quella
dell'economia, per la posizione di privilegio che essa concede all'imprenditoria tariffata e
assistita” (p. 75). In secondo luogo, e si tratta dell'aspetto demagocico della plutocrazia,
l'avvento cella società di massa e “lo sviluppo dei mezzi di comunicazione” favorisce
l'ascesa di “plutocrati demagogici che mirano all'acquisizione del consenso servendosi
dell'adulazione, della manipolazione e della corruzione” (p. 75). Richiamandosi al testo di
Burton W. Folsom The Myth of the Robber Barons, l'autore insiste sulla nascita di una
nuova figura di imprenditore, “l'imprenditore politico”, “dedito ad ottenere successo
attraverso l'aiuto governativo, i consorzi, i sussidi, la compravendita di voti, le
speculazioni di borsa e, per questo, non interessato a introdurre le innovazioni
tecnologiche, ad uamentare la produttività e a ridurre i prezzi” (p. 76-77). Si tratta della
nascita di un nuovo “capitalismo relazionale”, a sua volta da distinguersi in clientelarpolitico- corruttivo, da un lato, e in uno orientato al mercato, dall'altro lato (p. 79).
Berlusconi risulta essere “un plutocrate, un imprenditore politico, un esponente,
probabilmente il princiaple, del capitalismo clientelare italiano” (p. 107). Non si tratta,
invero, di un caso isolato e si richiamano i casi di Perot e Collor, con i quali l'italiano ha
7Cfr. G. Are, I riferimenti culturali, in Forza Italia. Radiografia di un evento, a cura di D. Mennitti,
Ideazione, Roma, 1997, p. 188.
alcune comuni caratteristiche: essere un outsider della politica, investire parte notevole
del suo patrimonio anche aziendale nell'impegno politico, finendo per organizzare un
movimento politico che è “una sua proprietà personale” (p. 115), servirsi di innovative
campagen elettorali (uso dei sondaggi e dei media), rivolgersi ad un elettorato non
fidelizzato a precedenti esperienze politiche. La parabola economica e politica di
Berlusconi è da ascriversi al primo tipo imprenditoriale anche perché non è nota la
provenienza dei suoi capitali iniziali (p. 116), l'avvenutra nella televisione privata si
articola in un “mondo privo di regole” fino al 1990 e che Berusconi si forza di far restare
tale, per acquisire una posizione di dominio, contando sull'appoggio del PSI di Craxi (p.
117). La Legge Mammì, del resto, nel 1990, non fa che legalizzare il duopolito RaiFinivest. E' Eugenio Scalfari, nel bel mezzo dello scontro politico, a riconoscere in
Berlusconi il tipico imprenditore politico, che in un editoriale del 1990 definisce
“bananiere” e che contrappone agli “imprenditori di mercato” (p. 118).
Più che sull'ascesa imprenditoriale e politica di Berlusconi, Barbieri si sofferma ben più
a lungo su tre casi di studio che riguardano la politica economica berlusconiana, volta a
favorire altrettanti momenti di imprenditorialità politico-clientelare: il caso Alitalia, la
gestione dei grandi evneti e degli eventi catastrofici (terremoto) operata dalla protezione
civile, lo scudo fiscale. Ma non è questo il punto ora da sottolineare. Piuttosto, ritengo che
quanto proposto sia un interessante punto di partenza per analizzare il “feneomno
Berlusconi” (indicato come “imprenditore politico” anche da altri studiosi8), ma si deve
considerare non solo che lo stesso Pareto aveva considerato il protezionismo una forma
che, sul piano esclusivamente industriale, poteva creare potenzialità effettive di crescita
economica e dunque efficienti ed innovative, ripagando il costo economico del
protezionismo stesso, ma che diversi autori hanno sottolineato le indubbie capacità
industriali di Berlusconi stesso. Un esempio in tal senso è costituito dal testo di Franco
Monteleone Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica (Marsilio,
2013)
Nel testo opportunamente è segnalato come l'avvento della televisione, e di quella
commerciale di stile americano, costituisca una vera e propria rivoluzione del modo di
vivere: “il consumo di beni immateriali è divenuto negli anni così totalizzante da generare
la più massiccia delle egemonie” (pp. XXI-II); “l'informazione, in seguito al grande
sviluppo della televisione commerciale, è diventata in breve tempo una risorsa
importante quanto il petrolio” (p. 424). Con la liberalizzazione del mercato televisivo in
Italia si ha una vera e propria “modernizzazione” della società italiana resa possibile
grazie alla “fortissima innovazione tecnologica e culturale intervenuta nel comparto
industriale dei media” (p. 424). Forse il testo di Monteleone è troppo indulgente nei
confronti dell'esperienza berlusconiana – ché se è vero che la politica ha giocato un
ruolo rilevante nela sua ascesa è anche vero, sostiene l'autore, “non risulta che, nella
8Cfr., tra gli altri, R. Genovese, Che cos'è il berlusconismo, Roma, Manifestolibri, 2011, p. 14.
storia del capitalismo italiano, vi siano stati imprenditori che abbiano costruito le loro
fortune contro il sistema politico del loro paese” (p. 432) –, ma esso è significativo, perché
mentre non tace del ruolo decisivo che la politica ha giocato nella fortuna imprenditoriale
di Berlusconi, al tempo stesso ne sottolinea il valore prettamente imprenditoriale.
Berlusconi capì che la pubblicità era “il vero centro propulsivo della televisione privata”
(p. 433); il fallimento del tentativo dei tre colossi dell'editoria (Rizzoli, Rusconi,
Mondadori) nel campo della tv private dipende dal fatto che essi non erano preparati
“all'alto livello di investimenti che la televisione richiedeva” (p. 441) e dal fatto che
avevano cercato, “in omaggio alla loro immagine di antiche imprese culturali, di restare il
più possibile nell'ambito della legalità, desiderando sinceramente e persino auspicando
la definizione di un quadro normativo di certezze che garantissero una competizione alla
pari, quanto il loro principla econorrente tendeva invece a mantenere inalterata la
situazione di fatto” (p. 441). In breve, “nessun altro circuito italiano può contare su una
organizzazione altrettanto efficiente” (p. 441) e Berlusconi in persona ebbe “l'intuito
eccezionale” (p. 449) di affidarsi ad uomini capaci e competenti (come Freccero e Gori).
Monteleone, infine, sottolinea come l'impresa televisiva, nata e cresciuta come impresa di
Stato fino alla liberalizzazione decretata dalla Corte Costituzionale9, abbia sempre avuto
una natura politica, anche se sembra suggerire, come a giustificarla anche sul piano
politico-morale, che l'esperienza di Berlusconi sia avvenuta per parere il colpo dei veri
innovatori in materia, i comunisti di Rai Tre. “E' infatti, ancora una volta nella
progettualità della rete di Angelo Guglielmi (…) che vanno rintracciati tutti i nuovi
stimoli che presiedono alla modernizzazione televisiva italiana di fine secolo”, dove
l'intreccio tra partigianeria politica e televisione commerciale sarebbe evidente (p. 543).
Sul piano scientifico credo che il lettore si aspetti che “il berlusconismo” sia diventato un
caso di studio particolarmente battuto dagli economisti, e da quelli italiani in particolare.
Ebbene, sul piano scientifico segnalo che, al contrario, gli economisti italiani non hanno
prodotto alcuna significativa riflessione in proposito. Basta passare in rassegna i
programmi della Società Italiana degli Economisti dal 1994 ad oggi per rendersi conto di
quanto affermo. Questo non significa affatto che sul piano della militanza civile gli
economisti sia siano astenuti dal far sentire la propria voce. Per i due schieramenti mi
limito a ricordare Paolo Sylos Labini10, fervente oppositore di Berlusconi, e Francesco
Forte, al contrario un suo sostenitore (e di cui manca, purtroppo, una raccolta dei suoi
testi giornalistici). E tuttavia colpisce che sul piano scientifico i contributi in ambito
economico siano inesistenti.
9 Per una ricostruzione del quadro normativo italiano e della relativa evoluzione industriale cfr. G.
Gardini, Le regole dell'informazione. Principi giuridici, strumenti, casi, Milano, Bruno Mondadori,
2005.
10Cfr. P. Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi: diario di un cittadino indignato, Bari, Laterza,
2003.
Eppure la posta in gioco è notevole. Mi piace ricordare in proposito le analisi di due
autori certo non tacciabili di vetero-marxismo o di nostalgico-keynesismo: alludo a
Norberto Bobbio e a Giovanni Sartori. Entrambi, pur se con forza e intenzioni differenti
e privilegiando il momento giornalistico rispetto a quello saggistico, hanno posto in luce
con chiarezza quali siano le implicazioni del “fenomeno Berlusconi” e quindi quali siano
le implicazioni per l'Italia di tutte quelle forze politiche che deliberatamente ignorano la
problematica. Bobbio ha parlato di “dispotismo”11; Sartori di “sultanato”12.
6. Neo-liberismo e democrazia
Da quanto esposto credo risulti evidente quanto numerosi e rilevanti siano gli spunti di
analisi offerti dalla parabola industriale e politica di Berlusconi per offrire un contributo
di riflessione sulle trasformazioni che sta conoscendo il nostro Paese e, forse più in
generale, il capitalismo contemporaneo. Più in generale, quella parabola forse offre
spunti molto importanti anche per comprendere alcune tendenze di fondo del
capitalismo, e di quello italiano in particolare.
La distinzione tra economia e politica, certamente utile e indispensabile sul piano
metodologico per offrire un primo approccio all'interpretazione del reale, diventano, ad
un'analisi più aprofondita, forse inutili o addirittura un ostacolo. L'ossessiva
teorizzazione di un “sano ritorno” ai principi fondamentali delle leggi di mercato, e
quindi ad una netta distinzione tra Stato e società civile, dove il ruolo dello Stato deve
essere tentenzialmente limitato e, in più, circoscritto a quello di regolatore, piuttosto che
a quello di produttore, alla luce della analisi che propongo rischia di apparire una mera
strumentazione ideologica volta a coprire il reale meccanismo storico-economico che
presiede alla evoluzione del nostro Paese nell'ultimo ventennio.
Qual'è questo meccanismo? In estrema sintesi, il ristabilimento bipartisan di una
11Cfr. N. Bobbio, Contro i nuovi dispotismo. Scritti sul berlusconismo, Bari, Edizioni Dedalo, Bari,
2008. Si tratta di una breve raccolta di scritti giornalistici.
12G. Sartori, Il Sultanato, Laterza, Bari, 2010. Anche questa è una raccolta di testi giornalistici. Sul
piano saggistico cfr. Id. Conflitto d'interessi, apparso nella raccolta curata da Francesco Tuccari Il
governo Belrusconi (Bari, Laterza, 2002), dove il politologo sottolinea che il problema del conflitto
d'interesse non consiste nella consistenza del patrimonio di Berlusconi, ma nella “sua natura e la sua
collocazione strategica”: “Io non criminalizzo la ricchezza, né ritengo che la politica debba essere
vietata a chi possiede un impero economico. Si deve però vietare che l'impero economico si
trasformi in un impero politico che cattura lo Stato. E il fatto è che Berlusconi sempre più
massicciamente condiziona o controlla gli strumenti di comunicazione di massa e di formazione
dell'opinione del Paese. Il che significa che Berlusconi è in grado di dominare e di manipolare quel
consenso politico al quale dovrebbe invece sottostare” (p. 22). Sartori richiama l'importanza e
l'attualtà dell'articolo 41 della Costituzione, che mira ad assicurare la funzione sociale della proprità
privata e la sua accessibilità: “non c'è dubbio che il macroscopico conflitto di interessi del Cavaliere
investa 'funzioni sociali' (addirittura la formazione della pubblica opinione) e problemi di
accessibilità (in chiave anti-trust)” (p. 26).
gerarchia sociale fondata sulla liberalizzazione e sulla deregolamentazione del solo
mercato del lavoro, come terreno fondamentale, privilegiato, se non esclusivo
dell'accumulazione capitalistica. E mentre il centro-sinistra risulta sempre in attesa di
una borghesia imprenditorale “pura e di mercato” capace, finalmente, di modernizzare il
Paese, Berlusconi ha espletato un tentativo di sostituire allo Stato-imprenditore
l'imprenditore-Stato, secondo un modello imprenditoriale dove sostanzialmente
impossibile diviene la distinzione tra economia e politica e che è risultato, molto spesso,
in grado di egemonizzare l'intero campo borghese e che ha trovato come unico argine di
resistenza la statualità capitalistica di altri Paesi, Francia e Germania in testa.
Notevole, del resto, che, anche quando il paradigma neo-liberista entra in crisi sul piano
fattuale e culturale, con lo scoppio e lo sviluppo anche in Italia della crisi economicofinanziaria che ha avuto epicentro negli Stati Uniti d'America, si propongano
ostinatamente politiche di austerità. Da un lato, le politiche dell'austerità appaiono il
risultato di una logica europeista che ha rinunciato a costruire un governo centrale
europeo e quindi, per esempio, un unico debito pubblico europeo, lasciando operare
conflittualità inter-statali vieppiù crescenti, che del debito fanno appunto uno strumento
di lotta per l'egemonia economica. Dall'altra lato, però, la logica dell'austerità non si
configura affatto come un'assurda politica economica che ostinatamente non vuole
cogliere l'insegnamento della lezione keynesiana, che ha dimosrtato, come in effetti ha
fatto, come ad un certo punto, inevitabilmente, la politica monetaria deve lasciare il posto
alla “socializzazione degli investimenti”; la logica dell'austerità, invece, dimostra di
perseguire un chiaro obiettivo, che già Marx aveva posto in luce. “Il meccanismo del
processo di produzione capitalistico elimina (…) da sé gli ostacoli che temporaneamente
crea. Il prezzo del lavoro ricade ad un livello corrispondente ai bisogni di valorizzazione
del capitale, sia questo inferiore, superiore od eguale al livello considerato normale”; “la
grandezza dell’accumulazione è la variabile indipendente, la grandezza del salario la
variabile dipendente, e non viceversa” (Marx, Il Capitale, Libro primo, Torino,Utet, 1974,
pp. 789-90).
E' evidente che per poter realizzare questo obiettivo era necessario smontare i
meccanismi della democrazia codificati dalla Costituzione Repubblicana.
Alcuni studiosi hanno insistito sull'importanza decisiva della posta in gioco proponendo
un paragone tra berlusconismo e fascismo 13: ma non tanto e non solo perché Berlusconi
sdogana, per così dire, l'ex partito fascista, che pure subisce un'evoluzione politica e
culturale in qualche modo all'insegna del post-fascismo, quanto perché ci si interroga se
questo nuovo dispotismo non sia assimilabile al fascismo. Il direttore di “MicroMega”
13 Un paragone legittimo, secondo lo storico Stuart Woolf: cfr. Crisi di un sistema e origini di una
nuova destra. Senso e limiti di una comparazione, in La notte della democrazia italiana. Dal
regime fascista al governo Berlusconi, a cura di G. Santomassimo, Milano, Il Saggiatore, 2003, p.
50.
Paolo Flores d'Arcais dedica appunto un numero della rivsta (n. 1 del 2011) a
Berlusconismo e fascismo. Introducendolo, l'autore dichiara che i due fenomeni non sono
sovrapponibili (assenza di violenza politica, esistenza di pluralismo partitico e d'opinione,
voto segreto) e tuttavia, visto ciò che accade nei campi dell'informazione (mancanza di
imparzialità e di pluralismo), della giustizia (dove la faticosamente raggiunta egliaglianza
dei cittadini davanti alla legge è messa in dubbio e viene minacciata l'indipendenza della
magistratura), della cultura (attraverso la distruzione della “autonomia critica”), dei
costumi (prevale la corruzione e la menzogna), della criminalità (“è ormai assodato che la
nascita di Forza Italia avviene sullo sfondo di una trattativa tra pezzi di apparato dello
Stato e cupola mafiosa”: p. 14), Berlusconi dimostra di essere il “Grande Fratello” (p. 15),
cioè “una forma, nuova e inedita, di distruzione delle istituzioni liberal-democratiche e
dell'ethos pubblico minimo che le sorregge” (p: 17).
Condivido la prudenza nell'accostare berlusconismo e fascismo. Perché in effetti il
problema è di carattere diverso e più generale: il problema, cioè, è comprendere quale
tipo di rapporto abbia avuto nel passato, e abbia oggi, la borghesia capitalistica italiana
nel suo complesso con le istituzioni della democrazia rappresentativa, così come
codificatesi e sviluppatesi sul piano economico e sociale nel corso della vita della Prima
Repubblica; che, non dimentichiamolo, è il primo ed unico vero tentativo in Italia di
coniugare capitalismo e democrazia. E parlo di borghesia capitalistica nel suo complesso,
cioè considerata sia nelle sue componenti di “imprenditorialità pura”, di “mercato”, sia in
quelle di natura “economico-politica”, sia, infine, nelle sue due manifestazioni politiche
contemporanee; quella di centro-sinistra e quella di centro-destra.
Il “silenzio” della scienza economica contemporanea italiana su questo tema è notevole,
ritengo, se si pone mente al fatto che storicamente gli economisti italiani si sono posti sul
piano scientifico il tema del rapporto tra economia e politica; perfino gli economisti
liberali e liberisti. E per tutti rimando ad un testo che ritengo un classico e cioè al testo
di Luici Einaudi La condotta economica e gli e!etti sociali della guerra italiana , pubblicato da
Laterza nel 1933, dove l'economista tentavia di offrire una interpretazione del fascismo e
del rapporto tra le classi sociali italiani e il movimento e poi partito guidato da Mussolini.
Un testo classico perché riproponeva, di fatto, prima sul piano giornalistico e poi su
quello sistematico (il testo, infatti, è una sistematizzazione degli editoriali apparsi sul
“Corriere della sera”), un tema affrontato da tutti gli economisti italiani di fine Ottocento
e primo Novecento, da quelli socialisti a quelli liberali e proto-corporativi. E che li aveva
spinti ad affrontare anche il tema del fascismo.
Il riferimento ad Einaudi è importante anche per un altro motivo. Già una volta, infatti,
l'Italia ha sperimentato il micidiale combinato disposto di un movimento liberista e
antistatalista, radicalmente antisocialista e anticomunista, che traduce la propria radicale
ostilità alla democrazia politica avvallando la “riforma” elettorale voluta da Mussolini e
nota come Legge Agerbo, fortemente maggioritaria. Si è trattato del primo periodo,
appunto quello liberista, del fascismo, che va dal 1920 al 1925-26, quando il fascimo si
farà regime e comincerà a proporsi anche come “nuovo statalismo”, cioè come
corporativismo. Un periodo in cui la maggior parte degli economisti liberisti si schierò,
Einaudi compreso, per la reazione nazional-fascista. Pensando di poterla utilizzare. E
venendo alla fine travolti. Prima sul piano politico. Poi, con la Grande Crisi del '29, anche
su quello economico, fattuale e teorico. Non è chi non veda l'attualità di una simile
possibilità, come comprova la nascita in Europa di nuova nuova destra “radicale”.