Archimede, alle radici della modernità

Download Report

Transcript Archimede, alle radici della modernità

2
1
Renato Migliorato
ARCHIMEDE
Alle radici della modernità
tra storia scienza e mito
Dipartimento di Matematica e Informatica
Università di Messina
2
Dipartimento di Matematica e Informatica
Università di Messina
Viale F. Stagno D'Alcontres, 31
98166 Messina
Tel. 090 6565085
Direttore: prof. Francesco Oliveri
[email protected]
Pubblicazione in formato elettronico
Autore: Renato Migliorato
[email protected]
Data di pubblicazione: Dicembre 2013
ISBN 978 88 96518 69 4
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons
Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.
I termini della licenza sono consultabili ai seguenti indirizzi:
sintesi: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/deed.it
termini legali: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/legalcode
È consentita la libera distribuzione con ogni mezzo e supporto, purché a titolo gratuito e
senza finalità commerciali. Le copie distribuite dovranno essere assoggettate agli stessi
termini di licenza.
È vietata, senza il consenso dell'autore, la traduzione e ogni modifica che ne alteri in
qualunque modo, in tutto o in parte, il testo o la forma di presentazione. In particolare è
vietato realizzare copie prive della presente pagina di copyright. L'utilizzo, come
citazione, di parti limitate di testo è consentito purché se ne indichi la fonte nei seguenti
termini:
R. Migliorato, Archimede. Alle radici della modernità tra storia, scienza e mito,
Dipartimento di Matematica e Informatica, Università di Messina, 2013,
http://ww2.unime.it/alefzero/Archimede/
3
Dedico questo lavoro a tutti quei
giovani della mia isola e della mia città
che ripongono nella cultura e nella
memoria delle proprie radici una speranza
di rinascita civile
4
Ringraziamenti
Voglio ringraziare innanzitutto il direttore del Dipartimento di Matematica e Informatica
dell'Università di Messina, prof. Francesco Oliveri per il supporto fornito al mio lavoro
consentendone la pubblicazione nell'ambito del Dipartimento.
Ringrazio poi l'amico Antonio Cattino per avermi stimolato a scrivere questo ebook con
cui raccolgo il frutto di ricerche già precedentemente svolte e parzialmente pubblicate.
L'Associazione Siciliana Arte e Scienza (ASAS), nelle persone del suo presidente Flavia
Vizzari, del Vicepresidente Pier Paolo La Spina, di Nino Comunale, Antonello Irrera e del
Consiglio Direttivo tutto, per averlo voluto inserire in una più ampia iniziativa volta a ce lebrare il grande scienziato siciliano nel duemilatrecentesimo anniversario della nascita.
Un ringraziamento va ancora a quanti mi hanno coinvolto nelle celebrazioni archimedee
del 2013, e in particolare Gioachinpaolo Tortorici, direttore scientifico dell'Associazione
Fondazione Archimede di Siracusa, nonché direttore dell'ARCHISIR, il Prof. Ciro Ciliberto, presidente dell'Unione Matematica Italiana, il prof. Alfio Ragusa dell'Università di Catania e coordinatore del progetto in ambito regionale, il prof. Angelo Pagano, direttore del
Laboratorio C.N.R. di Fisica Nucleare di Catania, il Prof. Lucio Fregonese, presidente della Società Italiana degli Storici della Fisica e dell'Astronomia (SISFA), la prof. Rosanna
Utano, coordinatrice messinese del Progetto Lauree Scientifiche.
Un ringraziamento particolare va al prof. Giuseppe Boscarino, direttore della rivista Mondotre. La Scuola Italica, per le appassionate discussioni e gli scambi di idee da cui sono
emerse significative convergenze.
5
Indice generale
Premessa..................................................................................................7
Introduzione.............................................................................................9
1.La difesa di Siracusa..........................................................................16
2.Il mito degli specchi ustori.................................................................24
3.Dal mito all'oblio................................................................................28
4.Morte di Archimede: la trasparenza del mistero................................37
5.Le opere..............................................................................................43
6.La riscoperta e la scienza nuova........................................................48
7.Il tempo di Archimede.........................................................................56
8.Archimede e i fondamenti...................................................................63
9.Mito, scienza, metafisica.....................................................................70
10.Il paradigma euclideo.......................................................................78
11.Un enigma storico-scientifico e l'eclissi di un paradigma................83
12.La ricerca del libro perduto..............................................................88
13.Dalla geometria alla meccanica.......................................................95
14.Il cosmo.............................................................................................97
15.L'infinito..........................................................................................102
16.Il paradigma di Archimede.............................................................109
Conclusione..........................................................................................115
Bibliografia essenziale.........................................................................119
6
Renato Migliorato
Per oltre quaranta anni ha insegnato preso l'Università di Messina discipline che vanno
dalla geometria all'Analisi Numerica. ai fondamenti della matematica, alla storia e all'epistemologia della matematica. Le sue pubblicazioni spaziano anch'esse, nel corso degli
anni, dalla teoria dei numeri, alla combinatoria, alla teoria delle iperstrutture algebriche,
per indirizzarsi in modo pressoché esclusivo, negli ultimi anni, ai temi della storia e
dell'epistemologia della scienza.
È stato responsabile di un gruppo di ricerca nell'Ambito del Progetto Nazionale per la
Combinatoria e di un gruppo di ricerca sulla Didattica della Matematica finanziato dal
C.N.R.
Attualmente è Associate Editor della rivista Journal of Discrete Mathematical Sciences &
Cryptographiy e membro del Comitato Scientifico della rivista Ratio Mathematica. È stato membro del Comitato Organizzatore per la Sicilia del Premio Archimede indetto
dall'U.M.I. per il 2300 o anniversario della nascita di Archimede. È membro della Società
Italiana degli Storici della Fisica e dell'Astronomia. È stato per vari anni presidente della
sezione messinese della Mathesis.
È autore, tra l'altro, del volume La ragione e il fenomeno, edito nel 2013 dalla Aracne
Editrice. Ha pubblicato diversi articoli scientifici sulla matematica ellenistica e, in particolare, su Euclide e Archimede.
In atto collabora dall'esterno con il Dipartimento di Matematica e Informatica dell'Università di Messina e con il Progetto Lauree Scientifiche.
7
Premessa
Ricostruire la figura di Archimede su basi storicamente solide e attendibili
è un'impresa tutt'altro che semplice. La sua straordinaria fama e la sua popolarità, lungi dal facilitarne il compito, lo rendono ancora più arduo, proprio per quell'alone leggendario, così fortemente radicato intorno al personaggio e che, per altro, si sovrappone ad una tradizione interpretativa del
pensiero scientifico antico che solo da pochi decenni viene messa seriamente in discussione.
Già prima della metà dell'Ottocento, Johan Gustave Droysen coniava il termine Ellenismo1 per evidenziare la specificità di un percorso e di un clima
culturale ben preciso e distinguibile all'interno del più generale ambito delle culture di lingua greca. Nonostante ciò, nella storiografia delle scienze, e
della matematica in particolare, si continuava, fino ad oltre la metà del Novecento, a fare riferimento, in modo indifferenziato, ad un preteso pensiero
greco che, seguendo un percorso continuo e lineare, avrebbe pervaso, in
maniera indifferenziata, tutta la storia e la civiltà di lingua greca.
Per comprendere le radici di questo radicato pregiudizio è bene dire che le
prime opere di contenuto scientifico, giunte fino a noi, sono quelle di Euclide, di Archimede e, parzialmente, di Apollonio 2. Si tratta di opere chiaramente rivolte a lettori già iniziati al linguaggio scientifico e quindi prive di
spiegazioni sufficienti a chiarire gli apparati tecnici e concettuali. A partire,
invece, dal primo secolo d.C., prevalgono le opere di commento, ricche di
argomentazioni filosofiche protese a chiarire i concetti fondativi delle varie
discipline scientifiche. Non sorprende, allora, come, a partire dal Rinascimento e fin quasi ai nostri giorni, l'interpretazione dei testi antichi si sia
sviluppata pressoché interamente su queste ultime opere. L'arbitraria esten1
2
J. G. DROYSEN, Geschichte des Hellenismus, 2 vol., 1836–1843. V. anche: C. LÉVI, Le
philosophies hellénistiques, Ediz. Italiana: Le filosofie ellenistiche, Einaudi, Torino,
2002; L. CANFORA, Ellenismo, Laterza, Roma -Bari, 1995.
Esiste, in verità qualche eccezione riconducibile essenzialmente alla scuola peripatetica. Tra queste il trattato sulla bilancia, già attribuito ad Euclide e di cui comunque rimane solo la traduzione araba, e i due libri di Aristosseno sulla musica, che meriterebbero una discussione a parte (v. in proposito: A. SARRITZU, Aristosseno tra aristotelismo e nuova scienza, Atti Acc. Peloritana dei Pericolanti, Classe di Sci. Fis. Mat. e
Nat., Vol. LXXXVI, 2008, DOI:10.1478/C1A0802010, 2008, pp. 1-15).
8
sione ai testi di epoca precedente poggia, fondamentalmente, su pregiudizi
fortemente radicati, che non tengono conto, in maniera adeguata, delle profonde differenze sul piano socio-politico e delle mutate prospettive filosofiche e ideali.
Personalmente, in alcuni precedenti scritti, ho inteso contribuire a quel processo di revisione che, tra resistenze e contraddizioni, si è andato sviluppando a partire dalla seconda metà del Novecento.
Nelle pagine che seguono farò riferimento, in modo particolare, al mio recente libro La ragione e il fenomeno3 perché proprio in esso ho esposto con
maggiore ampiezza il mio punto di vista sullo statuto epistemologico della
scienza, sulla sua genesi storica e sui rapporti tra scienza e visione complessiva del mondo.
3
R. MIGLIORATO, La ragione e il fenomeno. Itinerari epistemologici tra matematica e
scienze empiriche, Aracne Editrice, Roma, 2013.
9
Introduzione
Giovedì 29 ottobre 1998 si svolgeva a New York una colossale asta, durante la quale, tra numerosi altri libri antichi, veniva venduto un prezioso, se
pur mal ridotto, palinsesto del XIII secolo. Lo acquistava, per ben due milioni di dollari, un avvocato inglese per conto di un anonimo miliardario
americano4.
Al primo esame, si trattava di un libro di preghiere redatto nel 1229, in un
monastero nei pressi di Gerusalemme. Le sue condizioni erano alquanto
precarie, mancavano pagine e, addirittura, nel tentativo, forse, di impreziosirlo, vi erano state dipinte delle false miniature, coprendo, così, il testo
sottostante. Ma la preziosità del volume non stava in ciò che esibiva, bensì
in ciò che nascondeva.
Era in uso, in età medievale, per la scarsità di pergamena, di riutilizzare
vecchi codici più antichi e ritenuti meno importanti, per scriverci sopra,
dopo avere raschiato il testo precedente. Staccate le pagine del codice originario le si piegava in modo che, dopo averle ripulite, si potessero ottenere da ogni foglio due fogli di formato minore. Queste poi si rilegavano, ottenendo quello che si dice un palinsesto.
In questo caso il palinsesto era già precedentemente noto, essendo scomparso intorno agli anni della prima guerra mondiale. Era ottenuto, in gran
parte, utilizzando le pagine di un codice bizantino più antico, di cui si poteva intravedere e ricostruire il testo originario. In effetti era stato già riconosciuto, all'inizio del Novecento, come una raccolta di opere di Archimede.
Su segnalazione di un bibliotecario, che aveva riconosciuto la presenza di
contenuti matematici, il filologo danese Johan Ludvig Heiberg, si recava a
Costantinopoli, dal 1906 al 1908, per studiare e fotografare il manoscritto.
Le fotografie di Heiberg furono tutto ciò che rimase dopo la scomparsa del
palinsesto e fino alla sua ricomparsa a New York, presso la casa d'asta.
Intanto, però, Heiberg aveva usato il testo scoperto (noto ormai come Codice C), assieme agli altri due soli codici superstiti contenenti i testi di Archimede e noti come Codice A e Codice B. Dal confronto di essi, e attraverso un meticoloso studio filologico, lo studioso danese riusciva a rico4
Per la storia del palinsesto v. R. NETZ & W. NOEL, Il codice perduto di Archimede, Rizzoli, Milano, 2007.
10
struire quello che più probabilmente si poteva ritenere il testo originario
delle opere archimedee oggi note. Dalla data della sua pubblicazione, e
fino ad oggi, quello di Heiberg è il principale testo di riferimento degli studiosi.
Tornando al palinsesto ritrovato, bisogna, dare atto all'anonimo miliardario
che lo ha acquistato, di avere dimostrato grande sensibilità e spirito di mecenatismo. Non ha esitato, infatti, pur restando anonimo, ad affidare il manoscritto al Walters Art Museum di Baltimora, assicurandone, a proprie
spese, non solo la conservazione, ma anche il restauro e lo studio, la cui direzione veniva affidata al filologo americano Raviel Netz.
Anche se non si hanno dati ufficiali, si può star certi che il costo di queste
ultime operazioni deve aver superato di gran lunga quei due milioni di dollari spesi per l'acquisto. Basti pensare che il libro si presentava in condizioni ben peggiori di come non lo avesse visto e fotografato Heiberg e che,
per fare emergere le parti più illeggibili del testo archimedeo, si è fatto ricorso, tra l'altro, alla fisica delle alte energie con l'uso, costosissimo, di un
sincrotrone.
Bisogna dire che la parte di testo recuperata e che non fosse già nota ad
Heiberg, è piuttosto limitata. In ogni caso è difficile dire, ora, se da essa
potranno scaturire elementi abbastanza significativi da poter modificare la
figura dello scienziato siracusano, anche se le novità interessanti non possono certamente mancare.
La ragione per cui ho scelto di partire da questo episodio è, invece, che
esso appare significativo di un problema molto più generale: quello della
sopravvivenza dei testi antichi, del loro riconoscimento e della loro autenticità. Non intendo, ovviamente, richiamare questioni tecniche, che poco interesserebbero in questa sede, ma solo chiarire alcune delle circostanze che
stanno alla base di tante incertezze interpretative e dei pregiudizi più o
meno persistenti. Vi sono, a questo proposito, almeno tre ordini di problemi.
Il primo riguarda la disponibilità del materiale documentario, ovviamente
di quello sopravvissuto ai secoli. Il secondo attiene all'autenticità del materiale sopravvissuto, o meglio, della corrispondenza delle copie sopravvissute, con l'originale scritto dall'autore ma ormai non più reperibile.
Il terzo ordine di questioni, il più interessante per noi perché costituisce
l'oggetto vero di questo libro, riguarda l'interpretazione del testo e la sua
11
collocazione nel contesto storico e culturale. Quest'ultimo livello, tuttavia,
non può essere affrontato in modo credibile se non dopo aver puntualizzato
lo stato delle cose sui primi due. Inizieremo perciò dalla sopravvivenza dei
testi archimedei.
Si è già detto che il testo base delle opere di Archimede a cui, da circa un
secolo, fanno riferimento gli studiosi, è quello ottenuto da Heiberg come risultato dello studio comparato dei codici A, B e C.
Volendo approfondire l'analisi, la questione è un po' più complessa, in
quanto la prima edizione dell'Opera Omnia di Archimede, edita da Heiberg
sul finire del XIX secolo5, si serve dei soli codici A e B, o meglio di copie o
traduzioni derivate da quei codici; gli originali, infatti, non esistevano più
fin da tempi remoti. Solo l'edizione del 1910-136 potrà, invece, tener conto
del codice C, da poco scoperto a Costantinopoli. Va detto ancora che delle
opere note di Archimede solo una è presente nei tre codici, alcune sono
presenti in due e altre in uno solo.
Pur non volendo appesantire la trattazione, ho ritenuto necessaria questa
premessa perché sia chiaro che la figura di Archimede di cui possiamo discutere e che possiamo ricostruire allo stato attuale, è inevitabilmente quella che ci viene restituita dal testo di Heiberg, oltre che dalle poche e non
sempre attendibili testimonianze storiche. D'altra parte, per quanto accurata
possa essere l'analisi condotta dal filologo danese, molti elementi permangono a impedire una ricostruzione che sia sufficientemente sicura. I testi su
cui egli fonda la propria ricostruzione sono un codice bizantino e vari derivati, tra copie e traduzioni, di altri due codici scomparsi tra il XIII e XIV
secolo. Questi a loro volta erano copie manoscritte di altri manoscritti,
anch'essi ricopiati un numero imprecisato di volte. In ognuna di tali copiature possono esserci state variazioni, errori e interpolazioni difficilmente ricostruibili. Di sicuro furono apportate variazioni linguistiche, in varie parti,
per adattarle al greco della koiné ellenistica, dal momento che Archimede
scriveva in greco dorico-siculo.
D'altra parte, questo è un dato comune a tutti i testi scientifici dell'antichità,
di quelli, almeno, che ebbero la fortuna di pervenire, interi o mutilati, fino
5
6
J. L. HEIBERG, Archimedis opera omnia cum commentariis Eutocii. E codice Florentino recensuit, latine vertit, notisque illustravit vol. I-III, Lipsiae, 1880-81.
J. L. HEIBERG, Archimedis opera omnia cum commentariis Eutocii, vol. I-III, Lipsiae,
1910-15.
12
ai nostri giorni. Di altri rimangono solo testimonianze e, nel migliore dei
casi, qualche traduzione in arabo o latino.
All'origine vi è certamente la deperibilità del materiale su cui si scriveva e
il numero esiguo di copie che si potevano realizzare manualmente fino
all'invenzione della stampa. Ma l'opera naturale del tempo non fu né l'unica
né, io credo, la principale causa dell'immane perdita di memoria storica e
culturale. Ad essa si sovrappongono le guerre, i saccheggi, le devastazioni,
nonché il disinteresse, quando non diffidenza o disprezzo verso il sapere
scientifico, per un periodo abbastanza lungo della nostra storia.
La distruzione della biblioteca di Alessandria fu certamente l'evento simbolo di questa distruzione, perché lì si raccoglievano opere provenienti
dall'intero bacino mediterraneo, ma non fu l'unico e non si svolse in un
solo atto. Innanzitutto, nel 48 a.C., l'incendio appiccato da Giulio Cesare
alle navi, nel porto di quella città, si propagava al palazzo reale distruggendo un'ala della biblioteca. Successivamente, nel 272 d.C., nella guerra sostenuta dall'imperatore Aureliano contro la regina Zenobia di Palmira,
l'intero palazzo reale veniva raso al suolo e, con esso, scompariva anche la
grande Biblioteca di Alessandria. Rimaneva ancora la cosiddetta Biblioteca
figlia, fatta costruire da Cleopatra e annessa al tempio di Serapide, ma
anch'essa era destinata a scomparire dopo breve tempo. In seguito ai due
editti di Teodosio (rispettivamente 380 e 391 d.C.), con cui venivano posti
fuori legge tutti i culti non cattolici, il tempio, con l'annessa biblioteca, veniva devastato da una folla di fanatici istigati dal vescovo Teofilo. Una sorte analoga subivano le altre biblioteche, tra cui quella di Pergamo, che aveva già tentato di rivaleggiare con la biblioteca alessandrina. Del resto, con
quale furia distruttiva venisse considerata ogni libera manifestazione del
pensiero, nel clima rovente delle lotta alle eresie, è testimoniato, nel 415,
sempre ad Alessandria, dall'atroce vicenda di Ipazia, scienziata e filosofa
neoplatonica, non convertita al cristianesimo e trucidata dai cristiani. Come
ci informa, tra le altre fonti, la Historia Ecclesiastica di Socrate Scolastico,
Ipazia, su istigazione del vescovo Cirillo e dei monaci parabolani, fu trascinata nel tempio già di Zeus, e poi trasformato in chiesa cattolica. Lì fu dilaniata ancora viva con cocci di ceramica. Successivamente i pezzi del suo
corpo furono trascinati per la città e, infine, dispersi sull'isola di Faros7.
7
In proposito è disponibile sul mio profilo di Academia.edu (https://unime.academia.edu/RenatoMigliorato) il resoconto di una mia relazione dal titolo La vicenda di Ipazia
13
Se questi fatti sono particolarmente significativi, proprio perché testimoniano di una pregiudiziale diffidenza vero il sapere scientifico e i libri portatori di pensiero, non meno devastanti sono state le distruzioni, se pur prive di finalità specifiche, conseguenti a guerre e saccheggi. Così, in epoche
posteriori ha avuto fine la grande biblioteca bizantina di Costantinopoli. E
non soltanto per opera dei turchi, quando nel 1453 la città cadde nelle mani
di Maometto II. Già, infatti, era stata devastata e saccheggiata da orde di
Crociati diretti a Gerusalemme8.
Se questo è solamente un saggio dell'opera distruttiva umana, ben più potente di quella operata dalla natura, possiamo ora cercare di comprendere i
meccanismi attraverso cui si è determinata quella selezione che ha consentito la sopravvivenza di certe opere e non di altre. È ragionevole supporre
che, in ciascun passaggio storico, hanno avuto maggiore probabilità di sopravvivenza quelle opere che, nel dato momento, destavano maggiore interesse ed erano quindi maggiormente riprodotte e diffuse.
È ben noto, ad esempio, come nel primo secolo a.C. il pensiero di Aristotele abbia avuto considerevole rilancio e diffusione a seguito della scoperta
delle sue carte inedite, scritte come appunti per le lezioni. Questi scritti,
originariamente non destinati al pubblico, furono dunque raccolte, ordinate e pubblicate, a cura di Andronico di Rodi, con il titolo complessivo di
Organon. Sono queste le opere di Aristotele che noi conosciamo, mentre
quasi nulla rimane di ciò che il filosofo stagirita aveva destinato alla pubblicazione. Ancora più avanti, la riscoperta e il rilancio di Aristotele avvenne prima nel mondo arabo ad opera di Averroè, e quindi, per contrapposizione, nell'occidente medievale cristianizzato, ad opera di Tommaso
d'Aquino.
Diverso è invece il percorso della filosofia di Platone. Dopo l'esito scettico
dell'Accademia, che caratterizzò il periodo ellenistico, il platonismo riveste
un ruolo fondamentale in epoca imperiale, per assumere infine, con Ploti-
8
tra ragion di stato e concezioni del sacro, in cui, tra l'altro, è riportata un'ampia bibliografia.
In particolare, durante la quarta Crociata (1202-1204), le truppe del Doge Enrico Dandolo ponevano sotto assedio la città di Costantinopoli nel tentativo di convertire l'Impero Bizantno al cattolicesimo. Gli incendi immani e i saccheggi che ne derivarono sono
descritti dall'erudito e storico bizantino Niceta Coniate, testimone impotente della catastrofe della sua città. Tali eventi costituiscono anche lo sfondo di una parte del bellissimo romanzo Baudolino di Umberto Eco.
14
no, la forma che conosciamo come neoplatonica.
Ciò che ha consentito agli scritti di Platone di passare indenni attraverso
tutte le intemperie della storia, è da cercare forse nella loro duttilità interpretativa. Il filosofo ateniese, infatti, non faceva mistero della sua predilezione per la trasmissione orale, e dunque iniziatica, del senso più profondo
del suo pensiero9. Ciò, verosimilmente conferisce quella flessibilità interpretativa che ne ha garantito la sopravvivenza anche nelle fasi più difficili.
Ed è proprio il filtro neoplatonico che anche il pensiero scientifico
dell'antichità ha dovuto attraversare prima di giungere a noi. Ne abbiamo
l'esempio più illuminante nel Commento al primo libro degli elementi di
Euclide di Proclo. Qui Euclide, sulla cui vita lo stesso autore dimostra di
non avere notizie attendibili, viene, senza esitazione, dichiarato platonico
convinto. Ma tutto il lungo commento del filosofo neoplatonico si pone in
netta e palese antitesi con lo stile asciutto e rigorosamente logico, privo di
qualunque riferimento di tipo ontologico, che caratterizza l'opera del matematico alessandrino. Eppure il pregiudizio perdurerà fin quasi ai nostri
giorni, se è vero che anche Popper considerava l'opera euclidea come la
compiuta realizzazione del programma di Platone10.
Dello stesso segno, sebbene non entri nello specifico dei contenuti scientifici, è l'aura mitica entro cui Plutarco ha posto la figura di Archimede. Affronteremo più diffusamente la questione, ma qui è bene anticipare come il
passo di Plutarco sullo scienziato siracusano, ne abbia condizionato l'immagine per i secoli seguenti ed, in parte, continui ancora a condizionarla,
quanto meno nella vulgata.
Prima di concludere questa introduzione vorrei ancora dire qualcosa in merito al modo di concepire la storia, senza di che, ogni tentativo di ricostruire la figura dello scienziato, collocandola nel tempo in cui visse, verrebbe a
mancare di una effettiva consistenza.
Si suole spesso dire che la storia debba fondarsi sui fatti. Pur condividendo
che essa non può ridursi a pura fantasia, ma debba poggiare su un terreno
solido, voglio tuttavia contestare l'idea che i fatti possano fornire un punto
di partenza veramente solido. Essi semplicemente non esistono, o non esi9
10
In proposito v. ad esempio: MURIZIO MIGLIORI, Il Sofista di Platone. Valore e limiti
dell'ontologia, Morcellana, Brescia, 2007.
K. POPPER, The open society and its enemie,. I: The spell of Plato (1950); Ediz. Italiana: La società aperta e i suoi nemici, I: Platone totalitario, Roma, 1973, p.339, nota 9.
15
stono più come entità compiute a sé stanti. Nella migliore delle ipotesi
sono rappresentazioni di eventi passati e nessun riscontro empirico diretto
può essere fatto, oggi, per verificarne o meno la sussistenza. Ciò che di essi
permane a nostra disposizione sono, invece, i segni di essi, sotto forma di
memoria individuale o collettiva, di documento scritto o di reperto materiale. Questi assumono, allora, lo stesso ruolo che, nelle scienze della natura,
viene assegnato ai dati fenomenici rilevabili empiricamente. Al contrario, i
fatti, intendo quelli storici, costituiscono gli omologhi di ciò che, nelle
scienze, chiamiamo teorie11.
Oggi noi parliamo, con assoluta naturalezza, di elettroni, di protoni, di
campo elettrico o gravitazionale, senza che nessuno li abbia mai visti, mentre possiamo sperimentare quotidianamente i loro effetti nei fenomeni fisico-chimici. Allo stesso modo parliamo delle guerre puniche o della strage
di Ustica, disponendo solo dei documenti che le testimoniano o, al più, della nostra stessa memoria e degli eventuali reperti come, ad esempio, la carcassa di un aereo distrutto.
Ma cosa avvenne realmente ad Ustica? E chi pose le bombe nella banca
dell'Agricoltura in quel lontano dicembre del 1969? Le sole risposte che
possono essere date sono le ipotesi che, sulla base delle testimonianze, dei
materiali disponibili e della coerenza con il quadro storico-politico generale, appaiono più attendibili.
Anche per gli eventi più remoti, non possiamo che seguire questa via, e se
pur sappiamo che nessuna risposta può essere dichiarata come la verità
certa e definitiva, non tutte le risposte possibili si equivalgono. La ricerca
su di esse non è dunque inutile e consiste nel costruire un quadro sempre
più coerente e attendibile. Essa è anzi irrinunciabile, perché ognuno di noi,
io credo, è essenzialmente la somma della propria memoria del passato e
del progetto del proprio futuro e nessuna di queste due dimensioni può sussistere senza l'altra. Così è anche per le collettività, per le culture, per le civiltà. Eliminare le contraddizioni e le incoerenze nella propria rappresentazione del mondo, dunque, è anche ricostruire sé stessi e ricollocarsi nel
fluire della storia. Con questo spirito mi accingo a ripercorrere la figura e
l'opera di Archimede e non per la vana pretesa di raggiungere verità definitive.
11
Anche questo aspetto è più ampiamente sviluppato in MIGLIORATO, La ragione e il fenomeno. Op. cit.
16
1. La difesa di Siracusa
L'unico dato della vita di Archimede che possa essere assunto con ragionevole certezza12 è la data della sua morte, avvenuta nel 212 a.C., nel corso
del saccheggio dopo la presa di Siracusa da parte dei romani. La data presunta di nascita (287 a.C.) è derivata da una notizia, non si sa quanto fondata, dell'erudito bizantino Giovanni Tzetze (XII sec.), secondo cui lo
scienziato sarebbe morto a 75 anni.
Numerosi autori, anche di recente, hanno raccolto e catalogato le notizie,
più o meno attendibili o più o meno leggendarie, che ci vengono tramandate dalla tradizione, ma non sempre accompagnandoli con il necessario approfondimento critico.
Non si tratta di accettare o di respingere il loro contenuto. Si tratta piuttosto di capire, o almeno tentare di capire, cosa possono dirci al di là del racconto letterale e aneddotico, anche quando si presentano palesemente fantasiose. Anche il mito e la leggenda, infatti, non nascono mai dal nulla e
sono comunque portatori di significati non banali. Ciò di cui, però, bisogna
essere consapevoli, è che tali significati esprimono, per lo più, i valori e i
punti di vista di chi li ha prodotti, piuttosto che quelli del soggetto a cui
sono attribuiti. In altri termini si tratta di essere ben consapevoli che i materiali di cui possiamo disporre, ci raccontano non già di Archimede quale
fu nel suo tempo, ma come lo videro nel mondo romano e, successivamente, in quello bizantino.
Al di là dei singoli episodi raccontati, e dei particolari non necessariamente
esatti, un dato che ritengo si possa trarre con assoluta ragionevolezza, è che
il Nostro si fosse impegnato non solo sul piano puramente teorico e della
pura conoscenza, ma anche nell'uso tecnologico delle conoscenze acquisite
e, in modo particolare, nella tecnologia militare per la difesa della propria
città.
12
Chiamo “ragionevole certezza” una convinzione che derivi da processi argomentativi
forti, ma non da presunte “evidenze”. In un recente romanzo (A. Stancanelli, Archimede e il mistero del planetario), si immagina che Archimede, scampato alla morte per
uno scambio di persona, si reca in Egitto sotto falsa identità, mentre è creduto da tutti
morto. Si tratta, ovviamente di pura fantasia, ma sta a ricordarci come nella storia non
possano sussistere evidenze.
17
A questo proposito è interessante confrontare le descrizioni rispettivamente
di Polibio, di Tito Livio e di Plutarco, dell'assedio di Siracusa da parte delle
truppe romane guidate dal generale Marcello.
Racconta, dunque, Polibio:
Marco Marcello avanzò verso Acradina con sessanta quinqueremi cariche di uomini armati di archi, di frecce e di giavellotti per respingere i difensori delle
mura. Oltre a queste egli aveva otto navi a cinque banchi alle quali aveva fatto
togliere i remi dalla parte destra o dalla sinistra; accostate dalla parte priva di
remi, esse si avvicinarono alle città spinte dai remi esterni, trasportando le macchine chiamate sambuche e ….13.
Dopo aver descritto la sambuca
come una sorta di ponte mobile agganciato alle due navi (fig. 1), così
continua
I Romani, allestiti questi mezzi,
pensavano di dare l'assalto alle
torri, ma Archimede, avendo preparato macchine per lanciare dardi
fig. 1: Ricostruzione di una sambuca. (ima ogni distanza, mirando agli assamagine di pubblico dominio da Wikipedia)
litori con le baliste e con catapulte
che colpivano più lontano e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio
e disordine in tutto l' esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo lontano, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza richiesta. In fine
scoraggiò completamente i Romani, impedendo loro ogni iniziativa di accostamento finché Marco, trovandosi in difficoltà, fu costretto a tentare di avvicinarsi
alla città nascostamente di notte. Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi,
Archimede architettò un'altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi: dalla parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie dell'altezza di un uomo,
larghe circa un palmo dalla parte esterna: presso di queste fece disporre arcieri e
scorpioncini e colpendoli attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i
soldati navali. Così non soltanto rendeva incapaci di qualsiasi iniziativa i nemici
sia lontani sia vicini, ma ne uccideva gran parte. Quando essi tentavano di sollevare le sambuche, ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro
e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si levavano minacciose al di
sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli: queste
potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo.
Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità della macchina e mediante una molla scagliavano una
13
POLIBIO, Historiae, 8.6.
18
pietra: ne seguiva che non soltanto la sambuca veniva infranta ma pure la nave
che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo.
Archimede aveva allestito macchine anche contro gli assalitori che, per mezzo
di graticci, si difendevano dalle frecce scagliate attraverso le feritoie del muro:
alcuni difensori scagliavano pietre a distanza giusta perché i combattenti si ritirassero da prua; altri calavano una mano di ferro legata a una catena per mezzo
della quale l'uomo addetto al governo del rostro, afferrata la prua, abbassava la
parte inferiore della macchina verso l'interno del muro; in questo modo, sollevata la prua, faceva rizzare la nave sulla poppa, poi fissata la parte inferiore della
macchina così che non si muovesse, per mezzo di un congegno apposito staccava la mano e la catena. In seguito a ciò alcune navi ricadevano su un fianco, altre si rovesciavano, quasi tutte, lasciate cadere dall'alto, imbarcavano acqua e si
riempivano di confusione. Marcello messo in difficoltà dai mezzi escogitati da
Archimede, e vedendo che i cittadini rendevano vano ogni suo tentativo e in più
lo facevano oggetto di scherno, [...].
Anche Appio [che conduceva l'assalto da terra], incontrate le stesse difficoltà,
desistette dall'impresa. Infatti quando ancora erano lontani dalla città, i suoi soldati perivano colpiti dalle baliste e dalle catapulte; gli assediati disponevano di
gran copia di dardi molto efficaci e di tutti i tipi, avendo Gerone procurato i
mezzi necessari e Archimede architettato e attuato ogni genere d'astuzia. Quando poi si avvicinarono alla città, parte dei soldati, come ho detto sopra, non riusciva ad avanzare a causa della quantità dei dardi lanciati dalle mura, mentre
quanti procedevano difesi dai graticci erano uccisi dai sassi e dalle travi che venivano gettate sulle loro teste. Non piccolo danno recavano inoltre le mani di
ferro delle macchine già ricordate, con le quali gli assediati sollevavano gli uomini così armati come erano e li scagliavano lontano. Infine Appio si ritirò nel
suo accampamento e convocati i tribuni decise con loro di ricorrere a qualunque
altro mezzo ma di rinunciare ad espugnare Siracusa con la forza. […] Convinti
invece che gli assediati sarebbero stati costretti ad arrendersi per mancanza di
viveri, essendo molto numerosa la moltitudine rinchiusa entro le mura, si appigliarono a questa speranza...14.
Val la pena di citare due passi rispettivamente di Tito Livio e Plutarco che,
sia pure con minore precisione, confermano sostanzialmente il racconto di
Polibio.
Abbiamo dunque da Tito Livio:
Le mura dell' Acradina, che, come si è detto prima, sono lambite dal mare, erano
assalite da Marcello con sessanta quinqueremi. Da tutte le altre navi arcieri e
frombolieri ed anche veliti, la cui arma è incomoda da rilanciare per chi non è
pratico, a stento permettevano a qualcuno di prendere posizione sulle mura sen14
Ibid, 8.7.
19
za essere ferito. Questi, poiché per le armi da getto c'è bisogno di spazio, tenevano le navi lontano dalle mura.
Alcune quinqueremi, unite a due a due, essendo stati tolti i remi delle parti interne così che una fiancata fosse congiunta all'altra, mentre venivano fatte andare
avanti dall'ordine di remi delle parti esterne come se fossero una nave sola, trasportavano torri munite di ripiani e altre macchine per abbattere le mura.
Contro questo assetto delle navi, Archimede dispose sulle mura congegni di diversa grandezza. Contro quelle navi che si trovavano lontano scagliava massi di
enorme peso, quelle più vicine colpiva con armi da lancio più leggere e perciò
più frequenti; infine, affinché i suoi senza rimaner feriti scagliassero armi da
getto contro il nemico, scavò nelle mura dal fondo alla sommità a breve distanza
l'una dall'altra aperture di circa un cubito, attraverso le quali alcuni con frecce,
altri con scorpioncini colpivano il nemico restando nascosti.
Alcune navi si accostavano più da vicino, per trovarsi al riparo dal tiro delle
macchine; mediante un'altalena sporgente al di sopra delle mura, un rampone di
ferro, attaccato ad una resistente catena, scagliato contro di esse dentro la prora
e per effetto di un pesante contrappeso di piombo ritirandosi indietro verso terra,
portata in alto la prora, alzava la nave sulla poppa; poi, lasciato cader giù improvvisamente, rilasciava la nave, come se precipitasse dalle mura con grande
panico dei marinai, a sbattere contro contro le onde con tale violenza che, anche
se ricadeva diritta, imbarcava parecchia acqua. In questo modo l'assalto per
mare fu reso vano, e ogni speranza fu volta all'obiettivo di sferrare un attacco
con le forze al completo per via di terra.
Ma anche quella parte era stata munita allo stesso modo di ogni attrezzatura di
macchine da guerra a spese e a cura di Gerone nel corso di molti anni, dall'abilità senza pari di Archimede...15.
E da Plutarco:
I Siracusani, quando videro i Romani investire la città dai due fronti, di terra e di
mare, rimasero storditi e ammutolirono di timore. Pensarono che nulla avrebbe
potuto contrastare l'impeto di un attacco in forze di tali proporzioni.
Ma Archimede cominciò a caricare le sue macchine e a far piovere sulla fanteria
nemica proiettili di ogni genere. Grandi masse di pietra cadevano dall'alto con
fragore e velocità incredibili, né c'era modo di difendersi dal loro urto: rovesciavano a terra tutti coloro che incontravano, e scompigliavano i ranghi.
Contemporaneamente dalle mura venivano proiettati in fuori all'improvviso dei
lunghi pali, che si puntavano in direzione delle navi e le affondavano senza rimedio, colpendole dall'alto con dei pesi, oppure le sollevavano diritte, afferrandole per la prua con delle mani di ferro o dei bacchi simili a quelli delle gru, per
poi immergerle nell'acqua con la poppa. Altre, mediante cavi azionati dall'interno della città, erano fatte girare e sballottate qua e là, finché si sfracellavano
15
TITO LIVIO, 24, 34, 4-13.
20
contro le rocce e gli scogli posti sotto le mura, con grave massacro degli uomini
che erano a bordo, i quali facevano la stessa fine della nave16.
Non è difficile constatare come i racconti di Polibio e Tito Livio siano pienamente compatibili, anzi sovrapponibili, salvo particolari che si completano a vicenda. Più sintetico è il resoconto di Plutarco, che trae quasi certamente le informazioni dai primi due. Va osservato, però, come ad una minore informazione “tecnica”, faccia invece riscontro una maggiore coloritura, laddove l'autore inferisce un presunto stato d'animo dei siracusani assediati (...rimasero storditi e ammutolirono di timore). Come si vedrà, del
resto, non è l'unico esempio, in Plutarco, di coloriture funzionali al progetto culturale e ideale che sta alla base delle sue Vite parallele.
Cruciale è, da questo punto di vista, il passo seguente, dove, dopo aver reso
conto delle macchine da guerra disposte da Marcello per l'attacco alla città,
aggiunge:
Ma tutto questo ha dimostrato di essere di nessun conto agli occhi di Archimede
e in confronto con le macchine di Archimede.
A questi non aveva affatto dedicato se stesso come opera degna di sforzo serio,
ma la maggior parte di esse erano solo il risultato di una geometria praticata per
divertimento, dal momento che in altri tempi il re Gerone aveva ardentemente
desiderato e finalmente lo aveva persuaso a trasformare un po' delle nozioni
astratte della sua arte in cose materiali, applicando la sua filosofia in qualche
modo ai bisogni sensibili, in modo da renderla più evidente alle menti comuni17.
E, per rendere conto dell'asserito disinteresse di Archimede per le applicazioni al mondo sensibile, Plutarco prosegue ricordando come la meccanica,
iniziata da Archita di Taranto, sia poi stata utilizzata nella soluzione di problemi geometrici, e conclude affermando:
Ma Platone criticava questo aspramente, e inveiva contro di loro come corruttori
e distruttori della pura eccellenza della geometria, che in tal modo ha voltato le
spalle alle cose incorporee del pensiero astratto e disceso alle cose sensibili 18
Con chiaro riferimento a un passo de la Repubblica, in cui Platone fa dire a
Socrate:
[…] tutti coloro che s’intendono anche un poco soltanto di geometria non ver16
17
18
PLUTARCO, Vite Parallele: Marcello, 15.
Ibid. 14.3-4.
Ibid, 14.6.
21
ranno a negarci che questa scienza sia proprio l’opposto di come la descrivono
coloro che la praticano. [I matematici] La descrivono in un modo ridicolissimo e
meschino, comportandosi da persone pratiche e non rivelando nei loro discorsi
che scopi pratici. Parlano di «quadrare», di «costruire su una linea data», di «aggiungere per opposizione», usano ogni sorta di simili espressioni. Invece tutta
questa disciplina va coltivata in funzione della conoscenza19.
In realtà il passo di Platone, lungi dal costituire una prova dell'adesione di
Archimede alla filosofia platonica, dimostra quale profonda divaricazione
vi fosse tra l'effettivo modo di procedere degli scienziati e il pensiero del
filosofo ateniese.
Plutarco prosegue poi, più avanti, con una descrizione più particolareggiata
delle fasi di attacco e dei mezzi di difesa predisposti da Archimede, la cui
potenza si può valutare, ad esempio, dal peso dei massi che riescono a lanciare (si parla di dieci talenti, corrispondenti a non meno di duecento chili).
La superiorità tecnologica dei difensori, riconosciuta alla fine da Marcello,
è compendiata dal Plutarco nella seguente conclusione:
Poiché Archimede aveva costruito la maggior parte delle sue macchine a ridosso
del muro, ai Romani sembrava di combattere contro gli dei, ora che innumerevoli mali furono riversati su di loro da una fonte invisibile. Tuttavia, Marcello,
prendendo ciò con ironia, e scherzando con i suoi artigiani e ingegneri, «smettiamo» disse, «la lotta contro questo Briareo geometra, che usa le nostre navi
come tazze e mestoli del mare [...] e, sparando tanti missili contro di noi tutti in
una volta, sorpassa i mostri centimani della mitologia»20.
Alla fine, però, Plutarco non manca di aggiungere:
Eppure Archimede possedeva uno spirito così nobile, un'anima così profonda, e
una tale ricchezza di teoria scientifica, che, anche se le sue invenzioni gli avevano procurato un nome e una fama di sovrumana sagacia, non avrebbe acconsentito a lasciare dietro di sé alcun trattato su questo soggetto, ma ritenendo il lavoro di un ingegnere e di ogni arte che si coltiva per le esigenze della vita, come
ignobile e volgare, ha dedicato i suoi sforzi sinceri solo a quegli studi di cui la
sottigliezza e il fascino non sono interessati da motivi di necessità21.
In questo modo Plutarco ottiene due risultati. Il primo, di natura culturale e
filosofica, è di annettere Archimede, l'uomo più famoso ed eminente
dell'epoca, ma anche il pensiero scientifico che rappresentava, alla filosofia
19
20
21
PLATONE, Repubblica, 527.
PLUTARCO, Vite, Marcello, 16.2-17.1.
Ibid, 17.3-4.
22
platonica. Il secondo è invece di natura politica e rientra nel piano complessivo delle sue vite parallele, oltre che nel disegno universalistico
dell'imperatore Adriano. Se, infatti, l'Impero Romano deve presentarsi
come il culmine di un processo storico unitario, che raccoglie e sintetizza il
mondo Mediterraneo in un'unica civiltà greco-romana, allora un uomo della grandezza e della fama di Archimede non poteva essere, spiritualmente e
culturalmente, assegnato al nemico sconfitto, né presentato come fiero oppositore dell'espansione imperiale.
23
2. Il mito degli specchi ustori.
L'aspetto leggendario più noto della figura di Archimede è sicuramente
quello legato agli specchi ustori, anche se è, allo stesso tempo quello storicamente più improbabile. Le notizie esplicite più antiche oggi disponibili
sono dovuta agli storici bizantini del XII secolo Giovanni Zonara e Giovanni Tzetzes, secondo i quali il Nostro sarebbe riuscito ad incendiare le
navi di Marcello, facendo convergere su di esse fasci di luce solare concentrata mediante un sistema di specchi ustori. Si sarebbe trattato di un dispositivo esagonale composto da ventiquattro specchi piani opportunamente
inclinati per far convergere la luce del sole in un stesso punto.
Non si conosce la fonte a cui avrebbero attinto i due eruditi bizantini, per
altro poco attendibili se si pensa che, ad esempio, Zonara inizia la sua epitome historiarum, addirittura, dalla creazione del mondo.
È probabile che la notizia sia pervenuta attraverso interpretazioni arbitrarie
e induttive di testi precedenti. Tra questi il più antico oggi disponibile è il
trattato Sul temperamento22 di Galeno (II sec. d.C.) in cui si esprime, come
convincimento personale, che Archimede abbia mandato in fiamme le triremi assedianti, ma senza alcun riferimento all'uso di specchi.
Solo a titolo di esemplificazione di come la trasmissione delle notizie storiche possa subire slittamenti di significato riporto qui il passo di una traduzione latina del XV secolo in cui si legge:
Hoc arbitror modo aiunt &\ Archimedem hostium triremes urentibus speculis incendisse (Penso che in questo modo, si dice, Archimede incendiò le navi nemiche con specchi ustori)23.
Dove appaiono gli specchi ustori (urentibus speculis), assenti nel corrispondete testo originale24.
Sull'argomento si è molto discusso e vi è un'ampia letteratura. Mi limito
22
23
24
GALENI PERGAMENSIS, de temperameti, Lipsiae in Edibus B. G. Teubeneri, 1868, libro
III, cap. 2, 657-658.
GALENI PERGAMENSIS, de temperamentis, et inequali intemperie, Thomas Linacro Anglo Interprete, 1521, riprodotto in fac-simile, University of Cambridge, 1861.
οῡτω δέ πως, οῑμαι, χαὶ τὸν `Αρχιμήδεν φασὶ διὰ τῶν πυρείων ἐμπρῆσαι τὰς τῶν
πολεμίων τριήρεις (V. nota 22). Non si fa cenno all'uso di alcun genere di specchi
(κἀταπτρον).
24
dunque a un breve cenno sui principali aspetti che rendono la notizia ben
poco, o per nulla, attendibile.
Il primo è nella difficoltà tecnica di fare convergere i raggi del sole a grande distanza e su obiettivi in movimento. Molti sono stati i tentativi, a partire da Leonardo da Vinci e dallo stesso Galileo di ricostruire dispositivi del
genere, fondati sugli specchi concavi, e non mancano neppure studi recenti
in proposito. È da escludere che un tale dispositivo si possa ottenere con
un solo specchio. A parte le enormi difficoltà costruttive, esso farebbe convergere i raggi in un punto a distanza fissa, rendendo alquanto aleatoria la
possibilità di fissarlo per un tempo adeguato su un punto di una nave in avvicinamento. Si è dunque ipotizzato un sistema che preveda almeno due
specchi parabolici, in modo da produrre un fascio di raggi paralleli ma di
diametro ridotto. La concentrazione dei raggi, fatte salve le eventuali perdite dipendenti dalla qualità della superficie riflettente, sarebbe accresciuto di
una misura pari al quadrato del rapporto tra il diametro del fascio incidente
e quello del fascio emergente. Questo, tra l'altro, comporterebbe un delicato meccanismo, all'epoca difficilmente realizzabile, di sincronizzazione con
il movimento solare. L'altra soluzione più accreditata è quella di un grande
numero di specchi piani manovrati manualmente da diversi soggetti, in
modo da far convergere i raggi su un unico punto, come sembrano indicare
le fonti bizantine. Su questa ipotesi sono state tentate varie ricostruzioni,
con risultati non sempre concordanti. Secondo uno studio di Carlo Zamparelli, recentemente pubblicato dal GSES (Gruppo per la Storia dell'Energia
Solare)25, un risultato modesto (l'inizio di un incendio che si potrebbe spegnere con un secchio d'acqua) su di una nave a 100 metri dalla costa, si sarebbe potuto ottenere, alla latitudine di Siracusa, intorno a mezzogiorno di
una serena giornata estiva, con circa sessanta specchi manovrati da altrettanti siracusani, dalle mura della città. Sebbene dunque, la possibilità teorica, appare confermata, essa è però negata dal rapporto costi benefici. Perché esporre sessanta uomini al tiro delle navi nemiche per un risultato minimo, oltre che aleatorio, quando se ne potrebbe ottenere uno più consistente con frecce incendiarie lanciate dalle feritoie di cui parla Tito Livio?
Dal punto di vista storico, tuttavia, ciò che più conta è che né Polibio, né
Tito Livio, né Plutarco, che pure descrivono ampiamente le fasi della batta25
CARLO ZAMPARELLI, Storia, Scienza e Leggenda degli Specchi Ustori di Archimede,
2005, in http://www.gses.it/pub/
25
glia, menzionano quello che, se fosse avvenuto, sarebbe stato l'episodio più
clamoroso e appariscente. Quello che, più d'ogni altro, avrebbe giustificato
il ritiro delle forze navali di Marcello e dato forza al quadro ideologico da
essi delineato.
Tuttavia, come dicevo all'inizio, tra gli episodi leggendari, questo rimane
tuttora il più noto e popolare. Intanto perché colpisce di più la fantasia,
non soltanto del pubblico generico, ma anche quella degli studiosi, avendo
stimolato gli studi sugli specchi parabolici e, più in generale, l'interesse
verso l'uso dell'energia solare. Ma un supplemento di popolarità può essere
venuto, all'inizio Novecento (1914), dal film Cabiria di Pastrone; il primo
grande colossal italiano del cinema muto e forse il secondo a livello mondiale. L'episodio degli specchi ustori è il solo significativo riferimento
all'assedio di Siracusa, ma si trova inserito in un film che seppe coinvolgere, oltre ai ceti popolari, attratti da una storia melodrammatica e storicamente fantasiosa, anche i ceti medi per la presenza di riferimenti letterari,
una buona musica, tecniche di ripresa e montaggio straordinarie per l'epoca
e, soprattutto, per le didascalie, con la loro intonazione decadente, scritte
da D'Annunzio.
Mito, dunque26, ma il mito non è vacua fantasia da dimenticare o rimuovere. Esso è il frutto dei pensieri, delle visioni, dei valori e delle speranze dei
tanti, che, nel tempo, si sono stratificati intorno a un nucleo originario. È
distinto dalla storia e dalla scienza, perché queste ultime soltanto possono
darci, razionalmente, la consapevolezza del nostro essere e del nostro vivere. Distinto, ma non separato, perché storia e scienza non possono vivere
senza l'apporto fecondo dell'immaginazione. È dalla dimensione mitica che
prendono avvio i significati, i valori, i nuclei linguistici e concettuali, vero
corpo vivente di ogni visione del mondo27.
26
27
Il fatto che gli specchi ustori non abbiano un riscontro effettivo nelle realizzazioni impiegate durante l'assedio di Siracusa, non esclude che, sul piano teorico, abbiano potuto
essere oggetto di studio dello scienziato. Le proprietà degli specchi concavi, del resto,
trovano supporto nello studio delle coniche, ampiamente sviluppato nel terzo secolo.
Inoltre è da ritenersi certo che specchi concavi venissero usati per convogliare la luce
emessa dal faro di Alessandria (v. in proposito L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata,
Feltrinelli, Milano, 2001; 1a ediz. 1996). nnnnnnnnnnnnnnnnnn
Per una più completa disamina del pensiero dell'autore su scienza e storia e sui rapporti
con il mito, v. il mio La ragione e il fenomeno. Op. cit. (v. nota 3).
26
Il mito che si è andato costituendo sulla figura di Archimede, e in modo particolare
sugli specchi ustori, ne è la
prova più illuminante28. Basta pensare, a questo riguardo, come esso sia servito da
stimolo a intere generazioni
di studiosi e ricercatori nella
ricerca sulla riflessione della
luce e sulle proprietà geometriche delle superficie concafig. 2: Uno degli specchi ustori nella centrale solare ve. Si sono già menzionati
termodinamica Archimede. Priolo, Siracusa.
Leonardo da Vinci e Galileo,
Immagine tratta dal sito http://futuribilepassato.blogspot.it/
ma la schiera è ininterrotta
fino ai giorni nostri, concretizzandosi anche nel grande sogno, oggi sempre più realtà, di poter controllare e utilizzare l'energia del sole.
Uno degli atti più recenti di questo mito è stata la centrale elettrica a specchi ustori, fortemente voluta da Carlo Rubbia e intitolata ad Archimede,
che da pochi anni è stata inaugurata a Priolo, presso Siracusa (fig. 2).
28
Dico “in particolare”, proprio per la sua popolarità. Su un piano di maggiore approfondimento, non sono da meno le dimensioni mitiche costruite attorno alla stessa produzione teorica dello scienziato. Si pensi al numero  (pigreco), al rapporto tra sfera e cilindro, al concetto di baricentro e alla legge della leva, ma soprattutto ai suoi metodi
che preconizzano con oltre mille anni di anticipo, le idee dell'analisi infinitesimale. Ma
di queste cose si dirà più avanti.
27
3. Dal mito all'oblio
Se da quanto abbiamo visto nel primo capitolo (La difesa di Siracusa), il
racconto di Plutarco, poteva essere sufficiente a porre Archimede sotto
l'ombrello della filosofia platonica, ciò che lo stesso filosofo e storico dirà
poco più avanti, trascende quell'obiettivo e fa dello scienziato siracusano
piuttosto un mistico visionario, in netto contrasto, come si vedrà, con i contenuti dei suoi scritti. Afferma dunque Plutarco:
[…] non possiamo non credere alle storie raccontate su di lui, di come, sotto il
fascino duraturo di qualche sirena a lui familiare e domestica, si sia dimenticato
anche il suo cibo e trascurato la cura della persona, e di come, quando veniva
trascinato con la forza, come spesso avveniva, a fare il bagno e ungere il suo
corpo, avrebbe tracciato figure geometriche sulla cenere, e disegnato linee con il
dito sull'olio con cui il suo corpo veniva unto, posseduto da una grande gioia, e
in verità era prigioniero delle Muse29.
Tuttavia il nostro filosofo neoplatonico, lascia intendere che sta solo riportando voci già esistenti, testimoniando così di un'aura di leggenda, già costruita nel tempo, dopo la morte dello scienziato. Aura che, comunque, non
esita ad accogliere come dato storicamente credibile, elevandolo, probabilmente, dalla semplice vulgata, alla dignità del pensiero alto30.
29
30
Ibid, 17.6.
Personalmente non posso non pensare ai coloriti aneddoti che si narravano quand'ero
studente, sul conto di qualche vecchio professore deceduto anni prima. Ma per evocare
un esempio più illustre, mi viene in mente quanto si diceva di Pirrone di Elide e che
viene riportato da Diogene Laerzio con le parole: «Condusse una vita coerente con
questa dottrina, senza mai deviare dalla sua via, senza prendere precauzioni, ma andando incontro a tutti i rischi come venivano, fossero carri, precipizi, cani o
quant'altro, e, in generale, senza lasciare nulla all'arbitrio del sensi, ma è stato tenuto
fuori dal pericolo dai suoi amici che, come Antigono di Caristo ci dice, lo seguivano
da vicino» (DIOG. LAER., Vite, cap. 9). Ma in realtà, durante i viaggi al seguito di Alessandro Magno, è presumibile che abbia conosciuto il concetto indiano di Maya, che ancora oggi rimane per lo più incompreso nel mondo occidentale e viene, spesso ma scorrettamente, tradotto con la parola illusione, mentre sarebbe forse più adeguato il concetto di Mondo dei fenomeni, in contrapposizione a quello di essere in sé. In quel caso, tuttavia, è lo stesso Diogene Laerzio che, subito dopo, aggiunge: «Ma Enesidemo dice che
era solo la sua filosofia a fondarsi sulla sospensione del giudizio, mentre lui non mancava di lungimiranza nei suoi atti di tutti i giorni» (Ibid.).
28
La leggenda di Archimede, per altro, doveva essere molto vasta, costellata
di amenità e di aneddoti che rispecchiavano l'ingenuità di quanti, stupiti
dalle sue realizzazioni, non potevano comprenderne i procedimenti teorici
da cui scaturivano. Un'ingenuità che non era limitata alle sole persone incolte, se si pensa che la cultura di lingua latina non fu mai penetrata,
nell'antichità, dalle scienze matematiche. Queste, infatti furono sempre coltivate in lingua greca, anche nell'età imperiale romana.
Non può sorprendere, allora, che una delle storie più amene ci venga tramandata da Vitruvio nel De architectura, dove troviamo un Archimede che
corre nudo gridando Eureka, eureka! E perché? Per avere intuito la soluzione di un problema: scoprire l'eventuale frode di un orafo nei confronti
del tiranno Gerone. Una soluzione che a Vitruvio appare come «l'espressione più alta del suo ingegno»31.
Secondo lo scrittore e architetto latino, Archimede avrebbe scoperto la frode immergendo successivamente, in un recipiente totalmente pieno d'acqua, la corona consegnata dall'orafo, una quantità d'oro di uguale peso e
una quantità d'argento di peso anch'esso uguale e poi confrontando le quantità di acqua fuoruscita. Ma Archimede, e forse non solo lui nel mondo ellenistico, possedeva strumenti di conoscenza per risolvere il problema in
modo anche più elegante, e, soprattutto, quantificando l'entità della frode.
Ben altri, e più profondi, sono, come vedremo, i contenuti delle sue opere.
Per il momento, tuttavia, vogliamo occuparci delle dimensioni mitiche della figura di Archimede, così come è stata tramandata nei secoli successivi
alla sua morte. Ciò non vuol dire che tutte le informazioni che ci provengono dalle diverse fonti siano prive di fondamento, ma solo che esse rispecchiano i punti di vista e i livelli di comprensione di chi, di volta in volta, le
ha tramandate. Così, ad esempio, è difficile nutrire dubbi sul ruolo che egli
ebbe nel campo delle tecnologie.
È, se mai, da sfatare il pregiudizio, tutto ideologico, secondo cui il Nostro
vi si dedicasse di malavoglia, disprezzando tutto ciò che attiene alle attività
pratiche e al mondo sensibile. Un pregiudizio la cui origine è facile da
comprendere, essendo insito nella filosofia neoplatonica dei suoi maggiori
commentatori, tra cui in primo luogo Plutarco. Tale punto di vista, intanto,
mal si concilia con la quantità e qualità di dispositivi meccanici a lui attribuiti. Né mi sembra pertinente l'osservazione, da parte di Plutarco, che egli
31
VITRUVIO, De Architectura, 9.9.
29
non ha mai pubblicato i progetti delle sue macchine. È del tutto ragionevole, infatti, che i presupposti teorici e le soluzioni tecniche di queste, specie
se di natura militare ma non solo, venissero considerate segrete32.
Ma l'argomento principale, che esamineremo in seguito, scaturisce dalle
suo opere scritte, di natura teorica, dove potremo constatare la distanza che
c'è, nella sua concezione della scienza, dalla filosofia platonica, ma anche
da quella aristotelica.
Premesso ciò, faremo ora una rapida sintesi delle realizzazioni che gli vengono attribuite, della vasta aneddotica che lo riguarda e delle circostanze,
per molti versi oscure, della sua morte.
Uno degli aneddoti più ricorrenti è quello che gli attribuisce la frase: «datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo». Una formulazione, questa, che ricorre nella maggioranza delle vulgate moderne in lingua italiana
sullo scienziato, ma che tradisce il senso della stessa rappresentazione fornita dalle fonti antiche. In realtà la prima citazione nota, dovuta a Pappo,
ha, in greco, la seguente forma: «δός μοι ποῡ στῶ καί κινῶ τὴν κῆν»33 traducibile come «datemi una posizione stabile e muoverò la terra»34. La differenza non è trascurabile, soprattutto per la sostituzione del termine muovere
(κινέω) con il termine sollevare. Se, infatti a quest'ultima parola si dà il significato di “allontanare dal centro della terra”35, non si comprende come
possa essere applicata alla terra stessa. Altrimenti dovrebbe presumersi una
direzione privilegiata alto-basso, suggerendo l'idea di una rappresentazione
32
33
34
35
Sarebbe stato sorprendente se Fermi e Oppenheimer avessero pubblicato le loro ricerche sulla bomba atomica, e non certo per disprezzo di quest'attività. Tra l'altro sarebbero finiti sulla sedia elettrica per tradimento.
Coerenti con questa sono anche le analoghe citazioni riportate da Simplicio (V-VI sec.)
e dallo storico bizantino Tzetzes (XII sec.). In entrambe, infatti, è usato il verbo κινέω,
anche se in Simplicio appare differente il contesto .
In inglese Thomas Heath ( T. L. HEATH, The works of Archimedes, Cambridge University Press, 1897), traduce correttamente «Give me a place to stand on, and I can move
the earth» e, analogamente nell'edizione originale di Dijksterhuis (E. J. DIJKSTERHUIS,
Archimedes, Ejnar Munksgaard, 1956) si legge: «Give me a place to stand on, and I
will move the earth», ma incomprensibilmente nell'edizione italiana della stessa opera
(E. J. DIJKSTERUIS, Archimede, Ponte delle Grazie, 1989) diventa «datemi un punto di
appoggio e io solleverò il mondo». La stessa espressione viene anche ripetuta dal recentissimo: MARIO GEYMONAT, Il Grande Archimede, Teti Editore, Roma, 2008.
Al centro della terra fa riferimento esplicito lo stesso Archimede nella sua opera “sui
corpi galleggianti”, quando postula che ad esso convergono i pesi.
30
fig. 3: Archimede progetta gli specchi ustori
fig. 4: Lo specchio ustore appare sulle mura di Siracusa
Due inquadrature del film Cabiria di Giovanni Pastrone
Italia - 1914
31
arcaica della terra, già superata, nel mondo greco, fin dal V sec. a.C.
La citazione, comunque, sembra alludere ad un episodio, riferito da Plutarco. Archimede avrebbe detto al tiranno Gerone che una qualunque forza,
anche piccola, può muovere qualunque massa, per quanto grande essa sia
(è questo il senso della precedente citazione). Richiesto da Gerone di dare
di ciò una dimostrazione pratica, lo scienziato gli avrebbe mostrato come,
mediante un dispositivo costituito verosimilmente di varie pulegge, riusciva egli stesso a
spostare agevolmente, da solo, una grande nave
armata ed equipaggiata, che, in precedenza, era
stata portata sulla riva con grande difficoltà.
Anche Proclo riferisce l'episodio. Secondo
quest'ultimo, si sarebbe trattato di una nave di
dimensioni enormi (la Syracusia), che Gerone
avrebbe poi donato al re Tolomeo d'Egitto e
che sarebbe stata costruita a Siracusa sotto la
supervisione di Archimede.
In questo caso, al di là di specifiche coloriture,
possiamo ritenere che il racconto contenga un
nucleo di informazioni abbastanza attendibili.
Innanzitutto il contributo di Archimede nel so- fig. 5: Dispositivo che convrintendere a costruzioni navali trova riscontro, sente di equilibrare conun
sia pure indirettamente, nelle suo opere scritte, peso P un peso quattro volte
laddove nello studio sui corpi galleggianti, maggiore, e B dunque riduprende in esame il comportamento del segmen- ce del 75% lo sforzo necessario per sollevarlo.
to di paraboloide, la cui sezione è molto simile
a quella di uno scafo navale.
Quanto, al contenuto, invece, dell'affermazione attribuita ad Archimede,
non si può dire che essa sia di per sé abbastanza chiarificatrice del suo pensiero e della sua opera meccanica. In mancanza delle necessarie precisazioni, la si può infatti interpretare su un piano puramente teorico e astratto oppure sul terreno, più concreto, dello spostamento di un oggetto pesante in
presenza di attrito. La prima accezione mal si raccorda con la dimostrazione pratica descritta da Plutarco36.
36
In ogni caso essa non è sufficiente a descrivere il moto di un corpo. Potrebbe esprimere, se mai, qualcosa in negativo sulle condizioni di equilibrio, nel senso che un corpo
32
In questo caso possiamo pensare all'uso di dispositivi, probabilmente costituiti da più pulegge, in grado di demoltiplicare lo sforzo necessario a trascinare o a sollevare un peso. Nella figura 5 è schematizzato un dispositivo
con tre pulegge in grado di equilibrare un peso P con uno pari a ¼ P. Va
detto subito, però che, in queste condizioni, se si vuole sollevare il peso B
per un'altezza l, occorre che il peso A si abbassi di una lunghezza 4l.
Sullo stesso principio si può immaginare un dispositivo con n pulegge in
grado di trascinare in orizzontale un peso posto in B con una una forza, posta in A che sia pari a 1/2n della forza che sarebbe necessaria per trascinarlo
direttamente. Analogamente al caso precedente, se si vuole trascinare B per
una lunghezza l occorre che il punto A si sposti di una lunghezza pari a
.
Supponiamo allora che si voglia trascinare un'imbarcazione sulla spiaggia
(fig. 6) e che, per fare ciò, si usi un dispositivo di questo tipo, costituito da
dieci pulegge. La forza necessaria sarebbe allora demoltiplicata di un fattore pari
. Ammettiamo allora che, in tali condizioni, l'imbarcazione possa essere mossa agevolmente da una sola persona. Questa
però dovrebbe tirare la fune per oltre un chilometro se volesse spostarla di
un metro, mentre tirando per soli 10 metri, la sposterebbe di un solo centimetro. Il fatto è che, qualunque dispositivo meccanico, può moltiplicare o
demoltiplicare la forza necessaria a produrre un determinato spostamento,
ma sempre in modo da lasciare inalterata la quantità totale del lavoro effet-
fig. 6: Il dispositivo in figura consente di ridurre del 75% lo sforzo necessario per trascinare l'oggetto. Tuttavia per avere un dato spostamento bisognerà percorre uno spazio quattro volte maggiore.
qualsiasi non può essere in equilibrio (ma si muove) se soggetto ad una forza, per quanto piccola. Ma anche questo richiederebbe che si specificasse l'assenza di altre forze o
vincoli.
33
tuato37.
Da tutto ciò, io credo, si può arguire quali siano i reali fondamenti e quali
le coloriture del racconto mitico.
Meno nota, tra le realizzazioni attribuite ad Archimede, vi è quella di un
planetario, portato a Roma dopo la sua morte e descritto da Cicerone con
ammirato stupore.
M. Marcello [si riferisce a Marco Claudio Marcello (42-23 a.C), nipote di Augusto e discendente dell'omonimo generale Marcello, protagonista dell'assedio di
Siracusa], [...], ordinò che si portasse la sfera che l'avo di M. Marcello aveva
tratto, dopo la presa di Siracusa, da quella città ricchissima ed ornatissima, sola
preda ch'egli avesse voluto portare in patria. Di questa sfera di cui avevo tanto
sentito parlare, data la gloria di Archimede, io rimasi a prima vista un po' disilluso; […] ma non appena Gallo [Gaio Sulplicio Gallo] ebbe cominciato a spiegarci con la più profonda dottrina il senso dell'opera, mi parve che in quel Siciliano
fosse un ingegno ben più alto d'ogni altro ingegno umano. Ci diceva infatti Gallo che quell'altra sfera, solida e piena, era un'invenzione anteriore di Archimede
e che Talete di Mileto ne aveva dato primo il modello che poi da Eudosso di
Cnido, discepolo, a quanto si diceva, di Platone, era stato ornato con la raffigurazione delle costellazioni, […] Senonché, una rotazione sintetica, comprendente il moto del sole e della luna e delle cinque stelle che si chiamano erranti, e
quasi vagabonde, non avrebbe, [...], mai potuto essere riprodotta in quella primitiva sfera solida, e in ciò per l'appunto era il lato mirabile dell'invenzione di Archimede: egli aveva trovato il modo di riprodurre in una rotazione unica gli ineguagliabili moti delle stelle e la loro varia corsa. Mentre Gallo faceva muovere
questa sfera, si vedeva la luna succedere al sole nell'orizzonte terrestre ad ogni
giro come gli succede anche in cielo e si verificava la stessa scomparsa del sole
dal cielo e lo stesso collocarsi della luna nell'ombra della terra non appena il
sole fosse dal lato opposto... 38
E poi ancora
Perché, allo stesso modo in cui, nel Timeo, il dio di Platone edificò il mondo,
Archimede fece in modo che una sola conversione governi movimenti diversi
per lentezza e velocità della luna, del sole e dei cinque pianeti, cosa che in questo mondo non può essere fatto senza dio, neppure nella sfera Archimede avreb37
38
Si ricorda che, in meccanica, si chiama lavoro di una forza F applicata a un punto P, il
prodotto tra l'intensità della forza e lo spostamento di P lungo la direzione della forza.
Un principio fondamentale che sta alla base di tutti i dispositivi di demoltiplicazione
della forza (leva, puleggia mobile, ecc..) è appunto quello dell'invarianza del lavoro totale delle forze, durante un movimento qualsiasi del sistema.
CICERO, De Republica, I, 14.
34
be potuto imitare lo stesso moto senza un'intelligenza divina39.
È questa la sola descrizione del planetario di cui cui possiamo disporre.
Esso, evidentemente è un modello dei moti apparenti degli astri, compresi i
moti di retrogradazione dei pianeti, già spiegati da Eudosso, in un modello
geocentrico, mediante l'introduzione degli epicicli.
Cicerone, così come gli era stato spiegato da Sulplicio Gallo, osserva che
ciò è umanamente impossibile da ottenere, in un meccanismo ad ingranaggi, a partire da un unico movimento impresso dall'esterno. Questa, impossibilità, per altro, è stata confermata nel 1975 da Neugebauer, nel caso in cui
il meccanismo sia fondato su un sistema geocentrico qual'era quello adottato da Eudosso e, in seguito, ripreso e perfezionato da Tolomeo. Gli stessi
moti apparenti sono invece possibili da ottenere se il meccanismo è incentrato sul sole, anziché sulla terra, come avviene nel
modello proposto da Aristarco e
già noto ad Archimede.
Riprenderemo l'argomento più
avanti. Ciò che a questo punto
interessa è come, in una fase in
cui l'ipotesi di Aristarco doveva
essere fondamentalmente accanfig. 7: Modello didattico di coclea. Il tubo ester- tonata o dimenticata, quel mecno è realizzato in vetro per consentire la visione canismo potesse apparire taldella struttura elicoidale interna. Questa, ruotan- mente miracoloso da contribuire
do consente di sollevare facilmente grandi quanal mito di Archimede come ispitità di acqua.
rato dalla divinità.
Vi sono altre realizzazioni tecnologiche attribuite ad Archimede. Tra questi
la coclea, un dispositivo elicoidale che ruota entro un tubo per aspirare acque dalla stiva di una nave o da una miniera (fig. 7). Si ipotizza che qualcosa di simile egli abbia visto già funzionante in Egitto per sollevare
l'acqua in un complesso sistema di canali40. È possibile, allora, che egli ab39
40
CICERO, Tusculanae Disputationes, I.
È noto che gli Egizi possedessero tecnologie molto avanzate, perfezionate empiricamente nei secoli, pur senza una precisa base teorica. In particolare un sistema di canali,
separati da chiuse, consentiva alle imbarcazioni di superare i dislivelli. Per far ciò era
35
bia perfezionato il dispositivo, ponendolo su basi teoriche mediante lo studio delle superfici elicoidali.
Ma a costruire l'alone mitico che circonda il nostro scienziato, non sono
solo le stupefacenti realizzazioni tecnologiche accessibili a tutti. Ad un livello più alto sarà anche la sua opera teorica, la cui chiave diverrà illeggibile quando si smarrirà la dimensione creativa della scoperta scientifica.
Ma per comprendere le dinamiche di questo processo bisognerà fare un
passo avanti, attraverso l'analisi delle sue opere e della loro collocazione
nel contesto del mondo ellenistico. Con il declino e la successiva eclissi del
pensiero scientifico era intanto inevitabile che la potenza del suo pensiero,
in quanto sempre più inafferrabile, venisse prima divinizzata per poi cadere
nell'oblio del Medio Evo.
Al mito appartengono anche le circostanze della sua morte nelle diverse
versioni che, da fonti diverse, sono state poi tramandate fino ai nostri giorni. Ma questo merita un capitolo a sé.
necessario disporre di mezzi per il sollevamento dell'acqua, al fine di alzare il livello in
un tratto di canale, prima di aprire la chiusa che lo collegava ad un tratto più elevato.
36
4. Morte di Archimede: la trasparenza del mistero
È stato già detto. Archimede morì nel corso delle tragiche vicende del saccheggio conseguente alla caduta di Siracusa. Ma per comprendere il senso
di mistero che avvolge le circostanze della sua morte, e che, a buon diritto
entra a far parte del mito, è bene partire dal racconto che ne fa Plutarco:
Ma più di tutto Marcello fu addolorato dalla sventura che toccò ad Archimede.
Per una malaugurata circostanza lo scienziato si trovava solo in casa e stava
considerando una figura geometrica, concentrato su di essa, oltreché con la mente, anche con gli occhi, tanto da non accorgersi che i Romani invadevano e conquistavano la città.
Ad un tratto entrò nella stanza un soldato e gli ordinò di andare con lui da Marcello. Archimede rispose che sarebbe andato dopo aver risolto il problema e
messa in ordine la dimostrazione. Il soldato si adirò, sguainò la spada e lo uccise.
Altri storici narrano il fatto diversamente. Dicono che il romano si presentò già
con la spada in pugno, pronto per ammazzarlo, e che Archimede, appena lo vide,
lo pregò di aspettare un istante, affinché non lasciasse incompleto e privo di dimostrazione ciò che cercava; ma il soldato senza tanti complimenti lo finì.
Secondo una terza versione alcuni soldati incontrarono per strada Archimede,
mentre stava portando a Marcello uno strumento scientifico, composto di meridiane, sfere e quadranti, mediante i quali si misurava a vista la grandezza del
sole, dentro a una cassa. I soldati pensarono che avesse con se dell’oro, e lo uccisero.
Tutti gli storici sono però concordi nel dire che Marcello fu molto addolorato
dalla sua morte e ritrasse lo sguardo dall’uccisore, quando gli si presentò, come
se fosse un essere contaminato. Trovati poi i suoi parenti, li onorò41.
Al di là delle varianti riportate da Plutarco, ma ve ne furono anche altre,
tutte le versioni contengono tre elementi sostanziali:
1) L'evento sarebbe avvenuto accidentalmente e contro la volontà delle autorità romane, rappresentate, nel caso specifico, dal generale Marcello.
2) La manifestazione di cordoglio per la perdita di una personalità che godeva di grande fama e stima in tutto il mondo mediterraneo.
3) La non assimilazione di Archimede al nemico sconfitto, nonostante il
ruolo da lui svolto nella difesa della città. Quest'ultimo elemento passa attraverso l'assunzione del personaggio ad un mondo idealizzato di eroi che,
41
PLUTARCO, Vita di Marcello, 19, 8-12,
37
come gli dei dell'Olimpo, sono indifferenti alle passioni umane. Nel momento della morte egli è rapito da visioni contemplative di pura perfezione
geometrica e, dunque, non è in grado di sfuggire il pericolo.
Oggi possiamo chiederci se davvero sia stato ucciso per errore, per indifferenza o per deliberata volontà del vincitore romano. Nell'impossibilità di
una risposta supportata da elementi solidi, non possiamo sciogliere il mistero, ma potrebbe apparirci eloquente se lo osserviamo in filigrana.
Non posso non citare a questo proposito quanto diceva Renato Calapso nel
discorso di chiusura delle Celebrazioni Archimedee del 1961:
Va bene che la storia, specialmente quella di Plutarco, è metà fatti e metà fanta sia: ma in una circostanza così grave perché non ci si limita ai soli fatti? Perché
non si dice che Archimede, dopo di avere difeso Siracusa eroicamente e genialmente, con tutto l'impegno e tutto il vigore di cui era capace, morì ucciso dai
soldati di Roma, quando la città cadde? Ma poi come negare questa verità incontrovertibile e cioè che Archimede, per sua ferma deliberazione non poteva e
non doveva cader vivo nelle mani dei romani? [...] Ve l'immaginate che allegria
per Marcello trascinarsi dietro in catene il più grande uomo dell'epoca, scalzo,
lacero, sanguinante, preso dai veterani a calci, a pugnalate, a scudisciate, fra il
pianto delle donne siracusane, scarmigliate e pazze, nella tragedia del popolo
vinto?42
Come già osservavo altrove43, è proprio questo, «il pianto delle donne [qui
siracusane, ma potrebbero essere ateniesi dopo il sacco di quella città, o di
tante altre città ugualmente vinte], scarmigliate e pazze, nella tragedia del
popolo vinto» ciò che troppo spesso la storia rimuove e, in modo particolare, le rimuove la storia del pensiero scientifico nell'antichità. Le rimuove
come se queste cose nulla avessero a che fare con le aspirazioni, le passioni, i valori e le visioni del mondo, che ispirano le scelte, anche epistemologiche, degli scienziati e dei filosofi. Troppo spesso, a chi prospetta momenti di forte rottura epistemologica nell'ambito della cultura alessandrina, si
rimprovera di non avere una sufficiente quantità di “prove”. Ma se appena
si esce dai pochi testi scientifici superstiti per dare uno sguardo all'ambiente circostante, diventa difficile, quasi impossibile, credere che un'effettiva
continuità di pensiero si potesse realizzare. Ed allora è proprio a chi sostie42
43
CALAPSO, R. (1961), Archimede nella vita e nella scienza: Discorso di chiusura delle
celebrazioni, Celebrazioni Archimedee del Secolo XX, 11-16 Aprile 1961, Vol. I: Conferenze generali e simposio di geometria differenziale, Messina, 1961, pp. 63-68.
R. MIGLIORATO, La ragione e il fenomeno, Op. cit., p. 113.
38
ne una tale improbabile continuità che bisognerebbe richiedere l'onere della prova.
In questo caso, tuttavia, possiamo ipotizzare che anche per la parte romana,
l'eventuale presenza, tra i prigionieri, di un Archimede vivo, avrebbe potuto essere imbarazzante e di non facile gestione.
Ricordiamo brevemente i fatti. Dopo che Pirro aveva abbandonato la Sicilia, nel 270 a.C. Gerone II era divenuto tiranno di Siracusa e, prudentemente, aveva cercato forme di alleanza con i romani. Alla sua morte, però, avvenuta nel 215, era prevalso il partito più oltranzista che, ritenendo essere
l'espansionismo romano il pericolo più incombente per la propria sicurezza, aveva optato per l'alleanza con Cartagine. Da qui l'accusa di tradimento
e il conseguente assedio da parte romana. Ora, però, associare Archimede
alla città vinta, e precipuamente al suo partito antiromano, sarebbe stato
certamente pericoloso e controproducente per la reputazione del vincitore.
Egli era infatti la personalità più in vista e più stimata tra gli intellettuali e
tra i tra ceti che contavano in quel mondo ellenistico su cui Roma puntava
le sue mire egemoniche. Il suo ruolo attivo nella difesa della città doveva
essere velato da un alone di mistico distacco dalle cose mondane, e ciò poteva avvenire solo se fosse morto in modo accidentale. D'altronde le guerre
puniche non erano ancora concluse e, in Sicilia, Morgantina continuava ancora a resistere. Quest'ultima città, caduta l'anno successivo, dovette subire
una dura repressione, con la deportazione di quasi tutti gli uomini validi e,
in seguito alla quale, essa decadde rapidamente fino a che non se ne perse
quasi del tutto la memoria.
Quando, più avanti, con la terza guerra punica, verrà distrutta Cartagine e
la sua civiltà verrà quasi totalmente cancellata dalla storia, la cultura grecoellenistica sarà invece parzialmente assorbita e digerita dal mondo romano.
Se, dunque, da una parte, le immediate urgenze politiche devono avere innescato l'alone di mistero sulle circostanze della sua morte, ancora più profonde, possiamo ritenere che siano state le ragioni attorno a cui si costituisce la dimensione mitica del personaggio. Questo, infatti, sembra costruirsi, con successive stratificazioni, all'interno di un processo di trasformazione del mondo antico che sfocerà nella società imperiale romana, con i suoi
valori, la sua visione del mondo, i suoi assetti economici, politici e militari.
Nel farsi erede della tradizione greco-ellenistica, la civiltà romana non poteva fare a meno di trasfigurarla, relegando in una dimensione idealizzata
39
tutto ciò che non serviva, o non era compreso o che, addirittura, potesse
contrastare con le proprie basi fondanti. Tale era, certamente, l'approccio
ellenistico alle scienze della natura, così come cercheremo, più avanti, di
mettere in evidenza.
Se riteniamo che stiano così le cose, non sorprende, allora, se anche la figura di Archimede abbia dovuto pagare un tributo per essere salvata
dall'oblio. Il prezzo non poteva consistere se non nell'essere sottratto alla
consistenza reale, sia pur straordinaria, di uomo e di scienziato del suo
tempo, per essere assunto in un pantheon ideale e rarefatto. Un mondo fatto
di estasi e di pura contemplazione, dove il sapere scientifico giunge come
un flusso di ispirazione divina e di grazia beatificante.
Lo troviamo così nel racconto di Plutarco, che, richiamandosi alla tradizione platonica, lo pone in una posizione di disprezzo per tutto ciò che è utile
o appartiene al mondo sensibile: « ... uno spirito così nobile, un'anima così
profonda [… che riteneva] ogni arte che si coltiva per le esigenze della
vita, come ignobile e volgare, [e] ha dedicato i suoi sforzi sinceri solo a
quegli studi di cui la sottigliezza e il fascino non sono interessati da motivi
di necessità»44.
Ma il nucleo più profondamente neoplatonico emerge con maggiore chiarezza quando vengono descritte le sue estasi, mentre, posseduto dalla musa,
si diletta a tracciare figure geometriche sul proprio corpo appena unto. O
quando, al momento della morte, contempla una figura geometrica, come
se i teoremi geometrici potessero scaturire dalla contemplazione estatica.
È questa, per altro, la visione della scienza che verrà tramandata e sviluppata nei secoli successivi, e che verrà mirabilmente espressa da Proclo nel
suo lunghissimo Commento al Primo Libro degli Elementi di Euclide. Un
commento che, sicuramente, è prezioso per le notizie storiche riferite e di
cui non vi sono altre fonti, è parimenti significativo per la comprensione
del pensiero di Proclo, ma è privo, allo stesso tempo, di qualunque apporto,
anzi è fuorviante, per la comprensione della geometria di Euclide. Un solo
passo voglio qui riportare, a titolo di esempio:
Che dunque il triangolo equilatero è il più bello dei triangoli e il più affine al
cerchio che ha tutte le rette partenti dal centro eguali e una sola e semplice linea
che lo delinea dall'esterno, è ad ognuno evidente. Sembra ora che il fatto di essere racchiuso dai due cerchi, e da una parte di questi – perché il triangolo è iscrit44
V. supra, cap. 1.
40
to non nei due cerchi interi, ma nella sesta parte di ciascuno – mostri quasi in
immagine in che modo le cose che partono dai principi ne ricevono la perfezione....
.... E se ogni anima procede dall'intelletto, ritorna all'intelletto, e partecipa
dell'intelletto in due modi, ben si addice che anche per questo il triangolo, simbolo della triplice sostanza delle anime, nasca avviluppato da due circoli.... 45
proprio perché da esso emerge con chiarezza la concezione metafisica, spiritualista e contemplativa della scienza, in contrapposizione a quella linguistico-concettuale-empirista, comune, come vedremo, alla scienza moderna
e a quella ellenistica.
Possiamo dire a questo punto che le figure di Archimede sono tre. C'è un
Archimede reale, in carne ed ossa, o meglio c'è stato. Sul piano della pura
conoscenza esso è ciò che kantinamente potremmo definire il noumeno. La
pura e semplice posizione di esso alla coscienza è la precondizione di ogni
ulteriore analisi e riflessione. Vi è poi l'Archimede mitico, prodotto delle
stratificazioni culturali e ideologiche di cui riflette i caratteri. Infine
l'Archimede storico, quale può emergere solo da un'analisi scientificamente
condotta e, soprattutto, dallo studio dei suoi scritti. Anche quest'ultimo Archimede, tuttavia, non può non risentire dei diversi punti di vista e delle
differenti concezioni epistemologiche. Abbiamo cercato fin qui di percorrere la linea del mito, intrecciandola, e allo stesso tempo distinguendola, con
quella della storia. Nel seguito cercheremo soprattutto di evidenziare i caratteri del suo pensiero scientifico e della sua eredità sulla scienza moderna.
Prima di chiudere il capitolo dedicato alle vicende della sua morte, vorrei
solo in maniera fuggevole, e senza commenti, ricordare il racconto di Cicerone circa il presunto ritrovamento della sua tomba.
Essendo questore, trovai il suo sepolcro, di cui i Siracusani negavano l'esistenza,
tutto circondato e rivestito di rovi e cespugli. Ricordavo di alcuni senari, che si
dicevano scritti sulla sua tomba: dicevano che sulla sommità del sepolcro era
posta una sfera con un cilindro.
Un giorno scrutavo ogni angolo con lo sguardo (fuori della porta sacra a Ciane
c'è un gran numero di sepolcri) e scorsi una piccola colonna che non sporgeva
molto dai cespugli, su cui vi era l'immagine di una sfera e di un cilindro. Dissi
subito ai Siracusani (si trovavano con me i più eminenti) che pensavo si trattasse
proprio di ciò che cercavo. Si mandò molta gente con falci e il luogo fu ripulito
45
PROCLO, Commento Elem., 215.
41
e sgombrato.
Quando fu liberato l'accesso, ci avvicinammo al lato frontale del piedistallo: si
vedeva un epigramma i cui versi erano corrosi verso la parte finale. Così una
fra le più celebri città della Grecia, e una volta anche fra le più dotte, avrebbe
ignorato il sepolcro di uno dei suoi più acuti cittadini, se non gliela avesse rivelato un uomo di Arpino46.
46
CICERONE, Tusculanae disputationes, libro I.
42
5. Le opere
In questo capitolo mi limito ad una rapida descrizione delle opere superstiti
di Archimede, senza entrare nel merito di esse. Lo scopo è essenzialmente
di offrire al lettore un punto di riferimento per i richiami che saranno fatti
in seguito, unitamente ad una bibliografia essenziale per chi volesse approfondire l'argomento. Nei capitoli successivi affronterò invece le tematiche
di ordine storico ed epistemologico che, secondo un punto di vista non soltanto mio, ci potrà consentire di ritrovare, nell'opera archimedea, uno dei
passaggi chiave di quel pensiero scientifico ellenistico che, riscoperto molti
secoli dopo, avrebbe aperto la strada al mondo moderno.
Come si era già anticipato, parte di queste opere si sono tramandate grazie
a trascrizioni varie a partire da due codici (codice A e codice B), redatti nel
XI secolo e da gran tempo ormai perdute. Invece il cosiddetto manoscritto
sul metodo, così come lo stomakion, sono presenti solo nel codice C, di cui
si è già parlato. Del tutto differente è la questione per quanto riguarda il cosiddetto libro dei lemmi, sia perché se ne conosce solo una traduzione in
lingua araba, sia per la sua alquanto dubbia attribuibilità ad Archimede. Il
problema dei buoi, infine, ci viene tramandato attraverso varie testimonianze.
Quanto all'ordine di presentazione, non vi sono elementi che ne provino la
cronologia. Tuttavia Archimede richiama talora, nel corso di un discorso,
qualche enunciato la cui dimostrazione è riscontrabile in un'opera precedente. Ciò ha consentito di costruire un percorso cronologico di massima,
anche se non in modo completo e rigoroso. Secondo questo criterio sono
elencati i primi otto fra i titoli che seguono. Per ogni altra notizia si rinvia
alla bibliografia esistente47.
47
Il primo riferimento d'obbligo è, ovviamente, all'edizione di Heiberg dell'Opera Omnia
di Archimede, e in modo particolare a quella del 1910-15 (v. nota 5). Subito dopo è da
indicare, l'edizione in lingua inglese di Heath del 1897, contenente un'introduzione storico critica, ma priva di riferimenti al codice C non ancora scoperto. Quindi l'edizione
di Dijksterhuis. Entrambe queste opere sono state già citate nelle nota 34. Infine c'è
l'edizione in lingua italiana di Attilio Frajese (A. FRAJESE, Opere di Archimede, UTET,
Torino, 1977). Quest'ultima, va detto, quali che possano essere i limiti filologici e interpretativi, è la prima vera traduzione pressoché letterale delle opere archimedee in una
lingua moderna. Le opere precedenti, infatti, al di là della lingua utilizzata, presentano
43
1. Sull'equilibrio dei piani
In due libri: nel primo viene introdotto il concetto di baricentro di una figura piana e si determina il baricentro di figure rettilinee (parallelogramma
e triangolo). Avremo modo di soffermarci su questo argomento.
2. Sui galleggianti
Anche quest'opera comprende due libri. Nel primo libro, dopo avere stabilito i principi fondamentali dell'equilibrio in un liquido soggetto a gravità,
si dimostra la sfericità della superficie del mare. Nel secondo libro si studia
il comportamento di un corpo galleggiante. In particolare, facendo uso del
concetto di baricentro, si considera il galleggiamento di un segmento di paraboloide. La sezione di quest'ultimo solido, va osservato, è simile alla sezione della chiglia di una nave. Sebbene il lavoro sia teorico, quindi, non è
difficile ipotizzare qualche relazione con le notizie circa sua opera di sovrintendenza alla costruzione di navi.
3. Quadratura della parabola
Vi si dimostra che l'area di un segmento parabolico è uguale a quattro terzi
dell'area di un triangolo avente la stessa base e uguale altezza. La dimostrazione rigorosa è ottenuta con il metodo di esaustione e, a tal fine, Archimede introduce per la prima volta un'assunzione che è oggi nota come postulato di Eudosso-Archimede. Di questo si parlerà più avanti. Va anche detto
che nella dimostrazione di alcuni lemmi egli fa uso di concetti meccanici,
ma anche di ciò si dirà in seguito.
il testo in un'arbitraria traslazione algebrica, secondo un linguaggio simbolico moderno,
inesistente nell'antichità. Di ciò si avrà occasione di parlare in seguito, ma va detto subito che l'operazione si fondava sulla convinzione, tutta ideologica, degli autori, secondo cui l'uso del linguaggio simbolico dell'algebra potesse restare un fatto puramente
linguistico, ma neutro sul piano concettuale.
Nel 2004 veniva pubblicata la nuova traduzione in lingua inglese dei due libri sulla sfera e il cilindro (R. NETZ, The Works of Archimedes: The Two Books on the Sphere and
the Cylinder: Translation and Commentary, 1, Cambridge Univerity Press, Cambridge,
New York, 2004), come primo volume di un progetto che comprendeva l'intera opera di
Archimede. La pubblicazione di successivi volumi si è tuttavia fermata in attesa di poter meglio studiare il palinsesto ritrovato. Infine del 2013 è la trduzione italiana del Metodo da parte di Fabio Acerbi (ARCHIMEDE, Metodo. Nel laboratorio di un genio, (a
cura di F. Acerbi, C. Fontanari, M. Guardini), Bollati Boringhieri, Torino, 2013).
44
4. Sulla misura del cerchio
Vi si dimostra dapprima che [l'area di] un cerchio è uguale [all'area di] un
triangolo rettangolo con base pari alla circonferenza e altezza pari al raggio. Successivamente vien calcolato il valore frazionario approssimato del
rapporto tra circonferenza e raggio. In termini moderni, è il valore approssimato del numero Π = 3,14.
5. Sulle spirali
Archimede definisce la spirale come la curva descritta da un punto che si muove su una retta con
velocità costante mentre la retta stessa ruota attorno a un punto, anch'essa con velocità costante.
Si tratta di una di quelle curve di ordine superiore, che oggi vengono definite trascendenti. I teoremi contenuti in questo trattato sono particolarmente notevoli sia per la difficoltà nel determinarne gli enunciati che per la raffinatezza dei
procedimenti dimostrativi. Di particolare interes- fig. 8: Spirale di Archimede
se è anche la lettera introduttiva indirizzata a Dositeo, perché più evidente che altrove appare in essa l'atteggiamento di sfida verso gli altri matematici e la particolare stima nei confronti del defunto
Conone, suo probabile maestro. Tra l'altro, egli qui irride al fatto che nessuno si sia accorto di due enunciati palesemente errati.
Per tutti questi motivi l'opera meriterebbe un approfondimento particolare
che, tuttavia, non è pensabile in questa sede. Mi limito quindi ad osservare
come il nostro scienziato non esiti ad utilizzare, all'interno di una trattazione squisitamente geometrica, una curva definita mediante concetti cinematici. Ciò basterebbe già di per sé, ove non vi fossero altri motivi, a mettere
gravemente in crisi le affermazioni su un presunto platonismo di Archimede.
6. Sui conoidi e sferoidi
Il metodo di esaustione è ancora utilizzato con successo in una serie di problemi di quadratura e cubatura di figure geometriche piane o solide limitate
rispettivamente da linee e superfici curve. In particolare si tratta dell'ellisse
45
e dei solidi ottenuti dalla rotazione di sezioni coniche.
7. Sulla sfera e sul cilindro
Proseguendo con l'uso del metodo di esaustione si dimostrano teoremi di
quadratura e cubatura. Ad esempio che Qualsiasi sfera è uguale a quattro
volte il cono che ha la base uguale al cerchio massimo della sfera e l'altezza uguale al raggio della sfera o che Qualsiasi sfera è uguale a quattro
volte il cono che ha la base uguale al cerchio massimo della sfera e l'altezza uguale al raggio della sfera.
8. L'Arenario
Usando un ingegnoso sistema di rappresentazione esponenziale dei numeri,
Archimede mostra come sia possibile esprimere e rappresentare numeri più
grandi di qualunque grandezza immaginabile. In particolare egli calcola il
numero dei granelli di sabbia che possono essere contenuti in una sfera il
cui raggio sia maggiore della presunta distanza tra il sole e l'ipotetica sfera
delle stelle fisse. È notevole il fatto che, a tale scopo, egli adotti il modello
cosmologico di Aristarco che pone il sole e non la terra al centro dell'Universo.
9. Il Metodo
Presente solo nel codice C, quest'opera si presenta come una riflessione sui
metodi della geometria e, in particolare su quelli che implicano processi infiniti. Precisamente Archimede rende noti i metodi meccanici da lui utilizzati per trovare dei risultati che, successivamente, venivano però dimostrati
con il metodo di esaustione. Ci soffermeremo convenientemente su questo aspetto che si pone tra i
più interessanti nell'ambito dell'opera di Archimede.
10. Lo stomakion
Anche questo è presente solo nel codice C. Si presenta sostanzialmente come un gioco che consiste
nel disporre un insieme di 14 pezzi differenti tra fig. 9: Una delle possibili
loro in modo da costituire un quadrato. Sostanzial- disposizioni dei 14 pezzi
mente una sorta di puzzle o di Tangram (fig, 9). Ad dello Stomakion
46
un esame più attento però, ci si accorge che la soluzione non è unica e che
si può porre il problema di quante siano le soluzioni possibili. Con l'uso del
calcolatore tale numero è stato ora trovato ed è 17.152. Le simmetrie interne del gioco, che stanno alla base di tale numero, fanno pensare ad una sorta di calcolo combinatorio ante litteram per via geometrica48.
11. Il problema dei buoi
Si tratta di un problema tramandato in vari testi e consistente nel calcolare
il numero di tori e giovenche di diversi colori, essendo data una serie di relazioni tra il numero di esemplari di ciascun gruppo. Il problema è riconducibile, nei termini moderni, ad un sistema di equazioni indeterminate. Il
fatto è però che tale sistema, se il testo tramandato non è corretto, porta a
delle soluzioni così grandi da non essere praticabili con gli strumenti
dell'epoca. Si è supposto, pertanto che il problema costituisse una burla di
Archimede nei confronti dei suoi colleghi.
L'ipotesi formulata da Umberto Bartocci e Maria Cristina Vipera è, però,
che il testo possa aver subito delle alterazioni tali da rendere la soluzione
impraticabile49. Fra le varianti possibili proposte dai due autori, una delle
più praticabili comporta una soluzione che, se pur di gran lunga meno ardua, si fonda tuttavia su un numero di 88 cifre. Ancora troppo per essere
accessibile ai tempi di Archimede. L'ipotesi della burla rimane, così, ancora in piedi.
12. Il libro dei lemmi
È fondamentalmente una raccolta di risultati su problemi elementari, utilizzabili come lemmi per trattazioni di carattere superiore. Il testo a noi pervenuto è, però, una versione araba per cui non è garantita né la fedeltà all'originale né la sicura attribuzione ad Archimede dei singoli risultati.
48
49
V. NETZ, Il codice perduto, op. cit.
U. BARTOCCI, M. C. VIPERA, Variazioni sul problema dei buoi di Archimede, ovvero,
alla ricerca di soluzioni possibili, http://www.cartesio-episteme.net/mat/archim.htm
47
6. La riscoperta e la scienza nuova
Come si è già accennato, nel mondo antico non è esistita una tradizione
delle scienze esatte in lingua latina. Esse, anche in età imperiale, continuavano, sia pure con tutti i limiti di cui si parlerà in seguito, ad essere coltivate esclusivamente nei centri di cultura greca, tra cui, in primo luogo, Alessandria. Si ha notizia, è vero, di un'edizione, oggi perduta, degli Elementi
di Euclide e curata da Boezio verso la fine del VI secolo, ma è lecito dubitare che si trattasse di un'autentica traduzione in latino del testo euclideo. È
molto più attendibile che, almeno sul piano fondazionale, costituisse una
rielaborazione entro i termini della filosofia e della logica aristotelica.
L'ipotesi non si riferisce, ovviamente, alle pure tecniche dimostrative dei
teoremi che potevano anche essere più o meno fedeli. Se si guarda, però,
alle edizioni tardo antiche superstiti, o a quelle rinascimentali, da esse derivate, si trova un'abbondanza di commenti, assenti nell'opera originale, che
tendono a spiegare, su base metafisica, i concetti e i principi fondanti della
geometria. L'assenza totale di un apparato siffatto è, invece, proprio ciò che
caratterizza la scienza nel secolo di Euclide e di Archimede, segnando così
una netta separazione tra scienza e metafisica. Si è già accennato, per
esempio, alla caratterizzazione marcatamente neoplatonica del commento
di Proclo, e non è quindi azzardato supporre qualcosa di simile, ma in senso aristotelico, da parte di Boezio.
Con la fine dell'impero, si spegne, nel mondo occidentale, ogni interesse
per la matematica e le scienze esatte, se non per quel tanto di nozioni elementari indispensabili per le operazioni contabili più semplici e per gli usi
dei capomastri. Il recupero e la conservazione della scienza antica avverrà,
in epoca medievale, solo ad opera del mondo arabo e, com'è ovvio, attraverso il filtro di una civiltà sostanzialmente diversa da quella originaria.
Sempre nel mondo arabo si andavano sviluppando, intanto, anche i nuovi
sistemi di calcolo fondati sull'aritmetica e sulla numerazione posizionale
importata dall'India. L'Europa comincerà, quindi, a riscoprire le scienze
esatte attraverso la traduzione delle principali opere di autori arabi come
Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi50.
50
Per una storia generale della matematica, oltre al classico Boyer (C. B. BOYER, Storia
della matematica, Mondadori, Milano, 1980), si può segnalare, in lingua inglese, il più
48
È così che la prima edizione in latino degli Elementi di Euclide, sarà quella
che ne farà l'inglese Adelardo di Bath nel XII secolo, traducendolo dall'arabo. Da questa sembra essere poi derivata, circa un secolo dopo, l'edizione
di Giovanni Campano da Novara.
Per le prime traduzioni da copie greche degli Elementi di Euclide, bisognerà attendere, ancora qualche secolo. Differente è, invece il percorso delle
opere di Archimede. Di queste, già nel 1269, Guglielmo di Moekerbe,
presso la corte papale di Viterbo, traduceva in latino il testo greco, partendo dai due codici già menzionati come come codice A e B. In seguito quei
due codici andavano perduti, ma di essi rimaneva ampia documentazione,
grazie non solo alla traduzione di Moekerbe ma anche, per il codice A, di
varie altre traduzioni e di trascrizioni nella stessa lingua originale greca.
L'insieme di tutto quel materiale sarebbe poi servito alla ricostruzione del
contenuto originario dei manoscritti, consentendo di eliminare, ove possibile, attraverso un'accurata opera di confronto, tanto presumibili errori di
trascrizione quanto arbitrarie libertà interpretative. Un'opera, questa che
sarà portata a termine solo in epoca recente. Va detto, a questo proposito,
che l'importantissimo trattato sui corpi galleggianti, evidentemente non
contenuto nel codice A, è rimasto disponibile, per molto tempo, solo nella
traduzione latina di Moekerbe. Solo all'inizio del Novecento, con la scoperta del Palinsesto da parte di Heiberg, fu possibile disporre di un testo greco
anche per quest'opera, assieme al Metodo e allo Stomakion, presenti solo
nel codice C, e che, quindi, venivano alla luce per la prima volta.
Il codice C, per altro, costituisce oggi il solo testo archimedeo redatto prima del XII secolo. Tutte ragioni, queste, che spiegano e giustificano l'interesse suscitato dalla riscoperta, a New York, del palinsesto perduto, e del
convergere su di esso, non solo di interesse e curiosità, ma anche di consistenti risorse finanziarie ed umane51. Ma, allo stesso tempo, tutto ciò non
51
aggiornato C.B. BOYER, U. C MERZBACH, A History of Mathematics, John Wiley &
Sons, 2011. Per una consultazione più dettagliata si può vedere M. KLINE , Storia del
pensiero matematico, 2 voll., Einaudi, Torino, 1999 (ediz. Orig: Mathematical Thought
From Ancient to Modern Times, Oxford University Press, 1972)
Sugli studi conseguenti al ritrovamento del Palinsesto, oltre al già citato Codice perduto di Netz del 2007, v. il successivo: R. NETZ, W. NOEL, N. WILSON, The Archimedes
Palinsest, 2 voll., Cambridge University Press, 2011. Per la principale opera contenuta
solo nel codice C, v. anche la nuova traduzione italiana del Metodo, curata da Fabio
Acerbi: ARCHIMEDE, Metodo a cura di F. Acerbi, C. Fontanari, op. cit.. Inoltre si può
49
può che mettere ancor più in evidenza lo stato di colpevole abbandono in
cui la ricerca e la diffusione della cultura sono costrette ad operare proprio
in quel paese, l'Italia, che fu incubatrice e culla del pensiero scientifico moderno.
In ogni caso, al di là dell'apporto che verrà in seguito con la scoperta del
codice C, vi era già, dunque, all'inizio del Rinascimento, un ampio materiale disponibile. Ma la scoperta, e anche la semplice traduzione dei testi antichi, non implicava ancora, in modo automatico, il recupero nella loro dimensione scientifica, né una loro coerente collocazione storica. Il fatto, ad
esempio, che, fino al XVI secolo, in piena età rinascimentale, l'autore degli
Elementi, già collocato da Proclo ad Alessandria, nell'Egitto tolemaico, venisse ora invece confuso con Euclide di Megara, è solo uno, ma non certo
secondario, dei segni di confusione. Come già si è accennato, e come si
dirà meglio in seguito, la tradizione di pensiero scientifico rappresentata da
Euclide ed Archimede, mal si concilierebbe, infatti, con la figura di Euclide di Megara, vissuto tra il V e il IV secolo, e probabilmente, stando alla
testimonianza Platone, legato alla filosofia socratica.
Il recupero, in particolare, di Archimede, e la sua assunzione tra le basi
fondanti della modernità, avviene in misura e dimensioni diverse e complementari, ad opera di tre grandi protagonisti del Rinascimento italiano. Essi
sono il bresciano Nicolò Tartaglia, l'urbinate Federico Commandino e, a
Messina, il grande matematico e umanista Francesco Maurolico, che, di sicuro, diede il contributo di maggiore profondità52. In realtà la lettura e l'utilizzo in vario modo di alcuni contenuti del testo archimedeo era cominciato
già prima, almeno nel secolo precedente. Se ne trova traccia, ad esempio,
in Leonardo da Vinci, Piero della Francesca, Luca Pacioli. Si tratta general-
52
consultare il sito dedicato Archimedes Palimpsest, all'indirizzo: http://www.archimedespalimpsest.org/
Su questi temi v. In particolare: P. D'ALESSANDRO, P. D. NAPOLITANI, Archimede latino, Iacopo da San Cassiano e il corpus archimedeo alla metà del quattrocento con
edizione della Circuli dimensio e della Quadratura parabolae, Les Belles Lettres, Paris, 2012.; R. MOSCHEO, Francesco Maurolico tra Rinascimento e scienza galileiana:
materiali e ricerche, Società Messinese di Storia Patria, Messina, 1988; P. D.
NAPOLITANI , La tradizione archimedea, in E. GIUSTI (a cura di). Luca Pacioli e la
matematica del Rinascimento: atti del Convegno internazionale di studi, Sansepolcro
13-16 aprile 1994. Petruzzi. Città di Castello, 1998. Testo disponibile on-line in
http://www.academia.edu/attachments/5895164/download_file.
50
fig. 10: Tre edizioni di opere di Euclide e
di Archimede pubblicate nel XVI secolo.
La prima è la traduzione in volgare degli
Elementi di Euclide ad opera di Nicolò
Tartaglia. Le due successive sono traduzioni in latino di opere di Archimede, curate rispettivamente da Federico Commandino e Francesco Maurolico. Si noti
come, nell'edizione dell'opera euclidea
curata da Tartaglia, così come in tutte le
precedenti edizioni, Euclide, autore degli
Elementi, venisse confuso con Euclide di
Megara,
51
mente di un uso pratico e approssimativo, lontano dal rigore dimostrativo e
fondazionale del testo originale. Ma per comprendere meglio quali siano
stati i processi di avvicinamento e, poi, di recupero del pensiero scientifico
antico, è bene fare un cenno al contesto in cui si pone la cultura matematica
dell'epoca.
Se la tradizione antica di derivazione greco-ellenistica aveva seguito la via
geometrica ipotetico-deduttiva, nell'Europa tardo-medievale si era sviluppato un approccio radicalmente diverso, importato in larga misura dalla tradizione indiana e orientale attraverso la mediazione araba.
Nella matematica greca gli oggetti della matematica si presentavano come
entità ideali e astratte, modulate sulle idee di spazio e di misura. Anche la
stessa aritmetica, nella sua espressione scientifica, non era che un aspetto
particolare della geometria, essendo i numeri concepiti come rapporti tra
grandezze. L'ottica di Euclide, così come la meccanica di Archimede, costituivano, a loro volta, una rappresentazione geometrizzata del mondo dei
fenomeni. Lo sviluppo di ciascuna scienza procedeva, quindi, attraverso un
rigoroso percorso logico-deduttivo, a partire da poche semplici affermazioni ammesse a priori e generalmente accettate: i postulati.
La tradizione tardo-medievale dei maestri d'abaco nasce, invece, dalle esigenze pratiche di calcolo numerico dei contabili e dei capimastri. Si sviluppa assimilando, attraverso gli arabi, il sistema di scrittura posizionale indiana dei numeri e le complesse regole che consentono di eseguire operazioni
aritmetiche senza l'uso del tradizionale abaco, nonché di risolvere quei problemi numerici che corrispondono, nel linguaggio moderno, alle equazioni
di primo e secondo grado. Sarà proprio Nicolò Tartaglia che darà, per primo, le regole per la risoluzione di problemi di terzo grado. A differenza
della tradizione greco-ellenistica, quella dei maestri d'abaco è costituita da
regole pratiche piuttosto che da procedimenti logico-dimostrativi. Ciò vale
anche per i problemi geometrici, che vengono anch'essi ricondotti al calcolo numerico di lunghezze, aree e volumi. Un aspetto questo, che era invece
sconosciuto alla geometria antica, nella quale “quadrare” una superficie
curvilinea (fosse cerchio, segmento parabolico o altro) significava rapportarne l'estensione a quella di un quadrato di cui si potesse dare la costruzione geometrica, senza alcuna operazione di calcolo numerico.
La lettura di Archimede avveniva dunque, in una prima fase, in funzione di
un uso pratico assimilabile alla tradizione tardo-medievale dei maestri
52
d'abaco. Si cercava, cioè, di trarne regole da applicare al calcolo numerico.
Ed è in quest'ottica che avviene anche la lettura da parte di Nicolò Tartaglia. Diverso è, invece, l'approccio di Commandino, proteso al recupero
più attento alla fedeltà filologica del testo originario. Ma anche così, la
pura e semplice restituzione letterale del testo, non è sufficiente a risuscitare un percorso di pensiero interrotto molti secoli prima, in un contesto culturale profondamente mutato. È con Maurolico che si compie un definitivo
mutamento di prospettiva. Lo studioso messinese, infatti, pur meno interessato alla fedeltà letterale del testo, punta a superare il semplice recupero di
conoscenze già acquisite e codificate, per tentare la ricostruzione di quel
paradigma scientifico attraverso cui la scienza si autoriproduce, in un continuo processo di mutamento e accrescimento.
Poiché, tuttavia, i processi storici di crescita del pensiero matematico e
scientifico sono ben più complessi di quanto non si possa qui schematizzare, non può che rimanere aperta la domanda su quanto l'opera di Archimede abbia influito sulla nascita della scienza moderna, e quanto peso possa
avere avuto l'elaborazione di Maurolico. Voglio comunque citare qualche
passo di Pier Daniele Napolitani che mi sembra significativo a questo proposito :
Occorre accennare almeno brevemente al destino delle fatiche mauroliciane.
Nessuno dei suoi lavori archimedei fu stampato nel corso della sua vita, [...]
Non si deve però ritenere che tutto il patrimonio di idee, metodi, ispirazione
complessiva e anche di opere materiali andasse disperso alla morte dello scienziato. Grazie all'amicizia con Cristoforo Clavio (1537-1612) e ai suoi rapporti
con i gesuiti, la sua eredità intellettuale rimase viva e operativa.
E, d'altra parte, è da ritenere che “il patrimonio di idee, metodi, ispirazione
complessiva” a cui fa riferimento Napolitani, non restasse confinato alla
trasmissione dei manoscritti direttamente archimedei, ma si riflettesse nella
sua attività matematica complessiva. Esso può essersi tradotto anche in un
processo di assimilazione al paradigma greco-ellenistico della stessa aritmetica, fino ad allora cresciuta entro la tradizione dei maestri d'abaco. In
questo senso può essere letto l'uso sistematico del principio d'induzione 53.
53
Nella tradizione tardo medievale l'aritmetica viene sviluppata come raccolta di procedimenti e regole di calcolo, senza una precisa linea logico deduttiva. Ricondurre l'aritmetica al paradigma geometrico di tradizione greco-ellenistica, comporta invece che essa
si sviluppi mediante l'enunciazione e la rigorosa dimostrazione di proprietà valide per
53
Circa la possibilità che la diffusione di tale principio possa essersi effettivamente originata da Maurolico, si può trovare ampio riferimento, per
esempio, in una recente pubblicazione di Rosario Moscheo54.
Più avanti scrive ancora Napolitani:
Abbiamo già accennato all'inizio ad alcune linee di risposta: da un lato la tradizione archimedea porta allo svilupparsi di una visione geometrizzante della realtà fisica, dall'altro all'invenzione di nuovi oggetti matematici nel campo della
geometria di misura, sempre più generali. [...]
Tartaglia, Commandino e Maurolico segnano in un certo senso la fine del rinascimento delle matematiche. La loro opera apriva la strada alla ricerca originale
e alla diffusione del sapere che loro avevano dissotterrato: Benedetti, Guidobaldo Dal Monte, Luca Valerio, Viete, Galileo, Clavio, e molti altri matematici del
cadere del XVI secolo baseranno il loro lavoro su ciò che essi avevano compiuto. Le varie accentuazioni dei tre approcci si rifletteranno cosi sull'opera della
generazione immediatamente successiva.
È innegabile, in ogni caso, che, a partire dai decenni successivi, quel paradigma felicemente sperimentato nel secolo di Archimede, riacquista una
nuova forza di propulsione. Su di esso ci soffermeremo nei capitoli seguenti. Per il momento vorrei sottolineare solo un punto del passo citato da Napolitani: l'invenzione di nuovi oggetti matematici (ma io dico, più genericamente, scientifici) […] sempre più generali. Mi sembra essenziale, infatti,
l'aspetto creativo, nella crescita della scienza. Aspetto che, per altro, può
sussistere solo se si rinuncia a pensare gli oggetti scientifici come entità
date a priori e si accetta di assumerli, piuttosto, come creazioni del pensiero. È per ciò, come vedremo, che non può esserci sviluppo evolutivo della
scienza all'interno di una tradizione platonico-aristotelica.
54
tutti i numeri, o per intere classi (ad esempio: tutti i numeri pari, tutti numeri primi, tutti
i numeri divisibili per 3, ecc.). Poiché tutti i numeri (o tutti quelli di una classe) sono
infiniti) è chiaro che non basta effettuare delle prove concrete su quanti numeri si vuole. Il principio di induzione afferma, a tale scopo, che se una proprietà vale per il numero 1 e se si può dimostrare che valendo per un dato numero deve valere anche per il
successivo, allora la proprietà vale per tutti i numeri. Da allora questo principio divenne
il fondamento di tutti i procedimenti dimostrativi in aritmetica.
R. MOSCHEO, Matematiche e storia a Messina alla vigilia del 1908. Note intorno a un
coevo e incompiuto progetto editoriale, Atti Acc. Peloritana dei Pericolanti, Classe di
Sci. Fis. Mat. e Nat., Vol. LXXXIX, No. 1, C1A8901004, 2011.
54
7. Il tempo di Archimede
Chi erano i referenti di Archimede? Le sole indicazioni al riguardo provengono dalle brevi introduzioni in forma di lettera con cui hanno inizio alcuni
dei suoi lavori. Ad eccezione dell'Arenario, indirizzato a Gerone, tiranno di
Siracusa, tutti gli altri si rivolgono a studiosi di Alessandria. Precisamente,
in tre casi, a Dositeo e, in un caso, a Eratostene. Nel De quadratura parabolae, tuttavia, rivolgendosi a Dositeo egli dice che avrebbe voluto inviare
il lavoro a Conone, con cui dichiara di avere avuto amicizia, se questo non
fosse morto poco tempo prima. Il naturale rammarico espresso per la morte
dell'amico, conosciuto personalmente e forse suo maestro, viene automaticamente interpretato, da molti commentatori, come prova certa di disistima
verso tutti gli scienziati suoi contemporanei. Tale percezione, per altro,
sembra avvalorata dal tono visibilmente di sfida e, per certi versi, di apparente irrisione usato nel trattato sulle spirali.
Personalmente convengo che Archimede dovesse essere ben consapevole
di una propria preminenza intellettuale e non vedo ragioni perché non tenesse a evidenziarlo. Tuttavia mi sembra poco per escludere a priori che la
sfida lanciata ai matematici suoi contemporanei potesse avere anche motivazioni ben più profonde di un semplice atteggiamento di distacco e di sufficienza.
Al di là dei sentimenti più o meno dichiarati e dei giudizi personali, io credo, l'unico dato certo è che Archimede dovesse avere buone ragioni per inviare ad Alessandria i risultati delle proprie ricerche. Né sembra che egli
fosse il solo a farlo, se un atteggiamento simile si ritrova in Apollonio di
Perga, quando in apertura del suo trattato sulle coniche si rivolge così a Eudemo
Apollonio a Eudemo, salute.
[...] Poiché avevo osservato nel nostro incontro, a Pergamo, che avevi fretta di
avere notizia dei miei lavori sulle coniche, te ne mando il primo libro che ho
corretto, e ti invierò gli altri dopo che ne sarò soddisfatto.
Credo che non avrai dimenticato, [...] che è sulla richiesta del geometra Naucrate, [...] in occasione della sua presenza ad Alessandria, che mi sono impegnato
nella direzione di questo argomento e che, quando lui fu sul punto di imbarcarsi,
mi sentii obbligato di metterlo al corrente di ciò che avevo già elaborato in otto
libri, senza pensare alle correzioni, ma annotando tutto ciò che avevo trovato,
55
avendo l’intenzione di effettuare una revisione ulteriore. Ora che ho avuto
l’occasione di enunciare in successione le cose in maniera corretta, le pubblico.
Vi si apprende, dunque, che Apollonio fu a Pergamo dove conobbe Eudemo, che soggiornò ad Alessandria, forse per ricevervi o per completare la
sua formazione55, e che lì fu stimolato da Neucrate a intraprendere lo studio delle sezioni coniche. Analogamente sappiamo che Archimede, da parte sua aveva soggiornato ad Alessandria, e si può ragionevolmente ritenere
che in quella città abbia ricevuto la sua piena formazione a contatto con
Conone56. Ancora, secondo Pappo (IV secolo d.C.) Apollonio “studiò a
lungo in Alessandria sotto gli allievi di Euclide”. Non sappiamo se Pappo
avesse di ciò notizia diretta o se si trattasse soltanto di una sua deduzione.
In ogni caso tutto porta a ritenere che Alessandria fosse non solo un centro
di studi e di irradiazione della cultura in tutto il Mediterraneo, ma che vi
operasse una vera e propria scuola di matematica presso la quale si formavano i giovani scienziati di tutto il mondo ellenistico. È vero che Fabio
Acerbi, nella sua introduzione alle Opere di Euclide57, avanza dubbi
sull'ipotesi, generalmente accreditata, che una scuola di tal genere funzionasse in forma istituzionale, per conto del Regno Egizio e nell'ambito del
Museo. Tuttavia, istituzionalizzata o meno, è difficile pensare che il più
grande centro culturale dell'epoca potesse sussistere senza una scuola.
Nel passo di Apollonio si parla anche di pubblicazione dell'opera. Dopo
l'invenzione della stampa un'espressione siffatta ha un significato ben preciso e a noi familiare. Il primo atto che compie chiunque abbia scritto un libro, è di inviare il manoscritto (oggi il file) ad un editore che ne cura la riproduzione e la diffusione in un numero più o meno grande di copie. Ciò
assicura non solo la diffusione, ma l'attribuzione certa all'autore che, da
ciò, trae autorevolezza, fama o altro. In che altro modo avrebbe potuto essere pubblicata un'opera nel III secolo a.C. se non inviandone copie a studiosi affidabili e di sicura fama, che, oltre a divenirne testimoni, potessero
essere punti di riferimento e di irradiazioni del sapere? E quale poteva essere il luogo di riferimento ideale se non Alessandria, centro mondiale di
55
56
57
Secondo Pappo (IV secolo d.C.) Apollonio “studiò a lungo in Alessandria sotto gli allievi di Euclide”. Non sappiamo se Pappo avesse di ciò notizia diretta o se fosse semplicemente una sua deduzione. In ogni caso
F. ACERBI, Euclide. Tutte le opere, Bompiani, Milano, 2007.
Ibid, p. 183 e segg.
56
formazione e sede della più grande biblioteca mai esistita?
Fatta questa premessa, credo si possa affrontare uno dei nodi interpretativi
centrali della figura e dell'opera del nostro scienziato: quello dei rapporti
con il pensiero e la cultura del suo tempo. Se cioè continuare a rappresentarlo come genio isolato e incompreso, avulso dal contesto storico e culturale, quasi che il semplice tentativo di immetterlo nel flusso della storia e
delle dinamiche culturali possa in qualche modo intaccarne la genialità,
l'originalità di pensiero e, in definitiva, la sacralità.
Il problema, invece, che è di portata ben più generale, e investe il modo
stesso di concepire la scienza, è di stabilire se può darsi produzione scientifica originale senza, o al di fuori, di un paradigma fatto di linguaggi e apparati concettuali condivisi da una comunità.
Dice Netz:
In molte delle lettere di Archimede si coglie una timida nota di esasperazione, non
c'era nessuno a cui scrivere, nessun lettore che fosse all'altezza […] Archimede sembrava consapevole che stava scrivendo per i posteri, da Omar Khayyam a Leonardo
da Vinci, da Galileo a Newton: furono questi i suoi veri lettori, coloro attraverso i
quali egli averebbe avuto una vera influenza58.
Richiamo in particolare questo passo, non solo perché l'autore di esso si è
imposto nell'ultimo decennio per gli studi sul palinsesto e per avere intrapreso la traduzione in inglese dell'opera archimedea, ma anche perché ha
esplicitamente riconosciuto la necessità di rivedere la storiografia della matematica, richiamandosi ad un programma in tal senso già proposto da Unguru nel 197959.
58
59
R. NETZ, W. NOEL, Il codice perduto, Op. Cit., pag. 65.
«Per la verità non tutti accettano che la matematica abbia una storia, mentre coloro che
difendono la storicità della matematica non hanno ancora sviluppato l'argomento. Io
scrivo questo libro per riempire questa lacuna: si consideri, dunque, il fondamento storiografico. Il mio punto di partenza è un celebre dibattito sulla storia delle matematiche.
Viene posto il seguente quesito: i caratteri significativi che caratterizzano la matematica, sono storicamente determinati? Questo dibattito è stato aperto da un articolo di Un guru del 1975» (R. NETZ, The Transformation of Mathematics in the Early Mediterranean World: From Problems to Equations, Cambridge University Press, 2004, Introduzione). L'articolo di Unguru a cui fa riferimento è: S. UNGURU, On the need to rewrite
the history of Greek mathematics, Archive for History of Exact Sciences , vol. 15, no.
1, 1975, pp. 67-114. Successivamente lo stesso Unguru ripropone la questione dando
forma ad un più esteso programma di revisione storiografica in S. UNGURU, History of
57
Va detto, però, che il problema posto da Unguru nasce dalla constatazione
che le presentazioni delle opere antiche, disponibili in lingua inglese nel
Novecento, non sono delle vere traduzioni, ma piuttosto traslazioni nel linguaggio algebrico moderno, sconosciuto nell'antichità. Ciò veniva giustificato partendo dal presupposto, di ascendenza platonista, che gli oggetti matematici avessero una propria consistenza oggettiva indipendente dal linguaggio con cui vengono espresse. Non posso che condividere pienamente,
dunque, l'esigenza di una revisione su questo versante. Ciò, tuttavia, non
esaurisce, a mio avviso, il problema storiografico. D'altra parte in Italia una
linea di tradizione storicista è stata presente per tutto il Novecento, rappresentata, sia pure in modi differenti dalle scuole di Giuseppe Peano, di Federigo Enriques, fino, in tempi più recenti, a Ludovico Geymonat. Le stesse traduzioni in lingua italiana curate da Federigo Enriques e da Attilio Frajese degli Elementi di Euclide e delle opere di Archimede sono, almeno da
questo punto di vista, ben ben più rispettose del testo originale di quanto
non lo siano le traslazioni algebrizzanti in lingua inglese di Heath e Dijksterhuis60.
Ben altra questione è, invece, quella da me posta e che investe, sul piano
dell'interpretazione concettuale e fondazionale, l'intera letteratura storicocritica, indipendentemente dalla fedeltà letterale al testo greco. Su questo
terreno ho già tentato, in precedenti scritti61, di dare alcune risposte, e lo
farò ancora nelle pagine che seguono. Ma fin d'ora vorrei meglio precisare
i termini delle questione.
Il breve passo di Netz citato sopra, tende chiaramente a sottolineare uno
stato di isolamento culturale entro il quale il Nostro si sarebbe trovato ad
60
61
Ancient Mathematics. Some Reflections on the State of the Art, Isis, Vol. 70, No. 4,
1979, pp. 555-565.
Al di là dei limiti filologici che possono essere eventualmente rilevati nelle edizioni curate da Frajese, rimane il dato oggettivo che queste si presentano come traduzione sostanzialmente letterale del testo greco. Nell'edizione degli Elementi curata da Enriques
sono presentate delle traslazioni in linguaggio algebrico, ma solo come commento in
aggiunta al testo tradotto.
Oltre a quanto già citato e riportato in bibliografia, ho tenuto, su questo tema, una comunicazione dal titolo “Archimede fra tradizione e innovazione” al recente Congresso
Nazionale SISFA (Società Italiana degli Storici della Fisica e dell'Astronomia, XXXIII
Congresso, Acireale-Siracusa, 4-7 Sett. 2013) e il cui testo ho intensione di presentare
per gli Atti.
58
operare, senza possibilità né di attingere ad una base di sapere condiviso né
di condividere con altri il frutto delle proprie ricerche.
Non è difficile collegare questo giudizio ad una precedente pubblicazione 62
dello stesso Netz da cui si desumerebbe che nel corso dell'antichità, su un
arco di tempo di circa un millennio, i matematici a cui si possa attribuire
questo nome, sarebbero stati complessivamente un migliaio, dunque statisticamente non più di 50-100 contemporaneamente operanti. Un numero
troppo basso, secondo l'autore, per costituire una comunità scientifica. A
me sembra, invece, un numero straordinariamente alto per l'epoca e, comunque, sufficiente a mantenere vivo un paradigma scientifico condiviso.
Ciò ovviamente non è la prova che il Nostro fosse parte di una comunità o
comunque di una tradizione condivisa di pensiero e di ricerca, ma indica la
possibilità che ve ne fossero le condizioni. Ha senso quindi porsi il problema, e chiedersi cosa si possa intendersi per “solitudine “ e “isolamento” nel
caso di Archimede.
È del tutto verosimile che Archimede non potesse quotidianamente confrontarsi sui temi delle sue ricerche con persone al suo livello. Non c'è dubbio che la condizione dello scienziato nell'antichità fosse notevolmente più
precaria di quella vissuta dai ricercatori a noi contemporanei, sia per la diversa considerazione sociale della ricerca scientifica e la conseguente diversa organizzazione, sia per la diversità dei mezzi di comunicazione. Ed
anch'io tuttavia, posso assicurarlo, non vedo quotidianamente intorno a me
persone con cui possa discutere delle mie ipotesi, delle mie indagini e delle
mie conclusioni. Non è difficile allora pensare che nel terzo secolo a.C.,
per uno scienziato come Archimede, la situazione, sotto questo aspetto dovesse essere molto più pesante.
Ma è solo di questo che si intende parlare nel dipingerlo come un “genio
isolato”? Se così fosse non avrei altro da aggiungere. Temo tuttavia che il
giudizio venga automaticamente, e forse talora involontariamente, esteso a
qualcosa di più profondo e significativo. A meno, infatti, che non si assuma
una posizione di platonismo nella sua forma più ingenua, bisogna ammettere che nessun pensiero scientifico potrebbe sussistere senza un adeguato
apparato linguistico concettuale che, in quanto tale, deve essere in qualche
62
R. NETZ, Greek Mathematicians: A Group Picture, in Science and Mathematics in Ancient Greek Culture, edited by C. J. Tuplin and T.E Rihll, Oxford University Press,
New York, 2002.
59
modo e in qualche misura, necessariamente condiviso.
Ho già usato più volte l'espressione “paradigma scientifico”, mutuandolo
da Thomas Kuhn, ma devo dire che, come ho avvertito in altre occasioni,
intendo utilizzarlo con molta più libertà e flessibilità di quanto non abbia
fatto lo storico e filosofo americano 63. Parlerò quindi di paradigma in senso
stretto, riferendomi, come fa Kuhn, a un preciso sistema teorico con i suoi
concetti fondamentali, le sue ipotesi (postulati) e i suoi metodi ammessi, in
contrapposizione a un paradigma precedente o successivo. Ma parlerò di
paradigma anche in un'accezione più generica, per indicare la struttura
stessa della scienza matura e dei suoi presupposti epistemologici, in contrapposizione ad uno stadio epistemologicamente diverso di ciò che viene
chiamato scienza. Anche questo, forse, si potrà meglio intendere nel prossimo capitolo.
La domanda è, però, a questo punto: esisteva, ed è chiaramente individuabile, un paradigma scientifico nel secolo di Archimede? La mia risposta e
sì. È quello che già altrove ho chiamato paradigma euclideo. Non c'è dubbio che Archimede lo abbia ulteriormente sviluppato attraverso l'invenzione di nuovi oggetti concettuali e nuove procedure, in una parola di un
avanzamento di paradigma. Ma perché questo avesse un senso era necessario che egli si ponesse originariamente in un paradigma già consolidato.
Se tutto questo va analizzato e verificato in dettaglio, così come faremo nei
prossimi capitoli, la domanda più ardua è come sia avvenuto che nei secoli
successivi non si trovasse più traccia di alcuni dei capisaldi di questo para63
Nella prima edizione del suo fondamentale lavoro (Th. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, 1962), Kuhn usa il concetto senza una precisa delimitazione, comprendendo in esso non solo le effettive pratiche di ricerca, ma anche l'intero complesso di credenze e convinzioni condivise da una comunità scientifica.
Nella seconda edizione, per far fronte alle critiche avanzate da più parti lo delimita, intendendo con tale termine, un complesso di norme e procedure che, avendo avuto già
successo nella risoluzione di una classe di problemi scientifici, viene assunto e generalmente accettato, in una data fase storica, dall'intera comunità scientifica. Ciò fino a
quando nuovi problemi si presentano refrattari e insolubili all'interno del paradigma
universalmente accettato. È allora, secondo Kuhn, che un nuovo paradigma, prima con
difficoltà e con molti avversari, si presenta sulla scena, per poi nel caso abbia successo
si afferma sostituendo il precedente e determinando così ciò che egli chiama rivoluzione scientifica. È ciò che avviene, per esempio, nel passaggio dal sistema tolemaico a
quello copernicano, o dalla teoria del calorico alla teoria cinetica del calore o, ancora,
dalla fisica classica a quella relativistica e quantistica.
60
digma scientifico e, in modo specifico, di quelli che ne avevano consentito
la fecondità creativa. Purtroppo sono possibili soltanto ipotesi più o meno
attendibili e più o meno esplicative. Sicuramente vi sarà, con la caduta dei
regni ellenistici, un profondo mutamento di prospettiva culturale, ideale e
politica. Ma in più, come vedremo, si può ipotizzare un periodo di cesura,
forse anche breve, ma sufficiente perché non si riuscisse più a trovare la
chiave di lettura di quei sistemi linguistici e concettuali entro cui si era potuto sviluppare il pensiero scientifico ellenistico.
61
8. Archimede e i fondamenti
In tutta l'opera di Archimede si suppone come un fatto scontalo la preesistenza di una geometria elementare, con i suoi postulati, le sue regole, i
suoi teoremi. A questi egli fa riferimento tutte le volte che se ne presenta
l'esigenza nel corso delle dimostrazioni. Il corpus complessivo di tali conoscenze, in linea di massima, coincide con quanto è già contenuto negli Elementi di Euclide, anche se, in generale, non ne viene citato esplicitamente
il nome. Quando affermo, però, che Archimede si pone entro un paradigma
che definisco euclideo, non mi riferisco solo, né tanto, all'assunzione di
puri dati contenutistici ma, soprattutto, al percorso logico e alla struttura
ipotetico-deduttiva.
Chiunque abbia affrontato, anche con limitato impegno, lo studio della
geometria in un normale corso liceale, ne avrà sperimentato almeno
l'impianto fondamentale. Avrà, quindi, osservato come l'intero percorso abbia inizio con alcune affermazioni da assumere in modo indiscutibile e senza giustificazione alcuna: i postulati. Da essi, e solo da essi, si parte per dimostrare i teoremi, attraverso procedimenti logico-formali rigorosamente
prestabiliti, universalmente accettati, e sottratti ad ogni possibile valutazione soggettiva.
L'impatto, per il giovane studente, è talmente forte, da disorientarlo e indurlo, molto spesso, alla chiusura e al rifiuto di qualcosa che gli appare incomprensibile e misterioso. Di cosa si sta realmente parlando? E cosa deve
indurre ad accettare i postulati? Gli verrà detto che si accettano come tali
perché sono evidenti. Ma se ha un po' di spirito critico si chiederà cosa significa evidenti. E perché, allora, su tante altre cose che gli appaiono, con
lo stesso criterio, non meno evidenti, lo si tormenterà chiedendogli di dimostrarle? E poi di cosa si sta parlando? Di oggetti di cui non si può avere
alcuna esperienza. Un punto che è indivisibile e non ha dimensioni. Una linea che non ha spessore e che si prolunga senza alcun limite. Dove?
«All'infinito» gli verrà detto. Ma cos'è l'infinito? Se proseguirà gli studi
matematici all'Università s'imbatterà, prima o poi, nella famosa frase riferita a Bertrand Russel: «La matematica è quella cosa in cui non si sa di cosa
si parla né se quello che si dice sia vero».
Eppure, lo stesso giovane si renderà conto che questo misterioso apparato,
62
detto matematica, si dimostra di così straordinaria efficacia da consentire,
non solo la rappresentazione e la comprensione di un mondo altrimenti
caotico, ma anche di trasformarlo con le più impensabili realizzazioni tecnologiche. Qual'è, allora, la chiave di lettura? Cosa consente al matematico
di fissare concetti così sfuggenti alla comune comprensione, come il punto
e la linea e di fissarne le proprietà con dei postulati indiscutibili? Un'ispirazione divina, come si presumeva dell'Archimede mitico, posseduto dalle
muse? O, come voleva Platone, essi sono già scritti e sepolti nell'anima fin
dall'origine, e il riconoscerli è solo un atto di reminiscenza?
E perché non pensare, invece, che qualcuno, forse Euclide, o forse altri prima di lui, abbia ritenuto più produttivo accantonare queste domande, lasciandole al filosofo metafisico perché non produttive, ed anzi paralizzanti,
per gli sviluppi della scienza? Basterebbe allora accettare un postulato se
esso mi fornisce la base per fondare razionalmente una tradizione di risoluzione di problemi ben radicata e accettata. Già Negebauer, per altro, fin dal
1957 metteva in dubbio l'influenza della filosofia platonica sulla matematica greca64, e ancora in modo più netto si esprimeva Knorr, nell'assimilare
questa scienza ad una pratica di problem solving lontana da preoccupazioni
filosofiche65. È questo un elemento centrale di quello che ho chiamato paradigma euclideo, proprio perché ne garantisce la vitalità e la capacità di
crescere e rinnovarsi. Se, riteniamo, infatti che gli oggetti costitutivi di un
sapere scientifico debbano essere già dati e preesistenti alla nostra attività
di ricerca, se riteniamo ancora che gli enunciati su tali oggetti debbano essere proprietà intriseche, presenti in essi e nella loro natura, allora nessun
nuovo concetto può essere inventato, che non sia già noto a priori. A meno
che non si presuma una qualche forma di illuminazione mistica o di ispirazione divina. Possiamo comprendere allora che, se nei secoli successivi è
prevalsa una visione siffatta, la feconda creatività inventiva dimostrata da
Archimede dovesse apparire quanto meno miracolosa. Si spiega altresì il
dato incontestabile che, da un certo momento, e fino alla definitiva eclissi
64
65
V. NEUGEBAUER, O. (1952), The exact sciences in antiquity, Ediz. Italiana: Le scienze
esatte nell’antichità, Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 183-84.
«But I do not imagine the ancient geometers as constantly looking over their shoulder.
[...] The notion that ancient mathematics was somehow a vast exercise in dialectical
philosophy must miss a very important point: that geometry is rooted in an essentially
practical enterprise of problem solving» (W. R. KNORR, Archimedes and the Elements,
Arch. Hist. Exact Sci., 19, n.3, 1978, pp. 211-290).
63
del mondo antico, le scienze, pur se praticate con acutezza e passione da
scienziati quali Erone, Pappo, Diofanto e Tolomeo, non abbiano più presentato quella potenzialità innovatrice che nel III secolo aveva raggiunto il
suo apice.
Ed è perciò che, invece, Archimede, non vincolato a pregiudizi metafisici,
ha potuto esprimere al meglio la sua genialità inventiva, assumendo pienamente il paradigma euclideo e sviluppandolo ulteriormente con nuovi concetti e più ardite procedure.
Un primo esempio, che io e Giuseppe Gentile abbiamo già messo in evidenza66, è costituito dalle argomentazioni con cui il nostro scienziato tende
a giustificare l'uso di quell'assunzione che va, oggi, sotto il nome di postulato di Eudosso-Archimede. In una formulazione generale, in termini moderni esso afferma che:
Date due grandezze, di una classe omogenea (per esempio tutte
lunghezze, o tutte aree, o tutte volumi, o anche grandezze fisiche
come pesi o altro), esiste un multiplo della più piccola che supera
la più grande.
Archimede però enuncia il postulato di volta in volta per singole classi di
grandezze, ad esempio per i volumi dei solidi o per le figure piane. Il postulato gli è necessario per dimostrare teoremi sulle quadrature e cubature
di figure curvilinee con il metodo detto di esaustione. È il caso di riportare
per intero il passo in cui egli introduce il postulato nella quadratura della
parabola, dandone una breve giustificazione:
Dimostriamo infatti che qualunque segmento compreso da una retta e da una sezione di cono rettangolo è uguale a 4/3 del triangolo avente la stessa base e altezza uguale al segmento: ciò avendo assunto il seguente lemma per la sua dimostrazione: date due aree disuguali è possibile, aggiungendo a se stesso
l’eccesso di cui la maggiore supera la minore, superare ogni area limitata data.
Anche i geometri anteriori a noi si son serviti di questo lemma: infatti se ne sono
serviti per dimostrare che i cerchi stanno tra loro in ragione duplicata dei diametri, e che le sfere stanno tra loro in ragione triplicata dei diametri, e ancora che
ogni piramide è la terza parte del prisma avente la stessa base della piramide e
uguale altezza, e che qualunque cono è la terza parte del cilindro avente la stessa
base del cono e altezza uguale, ciò assumendo un lemma simile a quello suddet66
G. GENTILE, R MIGLIORATO, Archimede platonico o aristotelico. “Tertium non
datur”?, Atti dell’Acc. Peloritana dei Pericolanti, Classe di Sci. Fis. Mat. e Nat., Vol.
LXXXVI, 2008.
64
to. Accade ora che dei suddetti teoremi ciascuno è considerato non meno degno
di fiducia di quelli dimostrati senza questo lemma: a noi basta che venga concessa simile fiducia ai teoremi da noi qui dati67.
Archimede, dunque, invoca fiducia, ma non in nome di una pretesa di verità, né, ancor meno, di un'evidenza in sé di qualcosa. La forza della fiducia
richiesta è, invece, fondata su tre elementi: il fatto che altri geometri, in
passato, se ne siano serviti, che nessuno abbia avanzato obiezioni, ma che i
teoremi con essi dimostrati abbiano continuato a riscuotere unanime fiducia; infine l'auspicio che anche i teoremi ora dimostrati possano godere della stessa fiducia. Né si può fare a meno di osservare come, non solo la richiesta di fiducia fatta da Archimede appaia diretta più alle conseguenze
che alla stessa premessa, ma anche egli sembri affidare gran parte della sua
forza argomentativa alla quantità ed alla qualità dei risultati che quella premessa ha consentito storicamente di raggiungere. Sono esattamente i termini di quello che abbiamo definito essere un paradigma scientifico, e non
certo quelli di una riflessione filosofica di ascendenza metafisica.
Occorre subito aggiungere che il passo appena citato non è unico, né puramente episodico, e quanto ora osservato è suscettibile di un'ampia varietà
di riscontri. Così è se si pensa alle reiterate elencazioni che Archimede fa
dei risultati che con tale lemma è stato possibile ottenere come, ad esempio, nella lettera introduttiva a Sulla sfera e sul cilindro, il cui passo qui si
riporta:
Perciò non ho esitato a porre queste proposizioni accanto a quelle già trovate da
altri geometri, ed a quei teoremi, che sembrano di molto superiori, che Eudosso
stabilì sulle figure solide, cioè che ogni piramide è la terza parte del prisma
avente la stessa base della piramide ed uguale altezza, e che ogni cono è la terza
parte del cilindro avente la stessa base del cono ed uguale altezza68.
Si noti come qui Archimede faccia riferimento ad Eudosso quale figura che
può, nell’ambito del nostro discorso, garantire la plausibilità dell’assunzione archimedea. Anche Seidemberg si interroga sul perché il Nostro senta il
bisogno di giustificare quest'assunzione mentre nulla dice sulle altre quattro che la precedono nello stesso lavoro. Ecco come si esprime in proposito:
67
68
ARCHIMEDE, dalla lettera introduttiva al De quadraturae parabolae.
ARCHIMEDE, dalla lettera introduttiva al De Sphaera et cylindro.
65
… penso che [si preoccupi] della natura delle sue assunzioni. Egli invoca il
nome di Eudosso, proprio in riferimento all'ipotesi 5, ma questa appare solo in
riferimento ad alcuni teoremi nelle cui dimostrazioni è stato utilizzato. Le [altre]
quattro nuove assunzioni meritavano un commento, ma Archimede non riusciva
egli stesso a formularne una69.
Si potrebbe discutere a lungo sulle presunte preoccupazioni di Archimede,
ma io ribadisco la mia riluttanza ad inferire pensieri non esplicitamente
espressi dall'autore. Di sicuro, però, se riteniamo che la sussistenza di un
paradigma condiviso assumesse un ruolo fondativo primario, appare più
che giustificato il riferimento, ove esistente, a quanto già fatto da altri, ancor più se tra questi vi è una figura come Eudosso.
Ed ancora, nella lettera introduttiva al Metodo, così scrive Archimede:
Perciò anche di quei teoremi, dei quali Eudosso trovò per primo la dimostrazione, intorno al cono e alla piramide, [cioè] che il cono è la terza parte del cilindro
e la piramide [è la terza parte] del prisma aventi la stessa base e altezza uguale,
non piccola parte [del merito] va attribuita a Democrito, che per primo fece conoscere questa proprietà della figura suddetta, senza dimostrazione70.
E qui appare ancora più chiaro il riferimento ad una tradizione accettata di
soluzioni di problemi ai quali l'assunzione del postulato fornirebbe una solida base razionale. Va qui osservato, sia pure incidentalmente, che Democrito è l'unico filosofo esplicitamente citato da Archimede. In particolare,
nei suoi testi non compaiono mai i nomi di Platone o di Aristotele, né si
trovano espliciti richiami ai concetti fondamentali dei rispettivi sistemi filosofici.
Vorrei richiamare ancora due esempi relativi, però, a ipotesi scientifiche
non riferite alla geometria ma, rispettivamente, alla meccanica e all'astronomia. Ne farò appena un cenno, anticipando questioni che saranno riprese
altrove.
Nel primo libro sui galleggianti, si ipotizza che i pesi dei corpi siano diretti
69
70
«Though it’s harder to see what Archimedes is doing here, I think he is doing the same
thing, namely, worrying about the nature of his assumptions. He invokes the name of
Eudoxus, really in reference to Assumption 5, but this is veiled by a reference only to
some theorems in the proofs of which it was used. The four new assumptions deserved
a remark, but Archimedes could not bring himself to make one» (A. SEIDENBERG, Did
Euclid’s Elements, Book I, Develop Geometry axiomatically?, Arch. Hist. Exact Sci.,
14, 1974 283-295).
ARCHIMEDE, dalla lettera introduttiva al Metodo.
66
verso il centro della terra e, sulla base di tale ipotesi, si dimostra la sfericità
della superficie del mare. Nel secondo libro, che studia il comportamento
di corpi galleggianti, si suppone che i pesi delle diverse parti siano tra loro
paralleli. La due differenti ipotesi sono facilmente spiegabili perché, nel
primo caso, i fenomeni studiati si estendono su un ampio spazio, quello
delle dimensioni dell'intero globo terrestre, mentre nel secondo caso, trattandosi di corpi di estensione limitata, l'assunzione di forze parallele costituisce un'approssimazione priva di conseguenze rilevabili. Nulla di strano,
dunque, se ci poniamo in una prospettiva che ci è del tutto familiare secondo una visione moderna della scienza. Apparirebbe invece del tutto incomprensibile e contraddittoria se ci ponessimo dal punto di vista della filosofia platonica. Se la scienza è vista, infatti, non come un semplice modello
esplicativo dei fenomeni nel mondo sensibile, ma come una ricerca della
verità, allora una delle due ipotesi dovrebbe essere necessariamente falsa.
Ma questo obiettivo di “verità in sé” non è ciò che muove, evidentemente,
la ricerca di Archimede. Egli può scegliere tra ipotesi differenti, quella che,
di volta in volta, nelle condizioni date, appare più funzionale e meglio
esplicativa. Non diversamente da ciò che fa un fisico moderno quando
adotta la meccanica classica alla scala dei fenomeni macroscopici e la meccanica quantistica per i fenomeni a scala subatomica.
L'altro esempio lo troviamo nell'Arenario. Archimede vuol far vedere come
sia possibile esprimere un numero straordinariamente grande, qule può essere quello dei granelli di sabbia necessari per riempire una sfera grande
quanto l'intero universo. A tale scopo considera diverese possibili definizioni di universo, scegliendo quella che dà luogo alla sfera di maggiore dimensione. Le due possibili ipotesi fondamentali sono quelle che presuppongono un sistema geocentrico (la terra al centro e gli astri che ruotano
intorno) oppure eliocentrico (il sole sta al centro mentre la terra e gli altri
corpi ruotano intorno). Ebbene, al di là di altre considerazioni, su cui torneremo, Archimede sceglie la seconda ipotesi, non perché la assuma, almeno
in quest'occasione, come quella vera, ma perché essa conduce alla definizione di un universo di dimensioni maggiori. Ancora una volta la scelta è
effettuata in ragione di un obiettivo funzionale e non perché guidata da una
presunzione metafisica.
Prima di chiudere questo capitolo voglio osservare come un approccio analogo, cioè di tipo funzionale, non è nuovo e si può già rilevare, prima di
67
Archimede, già in Euclide. Esso è rilevabile, per esempio, nei postulati
dell'ottica, ma anche nei Fainomena, dove si dà una descrizione del moto
degli astri. Non essendo questo, però, il luogo per trattare l'argomento, rinvio chi volesse approfondirlo, ai miei precedenti lavori già citati su Euclide.
68
9. Mito, scienza, metafisica
Può apparire sorprendente come quello stesso passo di Archimede che ho
citato per primo nel capitolo precedente abbia avuto interpretazioni totalmente opposte a quella da me esposta. La richiesta di fiducia da parte di
Archimede fa dire per esempio a Frajese:
E va pure detto che chiedendo fiducia nei suoi teoremi dedotti da quel lemma,
Archimede mostra di trovarsi qui ancora nell’atmosfera di una concezione platonica della matematica: i postulati non devono in alcun caso essere arbitrari, ma
(essi e i teoremi che se ne deducono) devono risultare veri71.
Attilio Frajese presume, evidentemente, che se ci si pone in una prospettiva
non platonista, allora le assunzioni fondamentali, assiomi o postulati, debbano essere assolutamente arbitrarie e non richiedere alcun criterio di accettabilità. È questo, d'altronde, l'assetto formalista assunto dalla matematica del Novecento, a partire da Hilbert. Un assetto la cui consistenza si riduce a semplici strutture formali: un sistema di segni, una scelta arbitraria di
assiomi e le regole per operare su di essi, con esclusione di qualunque significato esplicito. Ma anche in tale contesto, si tratta solo della forma finale del prodotto matematico, così come esso si presenta nella sua ultima
presentazione.
Il significato, anche qui è solo accantonato e nascosto: da esso non si può
prescindere nelle fasi più creative della ricerca. Ancor più critica è la questione se, poi, si vuol trascendere dal puro discorso sulla matematica per
affrontare quello della scienza nella sua globalità e di cui la matematica costituisce solo un aspetto, sia pure fondamentale. Si può avere una meccanica classica e una quantistica, si può convenire che teorie differenti possono
spiegare altrettanto bene gli stessi fenomeni, però nessuno potrebbe pensare di costruire una teoria meccanica scegliendone i principi in modo arbitrario, né che il sistema tolemaico e quello copernicano siano tra loro
scambiabili.
Del tutto improponibile è, poi, la visione formalista, se posta in relazione
alla scienza nel suo percorso storico, a partire dall'antichità. Nel capitolo
71
Ibid. p. 482, nota 3.
69
precedente si citava un brano di Seidenberg tratto da una sua pubblicazione72 in cui l'autore si chiede, sostanzialmente, se gli Elementi di Euclide
siano da considerare come un sistema formale nel senso moderno (hilbertiano), per concludere con una risposta negativa. E con tale risposta negativa credo si debba pienamente concordare. L'alternativa al formalismo non
è, tuttavia, il platonismo, come sembra presumere Frajese e non lui soltanto.
Per fare adeguata chiarezza, a questo punto, è necessario porre le cose dette entro una visione generale della scienza, del suo procedere e della sua
genesi storica. A questo riguardo ho già ampiamente esposto il mio punto
di vista in La ragione e il fenomeno73 dove, assieme ai presupposti epistemologici della scienza, ho affrontato i problemi della sua genesi storica,
della sua evoluzione, dei suoi significati e valenze culturali, ideali e sociali,
delle prospettive connesse con la complessità e la globalizzazione nel mondo attuale. Qui mi limiterò, quindi, a richiamare sinteticamente quanto necessario per il nostro discorso, rinviando a quel lavoro per ogni ulteriore
approfondimento.
Com'è noto, il problema della demarcazione, cioè dei criteri distintivi tra
ciò che si ritiene appartenere alla scienza e ciò che vogliamo sia ad essa
estraneo, ha attraversato, come tema dominante, tutta la filosofia della
scienza nel corso del Novecento. Non è questa la sede per dare conto, sia
pure sinteticamente delle diverse fasi e dei differenti punti di vista. Vorrei
richiamare, però, uno dei più appariscenti fenomeni connessi a questo percorso, e da cui prende avvio il mio libro: la progressiva separazione delle
due culture che ha caratterizzato il Novecento, quella scientifica e quella
cosiddetta umanistica, a cui soltanto, talvolta, si attribuisce la dignità di
cultura in senso proprio. Il nucleo emblematico in cui si riassume tale divaricazione sta nel rifiuto, da una parte, di ogni domanda metafisica, nel relegare, dall'altra, il discorso scientifico al ruolo di attività utile ma vuota di
significati esistenziali. Non c'è dubbio, infatti, che ogni autentica domanda
metafisica è di per sé indecidibile: nessuna procedura logica o empirica potrà mai fornire risposte definitive e universalmente accettate. D'altra parte
l'indispensabile separazione del discorso scientifico da ogni implicazione
metafisica, determina la sua riduzione ad apparato formale, rischiando di
72
73
V. nota 69.
Citato.
70
ridurne gli oggetti a meri segni convenzionali privi di significanza e di consistenza ontologica.
La domanda che si pone, a questo punto, è se non si possa, invece, elaborare un punto di vista da cui osservare quel complesso di fatti culturali, di
pratiche, di linguaggi e di apparati concettuali che vanno sotto il nome di
scienza, nel loro completo sviluppo ed in relazione con ogni altra dimensione dell'esperienza umana, senza perderne di vista, al contempo, le esigenze specifiche che ne garantiscono la funzionalità e la ragion d'essere. La
mia risposta è positiva, a condizione che la scienza non sia vista come una
struttura statica e definitivamente data, ma alla stregua di un organismo vivente che nasce e si sviluppa, trasformandosi continuamente. Anche il problema della demarcazione acquista, allora, una connotazione nuova. Per
esprimerla con una metafora è come se mi chiedessi cosa mi consente di
dire che io, così come mi vedo oggi, riconoscendomi nei miei pensieri e
nella mia immagine allo specchio, sono la stessa persona raffigurata in
quella foto di bambino di tre anni, oltre che nei miei ricordi d'infanzia. O,
ancora, a identificare la farfalla di oggi con il bruco che fu ieri.
L'approccio storicistico di Thomas Kuhn, da cui, come già detto, è mutuato
il concetto di paradigma, è certamente un ottimo punto di partenza, ma a
condizione, anche qui, che lo stesso punto di osservazione e di indagine
epistemologica, non sia considerato come rigido e invariabile nel tempo.
Gli stessi strumenti concettuali, di volta in volta elaborati dalla filosofia
della scienza, per essere poi criticati e respinti, possono invece costituire un
utile patrimonio se non irrigiditi come gabbie di ferro74.
Non si può, innanzitutto, non fare i conti con il problema primario della co74
A questo proposito, un passo di Hilary Putnam mi colpisce particolarmente quando afferma: «Il vizio che da sempre affligge i filosofi sembra essere quello di gettare via il
bambino con l'acqua sporca. Fin dagli albori, ogni “nuova ondata” di filosofi nel promuovere la propria posizione ha semplicemente ignorato le intuizioni dei predecessori.
Oggi siamo prossimi alla fine di un secolo in cui vi sono state molte nuove intuizioni in
filosofia; ma allo stesso tempo si è avuto un oblio senza pari delle intuizioni dei secoli
e millenni precedenti» (H. PUTNAM, The threefold Cord: Mind, Body and World,
(1999), Ediz. Ital. Mente, corpo, mondo, Il Mulino, Bologna, 2003). La separazione positivista tra sciena e metafisica, la svolta linguistica di Wittngstein e Rorthy, il concetto
di falsificabilità di Popper, così come gli stessi concetti di paradigma e rivoluzione
scientifica di Kuhn, ove non irrigiditi in sistema statico, possono tutti contenere bambini da recuperare prima di gettar via l'acqua sporca.
71
noscibilità del mondo. Basta qui prendere atto che nulla è dato conoscere
se non i dati fenomenici effettivamente percepiti durante l'esperienza di
ciascun individuo. Ma il mondo, come somma e accumulo di percezioni, è
solamente Caos, il Nulla primordiale di ogni racconto sull'inizio e sulla
creazione. All'inizio era il Caos, recita il primo verso della Teogonia di
Esiodo. Il mito è la forma prima e irrinunciabile attraverso cui le ombre
dell'universo caotico e delle percezioni, diventano entità intelligibili, diventano Mondo che emerge dal Nulla, in quell'atto di creazione che, fin dalla
nascita, si ripete, sempre uguale e sempre diverso, in ognuno di noi. La
metafora è la struttura fondamentale attraverso cui si costituisce il mito e si
stratifica in forme sempre più complesse che, attraverso il linguaggio, costituiscono la base comune e socializzata di ogni visione del mondo. Di un
mito non ci si chiede se è vero o falso, ma di quali significati è veicolo, di
quali concetti astratti e inafferrabili è metafora.
Che il mito sia parte fondamentale dell'identità culturale di un popolo, appartiene al senso comune e mai verrebbero messi in discussioni i suoi stretti legami con l'arte e la poesia. Più recente è il suo recupero nei rapporti
con la scienza. È stato, in particolare Ernest Cassirer a esplorarne le affinità
profonde nei processi dell'ideazione e della costruzione di strutture concettuali. È stato Cassirer nella sua Filosofia delle forme simboliche, a riconoscere la natura linguistico-culturale di quelle forme fondamentali dell'intelletto che Kant voleva a priori. Spazio, tempo, numero, sostanza, causalità,
ecc., non sono, per Cassirer, strutture innate e preesistenti della mente umana, ma forme simboliche costruite collettivamente, attraverso il linguaggio,
e soggette a mutare nel corso della storia e tra le differenti civiltà e culture.
Ciò porta, quindi, a riconoscere nella genesi dei linguaggi e della strutture
concettuali della scienza, quelle stesse dinamiche, o almeno ad esse analoghe, con cui si costituisce il mito. Ma se a Cassirer spetta il merito di avere
riconosciuto l'affinità genetica tra scienza e mito, per il costituirsi delle
strutture linguistico-concettuali di base, insufficiente è la sua risposta quando si tratta di differenziare queste due dimensioni della rappresentazione
del mondo.
Ciò che accomuna scienza e mito è in primo luogo l'obiettivo primario di
dare forma razionale ed esprimibile al caos incomprensibile dei fenomeni a
cui forniscono senso e significato. Entrambi procedono attraverso una incessante attività creativa, produttrice di nuove entità concettuali sempre più
72
astratte, simbolizzate nelle forme dell'analogia e della metafora. Entrambe
costruiscono rappresentazioni e spiegazioni del mondo. Ma la scienza nasce da un insopprimibile bisogno di prevedere ed, eventualmente, di modificare il corso dei fenomeni, oltre che di darne una spiegazione. Un'esigenza che nasce dall'intera esperienza del vivere, dal bisogno di costruire sé
stessi nella propria proiezione futura, ma anche dalle esigenze pratiche di
predisporre i mezzi della propria sussistenza. Se è facile prevedere che domani sorgerà ancora il sole e che le stagioni si ripetono ciclicamente, meno
facile sono molte altre previsioni più o meno essenziali. Anche il mito
svolge i suoi tentativi: dalla divinazione, all'oracolo, alla profezia. Mentre
la sua capacità esplicativa appare, però, molto più forte e circostanziata di
quanto non possa fare la scienza, fallace si manifesta, invece, la sua capacità predittiva. Non c'è evento, infatti, a cui il mito non sappia dare una spiegazione e fornire una causa, sia pure attraverso l'intervento di una volontà
divina. Ma l'oracolo, quando non è incomprensibile e suscettibile di interpretazioni opposte e contraddittorie, è destinato quasi sempre ad essere
smentito dai fatti. «Noi che sappiamo dire tante bugie simili al vero» dice
la Musa a Esiodo «sopiamo dire anche il vero, quando ci aggrada».
Il primo carattere che distingue la rappresentazione scientifica del mondo,
rispetto a quella mitica, consiste allora nel sottrarre la spiegazione degli
eventi all'alea di volontà imperscrutabili e capricciose. Non più soggetti
dotati di volontà e libero arbitrio, ma entità impersonali, governate dalla
cieca necessità delle “leggi di natura”. È la rivoluzione di Democrito e di
Pitagora.
La storia della scienza e delle sue interpretazioni epistemologiche può dar
luogo di volta in volta a modelli più o meno esplicativi e rappresentativi
dei fatti. Ciò da cui tuttavia non è possibile prescindere è la sua effettiva
capacità predittiva.
Ma con quali regole, quali dinamiche e su quali criteri selettivi può costituirsi un nucleo siffatto e come può effettivamente rispondere al suo ruolo
insieme esplicativo e predittivo? Io credo che convenga fermare qui il nostro discorso generale sulla scienza, lasciando il resto al suo costituirsi nella storia. Ci limitiamo ad aggiungere solo che il requisito della predittività,
come criterio di demarcazione tra la rappresentazione scientifica del mondo e ogni altra forma di rappresentazione, porti con sé, come corollario,
l'oggettiva controllabilità degli esiti finali di ogni atto predittivo. Ma ciò si-
73
gnifica due cose. Intanto la necessità di sottrarre i giudizi alle variabilità individuali ed alle opinioni dei singoli studiosi e operatori, e questo, ove non
voglia essere legato a irraggiungibili quanto sterili pretese di verità ed evidenza, deve costituirsi attorno a un un proprio nucleo di formulazioni che
sia stabile e condiviso, ma allo stesso tempo sufficientemente flessibile di
fronte alle esigenze di cambiamento. È ciò che abbiamo chiamato paradigma.
In secondo luogo la predittività è un'idea strettamente legata a quella di futuro. Nessuna convalida delle ipotesi scientifiche può essere fondata su
giudizi di verità a priori. Questi presiedono alla costituzione, in forma ipotetica, dei concetti e delle costruzioni teoriche capaci di darne una spiegazione, ma ogni convalida di essi dovrà avvenire a posteriori, in base
all'esperienza di successo o insuccesso di atti predittivi conseguenti a
quell'apparato teorico. È chiaramente il caso del metodo sperimentale nelle
scienze della natura ma, come vedremo, non soltanto di questo.
Dev'essere chiaro, però, che non intendo affatto escludere, con ciò, che
ogni scienziato possa avere le sue personali convinzioni sulla verità e immutabilità dei principi. Se lo facessi rischierei di incorrere in difficoltà difficilmente superabili anche nella storia della scienza moderna. È difficile
pensare, ad esempio, che senza una profonda e radicata convinzione di verità, Galileo potesse affrontare un processo e una condanna, quando gli sarebbe stato sufficiente seguire i suggerimenti del cardinale Bellarmino per
evitarla75. Né ci è facile pensare che la concezione deterministica di Laplace venisse posta come semplice assunzione funzionale76.
L'apparente contraddizione si risolve facilmente, però, ove si distingua intanto tra convinzione ed evidenza. Un conto è, infatti, raggiungere in qualunque modo una convinzione e operare per ottenerne l'altrui condivisione,
altro è cercare un'improbabile e irraggiungibile evidenza che, per sua intrinseca natura, dovrebbe essere condivisa a priori 77. Ancor più la contrad75
76
77
Com'è noto Bellarmino suggeriva a Galileo di affermare che il sistema eliocentrico
esprimesse non già la vera struttura dell'Universo, ma si limitasse a darne una rappresentazione matematica efficace e in grado di “salvare i fenomeni”.
Si potrebbe continuare includendo anche le perplessità di Einstein nell'accettare, nella
fisica quantistica, quelle interpretazioni più radicali che pongono fine alla concezione
determinista.
Vero è che Cartesio, come già Aristotele, pone l'evidenza come fondamento irrinunciabile della razionalità e, tuttavia, riesce a costruire, nell'ambito della matematica un edi-
74
dizione si dissolve se si guarda alla scienza come processo storico, frutto
dell'effettivo e concreto operare degli scienziati. Il prodotto scientifico è,
da questo punto di vista, ciò che lo scienziato effettivamente fa e non ciò
che pensa di fare.
Prima di chiudere questo capitolo, voglio ribadire, ove fosse ancora necessario, come le filosofie dogmatiche non possano fornire alcun tipo di fondamento alla costruzione e allo sviluppo delle scienze intese secondo la nostra accezione, intanto perché, presumendo verità a priori, precludono qualunque ricerca di convalida a posteriori, ma soprattutto perché precludono
la possibilità della scienza di inventare e reinventare continuamente i propri oggetti.
Sulle filosofie di Platone e Aristotele, perciò, non può essersi costituita la
tradizione scientifica nel mondo greco antico. L'intrusione di tali filosofie
può essere stata piuttosto un freno, ed anzi, la riscoperta e il massiccio recupero dei due maggiori filosofi metafisici, a partire dal primo secolo a.C.,
non può non avere avuto un ruolo di primo piano nella crisi di creatività
del pensiero scientifico e nel suo progressivo declino78.
78
ficio poderoso. Ma in questo caso egli è il più clamoroso degli esempi a cui ben si addice l'espressione: “razzola bene e predica male”, dal momento che, nei fatti e qualunque
cosa ne pensasse, la sua geometria non è il semplice studio sistematico delle figure nello spazio ma la reinvenzione ex novo di un concetto altro di spazio. È, più corretto dire,
anzi, che prima di Cartesio non esisteva un concetto di spazio geometrico ma, di esso,
solo un'idea metafisica. Nella meccanica, invece, dove i suoi precetti teorici sono più
rigorosamente rispettati, egli non produce nulla di sostanzialmente valido. Salvo poi
che dalla sua teoria dei vortici, ma questo avverrà molto tempo dopo, è derivata l'idea
di fondo dei campi elettromagnetici. Si tratta comunque, anche in questo caso, di un
processo ideativo che nulla ha a che fare con le intuizioni realistiche propugnate da
Cartesio.
Questa è anche la tesi del gruppo che si raccoglie attorno alla rivista Mondotre-La Suola Italica, fondata in Sicilia dal fisico nucleare Salvatore Notarrigo. Si veda in proposito, ad esempio, G. BOSCARINO, Tradizioni di pensiero, La tradizione filosofica italica
della scienza e della realtà, Mondotre-La Scuola Italica, Siracusa, 1999.
75
10. Il paradigma euclideo
Nasce, a questo punto, un problema che potrebbe mettere in crisi, a prima
vista, quanto detto finora. Abbiamo analizzato alcuni passi dalle opere di
Archimede il cui contenuto, almeno nella nostra interpretazione, sembra
rientrare nella visione generale della scienza appena proposta. Archimede,
infatti, invoca, da parte del lettore, una fiducia chiaramente fondata sui risultati ottenuti, piuttosto che sulla premessa assunta come postulato. Il problema nasce, però, dal fatto che le questioni in oggetto non riguardano fenomeni della natura, ma proprietà geometriche. Si può chiedere allora: in
che senso le conseguenze geometriche di un'assunzione geometrica si possono assimilare al concetto di predittività di cui si è appena parlato?
Non è neppure necessario fare riferimento al concetto kantiano di giudizio
analitico per comprendere la fondamentale differenza che si annette alla
matematica, in tutte le sue manifestazioni, rispetto ad ogni altra forma di
sapere. Luis Borges, in un suo racconto, fa dire all'io narrante:
Se mi dicessero che ci sono unicorni sulla luna, io accetterei o respingerei questa notizia o sospenderei il giudizio, ma potrei immaginarli. Invece, se mi dicessero che sulla luna sei o sette unicorni possono essere tre, io affermerei a priori
che il fatto è impossibile. Chi ha capito che tre più uno fa quattro non fa la prova
con monete, con dadi, con i pezzi degli scacchi o con le matite. Lo capisce e basta. Non può concepire un'altra cifra. [...] Se tre più uno possono essere due o
possono essere quattordici, la ragione è una follia.
(L. Borges: Tigri azzurre).
Senza spingerci ulteriormente sullo statuto epistemologico della matematica e della logica, ci limitiamo a constatare come sia nozione comune che i
concetti fondanti di queste discipline non debbano essere legati all'esperienza sensibile. Una convinzione di fondo, questa, che ha dato luogo a
quello che viene detto platonismo logico-matematico, all'idea, cioè, che i
principi logico-matematici siano dotati, in un modo o nell'altro, di un'oggettività intrinseca e irriducibile, indipendente da qualunque esperienza che
non sia quella del pensiero puro79.
79
Nel corso del Novecento il platonismo logico-matematico, con l'affermazione del formalismo di Hilbert, ha finito per assumere una forma convenzionale di pura coerenza
logica, svincolata da ogni implicazione ontologica. Secondo la definizione di Hilbert, si
76
Se tutto ciò è vero su un piano puramente speculativo o, nell'esperienza
concreta, entro i limiti delle intuizioni più immediate, diversamente vanno
le cose quando si tratta di affrontare problemi complessi. Se 3+1=4 può
presentarsi come un dato immediato della coscienza, meno immediate sono
le proprietà dei numeri quando questi assumono dimensioni per noi inaccessibili, o quando si prende in considerazione la serie numerica in tutta la
sua illimitatezza, o quando per numeri si vogliono intendere delle entità diverse dagli interi positivi. Cos'è un numero irrazionale, quale ad esempio il
numero pigreco o la radice quadrata di 2? E cosa dire, ancora, di fronte a
proprietà geometriche come quella espressa dal teorema di Pitagora? O sulla questione delle parallele, con il suo enigma durato duemila anni?
È proprio quest'ultimo che ci offre lo spunto per meglio comprendere quel
paradigma euclideo entro cui lo stesso Archimede ha operato ed a cui ha
dato un nuovo e più avanzato apporto.
Ho già detto che quando parlo di paradigma euclideo non intendo avanzare
attribuzioni all'autore degli Elementi. Nulla consente di escludere, infatti,
che il lavoro di Euclide si inserisse in una tradizione già esistente e che, se
mai, egli abbia contribuito a perfezionarla. In questa sede, però, non siamo
interessati tanto a dare risposta a problemi siffatti, ma piuttosto a ricercare
i caratteri della tradizione ereditata da Archimede. Di quella tradizione,
cioè, che avrebbe contraddistinto il modo scientifico di affrontare i problemi, rispetto ad ogni altra tradizione. È naturale, allora, fare riferimento agli
Elementi di Euclide, in quanto la più antica opera tuttora esistente, da cui
quel paradigma si possa evincere con ragionevole chiarezza.
Vediamone allora la struttura essenziale. Vi si possono distinguere innanzitutto tre categorie di enunciati: definizioni, assunzioni di base non dimostrate, teoremi dimostrati con rigorosi procedimenti logici. Le assunzioni si
distinguono, a loro volta in nozioni comuni (κοιναι εννοιαι), e postulati
(αιτηεματα). I primi non sono specifici per gli oggetti geometrici, ma concernono essenzialmente la nozione logica dell'uguaglianza e dell'identità di
dice che un oggetto esiste, se gli assiomi con cui viene caratterizzato non sono tra loro
contraddittori. Svanisce quindi ogni problema legato alla verità e all'esistenza in senso
ontologico, per lasciare il posto esclusivamente a quello della coerenza logica. Non ha
più senso, in quest'ottica, chiedersi cosa siano i numeri né se ciò che si dice di essi sia
vero. Numeri saranno tutte le possibili cose che soddisfano agli assiomi posti, ammesso
che ce ne siano.
77
un oggetto80. I postulati sono specifici della geometria ma, soprattutto, si
distinguono in quanto posti come una richiesta al lettore (ἠιτήσθω = si
chieda che). È come dire che chi scrive non si attende che i primi vengano
contestati da qualcuno, mentre sui secondi si limita a precisare che la validità di tutto ciò che segue è subordinata all'accettazione di quelle specifiche assunzioni.
Ma ancor prima vi è una serie di definizioni (per la precisione ὄροι = termini) che sono, in realtà, delle spiegazioni essenziali dei termini tecnici
adoperati. Qui mi si consenta una breve divagazione, che alcuni potranno
giudicare superflua, ma che ritengo necessaria per quanti non abbiano familiarità con i linguaggi della matematica e delle scienze in generale.
In un qualunque discorso scientifico, in questo caso la geometria, si fa uso
di un numero imprecisato di parole del linguaggio comune, il cui significato è generalmente noto e non problematico. Ma assieme a questi vi è un più
ristretto numero di termini che, anche quando siano presi anch'essi dal linguaggio comune, denotano qualcosa di molto più specifico e astratto.
La parola italiana punto, ad esempio, deriva dalla punta con cui si segna un
piccolo segno sul foglio81. Oggi potrebbe essere la punta della matita. Il
punto geometrico indica invece un'entità ideale che non ha alcun riscontro
nel linguaggio comune. Così è per altri termini come linea, triangolo, quadrato, cerchio. Sebbene, infatti, ciascuno di noi ha esperienza di oggetti
(approssimativamente) circolari o quadrati, allo steso tempo sa bene che
nessun oggetto sensibile può essere esattamente un cerchio o un quadrato.
Dunque la geometria, ma ciò vale per ogni scienza, necessita di termini,
detti termini tecnici, il cui significato dev'essere attribuito in modo univoco
e rigoroso, e non riducibile al significato del linguaggio comune.
In molti casi ciò può essere fatto con le definizioni. Per esempio possiamo
dire che cerchio è la linea i cui punti hanno tutti la stessa distanza da un
punto dato (il centro). Ma ci rendiamo subito conto che una definizione
così fatta necessita di altri termini tecnici (in questo caso linea, punto, di80
81
Sono del tipo: due cose uguali a una terza sono uguali tra loro; se a cose uguali si sommano o si sottraggono cose uguali si ottengono cose uguali, ogni cosa è uguale a sé
stessa.
Nel greco classico veniva usata la parola στιγμέ che può significare puntura, segno,
marchio. A partire dal III secolo si usa invece la parola σεμειον, che nel linguaggio comune significa semplicemente segno.
78
stanza) che a sua volta andrebbero definiti. Ma in questo modo si verrebbe
a generare un processo infinito, per cui è necessario che almeno un nucleo,
possibilmente piccolo, di termini tecnici venga assunto senza definizione.
Questo è un fatto, oggi, abbastanza scontato e, all'inizio di ogni teoria, si
dichiara prioritariamente quali sino i termini da assumere senza definizione
(termini primitivi: nella geometria possono essere punto, linea, superficie).
Ciò non comporta alcuna limitazione negli sviluppi della teoria, dal momento che le dimostrazioni sono fondate esclusivamente sui postulati (o assiomi) e che nessun'altra proprietà attribuibile agli oggetti può essere lecitamente usata.
È sui postulati, quindi, che si deve spostare l'attenzione per comprendere in
che modo un paradigma scientifico si viene a costituire e come se ne possa
giudicare la validità. Se, però, ho ritenuto di inserire questa premessa è per
un motivo ben preciso e che riguarda la storiografia della matematica.
Due grandi questioni, infatti, gravano su Euclide e sulla geometria, rendendone più difficilmente comprensibili le basi epistemologiche. La prima è
dovuta alla presenza di alcune definizioni ritenute superflue e difficilmente
compatibili con il paradigma appena delineato. La seconda è costituito da
un secolare enigma connesso al suo quinto postulato.
Quanto al primo punto, il fatto è che, in tutte le edizioni degli Elementi
che sono giunte fino a noi, sono presenti alcune definizioni che, in virtù di
quanto detto sopra, non avrebbero ragione di essere. Si tratta appunto delle
definizioni di termini quali punto, linea, linea retta, superficie, superficie
piana. Per il resto, infatti, l'opera è organizzata come se questi fossero stati
assunti come concetti primitivi, senza che le definizioni poste, per altro ben
poco esplicative e talvolta oscure, vengano mai utilizzate nelle dimostrazioni. Perché Euclide le avrebbe poste? Da parte di molti commentatori, si è
voluto vedere in questo la prova che la scienza antica, e nel caso specifico
la geometria di Euclide, mirasse a costituire i propri oggetti come dati a
priori, con una propria specifica esistenza ontologica, che andava in qualche modo scoperta e riconosciuta vera. La scienza, dunque, come ricerca di
verità assolute e indiscutibili. Se così fosse, la straordinaria fecondità della
scienza ellenistica apparirebbe quanto meno “miracolosa”. È ormai consolidata, infatti, la consapevolezza che su tali temi non possono sussistere risposte definitive, stabili e ampiamente condivise. Una scienza, che sia in
grado di progredire e di stabilire sempre nuovi traguardi, può sussistere
79
solo a condizione di accettare principi ipotetici, aperti alla verifica e alla revisione. Ciò che appare già chiaramente nell'espressione di apertura dei postulati di Euclide (ἠιτήσθω).
Cosa giustifica allora la presenza negli Elementi di definizioni così discutibili e poco chiare, oltre che inutili, quali sono quelle sopra menzionate? A
mio avviso nulla, come nulla, del resto, prova che esse siano state effettivamente scritte da Euclide. È Lucio Russo, in particolare, a sostenere, con
solide argomentazioni, la loro non autenticità. Esse sarebbero state introdotte in epoca posteriore da qualche compilatore anonimo 82. Del resto già
molte altre parti, presenti nelle varie edizioni circolanti, ma ritenute apocrife, erano state eliminate da Heiberg nel curare la sua ormai classica edizione.
82
L. RUSSO, The Definitions of Fundamental Geometric Entities Contained in Book I of
Euclids Elements, Archive for history of exact sciences, 1998.
80
11. Un enigma storico-scientifico e l'eclissi di un paradigma
Se quanto esposto finora è sufficiente, ove accolto, a liquidare la prima
questione, meno immediata appare la seconda, non fosse altro che per le
lunghe e complesse implicazioni logiche e filosofiche e per gli sviluppi
matematici che ha prodotto nel corso di ben due millenni. Non credo di
dire nulla di nuovo affermando che sia stato il più grande enigma scientifico della storia. È per ciò che, pur avendo ampiamente affrontato l'argomento in più occasioni, ritengo di doverne fare anche qui un rapido cenno rinviando, per il resto, ai miei precedenti lavori sul tema.
Il quinto postulato di Euclide, come molti sanno, concerne il concetto di
parallelismo tra rette e si rivela indispensabile per dimostrare rigorosamente le più notevoli proprietà geometriche, dalla somma degli angoli di un
poligono, al teorema di Pitagora, alla formula della distanza nella geometria cartesiana.
La vicenda di questo postulato, secondo le notizie tramandate da Proclo 83,
ha inizio nel corso del primo secolo a.C., quasi due secoli dopo la morte di
Archimede. Fino ad allora, infatti, non vi è notizia che qualcuno abbia
mosso obiezioni. Sarebbero stati Posidonio e Gemino i primi a contestare il
postulato, ritenendo che fosse “non evidente” e che lo si dovesse quindi dimostrare come teorema.
Ha inizio così una storia ultramillenaria fatta di tentativi infruttuosi di dimostrazioni. Tutte le dimostrazioni tentate, infatti, si rivelavano inesatte o
tautologiche (fondate cioè su qualche presupposto equivalente a ciò che si
voleva dimostrare). La storia, passando attraverso gli arabi, giunge infine
al XVIII secolo con il tentativo considerato più interessante, quello del gesuita Gerolamo Saccheri, che riconoscendo l'insufficienza della sua dimostrazione, dichiara infine che il postulato si dovesse comunque ammettere
perché intrinseco alla “natura della retta”. Veniva così dichiarata esplicitamente quella richiesta di verità metafisica che, secondo la nostra interpretazione, il paradigma euclideo avrebbe, invece, accantonato.
La questione sembra essere superata, poco tempo dopo, con la Critica della
ragion pura di Kant, in base alla quale il postulato viene ritenuto come un
83
PROCLO, Commento al primo libro degli Elementi di Euclide.
81
giudizio sintetico a priori, cioè come una forma innata della mente umana.
Ciò equivale a dire che noi, esseri umani, non potremmo concepire una
geometria diversa da quella formulata da Euclide con i suoi postulati, compreso il quinto.
Nel corso dell'Ottocento, però, viene mostrato ad opera di vari matematici
(Boliay, Lobatceskij, Riemann, Klain, Poncaré) come sia invece possibile
concepire e studiare geometrie tra loro diverse e che, quindi, una geometria
non euclidea sia possibile accanto a quella euclidea classica.
Infine, all'inizio del Novecento, la Teoria della Relatività Generale di Einstein proponeva un modello non euclideo dello spazio fisico. Questo, cioè
lo spazio della nostra reale esistenza, sarebbe quindi non euclideo, non varrebbe cioè il quinto postulato e tutti i teoremi che ne derivano, se non approssimativamente, entro regioni abbastanza piccole. La matematica del
Novecento, anche attraverso la via delle delle geometria non euclidee, si
apriva ad una dimensione nuova: le teorie matematiche assumevano
l'aspetto di sistemi formali, separati da ogni possibile significato. Divenivano modelli di mondi possibili, senza descrivere, di per sé, alcun mondo
reale. Le assunzioni di una teoria possono ormai essere del tutto arbitrari,
salvo il requisito della coerenza logica.
Se la questione, per sé stessa, è così dissolta, non lo è invece nella sua dimensione storica relativa al paradigma che fu di Euclide e di Archimede.
Questa continua a sopravvivere e la si può riscontrare, ad esempio, nella
sua forma compiuta, in una delle più note pubblicazioni divulgative di livello alto: La rivoluzione non euclidea di Richard Trudeau, pubblicata, in
lingua originale, nel 198984.
Cercherò di renderne una sintesi estrema. Euclide, nel primo libro degli
Elementi dimostra le suoe prime ventisette proposizioni senza fare uso del
quinto postulato che utilizza invece, per la prima volta, quando non può più
farne a meno per dimostrare la ventinovesima proposizione. Non ci sarebbe in ciò nulla di strano se questo non rendesse la trattazione molto più
complessa di quanto possa apparire necessario. Il percorso dimostrativo sarebbe stato, invece, molto più semplice se non avesse rinviato, fin dove
possibile, l'uso di quel postulato, così come si fa generalmente oggi nelle
nostre scuole.
84
R. TRUDEAU, The non-Euclidean revolution, ediz. Ital.: La rivoluzione non euclidea,
Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
82
Perché allora Euclide avrebbe seguito la via più lunga e complessa? L'ipotesi che è stata fatta e tramandata per lungo tempo è che egli fosse dubbioso su quel postulato, proprio a causa della sua scarsa evidenza. Un'ipotesi
siffatta, tuttavia, si porrebbe se non in netto contrasto, quanto meno in termini fortemente problematici con quanto da noi fin qui evidenziato. Se il
giudizio di validità sulle assunzioni fondanti della scienza si pone in termini di funzionalità e non di intrinseca verità sugli oggetti, non ha molto senso parlare di evidenza. Ma è possibile un'ipotesi alternativa?
Credo di avere ampiamente mostrato nei miei precedenti lavori come la via
seguita da Euclide sia la sola che possa mettere bene in evidenza l'originalità e la genialità della sua risposta al problema delle parallele. Se di questo
era consapevole, e non poteva non esserlo, sarebbe stato autolesionistico
non mostrarlo solo per il timore di qualche complicazione tecnica in più.
Siamo allora pronti per rispondere alla domanda con cui si è aperto il capitolo precedente. Perché l'organizzazione della geometria, così come si presenta negli Elementi, riesce a fornire una base ineccepibile di un complesso
edificio in massima parte già costruito ma, presumibilmente ancora lacunoso. In altri termini la validità dei cinque postulati si fonderebbe, ora, non su
profonde, quanto mutevoli, meditazioni metafisiche, o mistiche intuizioni,
o rivelazioni di qualche benevola musa (in che altro modo possiamo definire i termini intuizione o evidenza?), bensì sull'idoneità a dare basi fondative
ineccepibili ad una tradizione già consolidata. La validazione delle premesse, dunque, anche nel caso delle scienze matematiche, non avviene a priori
sulla natura, ontologicamente intesa, degli oggetti, ma a posteriori sulle
conseguenze che da quelle assunzioni derivano.
Se così stanno le cose rimane solo un problema. Se un paradigma siffatto
ha governato per qualche tempo la ricerca scientifica, producendo risultati
di grande fecondità, che, riscoperti secoli dopo avrebbero dato origine al
mondo moderno, perché, improvvisamente sarebbe caduto nell'oblio? Perché, pur possedendo i testi di quell'epoca feconda, non se ne riusciva più a
dipanare il filo?
La risposta fornita da Lucio Russo85 in La rivoluzione dimenticata, pur individuando un passaggio cruciale della storia, non mi sembra tuttavia esauriente. Una volta sottomesso il mondo greco, la cultura romana sarebbe stata, secondo Russo, non all'altezza né sostanzialmente interessata a racco85
L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata, Op. cit.
83
glierne l'eredità scientifica. Se pure in ciò ci sia del vero, la spiegazione
pare a me insufficiente perché la ricerca scientifica si praticherà ancora per
molto tempo, e non già da parte degli intellettuali romani, bensì in lingua
greca e nei centri di cultura greca. È proprio in quest'ambito, e non nel
mondo propriamente romano, che quel filo sembra essersi spezzato.
Penso allora alla concorrenza di due fattori distinti e concomitanti. Il primo
è intrinseco alla struttura stessa del paradigma scientifico e dei testi che lo
realizzano. Un testo scientifico, infatti, procede con un suo proprio linguaggio, con un suo apparato concettuale e una terminologia specifica. Di
essi non c'è traccia di spiegazione nei testi scritti. Si tratta, dunque, di linguaggi e apparati concettuali che venivano trasmessi (ma ciò in larga misura avviene tuttora) attraverso un tirocinio di apprendimento fondato sul
rapporto diretto maestro-allievo: una sorta di percorso di iniziazione, per il
quale si deve presumere l'esistenza di scuole.
Se così è, allora è sufficiente un'interruzione di questo processo per poche
generazioni, perché il senso di un paradigma rischi di scomparire per sempre. E le vicende che determinarono la fine dei regni ellenistici è più che
sufficiente come spiegazione di un tale evento.
Il secondo fattore è costituito dal mutamento di orizzonte filosofico generale. Nel primo secolo a.C., venivano riscoperte e pubblicate quelle opere
di Aristortele che sono oggi quasi le sole sopravvissute. C'è da stupirsi se,
per la prima volta, anche Posidonio e Gemino, proprio come vorrebbe Aristotele86, richiedono il requisito di evidenza dei postulati?
Più avanti le filosofie neoplatoniche avrebbero avuto anch'esse un ruolo
fondamentale nella ricerca di una chiave di lettura di quei testi divenuti altrimenti incomprensibili.
86
Negli Analitici Primi, Aristotele così spiega ciò che egli intende per “sillogismo scientifico” o dimostrazione: «...scientifico chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il
fatto di possederlo noi sappiamo. Se il sapere dunque è tale, quale abbiamo stabilito,
sarà pure necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse
vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause
di essa. [...] un sillogismo potrà sussistere senza tali premesse, ma una dimostrazione
non potrebbe sussistere, poiché allora non produrrebbe scienza» (ARSISTOTELE, An.
Post., 71 b 18-25).
84
12. La ricerca del libro perduto
Il primo libro sull'equilibrio dei piani (De planorum aequilibriis) ha inizio,
almeno nel testo di cui disponiamo, direttamente con un'elencazione dei
postulati87 e senza che vi sia, come in altri casi, alcuna introduzione. Non
vi sono definizioni e il termine baricentro (κἐντρον τοῦ βάρεως, letteralmente: centro dei pesi), appare per la prima volta nel quarto postulato, senza che vi sia alcuna spiegazione circa il significato del nuovo termine tecnico.
Se il dato di fatto inequivocabile è che manca una definizione di centro di
gravità, c’è una diversità di opinioni sul motivo di tale mancanza. In altre
87
Riporto qui i sette postulati nella traduzione di A. Frajese. È da osservare che la parola
“sospesi”, contenuta fra parentesi quadre, non è presente nel testo greco, ma si trova
nella traduzione latina di Heiberg e, tra parentesi quadre, in quella di Frajese, con
l'intento di chiarirne il senso. Così facendo, però, viene suggerito un significato realistico che introduce il concetto di sospensione non esplicitamente dichiarato da Archimede. In altri termini si suggerisce l'idea di un qualche apparato fisico appeso a un punto.
Comunque stiano le cose, si comprende come una traduzione difficilmente possa costituire una pura e semplice traslazione tra lingue, ma contenga in sé delle scelte interpretative.
Ecco dunque i postulati:
I. Chiediamo che pesi uguali [sospesi] a distanze uguali si facciano equilibrio; che
pesi uguali [sospesi] a distanze disuguali non si facciano equilibrio, ma producano pendenza dalla parte del peso che si trova a distanza maggiore.
II. Che se dati dei pesi che si facciano equilibrio essendo [sospesi] a certe distanze, si aggiunga qualcosa ad uno dei pesi, non si abbia più equilibrio, ma pendenza
dalla parte del peso al quale si è fatta l'aggiunta.
III. Che similmente se da uno dei pesi si tolga qualcosa, non si abbia più equilibrio, ma pendenza dalla parte del peso dal quale non si è sottratto nulla.
IV. Che se figure piane uguali e simili coincidono l'una sull'altra, anche i centri di
gravita coincideranno tra loro.
V. Che per figure disuguali ma simili i centri di gravità saranno similmente posti.
Diciamo che punti in figure simili sono similmente posti se rette condotte da essi
ai vertici degli angoli uguali formano angoli uguali con i lati omologhi.
VI. Che se grandezze a certe distanze si fanno equilibrio, anche grandezze ad
esse uguali poste alle stesse distanze si faranno equilibrio.
VII. Che per ogni figura il perimetro della quale è concavo dalla stessa parte, il
centro di gravità debba trovarsi nell'interno della figura. (A. FRAJESE, Op. Cit. pp.
397-399).
85
parole, ci si chiede come mai Archimede non abbia definito nel primo libro
del De planorum aequilibriis, che viene considerato la prima opera archimedea fra quelle giunte fino ai nostri giorni, un concetto fondamentale per
gli sviluppi di tutta la sua meccanica. Come fa notare Frajese 88, le posizioni
relative a tale questione si possono ricondurre essenzialmente a due: la prima, che fa capo a Vailati89, spiega tale mancanza presumendo che il centro
di gravità fosse un concetto già definito in altre opere precedenti dello sesso autore o di altri autori precedenti, e che ciò autorizzasse Archimede a
fare a meno di una ulteriore definizione. La seconda, che possiamo riferire
a Stein90, sostiene che il centro di gravità sia definito implicitamente dai
postulati.
Seguendo la prima ipotesi, si è sviluppata un'ampia letteratura, nel vano
tentativo di individuare qualche traccia del libro mancante, e, in assenza di
tale libro, di ipotizzare quale potesse essere il concetto definito. Se, nel leggere il titolo da me dato a questo capitolo, qualcuno volesse scorgervi un
velato riferimento a Proust, sappia, comunque che, da parte mia, non vi è
nessun intento ironico. Non ho mai avuto, né mai cederò alla tentazione di
atteggiarmi a depositario di qualche verità. Voglio dire, però, che se ci ponessimo, come di fatto ci siamo posti, nella prospettiva che ho cercato di
sviluppare fino ad ora, non sussisterebbero motivi validi per ritenere che
una definizione debba necessariamente esserci. Cercare a tutti costi il libro
che la contiene, o ipotizzare quale potesse presentarsi, sarebbe allora vano,
e parlare di tempo perduto non sarebbe del tutto azzardato. Ancor più, mi
sembrerebbe improprio, se in tale ricerca venissero profusi sforzi da contorsionismo acrobatico, nel momento stesso in cui, da più parti, si è voluto
vedere nelle presunte definizioni superflue di Euclide il maggior limite
strutturale ed epistemologico dei suoi Elementi.
Ammettere, però, che nel De planorum aequilibriis, la definizione di baricentro non c'è perché semplicemente non deve esserci, non implica che il
termine non debba e non possa avere un riferimento di significato nella
rappresentazione fenomenica del mondo. Non, dunque, di tempo perduto si
deve parlare, se le ricerche filologiche finora svolte possono essere finaliz88
89
90
A. FRAJESE, Op. cit., p. 389 in nota.
G. VAILATI, Del concetto di centro di gravità nella statica d’Archimede, Torino, 1897.
W. STEIN, Der Begriff des Schwerpunktes bei Archimedes, Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik, Astronomie und Physik, Abt. B, Bd. 1, 1930, pp. 221-244.
86
zate ad analizzare la genesi del concetto e della sua oggettivazione come
elemento di una struttura linguistico-formale che, nel caso specifico, è la
nuova scienza meccanica.
Già Drachmann91, per esempio, al di là delle conclusioni a cui perviene,
svolge un amplissimo e ben strutturato lavoro filologico partendo dalle notizie che di Archimede ci forniscono Pappo, Erone ed Eutocio.
Il primo dice che il centro di gravità di un corpo «è quel punto al suo interno tale che se un corpo viene sospeso da tale punto rimarrà nella sua posizione originale».
Erone riferisce la definizione di centro di gravità o di inclinazione come
«il punto da cui se un corpo viene sospeso divide il peso in parti uguali».
Attribuisce però tale definizione a Posidonio aggiungendo che Archimede
ed i meccanici suoi seguaci l’avrebbero precisata distinguendo tra punto di
inclinazione e di sospensione, e definendo quest’ultimo come «quel punto
nel corpo o non nel corpo da cui se un corpo viene sospeso sarà in equilibrio»92.
Eutocio, infine, nel suo commento al De planorum aequilibriis, afferma
che Archimede, in questo libro, intenderebbe per centro di inclinazione
(κἐντρον ροπης) di una figura piana «quel punto da cui deve essere sospeso per stare parallelo all’orizzonte».
L'elemento comune a tutti i tentativi di interpretazione, di cui qui si è dato
solo un breve saggio, è il concetto di sospensione, il cui termine è, invece,
assente nel testo archimedeo. Indubitabilmente esso è mutuato dalla letteratura precedente al Nostro e la cui disponibilità, al tempo dei commentatori
antichi, doveva essere ben più ampia di quella attuale. Di essa, tuttavia, rimane tuttora qualche traccia e, in particolare, si conserva, in traduzione
araba, un trattato sulla bilancia in passato attribuito ad Euclide. Senza entrare troppo nel merito, qui basta osservare che il dispositivo in oggetto è
costituito da un'asta orizzontale ai cui estremi sono applicati due pesi e che,
a sua volta, è sospesa in un suo punto. Il punto di sospensione si può, in
questo caso, definire facilmente come il punto da cui bisogna sospendere
91
92
A. G. DRACHMANN, Fragments from Archimedes in Heron’s Mechanics, Centaurus,
VIII, 1963, pp. 91-146.
Anche Drachmann nota qui un errore, poiché Archimede non avrebbe potuto precisare
la definizione di Posidonio essendo quest’ultimo nato 77 anni dopo la morte di Archimede.
87
l'asta perché, una volta dati i due pesi, essa rimanga in posizione orizzontale (posizione di equilibrio). Correttamente, quindi, i vari commentatori
hanno interpretato il centro dei pesi o baricentro come un'estensione o traslazione del centro di sospensione al caso generale di un sistema fisico o
geometrico di forma qualsiasi. Ma il limite sta nel volerne dare un'interpretazione definibile in termini realistici.
Non ci vuole molto, infatti, a comprendere che una definizione di tipo realista è, in questo caso, priva di senso. Non si può sospendere un corpo da
un suo punto interno e ancor meno da un punto che non gli appartiene. Si
pensi, ad esempio ad un corpo a forma di falce o di corona circolare. Nel
caso, poi, del trattato archimedeo sull'equilibrio dei piani, si tratta di pure
forme geometriche piane, per sé stesse prive di peso. Anche a pensarle
come lamine sottili di qualche materiale, una definizione realistica imporrebbe che, quanto meno, si ponesse la condizione dell'omogeneità e
dell'essere costituite tutte dello stesso materiale. Di ciò non c'è traccia nei
postulati archimedei, e tutto tende, come vedremo meglio, a configurare la
nozione introdotta, quale pura entità geometrica.
Il centro dei pesi, dunque, assume il preesistente concetto di centro di sospensione come traslazione metaforica di un concetto noto per rappresentare un'entità ideale, non definibile e non esperibile empiricamente, ma funzionale alla spiegazione dei fenomeni. Il procedimento è, fin qui, assimilabile a quello tipico nella costituzione genetica del mito. Lo ritroviamo nella
Teogonia di Esiodo dove, ad esempio, il tempo-Kronos, divinità che genera
e divora i propri figli, è metafora del divenire del cosmo, o la sapienzaAtena è generata dalla testa del dio-Zeus-ordinatore, vittorioso sul divenire
caotico di Kronos. Ma lo ritroviamo anche nel racconto di Plutarco sul
mito di Iside e Osiride o nei racconti vedici della mitologia indiana, ed in
ogni altra rappresentazione mitica.
Mito e scienza contribuiscono entrambe a sottrarre il mondo sensibile alle
nebbie del caos, costruendone rappresentazioni dicibili e intelligibili. Ma, a
differenza del primo, la scienza va oltre. Essa non si limita a rappresentare
e spiegare, ma vuol dare risposte che siano sottratte all'aleatorietà
dell'interpretazione soggettiva, di proiettarsi nel futuro, prevedendolo e,
ove possibile, modificandone il corso. Questo è possibile se si riesce a irrigidire gli oggetti concettuali così costruiti con “regole d'uso” ben precise,
inequivocabili, e convenzionalmente accettate per aver mostrato la loro ef-
88
fig. 11: I primi cinque postulati sull'equilibrio dei piani. Riproduzione
della pag. 142 del vol. II dell'edizione di Heiberg del 1881. Si noti che
la frase ἴσα βαρεα απο ἴσων μακέςον, che si legge nel primo postulato, significa letteralmente “stessi pesi da uguali distanze” e analogamente per il secondo postulato. Questa lettura potrebbe apparire insoddisfacente qualora si ritenesse che i postulati dovessero riferirsi ad una
rappresentazione fisica realistica. Da qui l'idea che dovesse esserci sottintesa la circostanza della sospensione del sistema in un suo punto.
fettiva funzionalità allo scopo. Sono i postulati, che una volta stabiliti e accettati, diventano il solo referente significante dei concetti a cui si riferiscono.
Quando dico, però, che i postulati sono il solo referente significante, mi riferisco, in modo esclusivo, alle funzioni e agli scopi specifici del fare
scienza, non già alla globalità delle dimensioni del vivere. Gli stessi appa-
89
rati formali delle scienze diverrebbero sterili e improduttivi se non ricevessero gli stimoli e l'energia vivificatrice dell'intera esperienza umana. Intendo dire, dunque, che l'atto di irrigidire assiomaticamente un concetto, non
vuol dire cancellare ogni altra credenza, ogni interrogativo ontologico e
metafisico. Significa solo accantonare problemi siffatti, espungendoli dallo
specifico apparato teorico. Anche per questo ritengo improduttivo e fuori
luogo chiedersi cosa pensassero Euclide o Archimede della natura intrinseca del punto, della linea, del numero o, in questo caso, del baricentro. Non
lo hanno detto, consapevoli, probabilmente, che se lo avessero fatto avrebbero sottoposto il proprio lavoro all'opinabilità dei sistemi filosofici.
Se ora rileggiamo i sette postulati (v. nota 87), omettendo la parola sospesi,
aggiunta nella traduzione latina di Heiberg, e tenendo conto di quanto si è
detto fin qui, si può osservare, innanzitutto, che il termine baricentro (o
centro dei pesi o di gravità) non è il solo ad esser non definito, ma vi sono
anche parole come peso, equilibrio, inclinazione. Queste, infatti, se pure
già note nell'uso comune, qui non possono essere riferite a un contesto realisticamente definito, che invece manca, ma vengono anch'esse connotate
attraverso gli stessi postulati. D'altra parte anche l'espressione κἐντρον τοῦ
βάρεως = centro dei pesi, è formata con le parole centro e peso, ognuna
delle quali, per sé stessa, è nota nel linguaggio comune. Si noti che il modo
in cui sono utilizzati i termini peso e inclinazione, e solo nei primi due postulati, è tale da rendere indifferente il loro eventuale significato fisico. In
seguito tali termini sono del tutto assenti e si fa riferimento, ove necessario,
solo a un più generico concetto di grandezza. Ma è soprattutto nel postulato 4, quello in cui appare per la prima volta l'espressione centro dei pesi,
che si manifesta chiaramente il carattere squisitamente geometrico assunto
dal concetto. Dire, infatti, che se due figure si sovrappongono esattamente
anche i rispettivi baricentri coincidono, equivale a dire che il baricentro è
univocamente determinato dai caratteri geometrici della figura. È questo,
forse, l'unico dato assolutamente inconfutabile, e che non può essere ignorato, perché se la forma e la dimensione della figura ne determinano univocamente il baricentro, ciò non può essere modificato da nessuna condizione
fisica aggiuntiva.
Salvo, poi, la possibilità di utilizzare i risultati raggiunti con i teoremi, anche in contesti non solamente geometrici, ove si assegni uno specifico significato fisico agli altri termini non definiti. In primo luogo, ai termini
90
peso e inclinazione, usati nei primi due postulati, ma anche ai termini equilibrio, inclinazione e grandezza.
91
13. Dalla geometria alla meccanica
Dopo quanto detto nel capitolo precedente, si può riassumere il quadro
complessivo nei termini seguenti:
• Dal postulato 4, a cui si può aggiungere il 5, deriva che il baricentro di una figura piana è un punto, non necessariamente appartenente alla figura, che dipende solo dalle proprietà geometriche della figura stessa.
• Il baricentro, oltre che ad una figura piana, può essere riferito ad
altre entità non definite specificamente. Nel postulato 6, in particolare, si parla genericamente di grandezze. Queste potrebbero essere
rappresentative di aree, volumi o altro, a prescindere dalla loro forma ed estensione e localizzate nel loro baricentro (fig. 12). Nei primi due postulati si parla di “pesi”, ma anche questi appaiono come
entità non definite e quindi possono non riferirsi obbligatoriamente
a forze gravitazionali. Per esempio, nel caso di una leva potrebbero
essere compressioni o trazioni in una direzione qualsiasi.
• Anche il termine equilibrio funziona perfettamente se, spogliato
dal suo significato dinamico, lo
si considera semplicemente
come uno generico “stato” contrapposto a pendenza.
Nel seguito del primo libro vengono
quindi dimostrate varie proposizioni, ed
in particolare quelle che consentono di
fig. 12: Se pensiamo le aree delle due determinare il centro di gravità di un
figure come generiche grandezze posi- triangolo.
zionate nei rispettivi baricentri, allora Nel secondo libro viene invece deterper esse hanno senso i postulati di Ar- minato il baricentro per un segmento di
chimede. In particolare se le aree sono
uguali, il baricentro dell'intero sistema parabola. È questo un passaggio essensi trova a metà fra i baricentri delle due ziale che consentirà, in una successiva
figure (Così come stabilisce il teorema opera, di applicare la nozione di bari4 dove, appunto, non si parla di figure centro al comportamento di un segmenpiane ma genericamente di grandezze). to di paraboloide galleggiante in un li-
92
quido.
Nei due libri sui corpi galleggianti, come si è già accennato, Archimede
fornisce dapprima (nel primo libro) una dimostrazione rigorosa della forma
sferica della superficie del mare. Successivamente, nel secondo libro, utilizzando i teoremi già dimostrati sui centri di gravità, studia appunto, il
comportamento dei corpi galleggianti. Particolarmente significativo è lo
studio del galleggiamento di un segmento di paraboloide, anche perché
questo avendo sezione parabolica e
approssimando quindi la sezione della chiglia di una nave, lascia presumere un possibile intento applicativo.
Non si può fare a meno, a questo
proposito di ricordare quanto si è già
detto sulla possibilità che egli abbia fig. 13: Schema di galleggiamento
effettivamente presieduto alla costruzione della grande nave Syracusia.
Per meglio comprendere questo aspetto, è opportuno dire che i vari teoremi
determinano le posizioni di equilibrio del solido, nei diversi casi dati dal
rapporto tra i due assi della sezione parabolica. Si vede quindi come, a seconda di tale rapporto, il solido, lasciato nel liquido in posizione inclinata,
possa disporsi in posizione verticale (corrispondente a un nave in pieno assetto di navigazione), oppure inclinarsi fino a toccare il liquido con il bordo superiore, o addirittura capovolgendosi.
Se quanto abbiamo visto fin qui può essere visto come un processo di geometrizzazione della meccanica, vi è anche un processo inverso che potremmo definire di ricaduta sulla geometria dei linguaggi e del pensiero meccanico. Ma di questo si dirà più avanti quando parleremo dei cosiddetti “metodi meccanici”
93
14. Il cosmo
Si possono contare i granelli di sabbia? Si può dare un nome a qualunque
numero, per quanto grande esso sia? Queste sembrano essere le domande
che Archimede si pone all'inizio dell'Arenario.
La risposta è positiva e procede tecnicamente con la messa a punto di un
sistema molto ingegnoso fondato sulla rappresentazione esponenziale in
base 100.
Qui non siamo, però, interessati agli strumenti tecnici della soluzione, ma
ai significati che la domanda sottende e alle indicazioni che il testo ci fornisce sulla personalità scientifica del suo autore.
Leggiamo, innanzitutto, il passo di apertura:
Alcuni pensano, o re Gerone che il numero dei granelli di sabbia sia infinito in
quantità: non intendo soltanto la sabbia che si trova nei dintorni di Siracusa e del
resto della Sicilia, ma anche quella che si trova in ogni altra regione, abitata o
deserta. Altri ritengono che questo numero non sia infinito, ma che non possa
esistere un numero esprimibile e che superi questa quantità di sabbia. E' chiaro
che coloro i quali pensano questo, se immaginassero un volume di sabbia uguale
a quello della Terra, avendo riempito di sabbia tutti i mari e tutte le valli, fino
alle montagne più alte, sarebbero ancor meno disposti ad ammettere che si possa
esprimere un numero che superi quelle quantità. Ma io tenterò di mostrarti, attraverso dimostrazioni geometriche che tu potrai seguire, che alcuni dei numeri
da noi enunciati ed esposti negli scritti inviati a Zeusippo, non soltanto superano
il numero dei granelli di sabbia aventi un volume uguale a quello della Terra
riempita come abbiamo detto, ma anche un volume uguale a quello dell'intero
Universo.
A questo punto il Nostro si trova a dovere quantificare qualcosa che ha
qualificato come Universo ed a cui, per procedere con strumenti matematici, deve pur dare una connotazione che non può essere generica e indefinita. Ecco, dunque, come procede:
Ora sappiamo che Universo è il nome dato da molti astronomi alla sfera il cui
centro è il centro della Terra e il cui raggio è uguale alla linea retta tra il centro
del Sole e il centro della Terra. Questa è la tradizione scritta (τ ὰ γραφόμενα),
come avete udito dagli astronomi.
Ma Aristarco di Samo ha pubblicato degli scritti con alcune ipotesi, le cui premesse portano al risultato che l'universo è molte volte più grande di quello ora
così denominato. Le sue ipotesi sono che le stelle fisse e il sole rimangono im-
94
mobili, che la terra gira intorno al sole sulla circonferenza di un cerchio, che il
sole giace nel centro dell'orbita, e che la sfera delle stelle fisse […] ha pressapoco lo stesso centro del sole …
Semplificando al massimo, è bene
dire qui, in modo facilmente comprensibile, per quali ragioni Archimede afferma che il sistema eliocentrico
proposto da Aristarco comporti una
dimensione dell'Universo di gran lunga maggiore di quella tradizionalmente supposta. Se si ammette, infatti, che le stelle stiano fisse sulla superficie di una sfera al cui interno la
fig. 14: Nel sistema eliocentrico, se si pre- terra ruota in un'orbita circolare, allosume la presenza di una sfera delle stelle ra è inevitabile che nel corso dell'anfisse, due qualunque stelle A e B sono vi- no le stelle vengano viste da prospetste sotto angoli diversi da due posizioni
tive differenti. Le loro mutue distandiverse dell'orbita terrestre. Tale variazione non è osservabile solo se la sfera delle ze apparenti dovrebbero pertanto mustelle fisse si suppone sufficientemente tare nel tempo, contrariamente a ciò
grande
che siamo abituati a vedere. A meno
che non si supponga che la sfera delle stelle fisse si trovi ad una distanza
tale da rendere trascurabile il diametro dell'orbita terrestre, impedendo così
di apprezzare le variazioni. E proprio per ciò Archimede calcolerà, più
avanti, quante volte più grande dell'orbita terrestre deve essere il raggio del
suo Universo affinché le variazioni apparenti non siano apprezzabili.
Conclude quindi:
Dico allora che, anche se una sfera riempita di sabbia sia grande come Aristarco
suppone essere la sfera delle stelle fisse, posso ancora dimostrare che, alcuni dei
numeri nominati nei Principi, superano di molto il numero dei granelli di sabbia
[...] a condizione che siano fatte le seguenti ipotesi. [seguono ipotesi sulle dimensioni della terra e del sole in base ai calcoli più accreditati].
Qui Archimede non assume posizione circa l'effettivo essere del sole o della terra al centro dell'Universo. È interessato, in questo caso, a disporre,
come riferimento ideale, di una sfera delle dimensioni più grandi che si potessero immaginare e descrivere. Del resto in virtù di quali elementi osservabili e di quali strumenti teorici a lui disponibili avrebbe dovuto formula-
95
re tale scelta? Da scienziato vero, e aggiungerei moderno, non può che assumere, tra le ipotesi disponibili, quella che, in relazione al problema trattato, si rivela più funzionale.
Non si può tuttavia non osservare che egli non dimostra verso il sistema di
Aristarco alcuna riserva pregiudiziale. Un dato, questo, che deve assumere
per noi un significato rilevante e, a mio avviso, decisivo, in virtù di quanto
sto per dire.
In epoca moderna, infatti, si è sostenuto che l'ipotesi di Aristarco sarebbe
stata immediatamente respinta da tutti gli studiosi del suo tempo perché ritenuta empia. Essa, infatti, togliendo la terra dal centro dell'Universo,
avrebbe negato quella fondamentale separatezza fra cielo e terra su cui si
fondava l'idea di una presunta natura divina, perfetta e incorruttibile, dei
corpi celesti. Un argomento non dissimile da quello per cui è stato condannato Galileo.
Di parere ben diverso è invece Lucio Russo, per il quale il ritorno al vecchio sistema geocentrico sarebbe avvenuto in tempi successivi ed in seguito all'oblio e al venir meno di quello che io ho chiamato paradigma scientifico. Sostiene ciò soprattutto in un suo interessante scritto del 1996, insieme con il filologo Silvio Medaglia93, in cuoi è condotta un'accurata analisi
storica e filologica sull'argomento. Lascio qui la parola allo stesso Russo
che così ne sintetizza il punto fondamentale in una nota di La rivoluzione
dimenticata.
L'idea che Aristarco fosse troppo in anticipo sui tempi per influenzare durevolmente il corso della scienza è suggerita anche dall'episodio, spesso ripetuto,
dell'accusa di empietà che l'eliocentrismo avrebbe provocato nei suoi confronti.
La notizia sarebbe riferita da Plutarco (De facie quae in orbe lunae apparet,
923A). In realtà l'accusa di empietà ad Aristarco risale al filologo del XVII secolo G. Ménage, il quale (evidentemente influenzato dai processi a Bruno e a Galileo) per poter leggere l'accusa in Plutarco scambiò tra loro un accusativo e un
nominativo, stravolgendo il significato del passo. Gli editori successivi, considerando forse inevitabile la relazione tra eliocentrismo ed empietà, hanno accettato
quasi senza eccezioni l'emendamento al testo di Plutarco, che è divenuto canonico nella versione "modernizzata" dal Ménage94.
93
94
S. M. MEDAGLIA, L. RUSSO, Sulla presunta accusa di empietà ad Aristarco di Samo,
Quaderni urbinati di cultura classica, n. 53 (82) 1996, pp. 117-121.
L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata, op. cit., nota 101, pp. 104-105 nell'ediz. Del
1996.
96
La quasi totale assenza dei testi originali, oggi tutti perduti, della cosmologia ellenistica, non ci consente di formularne un quadro attendibile. Nel
trattato di Euclide, si prospetta un sistema geocentrico, secondo la concezione tradizionale, ma è anche lì significativa la scelta degli argomenti con
cui egli giustifica le sue premesse. Ecco dunque il passo iniziale dei Phainomena nella traduzione di Fabio Acerbi:
Poiché appunto le stelle fisse sono viste sempre levarsi dallo stesso luogo e tramontare nello stesso luogo e quelle che si levano insieme levarsi sempre insieme e quelle che tramontano insieme tramontare sempre insieme e nel moto da
levata a tramonto mantenere gli stessi intervalli reciproci, e questo risulta soltanto per ciò che si muove di moto circolare, appena che la vista disti ugualmente
in ogni direzione dalla circonferenza - come è dimostrato in ottica -, va posto
che le stelle si muovano circolarmente e che siano connesse in un solo corpo e
che la vista disti ugualmente dalle circonferenze95.
Appare chiaro come l'intento di queste parole non sia di stabilire una qualche assoluta verità, ma solo di costruire un modello di rappresentazione del
Cosmo che sia compatibile con i fenomeni effettivamente osservati e osservabili. Né, per altro, vi sono, tra il primo e il secondo secolo a.C., indizi di
segno contrario. Anzi Lucio Russo va oltre, ipotizzando che Ipparco di Nicea, nel suo trattato di cosmologia scritto intorno alla metà del II sec. a.C.
e oggi perduto, abbia non solo adottato il sistema eliocentrico proposto da
Aristarco, ma abbia potuto anticipare l'idea della gravitazione universale,
poi riscoperta da Newton, come spiegazione generale dei moti celesti96.
Abbiamo visto, d'altra parte, come Archimede, lungi dal mostrare pregiudi95
96
F. ACERBI, Euclide. Tutte le opere, op. cit. , p. 2247.
L. Russo giunge a quest'ipotesi analizzando alcuni passi dal De Architectura di Vitruvio
in cui l'autore tenta, con esiti quanto meno bizzarri, di interpretare testi da lui letti sulla
teoria di Ipparco. Nel primo di tali brani si legge «la potente forza del sole attira a sé i
pianeti con raggi estesi a forma di triangolo e come se li frenasse o trattenesse quando
corrono in avanti non permette loro di avanzare ma [li costringe] a ritornare verso di
sé» dove, in forma sia pur confusa, si può intuire l'idea di una forza attrattiva esercitata
dal sole». Come da tale attrazione Ipparco potesse derivare un movimento orbitale
(probabilmente ellittico) si potrebbe, sempre secondo l'analisi di Russo, derivare da un
secondo passo del De Architectura che si presenta ancora più confuso e oscuro a causa
della scarsa comprensione da parte di Vitruvio del linguaggio geometrico in cui era
espressa la teoria (v. L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata, op. cit., pp. 265-272
nell'ediz. del 1996).
97
zi nei confronti dell'ipotesi eliocentrica, ne fa uso, sia pure con finalità non
propriamente di descrizione cosmologica.
Ora non conosciamo un'opera scritta da Archimede e specificamente dedicata a questo tema, ma ciò non significa che egli non abbia prodotto una
rappresentazione coerente dell'Universo. Se non in un testo scritto, di cui
non abbiamo notizie, lo ha fatto sicuramente, per via meccanica, attraverso
la costruzione del planetario di cui si è già accennato, e che dopo la sua
morte è stato portato a Roma.
Se ora ricordiamo la meraviglia di Cicerone per una realizzazione che appariva impossibile all'intelletto umano, non è difficile intendere come
l'impossibilità si fondasse sul presupposto geocentrico. Non lo sarebbe più
se supponessimo, invece, che anche in questo caso, i meccanismi che regolavano i moti si fondassero sull'ipotesi di Aristarco.
Anche in questo caso, infatti, non si trattava di proclamare una verità, per
altro di per sé inaccessibile, ma di dare una rappresentazione dei fenomeni
visibili97 (opposizioni di pianeti, eclissi, ecc.) usando le ipotesi e gli strumenti matematici più idonei allo scopo. Non posso quindi non concordare
ancora una volta con Russo che, date queste premesse, «supporre che Archimede non ne avesse fatto uso sarebbe alquanto strano» tanto più che
adottare un modello eliocentrico «significa semplicemente usare per i movimenti di tutti i pianeti un unico snodo imperniato sul sole» indipendentemente dal fatto che la terra sia stata fissata al centro del planetario. Da qui,
per altro, si può facilmente spiegare la difficoltà, da parte degli ignari osservatori, di comprenderne la logica costruttiva.
97
L'intero apparato teorico, con i suoi linguaggi, i suoi concetti e le sue ipotesi fondanti,
non avrebbe, in altri termini lo scopo di affermare una verità, ma di raccordarsi con i
dati fenomenici osservabili: Salvare i fenomeni (σώζειν τά φαινόμενα) per usare
un'espressione ampiamente utilizzata da Pierre Duheme e attribuita a Platone, sia pure
in una prospettiva ben diversa (In proposito v. anche GENTILE, MIGLIORATO, Euclid
and the scientific thought..., op. cit.).
98
15. L'infinito
Possiamo ora tornare all'Arenario e affrontare un altro aspetto del pensiero
scientifico archimedeo, quello relativo all'idea dell'infinito. Egli chiaramente fa riferimento a due differenti accezioni del termine: la prima come infinito in senso proprio, cioè di qualcosa che non ha né può avere limite; la
seconda, in senso pragmatico, per indicare che, se pure un limite c'è, esso
non può essere, in alcun modo determinato con strumenti di conoscenza
umana.
Queste due accezioni, riferite al numero, sono espresse chiaramente fin
dall'inizio («Alcuni pensano,[...] o re Gerone che il numero dei granelli di
sabbia sia infinito in quantità[...] Altri ritengono che questo numero non sia
infinito, ma che non possa esistere un numero esprimibile che superi questa
quantità»). Ma più avanti le ritroviamo riferite alle quantità geometriche e
nella duplice forma di infinitamente piccolo e infinitamente grande.
Ciò avviene quando commenta l'ipotesi di Aristarco per una parte che avevo omesso nel capitolo precedente. Nel riportare il passo di Archimede relativo all'ipotesi eliocentrica, lo avevo interrotto con puntini di sospensione. Esso così continua:
… e che la sfera delle stelle fisse […] ha pressapoco lo stesso centro del sole è
così grande che il cerchio su cui si suppone che la terra ruoti sta alla distanza
delle stelle fisse come il centro della sfera alla sua superficie.
Ora, aggiunge subito Archimede, si vede subito che ciò è impossibile perché il centro della sfera è un punto e non ha quindi grandezza. È chiaro,
però, come Aristarco volesse dire che la dimensione dell'orbita terrestre,
per le ragioni già esposte nel capitolo precedente, deve avere una misura
non apprezzabile rispetto alla sfera delle stelle fisse. Ma è proprio questo
che il Nostro vuole contestare e superare. Con la possibilità di rappresentare numeri grandissimi e, conseguentemente piccolissimi, egli tende a sottrarre quante più cose è possibile all'indeterminatezza di quello che potremmo chiamare infinito in senso pragmatico98.
98
Anche sotto questo aspetto, il problema posto da Archimede è tutt'altro che inattuale. Al
di là delle questioni concernenti il concetto di infinito, il problema di determinare un li mite oltre il quale anche ciò che pur teoricamente è definibile, può tuttavia rivelarsi
99
Ma, altrove, l'opera di Archimede va oltre, nel senso di sottrarre quante più
cose è possibile all'indeterminatezza dell'infinito anche in senso proprio.
Lo fa, intanto, utilizzando strumenti già usati in precedenza da altri autori,
come il metodo di esaustione già menzionato a proposito della quadratura
della parabola. Ciò che importa è, tuttavia, che nell'uso degli strumenti già
esistenti egli non si limita alla pura e semplice applicazione di un metodo
collaudato, ma cerca di utilizzarlo come punto di partenza di un paradigma
in continua evoluzione. E soprattutto tende a superarlo, come sembra cerchi di fare con gli stessi metodi meccanici.
Per comprendere meglio questo aspetto è opportuno, però, premettere qualche considerazione sull'idea di infinito, e nella sua originaria e generica
consistenza, e nel modo in cui essa viene recuperata e organizzata all'interno di un edificio matematico rigoroso.
L'idea dell'infinito nasce dalla comune esperienza dell'Io di fronte alla reiterazione seriale di operazioni di cui non si piò immaginare un termine ultimo. Tipico è il caso del contare, ma anche quello di immaginare uno spazio
sempre più grande che include il precedente. Se immagino di avere raggiunto il più grande numero nominabile, è facile nominarne subito uno più
grande con la semplice espressione: quello che ho detto prima più uno 99.
99
umanamente inaccessibile, si presenta tutt'oggi in diversi ambiti e da punti di vista differenti. Quello che più degli altri può richiamarci l'Arenario di Archimede, riguarda
proprio la rappresentabilità di numeri molto grandi. È possibile, infatti definire con procedimenti matematici numeri talmente grandi da risultare poi impossibile la loro rappresentazione effettiva con notazioni già codificate. Il più grande fino ad ora definito,
chiamato numero di Graham, può essere dscritto con procedure non eccessivamente
complesse, e tuttavia, se lo si volesse rappresentare in forma decimale, scrivendone tutte le cifre su una memoria digitale (come quella che vi è in una pennetta), questa dovrebbe essere talmente grande da non potere essere contenuta nell'Universo quale lo si
presume oggi in base alla teoria del Big Bang. (v. Conway, J. H. and Guy, R. K. The
Book of Numbers. New York: Springer-Verlag, pp. 61-62, 1996). Vi sono poi problemi
di accessibilità ancora più complessi, come quelli della teoria della computabilità, che
vanno alla radice stessa del significato della parola esistere. Così per esempio vi sono
problemi per i quali si può dimostrare, con strumenti matematici che esiste la soluzione
e che questa è un ben preciso numero reale, ma si può dimostrare, allo stesso tempo, e
sempre con strumenti matematici, che non può esistere un algoritmo in grado di calcolare tale numero in un tempo finito.
La seguente filastrocca di Gianni Rodari: “C’era una volta un tale / che voleva
trovare / il numero più grande del mondo. / Comincia a contare e mai si stanca: / gli
viene la barba grigia, / gli viene la barba bianca, / ma lui conta, conta sempre / milioni
100
Dunque se inizio a contare la serie dei numeri, mi fermerò prima o poi per
stanchezza, ma non per averli esauriti tutti. Da qui al concetto di infinito
c'è dunque un salto concettuale con cui immagino di avere già contato per
l'eternità e avere esaurito la serie. Una formulazione, questa, che appare necessariamente priva di senso ove presa alla lettera e che, tuttavia, sembra
porre alla mente un'entità altra, un'essenza con una propria connotazione
metafisica. La parola infinito la rappresenta, allora, come metafora di qualcosa che si può ammettere ma non concepire100.
L'infinito come metafora non è ancora un concetto spendibile in un contesto scientifico. Lo può diventare pienamente solo a condizione di spogliarsi
delle sue connotazioni metafisiche e di ridursi a termine tecnico, il cui uso
sia regolato da norme stabilite rigidamente come postulato o assioma, senza che, nelle dimostrazioni, si debba fare riferimento al suo originario significato. Altrimenti il prezzo da pagare è l'emergere irreparabile di paradossi e aporie, perché non può un fondamento metafisico in sé paradossale
dar luogo a deduzioni logicamente coerenti. E devono averlo constatato in
modo inoppugnabile quanti si siano trovati a fare i conti con i paradossi di
Zenone.
Se Achille dalla posizione A deve raggiungere la tartaruga nella posizione
B e se ammettiamo che una lunghezza sia infinitamente divisibile, allora la
tartaruga non dovrà neppure fare la fatica di spostarsi. Achille dovrà prima
raggiungere il punto medio A1 del segmento AB, poi il punto medio A 2 del
segmento A1B, e così via all'infinito, dunque non potrà mai, secondo Zenone, raggiungere il punto B. Infatti Achille dovrà impiegare prima un un
tempo t1 per raggiungere A1, poi un tempo t2 per raggiungere A2, e così
di milioni / di miliardi di miliardi / di strabilioni / di meraviglioni / di meravigliardi… /
In punto di morte scrisse un numero lungo / dalla Terra a Nettuno. / Ma un bimbo gridò – Più uno! – / E il grande calcolatore / ammise, un poco triste, / che il numero più
grande del mondo non esiste” è la versione per bambini di una storiella raccontata da
Freudenthal in un libro che non riesco più a trovare e di cui non ricordo il titolo.
100
Per metafora si deve intendere, secondo Lakoff, l'uso di una nozione nota, in sostituzione di una ignota e, per sé stessa, inesprimibile. Una definizione, questa, che, supera e va
ben oltre l'abituale concetto di metafora quale pura e semplice figura retorica, per inve stire il più ampio campo delle scienze cognitive. Per una più approfondita analisi dei
processi costitutivi della metafora nella genesi dei concetti matematici v. G. LAKOFF,
R. E. NÚÑEZ, Where Mathematics Comes From: How the Embodied Mind Brings Mathematics into Being, Ediz. Italiana: Da dove viene la matematica: come la mente embodied dà origine alla matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
101
via, ma t1+t2+ … è una somma di infiniti termini che, Secondo Zenone, non
potrebbe mai avere termine. A questo punto sono però intervenuti gli analisti moderni che, introducendo la somma di una serie convergente, hanno
mostrato come questa possa essere un numero finito ben preciso. Il fatto è,
però, che, in realtà, la somma di una serie convergente viene definita non
ricorrendo al concetto metafisico di infinito, bensì mediante una definizione che utilizza solo assiomi e un numero finito di passaggi ben precisi. Un
gioco illusionistico dunque? In un certo senso si. Il fatto è, però, che la
somma di una serie, fondata su un nucleo di assiomi accettati e condivisi
(modernamente quelli della teoria degli insiemi), è perfettamente funzionale al fatto che, nell'esperienza comune, Achille raggiunge effettivamente la
tartaruga. È questo, ed altri fatti analoghi, a giustificare l'assunzione degli
assiomi, non la loro verità intrinseca, contemplabile in un mondo iperuranico101. Ciò non vuol dire che i processi genetici che conducono alla formazione dei concetti siano da rimuovere. Essi procedono con le proprie dinamiche, non del tutto differenti, come abbiamo visto, da quelli che che presiedono alla formazione del mito. Sono anche punti d'avvio di ogni speculazione e di ogni domanda metafisica. Ma se le domande metafisiche si impongono come generatrici di senso e di significato, allo stesso tempo esse
non ammettono risposte univoche e stabili. La loro riformulazione in termini scientifici comporta allora una sterilizzazione che li fissi in strutture
logicamente organizzate, coerenti e funzionali a obiettivi ben precisi e
pragmaticamente controllabili, anche se ciò comporta la perdita del loro
originario significato.
Questo mi sembrava necessario per chiarire fino in fondo cosa intendo per
“sottrarre qualcosa all'indeterminatezza dell'infinito”. È proprio ciò che fa
Archimede, ma non solo. Già in Euclide quest'atteggiamento è ben chiaro
ed evidente, e non solo perché tra i suoi oggetti primitivi ammette solo rette terminate (quelle che noi chiamiamo segmenti) e non infinite, aggiungendo poi, per postulato che ogni linea retta è prolungabile da ciascun lato.
Vi è, in più, la formulazione del suo quinto postulato che costituisce uno
101
Mi scuso con il lettore se il quadro così formulato può apparire estremamente sommario, ma ritengo che, in questa sede, qualunque tentativo di maggior rigore, avrebbe solo
appesantito l'argomento e ostacolato la lettura a chi non ha particolare familiarità con
questi temi, per altro da me già trattati in altra sede. Rinvio a questi, e in particolare al
già citato La ragione e il fenomeno, per ogni ulteriore approfondimento.
102
dei più grandi monumenti creati dall'intelletto umano. Esso infatti consente
di aggirare l'ostacolo più insidioso che la nozione di infinito poneva alla
geometria102.
In questa prospettiva dev'essere visto il metodo di esaustione, di cui dirò
tra poco, ma anche i metodi meccanici di cui parlerò nel prossimo capitolo.
Sul metodo di esaustione, già citato a proposito del postulato di EudossoArchimede, non affronterò qui le effettive modalità tecniche con cui viene
applicato, ma mi limiterò ad analizzarne l'idea fondamentale. Lo scopo è
quello di poter confrontare fra di loro, in grandezza, due figure (entrambe
piane o entrambe solide), ma non sovrapponibili neanche se scomposte in
piccole parti, in quanto almeno una delle due abbia un contorno curvilineo103.
Il primo passo consiste, allora, nel considerare una figura a contorno rettilineo che stia interamente dentro alla figura da misurare (chiamiamola H) e
un'altra che stia interamente fuori, in modo però che la loro differenza sia
piccola quanto si vuole. Ciò si può ottenere se partendo da una grandezza
molto piccola (chiamiamola a) e considerandone tutti i suoi multipli. Per
esempio sia B=na la più piccola figura multipla di a che supera H. Ma
102
Il quinto postulato di Euclide mira a stabilire l'unicità della parallela da un punto ad una
retta data. Ora la nozione di parallelismo è difficile da concepire se non in relazione
all'idea di uno spazio infinito. L'intera teoria non avrebbe senso se non si potesse pen sare che due linee rette si possono prolungare senza alcun limite e che, quindi, se per
quanto prolungate ancora non s'incontrano, posso sempre sospettare che si incontrerebbero qualora le prolungassi ulteriormente. Euclide aggira l'ostacolo con un enunciato in
cui il termine parallele non compare. Com'è noto il postulato, con qualche aggiustamento di linguaggio si può così enunciare:
Se due rette, tagliate da una trasversale, formano con questa da una stessa parte angoli interni la cui somma è minore di due angoli retti, allora le due rette, opportunamente
prolungate si incontrano.
In questo modo resta escluso un solo caso, quello in cui la somma di quei due angoli
interni è pari a due angoli retti. Ma, in questo caso, Euclide ha già dimostrato, mediante
riduzione all'assurdo che le due rette non possono incontrarsi. Dunque esiste una e una
sola parallela. Da qui segue la dimostrazione di quasi tutto il corpo della geometria già
ammesso e ritenuto valido, sia pure su basi non altrettanto rigorose. Euclide ha sottratto
la geometria all'indeterminatezza dell'infinito.
103
Se sono entrambe rettilinee, allora il confronto si può facilmente eseguire scomponendole in parti, in modo che tutte le parti della prima possono esser contenute nella seconda e, se la esauriscono, allora le due figure sono uguali in grandezza, altrimenti la seconda è maggiore della prima.
103
allora A=(n−1) a è minore o uguale a H. Si comprende facilmente allora che, se a è una quantità abbastanza piccola, le grandezze di A e B costituiscono delle approssimazioni (per difetto e per eccesso) della grandezza
H che vogliamo misurare e l'approssimazione è tanto più buona quanto più
piccola è a. Tutto questo va bene, però, se siamo certi di poter procedere in
questo modo a partire da una grandezza a piccola quanto si vuole, al limite
infinitamente piccola (qualunque significato si voglia dare alla parola infinitamente). Ed è qui che sorge il problema: nell'indeterminatezza della parola infinitamente.
Il problema è simile a quello che si poneva nell'Arenario. Si può trovare
sempre un multiplo di una grandezza comunque piccola che supera la grandezza A? Nell'Arenario, però, la risposta è ottenuta in modo pragmatico
quantificando la grandezza del granellino di sabbia e quella di una ben precisa e determinata sfera chiamata Universo. Qui è invece data in modo generale e astratto assumendo per postulato che:
date due grandezze esiste un multiplo della minore che supera la
maggiore.
Ciò basterebbe se si trattasse solamente di approssimare quanto si vuole la
grandezza di una figura data. Ed è ciò che fa Archimede ne la Misura del
cerchio. In questo caso, infatti egli considera un poligono inscritto nel cerchio e uno circoscritto, entrambi con un numero di lati sempre maggiore.
Per questa via trova che il valore approssimato di pigreco è di circa 3,14, o
più esattamente che
3+
10
1
< π <3+
,
71
7
ma resta inteso che tali valori si possono migliorare aumentando il numero
di lati dei poligoni.
Non è, però, ancora risolto il problema del confronto esatto tra due figure
(piane o solide, di cui almeno una a contorno curvilineo). È questo il secondo punto cruciale del metodo di esaustione.
Se A e B sono le due grandezze di cui si vuole provare l'uguaglianza, si
tratta di dimostrare che qualunque altra grandezza, se è minore di A, lo è
anche di B e viceversa, mentre se è maggiore di A lo è anche di B e viceversa. Infine si dimostra che, in queste condizioni, il supporre A e B diverse
tra loro condurrebbe ad una contraddizione, dunque A e B sono uguali.
Cos'è avvenuto in effetti? Siamo passati attraverso una prima fase ideativa
104
in cui l'oggetto da misurare è stato pensato come limite di due successioni
infinite, una crescente, l'altra decrescente. Qui l'infinito ha svolto, come nel
pensiero mitico, una funzione di metafora, suggerendo un progressivo avvicinamento all'obiettivo simile a quello di Achille che insegue la tartaruga.
Ma l'indeterminatezza, tutta metafisica, insita nell'idea di infinito, non consentirebbe di pervenire ad una risposta oggettiva, stabile e condivisa, fino a
che non si attui la seconda fase. Questa consiste nel sottrarre la soluzione
all'indeterminatezza dell'infinito, per fissarla in un processo rigorosamente
definito.
105
16. Il paradigma di Archimede
Si giunge così ad un uno dei punti più enigmatici e più discussi dell'opera
di Archimede: l'uso di categorie e metodi meccanici per la soluzione di
problemi geometrici. Il fulcro essenziale di questo approccio lo troviamo
esplicitamente sviluppato in quella che appare essere non soltanto un'opera
a sé stante, ma piuttosto una riflessione sull'intera opera fino allora prodotta e, forse, il preludio di un possibile mutamento di paradigma. Mi riferisco
a quella che è generalmente nota come il Metodo, e il cui testo è a noi pervenuto esclusivamente attraverso il Codice C, costituendo, di sicuro, la
parte più importante del palinsesto recentemente ritrovato.
Nella lettera introduttiva, indirizzata a Eratostene, Archimede dichiara di
avere più volte usato metodi meccanici per ottenere dei risultati104 che tuttavia, in questo modo, non risulterebbero dimostrati e, per tale ragione, egli
li avrebbe successivamente dimostrato per via rigorosamente geometrica.
Procede quindi a illustrare, con vari esempi, il metodo da lui adoperato e
che consiste, fondamentalmente, nel pensare le figure geometriche, o le
loro singole parti, come pesi virtuali confrontabili tra loro mediante una bilancia virtuale. Fondamentale, a tale scopo, sono il concetto di baricentro,
104
Solo a titolo di esempio si richiamano qui i seguenti:
• Un segmento di parabola equivale ai 4/3 del triangolo inscritto.
• [Il volume di] una sfera è quadrupla del cono che ha per base un cerchio massimo [della stessa sfera] e altezza il raggio [di essa], oppure uguale a 2/3 del cilindro circoscritto.
• Un segmento di paraboloide è pari a 3/2 del cono inscritto.
• Una 'unghia cilindrica' (figura solida ottenuta secando un cilindro con un piano. V. figura)
è pari a 1/6 del prisma a base quadrata in cui è inscritto..
Mi limito a questi quattro esempi, di cui l'ultimo, come vedremo, assume un rilievo particolare. Fabio Acerbi (in Arcchimede, Op, Cit., pp. 60-62) ne fa un elenco abbastanza
esaustivo.
106
già sviluppato in Sull'equilibro dei piani, e la legge della bilancia che su
essi si fonda.
Il metodo, invece, che egli usa per la successiva dimostrazione geometrica,
è quello di esaustione a cui si è già accennato. Ma perché, si può chiedere,
usare preventivamente un metodo “meccanico”, se da esso non scaturisce
una dimostrazione, e questa deve poi essere sviluppata altrimenti?
La risposta, abbastanza semplice e plausibile, a questa prima domanda,
viene fornita dallo stesso Archimede quando dice, sempre nella lettera introduttiva:
… mi è sembrato opportuno esporti in dettaglio per iscritto nello stesso libro le
peculiarità di una particolare procedura, grazie alla quale, una volta assimilata,
sarà agevole prendere le mosse per essere in grado di stabilire qualche risultato
matematico in virtù di considerazioni meccaniche - e sono d'altronde convinto
che essa sia non meno utile in vista della dimostrazione dei risultati stessi. [...] È
infatti più agevole elaborare una dimostrazione di quanto ricercato una volta che
siano poste delle linee guida per mezzo della procedura piuttosto che mettersi a
ricercare senza alcuna linea guida105.
Lo comprendiamo ancora meglio se si pensa che le dimostrazioni per esaustione presuppongono la sussistenza a priori dell'ipotesi che si vuol dimostrare, mentre i metodi meccanici consentono, anche se non in modo automatico, di pervenire a un risultato non necessariamente noto o comunque
già ipotizzato.
Meno scontata mi sembra, invece, la risposta ad una seconda domanda:
Perché Archimede non considera i metodi meccanici come procedure dimostrative valide? Se, da una parte concordo con Acerbi sulla funzione euristica assegnata, in questo conteso, dallo scienziato siracusano, ai metodi
meccanici, sono meno propenso a concordare con lui che ciò sia la prova di
una visione platonista da parte del Nostro106. Nell'ottica di una visone platonista gli oggetti della matematica, lungi dall'essere prodotti del pensiero
umano, creati quindi dall'attività della mente, avrebbero una propria essenza che trascende il pensiero stesso. Essi diverrebbero accessibili solo con
puri atti conoscitivi regolati dalla sola logica e non assoggettabili a sistemi
concettuali creati dalla mente o mutuati dall'esperienza empirica. Da ciò
nascerebbe l'esclusione di ogni procedura meccanica o comunque ispirata
105
106
ARCHIMEDE, dal Metodo, nella traduzione di F. Acerbi.
Ibid.
107
dal mondo empirico. Questa sembra essere la posizione espressa dallo stesso Platone e che si manifesta, per esempio, con grande chiarezza, quando
deplora il modo di esprimersi dei matematici (v. pag. 20). Si è già visto
come la matematica abbia continuato a procedere secondo vie che non corrispondono e non ammettono le prescrizioni del filosofo ateniese. E non
solo perché i matematici continueranno a usare i linguaggi da lui deprecati,
ma perché un pensiero che vuole costruire sé stesso su atti di conoscenza
pura si è sempre dimostrato improduttivo e sterile. Lo abbiamo già constatato con il quinto postulato di Euclide, quando l'assunzione di un presupposto aristotelico (verità, evidenza e indimostrabilità dei postulati), riscoperto
nel primo secolo a.C. ha determinato l'incomprensibilità del paradigma euclideo e una paralisi di pensiero durata duemila anni.
D'altra parte lo stesso metodo di esaustione, utilizzato da Archimede per le
dimostrazioni geometriche, si fonda su un postulato al cui sostegno, come
abbiamo già visto, il Nostro invoca delle giustificazioni che appaiono ben
lontane da una visione platonica. Il richiamo all'uso che ne era stato fatto in
precedenza, e la fiducia accordata ai teoremi con esso dimostrati, sembrano
piuttosto evocare un paradigma già collaudato e condiviso. Un paradigma
che non può essere, invece, invocato nel caso dei metodi meccanici e della
“bilancia virtuale”.
Può questo suggerire un'ipotesi di risposta differente alla nostra domanda?
Io credo di si, ma voglio ribadire preliminarmente in che termini e su che
piano una tale ipotesi possa essere fondata. Fedele al mio impegno di non
attribuire convinzioni non dichiarate a chi non le può eventualmente smentire, mi asterrò ancora una volta dal formulare ipotesi sui pensieri e le intime convinzioni personali dell'uomo, e mi limiterò a un tentativo di interpretazione del suo operare pubblico di scienziato.
Intanto va osservato che metodi meccanici, fondati sull'idea della bilancia
virtuale, appaiono nelle opere di Archimede, ben prima che nel Metodo.
Come egli stesso ricorda ad Eratostene, ne aveva già fatto uso, ad esempio,
nella quadrature della parabola, al fine di dimostrare alcuni lemmi, e senza che ciò determinasse, in quel caso, dubbi di sorta. D'altronde, in quel
contesto, l'uso che ne veniva fatto poteva apparire abbastanza semplice e
non problematico. Semplice era sicuramente l'idea implicita di fondo: se figure che stanno tra loro in un certo rapporto, e solo in questo caso, si fanno equilibrio, è difficile negare che se si fanno equilibrio, allora stanno
108
proprio in quel rapporto. Ciò è vero, e non può non esserlo, qualunque
cosa significhi il termine equilibrio.
È più avanti, in situazioni più complesse, che sembra farsi avanti la difficoltà e il dubbio. È proprio Acerbi, nel volume già citato, a coglierne con
grande efficacia il punto essenziale che sta nel considerare le figure come
composte da una totalità infinita di sezioni parallele infinitamente piccole.
Nel Metodo, prima di esporre i suoi procedimenti meccanici, Archimede
pone un elenco di premesse o assunzioni. Alcune di queste sono in realtà
teoremi già dimostrati nell'Equilibrio dei piani o altrove. Ma vi sono anche
due assunzioni non del tutto innocenti come le altre, soprattutto nel caso in
cui il loro combinato venga assunto nella sua più piena estensione. Sono i
lemmi 3 e 4 che così si esprimono:
3. Se i centri di gravità di quante si vogliono grandezze sono sulla stessa
retta, anche il centro della grandezza composta da tutte sarà sulla stessa
retta.
4. Il centro di gravità di qualunque retta è il punto medio della retta.
Il lemma 3, a prima vista, non sembra dire, di per sé, nulla di nuovo, almeno fino a quando quel quante si vogliono grandezze si presume in numero
finito. Ma il lemma 4 introduce qualcosa che prima non era stato considerato: il centro di gravità di una linea retta [segmento]. Anche qui nulla di
strano, in sé. Ma se, in una figura piana si considerano tutte le linee rette
[segmenti] parallele ad una data, allora il lemma 3 si potrà applicare ad
esse. Esso diviene dunque, per la prima volta nella geometria ellenistica,
un enunciato su una totalità infinita.
Anche il lemma 11, è fondato su totalità di quante si vogliono grandezze e,
quindi, ove non si pongano ulteriori limitazioni, possono essere totalità infinite.
D'altronde è lo stesso Acerbi ad osservare come la “dimostrazione” della
proposizione 15 presupponga l'uso di tecniche infinitarie, ed è chiaro come
tutto questo ponga lo scienziato siracusano di fronte a situazioni ben differenti da quelle precedentemente considerate. Non c'è qui alcun modo per
sottrarre qualcosa all'indeterminatezza dell'infinito se non sottoponendola
ad una dimostrazione per altra via.
Lo stesso problema, sotto altra forma, si presenterà, com'è ben noto, in
epoca moderna. La fondazione rigorosa del concetto di limite che, nella
prima metà dell'Ottocento era stata formulata da Cauchy in termini assolu-
109
tamente finitistici ha ben presto mostrato la sua insufficienza di fronte agli
sviluppi crescenti dell'analisi matematica. Ciò ha portato alla formulazione
della teoria cantoriana degli insiemi infiniti e, successivamente, anche per
rispondere alle contraddizioni logiche da essa generate, alla rifondazione
formalista di Hilbert.
Senza alcuna presunzione di poter conseguire improbabili certezze, dico
solo che non mi stupirei se, a un certo momento, Archimede avesse deciso
di esibire un atteggiamento di maggiore prudenza, consapevole di dovere
assumere dei presupposti nuovi, non palesemente condivisi, né sufficientemente collaudati. Per essi non può citare alcuna tradizione, e l'unico sostegno che ne viene sono i teoremi da lui trovati e successivamente dimostrati
per altra via.
Tutto ciò, lo ripeto, non prova alcunché, ma è quello che, in un processo
indiziario, verrebbe visto come un buon movente del delitto. Un buon movente, io dico, per giustificarne la prudenza di fronte alla possibilità di subire attacchi da altri studiosi. Personalmente non credo, infatti, che in alcun
tempo sia esistito uno studioso, ancor più se mediocre, che avendone la
possibilità, si lasciasse sfuggire l'occasione per cogliere in fallo un collega
più prestigioso. Ritroviamo un atteggiamento altrettanto, se non ancora più
prudente, in uno dei matematici più prestigiosi dei tempi moderni. Sappiamo, infatti, che Gauss si astenne, come egli stesso confessa in una lettera,
dall'enunciare pubblicamente le sue idee sulla questione delle parallele,
perché temeva “le strida dei beoti”107.
Non mi pare allora privo di fondamento interpretare in questa chiave anche
il suo riferimento a precedenti usi da lui fatti dei metodi meccanici (individuabile in Quadratura della parabola) quando scrive ad Eratostene:
…volevo d'altronde far circolare la procedura per iscritto, vuoi perché, essendomi espresso su di essa in precedenza, non paresse a qualcuno che parlavo a vanvera, vuoi perché sono convinto che se ne produca un'utilità non piccola per la
materia - ritengo infatti che certuni (nel presente o nel futuro) potranno scoprire,
grazie al metodo, altri risultati che non mi sono ancora venuti a mente.
Può avere avuto sentore di qualche critica in proposito? Nessuna risposta è
possibile, tuttavia la domanda rimane lecita.
Inoltre, riguardo al fatto che Archimede avesse già sfidato gli studiosi a ri107
Lettera a Bessel del 27 gennaio 1829.
110
solvere alcuni dei problemi di cui dà la soluzione nel Metodo, come egli
stesso ricorda a Eratostene:
Tempo fa ti comunicai per iscritto gli enunciati dei risultati da me trovati, inci tandoti a trovare quelle dimostrazioni che non ti dicevo sul momento. Gli enunciati dei risultati che avevo comunicato erano i seguenti.
si può ora ipotizzare una motivazione che non sia di semplice sfida e orgoglio: prima di esporre il suo metodo sarebbe stato opportuno dimostrare
che nessuno era riuscito a rispondere con il semplice impiego dei metodi
generalmente in uso.
Vi sono, insomma, tutti i requisiti per l'avvio di un nuovo paradigma, che
allora non era tale, ma che, forse, avrebbe potuto diventarlo, qualora la tradizione da lui avviata avesse avuto un seguito. Bisognerà invece attendere
la riscoperta di Archimede perché quella linea di pensiero trovasse nuovi
adepti con Cavalieri e Guldino e poi con lo stesso Leibnitz. Ma ormai, con
l'avvento dell'algebra simbolica si erano aperti nuovi orizzonti e la storia
della matematica si sarebbe avviata, almeno da questo punto di vista, su un
sentiero differente.
111
Conclusione
Al termine del nostro percorso è possibile che qualche lettore abbia trovato
questo lavoro incompleto e lacunoso. Oppure che alcune, o tutte le interpretazioni proposte gli siano apparse non convincenti o non sufficientemente corroborate. O che abbia riscontrato inesattezze reali o presunte.
Dico subito di essere consapevole dei rischi insiti in un lavoro come quello
da me intrapreso. Non mi sono mai proposto, infatti, di scrivere un'opera
completa ed esauriente sullo scienziato siciliano, né tanto meno di dire
l'ultima parola sulle innumerevoli problematiche aperte.
Lo scopo del mio lavoro si inserisce, invece, in una riflessione sulla scienza, i suoi significati e la sua genesi, che avevo iniziato alcuni anni fa e che
mi ha già permesso di scrivere, su questi temi, alcuni articoli e una monografia. La riflessione, tuttavia, ha origini più antiche e, sia pure in modo silente, si era protratta per tutti gli anni della mia carriera scientifica in ambito matematico.
Archimede assume indubbiamente un ruolo chiave all'interno di questa riflessione. Un ruolo che è certamente innegabile sul piano oggettivo di
quanto ha prodotto e materialmente immesso nel circuito del sapere scientifico, ma che non a questo solo si può ridurre.
Nel capitolo 9 paragonavo la scienza ad un organismo vivente la cui essenza identitaria si costituisce come continuità di un processo di ininterrotta
trasformazione, ed usavo, a tale scopo, la metafora dell'anziano che riconosce sé stesso nella foto di un bambino. Se accettiamo quest'idea, nessun
momento, nella storia del pensiero, può essere considerato come qualcosa
che si conclude e si esaurisce in sé stesso, ma è comprensibile solo in relazione all'intero divenire storico. È in questa prospettiva che ho cercato di
rileggere Archimede e il tempo in cui visse e operò. Cosa posso aggiungere
al termine di questa rilettura?
Intanto mi sembra si possa affermare senza difficoltà quanto profondamente le radici della modernità, se riteniamo che il pensiero scientifico sia parte
essenziale di essa, affondino in quel paradigma di cui il Nostro fu protagonista di prima grandezza. In secondo luogo, se guardiamo ai tempi e ai
modi della riscoperta di Archimede al termine di una lunga eclissi, non
possiamo non avere la consapevolezza che da lì passano, ancora una volta,
112
le radici della modernità: da quella stessa isola, la Sicilia, che fu patria, tanto di Archimede, quanto di Maurolico.
Da siciliano e messinese, mi si consenta una nota di personale amarezza,
mescolata ad orgoglio, nel constatare il deficit di memoria in cui vive oggi
la mia isola e la mia città; un'eclissi che spero, tuttavia, possa sfociare,
come nel Rinascimento, in una rinnovata riscoperta delle proprie radici e
della propria civiltà.
Lasciando, però, da parte ogni richiamo personalistico o di radicamento locale, vorrei ancora aggiungere una breve riflessione sull'eredità archimedea. Oggi, come allora, ci troviamo alle soglie di un passaggio epocale che,
se pure si delinea nelle sue linee costitutive fondamentali, rimane tuttavia
difficile da decifrare circa la sua possibile evoluzione e i suoi esiti culturali
e antropologici. Mi riferisco ai due grandi fenomeni emergenti del nostro
tempo: da una parte l'interconnessione globale a livello planetario, dall'altra
il crescente manifestarsi della complessità e l'insufficienza della visione riduzionista108. Ecco che, allora, anche il filo che lega il mondo attuale alle
sue più lontane radici, non può più essere visto come una semplice succes108
È il caso di richiamare qui in estrema sintesi i termini dell'opposizione riduzionismocomplessità, su cui, per altro, ho ampiamente discusso in La ragione e il fenomeno. La
concezione riduzionista, che ha dominato il pensiero scientifico, trovando nel positivismo la sua più radicale espressione, si fonda sull'idea che un piccolo numero di leggi
semplici possa garantire una completa descrizione della realtà e della sua evoluzione.
Negli ultimi decenni del Novecento si è andata affermando, però, la consapevolezza
che l'evoluzione di un sistema complesso non può essere interamente determinata, anche quando si conoscano le leggi che regolano il funzionamento delle sue parti componenti. Così, la conoscenza delle leggi fisico-chimiche non consente di determinare per
intero l'evoluzione della vita; la conoscenza delle leggi biologiche che regolano le funzioni vitali delle cellule cerebrali non consente di determinare l'evolversi di fenomeni
quali il pensiero e la coscienza; la conoscenza dei singoli organismi viventi non consente di determinare l'evoluzione degli ecosistemi; e così via. Un sistema complesso,
per altro, è tale, secondo le teorie della complessità, non in quanto “complicato”, ma
perché, nel processo di interazione tra le sue parti è come se emergesse un'essenza nuova, un'entità che non esiste in nessuna delle parti componenti. Così dalle interazioni en tro il mondo fisico chimico emerge la vita. Dalle interazioni tra le cellule neouronali
emergono il pensiero e la coscienza, ecc. Non si tratta di prendere posizione in termini
di trascendenza, né in senso affermativo, né in senso negativo. È piuttosto il riconosci mento all'interno dalla scienza, e con i metodi stessi della scienza, di limiti invalicabili
alla conoscibilità del mondo. (oltre al mio volume citato, v. ad esempio: A. ANSELMO,
G. GEMBILLO, Filosofia della complessità, Le Lettere, Firenze, 2013).
113
sione di fatti, ma come un processo evolutivo della complessità storico-culturale. Non si tratta solo, né tanto, di definire o ricostruire in modo più o
meno fedele o attendibile, singole aree di pensiero, ma di comprenderne le
mutue relazioni e le dinamiche evolutive.
Tutta la storiografia della scienza, ad esempio, è concorde nel riconoscere,
dopo Archimede, un progressivo decadere della produzione scientifica, e
non già per mancanza di interesse verso di essa e i suoi risultati. Questi,
anzi, sono oggetto di studio e di riflessione. A partire da Erone fino a Proclo è un continuo pullulare di riedizioni e commenti e non mancano neppure le opere originali, in grado di affrontare e risolvere problemi all'interno
di sistemi concettuali già esistenti. Basta pensare a Diofanto, a Pappo, a
Claudio Tolomeo. Ciò che manca è la capacità di portare avanti l'innovazione teorica e concettuale, di prospettare nuove visioni e, in una parola,
nuovi paradigmi scientifici. È su questo terreno che si consuma il progressivo inaridirsi del pensiero scientifico antico e la sua conseguente eclissi.
Non basta registrare il dato. Comprenderne le dinamiche, in relazione ai
più complessivi mutamenti politici, culturali e sociali è il compito fondamentale della storiografia e specificamente della storia delle scienze.
Presentare Archimede come fenomeno a sé, come genio pur grandissimo
ma isolato rispetto al fluire della storia, significa, a mio avviso, non esaltarne la genialità, bensì condannarlo ad essere l'attrazione di un grande circo
delle meraviglie: oggetto di ammirazione, di venerazione e magari anche di
culto, ma sempre più lontano da un mondo che si avvia alla post-modernità.
Ho cercato, dunque, di comprendere e interpretare i termini di quel paradigma entro il quale le straordinarie capacità intellettuali dello scienziato
poterono esprimersi in modo efficace e produttivo di conseguenze per i secoli e i millenni successivi. Ho ritenuto e ritengo che ciò sarebbe stato impossibile entro un contesto irrigidito nei sistemi metafisici delle filosofie
platonico-aristoteliche, perché solo una libera attività creatrice dello spirito
può dare origine a nuovi sistemi teorici e linguistico-concettuali. In coerenza con l'intuizione fondamentale di Cassirer, ho ritenuto di assimilare la
fase creativa di questo processo a quella della rappresentazione simbolica
che presiede alla metafora e alla produzione mitica. Ho distinto la scienza
dal mito in funzione della sua oggettivazione in forme convenzionali condivise e convalidate a posteriori per la loro capacità esplicativa e preditti-
114
va. Ho infine ipotizzato il sostanziale oblio dei caratteri fondamentali del
paradigma scientifico, vuoi per l'interruzione di quell'attività di iniziazione
diretta all'esercizio delle scienze con cui il paradigma stesso poteva perpetuarsi, vuoi per l'assunzione, in sua vece, di sistemi filosofici a forte connotazione metafisica, certamente interessati ai temi della scienza ma ad essa
sostanzialmente estranei.
Ciascuna di queste conclusioni si può accettare o respingere, correggere o
superare, ma le risposte alternative non possono ridursi a semplici affermazioni fattuali e particolari, che non diano conto del farsi complessivo del
pensiero umano, come sistema complesso, nella sua evoluzione storica.
115
Bibliografia essenziale
F. ACERBI, Euclide. Tutte le opere, Bompiani, Milano, 2007.
A. ANSELMO, G. GEMBILLO, Filosofia della complessità, Le Lettere, Firenze, 2013.
ARCHIMEDE, Metodo. Nel laboratorio di un genio, (a cura di F. Acerbi, C. Fontanari, M.
Guardini), Bollati Boringhieri, Torino, 2013.
R. BONOLA, La geometria non euclidea. Esposizione storico critica del suo sviluppo. Zanicchelli, Bologna, 1906.
G. BOSCARINO, Tradizioni di pensiero, La tradizione filosofica italica della scienza e della realtà, Mondotre-La Scuola Italica, Siracusa, 1999.
R. CALAPSO, Archimede nella vita e nella scienza: Discorso di chiusura delle celebrazioni, Celebrazoni Archimedee del Secolo XX, 11-16 Aprile 1961, Vol. I: Conferenze generali e simposio di geometria differenziale, pp. 63-68.
G. CAMBIANO, Scoperta e dimostrazione in Archimede, in: Archimede. Mito, tradizione,
scienza. Siracusa - Catania 9-12 Ottobre 1989 (Atti), L. S. Olschki, Firenze, pp. 21-41.
G. CAMBIANO, Alle origini della meccanica: Archimede e Archita, Arachnion. A Journal
of Ancient Literature and History on the Web, n. 2.1, May 1996. On line: http://www.cisi.unito.it/arachne/num4/cambiano.html.
L. CANFORA, , Ellenismo, Laterza, Roma – Bari, 1995.
E. CASSIRER, E. Philosophie der symbolischen Formen, 3 voll. (1923-1929),Ed. Ital.: Filosofia delle forme simboliche:
vol. 1. Il linguaggio , Sansoni, Milano, 2004; vol. 2, l pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze, 1994; vol. 3 Fenomenologia della conoscenza, La Nuova Italia, Firenze,
3/1: 1999; 3/2: 1998.
M. CLAGETT (Edited by), Archimedes in the Middle Ages, 5 voll., University of Wisconsin
Press, Madison, 1964/84.
P. D'ALESSANDRO, P. D. NAPOLITANI, Archimede latino, Iacopo da San Cassiano e il corpus archimedeo alla metà del quattrocento con edizione della Circuli dimensio e della
Quadratura parabolae, Les Belles Lettres, Paris, 2012.
DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, Laterza, vol. I. Libri I-VII, (2010), vol. II. Libri
VIII-X (2008).
A. G. DRACHMANN, Fragments from Archimedes in Heron’s Mechanics, Centaurus, VIII,
1963, pp. 91-146.
J. G. DROYSEN, Geschichte des Hellenismus, 2 voll., 1836–1843.
116
L. EDELSTEIN, Moderni indirizzi nell’interpretazione della scienza greca, in WINER,
NOLAND :1957, pp. 91-130.
A. FRAJESE, Opere di Archimede, UTET, Torino, 1977.
A. FRAJESE, A, L. MACCIONI,, Gli elementi di Euclide, Torino, 1970.
GALILEO, Le opere (ristampa), Barbera Editore, Firenze, 1967.
G. GENTILE, R MIGLIORATO, Archimede platonico o aristotelico. “Tertium non datur”?,
Atti dell’Acc. Peloritana dei Pericolanti, Classe di Sci. Fis. Mat. e Nat., Vol. LXXXVI,
2008, C1A0802009.
G. GENTILE, R MIGLIORATO, Archimede fra tradizione e rinnovamento. Comunicazione al
XXXIII Congresso Nazionale degli Storici delle Fisica e dell'Astronomia, Acireale, 4-7
Sett. 2013. (Prossima pubbicazione).
J. L. HEIBERG, Archimedis opera omnia cum commentariis Eutocii. E codice Florentino
recensuit, latine vertit, notisque illustravit vol. I-III, Lipsiae, 1880-81.
J. L. HEIBERG, Archimedis opera omnia cum commentariis Eutocii, vol. I-III, Lipsiae,
1910-15.
M. ISNARDI PARENTE, Plutarco e la matematica platonica, in “Plutarco e le scienze”, a
cura di I. Gallo, Sagep, Genova, 1992, pp.121-145.
M. KLINE, M., A history of mathematical thought (1972), Ed. Italiana: Storia del pensiero
matematico, 2 Voll., Torino: Einaudi, 1991.
W. R. KNORR, W. R., Archimedes and the Elements, Arch. Hist. Exact Sci., 19, No. 3,
1978, pp. 211-290;
W. R. KNORR, W. R., When Circles Don’t Look Like Circles: An Optical Theorem in Euclid and Pappus, Archive for History of Ecxact Sciences V. 44, n.4, 1992.
T. KUHN, The structure of scientific revolution, second edition, with the “Postscript –
1969”, 1970; Ediz. Italiana: La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Torino, 1999.
G. LAKOFF, R. E. NÚÑEZ, Where Mathematics Comes From: How the Embodied Mind
Brings Mathematics into Being, Ediz. Italiana: Da dove viene la matematica: come la
mente embodied dà origine alla matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
C. LÉVI, Le philosophies hellénistiques, Ediz. Italiana: Le filosofie ellenistiche, Einaudi,
Torino, 2002.
S. M. MEDAGLIA, L. RUSSO, Sulla presunta accusa di empietà ad Aristarco di Samo, Quaderni urbinati di cultura classica, n. 53 (82) 1996, pp. 117-121.
R. MIGLIORATO, La rivoluzione euclidea e i paradigmi scientifici nei Regni Ellemistici,
Incontri Mediterranei, n. 11, 2005, pp. 3-24.
R. MIGLIORATO, La ragione e il fenomeno. Itinerari epistemologici tra matematica e
117
scienze empiriche, Aracne Editrice, Roma 2013.
R. MIGLIORATO, Spiegazione e Predizione: dalla rappresentazione mitica alla rappresentazione scientifica, Atti del 2° Convegno "Quali prospettive per la Matematica e la sua
Didattica", Piazza Armerina, Settembre, 2005. http://math.unipa.it/
%7Egrim/conv_aicmgrim_05_migliorato.pdf
R. MIGLIORATO, G. GENTILE, Euclid and the scientific thought in the third century B.C.,
Ratio Mathematica, n.15, pp. 37-64.
M. MIGLIORI, Il Sofista di Platone. Valore e limiti dell'ontologia, Morcellana, Brescia,
2007.
E. MORIN, E. R. CIURANA, R. D.MOTTA, Éduquer pour l'ére planetaire. La pensée complexe comme Méthode d'apprentissage dan l'erreur et l'icertitude humaines, Ediz.
Ital.: Educare per l'era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento, Armando Editore, Roma, 2005.
R. MOSCHEO, Francesco Maurolico tra Rinascimento e scienza galileiana: materiali e ricerche, Società Messinese di Storia Patria, Messina, 1988.
R. MOSCHEO, Matematiche e storia a Messina alla viglia del 1908. Note intorno a un
coevo e incompiuto progetto editoriale, Atti Acc. Peloritana dei Pericolanti, Classe di
Sci. Fis. Mat. e Nat., Vol. LXXXIX, No. 1, C1A8901004, 2011.
C. MUGLER, Archimède répliquant à Aristote, in “Revue des Études Grecques”, tome
LXIV, nn. 299-301, 1951.
C. MUGLER, Archimède, Paris, Les Belles Lettres, 1970-72.
P. D. NAPOLITANI , La tradizione archimedea, in E. GIUSTI (a cura di). Luca Pacioli e la
matematica del Rinascimento: atti del Convegno internazionale di studi, Sansepolcro
13-16 aprile 1994. Petruzzi. Città di Castello, 1998. Testo disponibile in http://www.academia.edu/attachments/5895164/download_file
R. NETZ, The Shaping of Deduction in Greek Mathematics, Cambridge University Press,
Cabrige, 1999.
R. NETZ, Greek Mathematicians: A Group Picture, in: Science and Mathematics in Ancient Greek Culture, edited by C. J. Tuplin and T.E Rihll, Oxford University Press,
New York, 2002.
R. NETZ, The Transformation of Mathematics in the Early Mediterranean World: From
Problems to Equations, Cambridge University Press, 2004.
R. NETZ, W. NOEL, The Archimedes Codex, Ed. Italiana: Il Codice Perduto di Archimde,
Rizzoli, Milano, 2007.
R. NETZ, W. NOEL, N. WILSON, The Archimedes Palinsest, 2 voll., Cambridge University
Press, 2011.
118
O. NEUGEBAUER, The exact sciences in antiquity, Ediz. Italiana: Le scienze esatte nell’antichità, Feltrinelli, Milano, 1974.
TH. KUHN, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago,
1962 (2a ediz. 1970). Ed. italina della 2a ediz. La struttura delle rivoluzioni scientifiche,
Torino, Einaudi, 1979.
K. POPPER, The open society and its enemie,. I: The spell of Plato (1950); Ediz. Italiana:
La società aperta e i suoi nemici, I: Platone totalitario, Roma, 1973.
H. PUTNAM, The threefold Cord: Mind, Body and World, (1999), Ediz. Ital. Mente, corpo,
mondo, Il Mulino, Bologna, 2003.
L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, Milano, 2001. (prima ediz. 1996).
L. RUSSO, The Definitions of Fundamental Geometric Entities Contained in Book I of Euclids Elements, Archive for history of exact sciences, 1998.
T. SATO, Archimedes’ Lost Works on the Centers of Gravity of Solids, Plane Figures and
Magnitudes, International J. of the History of Science Society of Japan, 20, 1981, pp.
1-40.
A. SEIDENBERG, Did Euclid’s Elements, Book I, Develop Geometry axiomatically?, Arch.
Hist. Exact Sci., 14, 1974, 283-295.
W. STEIN, Der Begriff des Schwerpunktes bei Archimedes, Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik, Astronomie und Physik, Abt. B, Bd. 1, 1930, pp. 221-244.
R. TRUDEAU, The non-Euclidean revolution, ediz. Ital.: La rivoluzione non euclidea, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
S. UNGURU, On the need to rewrite the history of Greek mathematics, Archive for History
of Exact Sciences , vol. 15, no. 1, 1975, pp. 67-114.
S. UNGURU, History of Ancient Mathematics. Some Reflections on the State of the Art,
Isis, Vol. 70, No. 4, 1979, pp. 555-565.
I. TOTH, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, Milano, 1997.
G. VAILATI, Del concetto di centro di gravità nella statica d’Archimede, Torino, 1897.
P. WINER, A. NOLAND, Roots of Scientific thought. A cultural perspective, New York,
1957.
C. ZAMPARELLI, Storia, Scienza e Leggenda degli Specchi Ustori di Archimede, 2005, in
http://www.gses.it/pub/