Renato Barilli - Comune di Bologna

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Renato Barilli
Edward Hopper e il problema del realismo nell’arte del Novecento
Archiginnasio, Sala dello Stabat Mater, giovedì 26 maggio, ore 17,30
Già il titolo dato alla conferenza sta a indicare quanto il tema sia
“problematico”, per uno studioso come Barilli che in genere nella sua attività
ha sostenuto le tesi e i percorsi delle avanguardie vecchie e nuove del secolo
scorso, da cui una certa nozione di realismo è stata messa in discussione, o
addirittura negata. Ma proprio l’opera di un pittore come Hopper sta a
dimostrare che un filo diretto con la realtà non è mai venuto meno da parte di
molti, e che il pubblico ne apprezza le manifestazioni, come sta a dimostrare
il successo della mostra in atto a Palazzo Fava per conto di Genus Bononiae.
La madre di questo rapporto, come riferimento più vicino a noi, è senza
dubbio da ricercare nell’Impressionismo, ma a patto di non identificare questo
movimento con una delle sue facce, seppure più note e celebrate, il
“monettismo”, che ha avuto il torto, o il merito, di escludere quasi del tutto
l’attore umano dalle sue vedute. Ben diverso è il caso se ci rivolgiamo a
Edouard Manet, a Edgar Degas, a Gustave Caillebotte. Non solo, bisogna
anche superare il pregiudizio che l’impressionismo sia stato solo una
questione riservata ai francesi, quando invece, come tutti gli “ismi”
dell’Occidente, esso ha riguardato tutti i paesi, anzi, paradossalmente, si può
sostenere che il numero uno di quell’intero fronte è stato lo statunitense
Winslow Homer, di cui il nostro Hopper appare come valido discendente. In
mezzo ci stanno anche altri super-realisti come lo spagnolo Sorolla e lo
svedese Zorn, e i connazionali di Hopper detti “precisionisti”. Però è vero che
Hopper è andato ad abbeverasi al verbo del postimpressionismo parigino,
cogliendolo però nelle vedute fredde di Albert Marquet, pronte a ingaggiare
una sfida con l’obiettivo fotografico, il che va ripetuto pure per il nostro
artista. Rientrato in patria, non ha certo avuto impacci nel rappresentare la
figura umana, raggiungendo una grande maestria sia nelle vedute urbane, sia
in “interni”, ma vuoti, desolati, fatti per una “folla solitaria”, sviluppando
un’epica del quotidiano cara anche a fotografi e registi cinematografici, E’
d’obbligo confrontare il Nostro con le vedute fuori mano, di provincia, di un
America minore quali si incontrano nei capolavori di Hitchcock. Da Hopper,
inoltre, si può giungere a certi suoi connazionali che hanno dato consistenza
tridimensionale, plastica a quelle povere immagini di Everyman, basti
pensare a George Segal e a Dwane Hanson.