La mia guerra (Bruno Rustico)

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La mia Guerra
Memorie della seconda Guerra Mondiale
di Bruno Rustico [1921 – 2001]
Konigsberg. Castello dei cavalieri.
Torre alta, tra le più antiche del castello dei cavalieri, costruita nel XIX secolo.
La parte più bassa della torre è stata costruita nel tardo medioevo.
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Sommario
Introduzione. ........................................................................................................................................3
Prefazione.............................................................................................................................................4
I miei incontri con Ivan ed Aliosca, Ufficiali superiori dell’Armata Rossa. ......................................8
Il barbiere Vittorio. ............................................................................................................................13
Per sette razioni di pane, consecutive. ...............................................................................................15
Le patate: un grande bene. .................................................................................................................17
Com’è avvenuto lo sterminio degli ebrei nel lager Bind Fadem Fabrik di Königsberg (Prussia
Orientale). ..........................................................................................................................................22
La presa di Königsberg (Prussia Orientale), ultima roccaforte di Hitler. ..........................................37
Violenze e sevizie degli occupanti.....................................................................................................41
Concentrati a Gumbinnen in attesa del rimpatrio (italiani, francesi, belgi e polacchi).....................43
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Introduzione.
La maggior parte dei giovani d’oggi non conosce la storia contemporanea del nostro Paese.
Non sanno quante lacrime hanno versato i loro genitori e quanti di essi sono morti sui campi di
battaglia e nei campi di concentramento per una insensata guerra che non trova alcuna ragione per
essere stata dichiarata tranne la sfrenata cupidigia del potere dei dittatori.
Più persone e tra queste uomini di alta cultura sentendomi parlare di guerra mi dissero:
queste cose vanno scritte.
Mi sono quindi convinto a rendere la mia testimonianza perché le nuove generazioni
possano meditare su episodi importantissimi e sconvolgenti spesso taciuti dalla nostra stampa.
Ho squadernato quindi i miei appunti di guerra ponendoli alla riflessione di tanti lettori che
amano la conoscenza dei fatti riferiti da chi li ha veramente vissuti e sofferti personalmente.
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Prefazione.
Durante il periodo fascista, il ministero della difesa, che oggi coordina le varie forze armate
dello Stato, si chiamava “Ministero della Guerra”.
Durante l’era Fascista tutti i sabati pomeriggio, era d’obbligo per i giovani frequentare il corso
paramilitare. Essi venivano addestrati sull’uso del fucile e della pistola e su come andare a passo di
parata.
Quando questi giovani venivano poi chiamati alle armi, avendone l’età, avevano già
acquisito una buona preparazione nel maneggio delle armi individuali e sull’ordine chiuso.
Nelle scuole i nostri insegnanti, non a caso, ci parlavano sempre della grandezza della Patria,
di conquiste, di vittorie e concludevano sempre con la stessa frase: “Chi per la Patria muor, vissuto
è assai”. Il sogno dell’uniforme militare era diffusissimo tra i giovani. Essi erano nutriti da una
penetrante propaganda fascista e non riuscivano a capire quello che avrebbero capito più tardi con
tanta amarezza.
Con queste apparentemente insignificanti predisposizioni si intuiva che Mussolini aveva già
stabilito in cuor suo dove portare l’Italia: ai fasti imperiali, naturalmente.
La buona sorte lo assecondò per ben due volte: il 3 ottobre 1935 quando diede l’ordine alle
truppe Italiane di stanza in Eritrea ed in Somalia di procedere alla conquista dell’Etiopia; ed il 7
aprile 1939 quando fece altrettanto nei confronti dell’Albania, dichiarando poi, a vittoria conseguita
Vittorio Emanuele III Re d’Italia e d’Albania ed Imperatore d’Etiopia.
La sorte non gli fu benevola la terza volta quando il 10 giugno 1940 dichiarò guerra alle
nazioni più potenti del mondo.
Egli naturalmente si sentiva forte perché sapeva che il Partito Fascista era entrato nelle
simpatie della maggior parte del Popolo Italiano.
Il 10 giugno 1940 dunque, di fronte ad una marea di fascisti in divisa provenienti da tutta
Italia e che gremivano Piazza Venezia (Roma) Benito Mussolini annunciò l’avvenuta consegna agli
ambasciatori Inglese e Francese della dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, ricevendo
scroscianti, deliranti e prolungati applausi da tutti i convenuti.
Si seppe poi che non era nelle intenzioni di Mussolini entrare in guerra il 10 giugno 1940.
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In un primo tempo aveva pensato di intervenire nell’agosto del 1940 dopo i raccolti della
terra. Aveva anche pensato di intervenire solo nella primavera del 1941.
Sono state le continue vittorie della Germania sulla Danimarca, sulla Norvegia e poi sulla
Francia che lo indussero ad accelerare i tempi per avere poi il diritto, con qualche migliaio di caduti
da parte italiana a favore della comune vittoria, di sedersi al tavolo della pace accanto alla
Germania.
Durante l’era fascista in Italia sono avvenuti due fatti veramente singolari: l’embargo
promosso con accanimento dall’Inghilterra contro il nostro Paese a partire dal 18 novembre 1935; e
la giornata dell’oro alla Patria avvenuta per volere del Duce un mese dopo e cioè il 18 dicembre
1935.
Grazie all’efficace campagna di stampa e ad una convincente propaganda nelle scuole, la
giornata dell’oro alla Patria ebbe un insperato successo.
In cambio della consegna della fede in oro veniva consegnata una fede in acciaio
inossidabile con all’interno la scritta “oro alla Patria”.
Da quel giorno non si vedeva circolare nessuno con fedi in oro alle dita né donne con
orecchini in oro.
Questo si era reso necessario perchè nessuna nazione credeva più alla nostra moneta. Anche
il pedaggio per le nostre navi che dovevano attraversare lo stretto di Suez per recarsi nelle colonie
di Etiopia, Somalia ed Eritrea doveva essere pagato in oro.
La dichiarazione di guerra trovava l’Italia in una situazione di povertà diffusissima ed
accresciuta dall’embargo che la Società delle Nazioni (ora ONU) aveva inflitto al nostro Paese nel
novembre del 1935.
Il grave provvedimento delle sanzioni, peraltro giustificato, adottato da quell’organo
internazionale con sede a Ginevra era stato la conseguenza delle guerre di conquista verso l’Etiopia
e l’Albania concluse con la proclamazione di Vittorio Emanuele III Re ed Imperatore.
E non bastava. Nelle scuole i maestri insegnavano la necessità della conquista della
Dalmazia.
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Con l’entrata in guerra dell’Italia accanto alla Germania, Mussolini risolveva a modo suo il
grande problema della disoccupazione. Era riuscito a chiamare alle armi quasi 8 milioni di uomini
su un fronte vastissimo: Eritrea, Somalia, Etiopia, Libia, Dodecanneso, Fronte orientale (Francia),
Fronte Greco, Balcani, Fronte russo.
Ma così toglieva alle attività industriali ed agricole la manodopera necessaria alla loro
gestione.
Il servizio militare era diventato un mestiere come tutti gli altri e come detto era molto
ambito anche perché i familiari del soldato in guerra percepivano un assegno mensile considerato
abbastanza buono, che era di sollievo alla povertà di molte famiglie italiane che con il denaro
avevano da sempre avuto un rapporto improntato a grande disperazione.
Ho un lucido ricordo di cosa significasse allora “povertà”.
Braccia in guerra e sanzioni avevano reso necessario un severissimo razionamento alimentare. Ogni
persona poteva avere 200 grammi di pane al giorno, 30 grammi di pasta o riso al giorno, 100
grammi di olio e di zucchero al mese. Per un lungo periodo è mancato il sale, il caffè non era in
commercio.
In questa situazione il mercato nero era fiorente, chi non aveva soldi o merce di scambio
come la biancheria, le lenzuola o altre cose di valore doveva languire dalla fame.
I soldati in guerra dovevano ricorrere alle ruberie per sfamarsi. Ed io ero uno di quelli.
Circolava in Friuli questo bellissimo aneddoto: “Quant co vevin il Re bevevin il cafè, ore co
vin l’Imperator nance l’odor; anciemò qualchi vitorie, nancie le cicorie”
“Quando c’era il Re bevevamo il caffè, ora che abbiamo l’Imperatore nemmeno l’odore;
ancora qualche vittoria e (non avremo) nemmeno la cicoria”.
Avevo appena compiuto i 19 anni quando anche per me venne la chiamata alle armi.
Porto al petto cinque stellette per aver partecipato ai cinque anni di guerra 1940 – 1945 e
quindi a tante dolorose esperienze di vita come quelle che ho cercato di raccontare nelle pagine che
seguono.
La sorte infatti mi ha collocato tra i testimoni oculari dello spegnimento delle luci della
civiltà occidentale nella Prussia Orientale.
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Mi ha reso testimone insieme a tanti altri della soppressione degli ebrei mediante
annegamento nel Mar Baltico e mediante il colpo alla nuca nel lager Bind Fadem Fabrik di
Königsberg.
Oltre a questi avvenimenti funesti mi è stata data l’opportunità di stringere una grande
amicizia con due ufficiali superiori dell’Armata Rossa, persone meravigliose, anch’esse prigioniere
dei nazisti e di conoscere dalla loro viva voce il vero volto del mostro di Mosca e del suo PCUS che
era diverso da quello del predecessore Lenin per avvenuto scioglimento dello stesso.
Di queste cose e di altre ancora desidero rendere testimonianza, arricchendola con una
ampia documentazione giornalistica dell’epoca.
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I miei incontri con Ivan ed Aliosca,
Ufficiali superiori dell’Armata Rossa.
Monumento al grande condottiero Federico Guglielmo a Pillau.
Dal lì partivano le fregate del regno russo-brandemburghese.
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Nei miei incontri serali con i due ufficiali dell’Armata Rossa, maggiore Ivan e tenente
colonnello Aliosca, persone veramente meravigliose, parlavamo quasi sempre dei nostri rispettivi
governanti: Stalin e Mussolini e della guerra che, dopo l’8 novembre 1942, aveva preso una piega
nettamente favorevole alle forze Alleate.
In quella data infatti entra in guerra l’America a fianco dell’Inghilterra e della Francia (e
quindi anche della Russia) con i suoi strabocchevoli mezzi offensivi.
Mussolini sconfortato da quella decisione americana medita sui suoi enormi errori e non si
fa vedere per tre giorni.
Nel suo primo discorso, subito dopo quella data, trova il modo di presentarsi alla Nazione –
via radio – e con la solita sicurezza trova il modo di dire “se il nemico oserà mettere piede sul
nostro territorio italiano rimarrà in posizione orizzontale”.
Una sera il maggiore Ivan viene al consueto incontro con un pezzo di giornale tedesco sul
quale si leggeva: “Odessa gheroim”, Odessa è stata riconquistata dall’Armata Rossa.
Ed aggiunge: il teatro di Odessa è stato progettato e costruito dai ‘friulani’ (non dagli
italiani) lasciando nella zona un ricordo di laboriosità e di capacità creativa di alto livello.
A questa testimonianza, come friulano, mi sono commosso ed ho pensato subito a mio padre
emigrato in Argentina, dove riposa per sempre senza che io abbia potuto godere delle sue carezze.
Una sera i nostri discorsi vanno a finire su Stalin e su Lenin.
Lenin rientrato dalla Finlandia e postosi a capo del CUS nell’ottobre 1917 era assillato da
due problemi: la redistribuzione delle terre e la presa di possesso di tutte le attività industriali da
parte di esponenti del Partito, licenziando tutti i vecchi dirigenti.
A causa delle discordie interne al Partito non riuscì nell’intento di definire una accorta
politica di redistribuzione delle terre; riuscì però a sostituire tutti i dirigenti delle industrie, con
dirigenti del Partito, applicando alla lettera le teorie di Carlo Marx.
Dopo alcuni mesi si accorse che tutte le industrie erano sull’orlo del fallimento. Dovette
ritornare sui suoi passi ed invitare i vecchi dirigenti delle fabbriche a riprendere il loro posto di
lavoro, ma molti di questi non accettarono.
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Li convinse mediante un congruo aumento di stipendio e questa fu la prima sconfitta delle
teorie di Carlo Marx, toccata proprio con mano dallo stesso Lenin.
Lenin nei suoi successivi discorsi pubblici ebbe ad ammettere che non era possibile mettere
alla direzione delle fabbriche degli operai o delle persone qualunque, unicamente perché funzionari
di Partito.
Il PCUS era composto esclusivamente da operai e contadini; infatti il simbolo che porta la
falce ed il martello incrociati sta a simboleggiare l’unione tra operai e contadini.
Nel febbraio 1924 moriva Lenin. A funerali conclusi e durante la stessa notte, Stalin fece
eliminare fisicamente tutti i possibili concorrenti alla successione di Lenin e divenne così Presidente
della Unione Sovietica.
Alle riunioni di Partito, al nuovo leader non piacevano quegli interventi degli operai e tanto
meno quelli dei contadini sempre in contrasto tra loro sulla distribuzione delle terre.
Scioglie quindi con n proprio ‘editto’ il PCUS ricostruendolo poi con soli ufficiali
dell’Armata Rossa ed alti funzionari dello stato, utilizzando sempre il medesimo nome e lo stesso
simbolo.
Sono stati così estromessi dal Partito e quindi dalla vita pubblica sia gli operai che i
contadini, che rappresentavano la stragrande maggioranza del popolo russo. Il simbolo, con tutti i
suoi significati, era diventato solo una parvenza di continuità esteriore.
In questo modo Stalin ha costituito una casta privilegiata, anche con garanzia giuridiche.
Fra i privilegi della casta vi erano negozi per uso esclusivo dove non mancava niente, il
possesso dell’automobile con la quale era possibile girare tutta la Russia senza le limitazioni dei
cittadini ‘normali’ ed un’alto stipendio. Tutto questo in cambio di un’ubbidienza pronta ed assoluta.
Tutti gli altri cittadini sovietici non potevano allontanarsi da casa oltre i 50 chilometri, in
deroga potevano ottenere un permesso speciale spiegandone le ragioni ed in tal caso al loro arrivo
nel luogo richiesto dovevano presentarsi alla “comandantur” e firmare tutte le sere il registro delle
presenze in loco.
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Una sera, al solito incontro, raccontai al maggiore Ivan che negli anni ’30 facevo il
chierichetto e ricordo benissimo le tante funzioni religiose che si tenevano nelle nostre chiese
perché l’Onnipotente Dio facesse cessare i massacri in Russia.
E’ tutto vero, mi rispose, ed aggiunse: “Stalin forte di un Partito ben organizzato, armato, e
soprattutto fedele, con proprio ‘editto’ impose la collettivizzazione dell’agricoltura. La generale
ribellione che ne seguì fu repressa nel sangue”. Diciassette milioni di contadini furono passati per le
armi. Ed aggiunse ancora: “Tutte le rivoluzioni sono cruente, quella bolscevica di Stalin ha
raggiunto però un grado di barbarie e di ferocia senza precedenti nella storia”.
Tutte queste importantissime testimonianze, prima fra tutte quella riguardante lo
scioglimento del PCUS di Lenin, sono del tutto sconosciute alla nostra opinione pubblica. Nessun
giornale ce le ha riportate e neppure i molti libri che trattano la figura esecrabile di Stalin ce le
riferiscono.
Come dicevo più sopra, i componenti del Partito bolscevico, composta dagli ufficiali
dell’Armata Rossa e funzionari dello stato, dovevano al loro leader – cioè a Stalin – un’obbedienza
pronta, rispettosa ed assoluta. Gli ordini dovevano essere eseguiti e mai posti in discussione.
Questa dittatura personale e sanguinaria di Stalin provocò ‘naturalmente’ una lunga
sequenza di complotti contro ‘il mostro di Mosca’ organizzati da generali e dalla stessa polizia
segreta GPU. Questi complotti trovavano sempre maggiori sostenitori e di conseguenza aumentava
continuamente il numero degli arrestati e dei fucilati, il tutto senza bisogno di mandati di arresto e
di processo.
Se il Partito continuava ad essere quello di Lenin, operai e contadini insieme, non sarebbero
potute forse accadere quelle nefande scelleratezze di disumana crudeltà, la notizia delle quali ha
sconvolto il mondo intero.
Non desidero aggiungere altro a quando riferitomi dal maggiore Ivan, preferisco invece
offrire ai lettori, per una loro interessante e piacevole conoscenza dei fatti, la riproduzione di molti
articoli apparsi sulla stampa, all’epoca delle grandi purghe, che ne confermano la dolorosa ed
impressionante verità.
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E questo perché ogni lettore a conoscenza di quanto è avvenuto nell’Unione Sovietica, si
possa fare un proprio autonomo giudizio sulla figura di Giuseppe Stalin e del suo Partito, che è una
cosa diversa dal PCUS di Lenin.
Fra questi articoli ne troverete uno molto significativo: l’America chiede alla Russia, perché
sapeva che glieli poteva fornire, 6.000 (seimila) scheletri umani al prezzo di 120 dollari ciascuno.
Essi servivano come materiale didattico per le facoltà di medicina sparse in tutti gli Stati Uniti.
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Il barbiere Vittorio.
Una sera a fine lavoro, una squadra rientra al lager con un prigioniero in meno: mancava
Vittorio, il barbiere.
Subito si sparge la convinzione, siccome lavorava in un sommergibile in riparazione, che
fosse caduto in mare ed annegato senza che nessuno si accorgesse dell’accaduto. Passano i giorni e
la convinzione che fosse morto davvero si fa sempre più consistente.
Intanto il nostro cappellano militare celebra messe di suffragio, ricordando ogni settimana
durante l’omelia, la buon’anima di Vittorio.
Trascorrono sei mesi esatti e lo vediamo arrivare, e sotto la buona scorta di due gendarmi,
entra al corpo di guardia del lager. Aveva tentato di fuggire per raggiungere l’Italia distante oltre
4.000 chilometri. Le S.S. lo avevano ripreso solo dopo due chilometri dal lager e tutto il resto del
tempo era stato assegnato alla compagnia di disciplina. Era fuggito naturalmente senza un soldo in
tasca, senza una crosta di pane, contando solo sul buon cuore delle persone che avrebbe incontrato
per strada.
Il sergente maggiore Bruno Gaffurini non perse l’occasione per dare spettacolo.
Radunò una cinquantina di prigionieri, per metà armati di ramazze e di scope e per metà
muniti di pentole e casseruole, assemblando così un plotone come previsto dalle grandi cerimonie
militari.
Con questa messa in scena volle rendere al grande fuggitivo gli onori militari. Nel momento
in cui l’oberghefreiter Ziroski spalancò il grande portone per reinserire il fuggiasco nel nostro
settore, il Gaffurini con tono marziale impartisce al plotone l’’attenti’ e quindi il ‘presentat arm’.
Il plotone, di scatto solleva le ramazze e le scope come se imbracciasse veri fucili, mentre la
banda percuotendo le casseruole con i bastoncini intonava un perfetto inno di Mameli.
Accompagnato dal Gaffurini che comandava il plotone, il barbiere Vittorio, prestandosi al
gioco, passa in rassegna il reparto d’onore e incede marziale con mano tesa nel saluto militare.
Dopo la rassegna, con parole semplici infarcite da parole in bel dialetto veneto, ringrazia tutti per
l’inaspettata e calorosa accoglienza.
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I tedeschi che ci vigilavano assistevano alla scena spanciandosi dalle risate, mentre i
commilitoni seguivano la festosa cerimonia della reintroduzione nel lager del fuggiasco, battendo
con forza le mani.
Subito dopo gli chiediamo come se l’era passata alla ‘compagnia di disciplina’, Vittorio
piega la schiena, solleva la camicia e ci mostra i segni delle frustate ricevute.
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Per sette razioni di pane, consecutive.
Il maggiore dell’Armata Rossa Ivan, con il quale avevo stretti rapporti di vera amicizia, una
sera mi viene a trovare in baracca; non aveva il solito buon umore, era molto preoccupato e mi
racconta quello che più lo opprime.
Mi dice: ‘Durante la prossima notte noi russi saremo portati, a piedi, verso l’interno della
Germania perché l’Armata Rossa si sta avvicinando sempre di più a Königsberg. Come ti ho già
raccontato, caro Bruno, in patria mi attende il plotone di esecuzione per il reato di codardia.
Io con tutto il battaglione che comandavo, eravamo da quindici giorni circondati dalla
Wermacht ed impegnati giorno e notte in accaniti combattimenti. Nel confronto impari, avevo perso
quasi la metà dei miei uomini senza riuscire ad aprirmi un varco per ricongiungermi al resto del
Reggimento.
Da tre giorni non avevamo più viveri ed anche il munizionamento era alla fine. Non mi era
possibile ricevere rifornimenti di alcun genere perché eravamo completamente accerchiati.
Ho chiamato a rapporto tutti gli ufficiali subalterni comunicando loro la decisione che avevo
presa e che era quella di chiedere la resa. Tutti tacquero ed abbassarono la testa. A due fucilieri
consegnai uno straccio bianco che legarono in cima al loro fucile agitandolo in segno di resa. Il
fuoco cesso e ci demmo prigionieri.
Il reato di codardia che ho commesso consiste in questo. Un ufficiale appartenente di diritto
al PCUS non deve, per statuto, lasciarsi fare prigioniero. Deve piuttosto, con la sua pistola
d’ordinanza colpire almeno uno degli avversari che lo hanno fatto prigioniero e farsi uccidere dalla
reazione dei vincitori.
Io non ho fatto questo.
Il mio comportamento è considerato dal Codice Militare Russo un grave reato, a meno che
Stalin, a guerra finita, non cambi la legge, ma questo è molto difficile”.
Dopo avermi raccontato queste cose sconcertanti, il maggiore Ivan estrae dalla borsa un paio
di scarponi con le suole tutte consumate, aveva con se anche il cuoio adatto per ripararli. Mi chiede
se durante quella notte il nostro calzolaio poteva ripararli; gli rispondo di si.
Vado dall’amico calzolaio e lo faccio mettere subito all’opera. Per il mattino seguente gli
scarponi che servivano a Ivan erano pronti.
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Dovete sapere che nemmeno nel lager nessuno lavorava per niente. E quindi chiedo
all’amico calzolaio come ci dobbiamo regolare tra noi per il lavoro effettuato a regola d’arte. Le
suole mi sono costate sette razioni giornaliere consecutive, con decorrenza immediata.
Da quella sera e per sette sere ho consegnato al calzolaio la mia razione di pane (circa 250
grammi per volta), che vista la fame che ci attanagliava lo stomaco era un controvalore esorbitante.
Quella sera il maggiore Ivan viene a ritirare gli scarponi e felice mi ringraziò tanto, tanto.
In quella occasione mi permisi di dargli un consiglio: non tornare in Patria, rischi troppo.
Stalin per quanto lo conosciamo non cambia le sue leggi. Sono già sei anni che sei prigioniero,
conosci la lingua tedesca, rifatti una vita in Germania.
‘Ci penserò seriamente’, mi rispose, ringraziandomi per il consiglio.
Ci abbracciammo con molta effusione d’animo. E così le nostre lunghe conversazioni,
intense per la forte amicizia, ebbero fine per sempre. Non però il ricordo di quella meravigliosa
persona che mi lasciò in dono una bellissima scatola di legno da lui stesso lavorata ad intarsio
(portagioie) e che ora troneggia nel mio soggiorno. Era ingegnere.
A tutti gli ospiti che entrano nella mia casa, la mostro dicendo loro che quella piccola scatola
lavorata a mano, è un dono del maggiore Ivan dell’Armata Rossa, con il quale ho condiviso due
anni di prigionia nel lager nazista di Königsberg.
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Le patate: un grande bene.
All’interno del nostro campo di concentramento, costituito da baracche in legno, vi era un grande
fabbricato in muratura, adibito negli anni precedenti a fabbrica di spago. Per questa ragione si
chiamava “Lagher Bind Fadem Fabrik” cioè fabbrica di spago.
Nel grande scantinato vi erano depositate alcune centinaia di quintali di patate che servivano al
vettovagliamento dei militari della zona di Königsberg.
Tutte le mattine un soldato tedesco prendeva cinque di noi prigionieri, ne faceva sbucciare una
cinquantina di chili e le faceva portare nella loro cucina.
Tutto quel ben di Dio ci faceva venire l’acquolina in bocca.
Un giorno incontrai un commilitone friulano e durante la nostra chiacchierata in madrelingua
friulana gli chiesi come si chiamasse, di dive fosse e che mestiere facesse nella vita civile, mi
rispose: ‘mi chiamo Aita, sono di Buia (vicino a Udine) e di mestiere sono meccanico
specializzato’.
Passano alcuni giorni, lo reincontro e gli chiedo in che cosa consistesse la sua specializzazione in
meccanica.
‘Sono uno scassinatore di cassaforti’ e aggiunge: ‘basta che lavori tre o quattro giorni all’anno e
mantengo la mia famiglia in maniera egregia’.
Era il tipo che faceva per noi.
Gli espongo di corsa il problema ‘patate’ chiuse in quel cantinone da una porta interna e da un
grande portone esterno. La sua risposta, da esperto tecnico, me la da immediatamente. “Prendi un
pezzo di sapone, lo porti ad una giusta umidità e su quella superficie prendi le impronte delle chiavi,
dei due versi, premendo bene l’originale ed evitando di provocare delle sbavature. E’ bene che il
sapone te lo prepari io, poi in fabbrica ti preparo le chiavi”.
La sera seguenti mi portò il sapone preparato come lui desiderava ed aggiungendo altri
suggerimenti e raccomandazioni.
Il solito soldato tedesco venne a prelevare i cinque prigionieri per la quotidiana sbucciatura delle
patate ed io, in qualità di fertrauesman (uomo di fiducia) li seguii. In un momento di assenza della
guardia riuscii a prendere le impronte delle chiavi in modo perfetto. Più tardi consegnai quel sapone
all’espero Aita ed il giorno seguente le chiavi erano già pronte.
La custodia del grande deposito era affidata ad una sentinella ottantacinquenne che portava occhiali
da miope molto spessi. Le Wermacht utilizzava questi riservisti per affidare loro i servizi di
modesto impegno, mentre tutti i giovani venivano impiegati al fronte. Quest’uomo camminava su e
giù, armato di fucile, con passo lento e claudicante.
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Da ‘esperti’ in sopravvivenza abbiamo controllato bene la vista e l’udito della nostra sentinella;
sapevamo bene che ogni trasgressione ci sarebbe costata fame e legnate. Mentre piano piano
camminava abbiamo cominciato a lanciargli tra le gambe prima dei piccoli sassi poi un po’ più
grandi e ci siamo conviti che non sentiva. Un coraggioso gli è passato vicino, lo ha salutato e non ha
ricevuto risposta ed un altro gli agitava una frasca davanti al viso senza provocare la sua attenzione.
Quindi oltre a sordo era praticamente cieco.
C’era un’altra difficoltà. Il campo era percorso con una certa frequenza da dei vigilanti armati. Era
necessario attendere che il Capitano del campo li convocasse per qualche loro riunione per avere la
certezza del via libera.
E finalmente il momento arriva. Decidiamo di agire in questo modo.
L’amico Terlicher si avvicina al portone principale rimanendo ad una certa distanza dalla sentinella;
quando questa gli offre la schiena fa un breve fischio – il segnale convenuto - balzo fuori dal
nascondiglio e con le chiavi in mano raggiungo il portone, lo apro, mi nascondo nello spazio tra i
due portoni ed aspetto l’arrivo dei compagni. Uno alla volta, dopo il breve fischio di via libera,
arrivano miniti di sacchi e zaini dove riporre le patate.
Il secondo portone si apre docilmente grazie alle perfette chiavi dell’amico di Buia. Tutti ci diamo
subito un gran da fare per recuperare quante più patate possibile. Mentre lavoriamo freneticamente
ed in silenzio si leva improvviso dal fondo dello stanzone il canto russo “La katiuscia”. Appena
ripresi dallo spavento ci accorgiamo di non essere soli nello stanzone. Nell’angolo più buio era
infatti stata ricavata con assi di legno una sorta di mini prigione per i soldati russi che per qualche
ragione venivano puniti.
Mi avvicino di corsa
ed a gesti riesco a farmi capire: dovevano tenere la bocca chiusa.
Fortunatamente capiscono, così il nostro lavoro può continuare come previsto.
Dalle fessure tra le tavole riesco a vedere che avevano sul pavimento della paglia su cui dormire ed
un secchio per latrina. In quelle condizioni era normale che la puzza riempisse tutto l’ambiente,
anche se gli ospiti di quella improvvisata prigione erano solo quattro.
Avevano capito che non eravamo entrati per la solita corvée delle patate, ma per rubarne una certa
quantità, per questo ci dicevano: “talianski karasciò”, ‘bravi italiani’.
Poi ho capito che la ‘katiuscia’ che avevano intonato era per farci festa … e per avere qualche
patata.
Se i tedeschi si fossero accorti di quell’improvviso cambiamento d’umore da parte dei russi,
sarebbero accorsi immediatamente e saremmo stati scoperti, conseguenza: vergate sulla schiena,
pugni e calci a volontà, a cominciare da me ‘fertrauesman’ (uomo di fiducia).
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Riempiti per bene zaini e sacchi, salutati i nuovi amici di sventura russi, ci avviciniamo ai portoni
dello stanzone, superiamo la prima porta e la richiudiamo alle nostre spalle. Apro lentamente il
grande portone esterno e vedo che la vecchia sentinella è piuttosto lontana e mi da la schiena, parto
con il primo sacco e dietro via via gli altri. Qualcuno perde nella foga qualche patata, che viene
recuperata per evitare di lasciare tracce. Per ultimo esce l’amico Terlicher, lui chiude il grande
portone; la missione è conclusa.
L’appuntamento che ci eravamo dati era nella nostra camerata. Una volta insieme e con davanti
tutto quel ben di Dio, si pone il problema al quale inizialmente non avevamo pensato: come cuocere
le patate, almeno di quel poco indispensabile per addentarle e digerirle.
Al solito, la necessità aguzza l’ingegno, infatti un compagno trova la soluzione: esce dalla baracca e
rientra subito dopo con quattro mattoni in mano. Li mette al centro della camerata uno vicino
all’altro, rompe degli scranni di legno che facevano parte del nostro arredo, appende sopra la
pentona con dentro l’acqua ed una prima parte di patate ed accende il fuoco.
La baracca era tappata per cui il fumo del fuoco gradualmente invade la camerata. L’acqua
comincia ad intiepidirsi, i nostri occhi a bruciare sempre di più. I più affamati vedevano le patate
già cotte, ma l’acqua non aveva ancora cominciato a bollire. Alla fine ci si arrende, e per alleviare il
bruciore agli occhi qualcuno apre una finestra per arieggiare la stanza.
Non l’avesse mai fatto.
In quel momento passavano di lì due vigilanti della Wermacht che alla vista del fumo si mettono a
correre verso la nostra baracca credendo ad un principio di incendio.
Mi accorgo del loro arrivo e cerco una immediata via di fuga attraverso la finestra posteriore della
baracca, gridando agli altri: “i tedeschi, i tedeschi …”. Trovo un nascondiglio poco lontano.
Da quella posizione osservo l’evolversi dei fatti.
I soldati della Wermacht arrivano sul posto armati di frusta, nel frattempo ne arrivano altri a dare
man forte; spengono il fuocherello e riempiono i miei compagni di frustate dopo averli messi
perfettamente in riga.
Trascorrono alcuni minuti e mi precipito sul posto fingendomi estraneo all’accaduto, dico e ridico ai
tedeschi che mi dispiace, che non succederà più, che se fossi stato presente tutto questo non sarebbe
accaduto. Ho anche detto che ci dovevano capire e che anche un verme che striscia sulla terra cerca
di non morire di fame.
Mi prendono e mi portano dal comandante del campo, il Capitano Smadalla, per la sentenza finale.
Speravo in cuor mio di trovare comprensione da parte di una persona onesta come lo era il
Capitano.
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Le guardie che mi accompagnano spiegano i fatti, io non posso far altro che confermare l’accaduto
e chiedo comprensione per i miei amici accompagnandola con un impegno solenne a che fatti del
genere non si ripetano. Guai se avesse saputo che ero tra gli organizzatori dell’impresa.
Mi dava l’idea che avesse preso bene la cosa. Mi dice: “Avevo pensato di infliggere ai sette
prigionieri otto giri serali attorno al fabbricato in muratura del campo (la fabbrica di spago), li
riduco a due”.
Lo ringrazio, batto i tacchi ed esco. Mentre raggiungo la porta la sua segretaria mi fa un sorrisetto.
Il giorno dopo, rientrati dal lavoro in cantiere, i sette puntiti vengono chiamati per scontare la prima
parte della punizione. Vengono messi uno dietro l’altro ad una distanza di circa 10 metri tra loro. La
guardia da il via e li fa correre, quando arrivano agli angoli dell’edificio una guardia piazzata
appositamente lascia cadere su ciascuno una pesante frustata sulla schiena. Ad ogni giro ciascuno
degli amici si prendeva quattro frustate; i giri dovevano essere dieci, per cui le frustate diventavano
quaranta.
Era evidente che bisognava cercare di evitare di rimanere scorticati. Quindi già dal secondo giro con
astuzia ciascuno cercava di mandare a vuoto la frustata. I secondini prendevano la cosa come un
gioco, quasi del gatto con il topo, gli amici o con improvvise accelerate, o con improvvisi scarti
riuscivano ad evitare la maggior parte dei colpi delle guardie. Alle volte queste, stizzite, per non
riuscire a colpire i malcapitati davano colpi con tale veemenza da rimanere sbilanciati con
inevitabile ruzzolone a terra. Gli altri prigionieri, spettatori di questa singolare corrida facevano un
tifo da stadio, sottolineando con grida tutte le volte che le guardie ‘sbagliavano’ il colpo.
Come si capisce non siamo più stati a rubare le patate nel grande magazzino, le abbiamo recuperate,
sempre di frodo, altrove.
Per questo ed altri fatti, i tedeschi ci avevano attaccato addosso l’etichetta di ‘ladri’. Mi viene in
mente a tale riguardo un altro episodio.
Su una parete del corpo di guardia faceva bella mostra di se un grande orologio che scandiva le
nostre faticose giornate di lavoro e di fame. Un bel giorno l’orologio sparisce. Tutti noi pensiamo
che le guardie certamente incolperanno gli italiani del furto.
Invece il comandante della guardia mi dice: “Sicuramente non è stato un italiano”, perché? Chiedo
“perché l’italiano avrebbe preso anche il chiodo che lo sosteneva l’orologio”.
Dopo non molto da questi fatti abbiamo trovato il modo di cucinare le patate senza correre questi
rischi.
Il modo ci era sembrato pratico e sbrigativi e prevedeva l’uso della corrente elettrica. Si richiedeva
solo un po’ di attenzione.
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Materiale occorrente: un secchio di metallo, un paio di forbici, un fili elettrico a due fili abbastanza
lungo.
Preparazione: le patate vengono collocate in modo ordinato nel recipiente, lasciando uno spazio
vuoto al centro, si aggiunge l’acqua fino a coprire le patate. A questo punto si prendono le forbici,
le si legano ad uno dei due fili e si sospendono a metà dello spazio vuoto al centro del recipiente;
l’altro filo lo si lega al bordo del recipiente di metallo (in genere usavamo un secchio).
Tutto è pronto per iniziare la cottura, si attacca la spina alla presa di corrente e dopo circa mezz’ora
l’acqua bolle facendo cuocere le patate.
Vi chiederete se saltava la corrente. Questo non si verificava perché il campo disponeva di molta
energia indispensabile per la sua illuminazione notturna e per l’elettrificazione del recinto esterno.
In questo modo siamo riusciti a sfamarci cuocendo le patate che riuscivamo a trovare negli
spostamenti dal campo verso i luoghi di lavoro: le fabbriche, i cantieri ecc…
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Com’è avvenuto lo sterminio degli ebrei nel lager
Bind Fadem Fabrik di Königsberg
(Prussia Orientale).
Spiaggia a Krantz.
Questa città si è formata su un non molto grande paese di pescatori,
nel corso del secolo.
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Il nostro lager di Königsberg era diviso in tre parti, separate una dall’altra da un doppio filo
spinato; le due recinzioni erano distanti tra loro circa tre metri ed alte quattro.
Nel primo erano imprigionati gli italiani, in numero di circa 1.800 e vigilati dalla Wermacht,
nel secondo venivano imprigionati gli ebrei vigilati dalle famigerate SS e nel terzo erano alloggiate
un centinaio di ragazze polacche. Su di loro non c’era alcuna sorveglianza, bastava che si recassero
al lavoro tutte le mattine.
In assenza delle guardie potevamo scambiare anche qualche parola sia con gli ebrei, sia con
le polacche.
Il nostro lager era comandato da un capitano della Wermacht di nome Smadalla. Ad onore
della verità debbo dire che verso noi italiani si è sempre dimostrato un uomo comprensivo, come
del resto lo sono stati i suoi subalterni.
Smadalla aveva tre figli che gli sono morti in guerra e la moglie sotto i bombardamenti.
Non così i militari della SS. Tutti trovavano infinito piacere nell’infliggere inaudite
sofferenze agli Ebrei, erano tutti dei sadici.
Tutti gli ebrei maschi vestivano un pigiama a righe chiare e scure, e sul polso sinistro
avevano impresso mediante tatuaggio, la stella di David ed il numero di matricola.
Anche le donne, perlopiù ragazze, avevano impresso sul polso sinistro la stella di David ed il
numero di matricola, mentre per il vestito portavano sempre quello con il quale erano state catturate
dalle SS.
All’arrivo di noi italiani a Königsberg, era il 20 settembre 1943, nel lager riservato agli Ebrei non
abbiamo visto nessuno, ma abbiamo saputo che qualche tempo prima vi erano stati portati dei
bambini, circa un migliaio. Dopo pochi giorni sono stati fatti salire su dei barconi, trainati al largo
del porto di Königsberg ed affondati nel Mar Baltico.
Primo massacro – Novembre 1943.
Ad occupare un’intera baracca sono arrivati, ai primi di novembre 1943, circa 220 Ebrei, tutte
persone distinte; vestivano la tuta nuova fiammante. Infatti erano stati appena catturati dalle SS.
Diversi di loro portavano sul braccio sinistro l’etichetta con la scritta ‘ARTZ’ che significa
"Medico".
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Ho chiesto ad altri cosa facessero nella loro vita privata, alcuni mi risposero avvocato, uno
mi rispose diplomatico, altri imprenditore; insomma erano tutti dei professionisti.
Non furono mai impiegati in luoghi di lavoro, ma portati in qual campo solo in attesa della
loro eliminazione fisica.
Non ho visto mai, durante la loro breve permanenza di circa 20 giorni, distribuire ad essi del
cibo. Venivano lasciati passeggiare per il campo; quasi tutti restavano aggrappati al nostro reticolato
e chiedevano con insistenza, nella loro grande disperazione, una sigaretta che noi purtroppo non
abbiamo mai potuto dare, perché non ne avevamo.
Un mattino della fine di novembre 1943 non li vediamo più.
Nel silenzio della notte erano stati condotti al porto, fatti salire su dei barconi, trainati alcune miglia
al largo ed affondati nel Mar Baltico.
La loro disperazione nel salire su quei barconi ci venne descritta dai lavoratori del porto di
Königsberg, prigionieri come noi, era straziante: si abbracciavano, chiamavano a gran voce i loro
famigliari pensando forse di essere uditi dando loro l’ultimo saluto.
Passare da una vita agiata alla morte per annegamento nel breve tempo di una ventina di
giorni, senza naturalmente mai ricevere cibo, sentendosi onesti, ma colpevoli di essere nati Ebrei
era una cosa che supera le capacità di comprensione della mente umana.
La pesante frusta delle SS li ha convinti a salire con sollecitudini sui barconi della morte.
Secondo massacro: dicembre 1943 – aprile 1944.
Verso la metà di dicembre 1943 arrivano nel lager oltre un migliaio di Ebrei, tutti uomini; tanti da
riempire completamente le cinque baracche loro destinate.
La loro divisa, tutta consunta, ci faceva capire che era molto tempo che erano stati catturati.
Furono subito adibiti a lavori pesanti e di facchinaggio.
Non abbiamo mai visto distribuire loro del cibo all’interno del lager. Veniva loro distribuito
sul posto di lavoro e consisteva in una brodaglia di barbabietole rosse da foraggio e null’altro.
Alla sera, rientrati dal lavoro tutti sofferenti perché costretti a lavorare a suon di frustate,
venivano presi a caso dieci di loro e puniti nel modo che descrivo.
Nel cortile venivano disposti dieci scanni a distanza di due metri circa l’uno dall’altro. I
dieci prescelti dovevano prendere posto uno per scanno, inginocchiarsi e posare il proprio dorso
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nudo sullo scanno stesso. Altri dieci Ebrei muniti di frusta dovevano colpire il loro compagno fino a
quando usciva dalla schiena il sangue in modo abbondante. Questi ultimi venivano a loro volta
obbligati a colpire sempre più forte i loro amici di sventura perché colpiti dalle bastonate delle SS
schierate dietro di loro.
Questa scena che suscitava in noi un senso di orrore si ripeteva tutte le sere.
Ed intanto la catasta dei cadaveri dietro la baracca n. 3 aumentava di decine e decine di
salme ogni giorno. I venti gradi sotto zero provvedevano alla loro conservazione.
Quando le SS constatarono che da questi esseri umani non potevano più trarre alcun
vantaggio per il lavoro, in quanto sfiniti e debilitati, decisero la loro fine.
Come nei casi precedenti vennero utilizzati i barconi, trascinati al largo ed affondati nel
mare. Era la fine dell’aprile del 1944. A detta dei lavoratori del porto con i quali ci siamo sempre
tenuti in contatto, essi hanno affrontato la morte con molta rassegnazione.
Un giorno mi venne spontaneo aiutare quattro ebrei che anziché portare un loro compagno
morente, lo trascinavano. Non avevano evidentemente più la forza. Non lo avessi mai fatto: la SS
che li accompagnava nel rientro in lager mi puntò rabbiosamente il fucile e dovetti scappare di
corsa.
Terzo massacro – maggio 1944.
Verso il 15 maggio arrivano circa 950 ragazze Ebree, ed occupano nuovamente la baracche del
lager loro destinate. Tutte le mattine venivano accompagnate sul posto di lavoro sempre dalle SS,
dove consumavano anche la solita brodaglia composta da barbabietole rosse da foraggio e
null’altro.
Alla sera, al loro rientro dal lavoro, ogni SS si sceglieva la ragazza con la quale trascorrervi
la notte, mentre le altre venivano chiuse nelle baracche. Nessuna poteva stare fuori. Mi faceva tanta
pena vederle incamminarsi a testa bassa verso il luogo dove pernottavano le SS. Ogni sera
sceglievano sempre ragazze diverse.
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Un mattino il Lagerfurer mi invita a seguirlo in una periodica ispezione che faceva alle
baracche. Lo seguo ed alla baracca n. 7 trovo una decina di miei commilitoni seduti a cerchio che
confabulano tra loro; avevano tutti marcato visita regolarmente.
Giro lo sguardo e mi accorgo che tra i letti a castello c’era una persona nuda che
tranquillamente si stava facendo il bagno dentro un secchio. Osservo subito che è senza il …
campanello (chiedo scusa, ma non trovo la parola appropriata). Mi avvicino ed esprimo tutta la mia
meraviglia per aver perso la parte più Nobile del corpo in combattimento. Al che mi risponde in
lingua tedesca “sono un’ebrea”.
A questo punto credevo di svenire per la responsabilità che io avevo verso gli altri in qualità di
‘fertrauesman’ (uomo di fiducia) all’interno del lager, compito veramente ingrato.
Mi rivolgo ai miei commilitoni (fortunatamente il Lagerfurer non capiva l’italiano) e dico
loro con tono molto energico “siete degli irresponsabili, sapete cosa potrebbe succedere anche a noi
nel caso di una ispezione da parte delle SS”.
Ho subito pensato che se ce n’era una in quella baracca, certamente altre si trovavano in
quelle da noi occupate. Chiedo ai compagni di dirmi almeno dove non dovevo portare il Lagerfurer.
Tutti abbassano la testa e nessuno risponde.
Per togliermi dall’imbarazzo ed anche perché il Lagerfurer non si accorgesse di niente lo
porta alla baracca n. 6 dove c’erano cinque commilitoni a casa dal lavoro; tutti avevano marcato
visita regolarmente.
Nel frattempo mi era tornata la calma e torno a chiedere ‘ditemi dove non lo devo portare,
ho già capito tutto quello che avete combinato’. Uno di loro mi da le giuste informazioni ed
usciamo indenni dall’ispezione.
Il Lagerfurer alla fine del giro si congratula per aver trovato tutto il settore italiano in ordine, mi
stringe la mano e se ne va. Per me non sarebbe stato tutto regolare nel caso di un’ispezione da parte
delle SS, com’era già avvenuto altre volte.
A questo punto convoco i capi baracca per esaminare la situazione e trovare il modo di risolverla.
All’interno del nostro lager stavamo ospitando 37 ragazze Ebree.
Bisognava con urgenza farle uscire dal nostro campo, ma portarle dove? E come? Non era più
possibile tenerle all’interno delle nostre baracche perché incombeva il rischio dell’ispezione da
parte delle SS.
Mi decido a chiedere un breve permesso di due ore al Lagerfurer, me lo concede.
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Mi reco nella parte di lager occupato dai francesi, dove incontro il loro tenente cappellano che già
conoscevo ed al quale espongo la situazione.
Il cappellano mi presenta il loro capitano medico. I francesi disponevano di un locale abbastanza
capiente ed attrezzato per la cura dei propri prigionieri. Vagliamo diverse ipotesi ed alla fine il
medico mi dice: ”se sei capace di portarle fino qui sono salve. Io le ricovero come fossero
prigionieri francesi nello scantinato, purché tengano le braccia sotto le coperte (in modo da non far
vedere il tatuaggio), poi aggiunge … tanto la guerra fra non molto è finita. L’Armata Rossa è alle
porte di Königsberg ... ed era vero”.
Rientrato dal breve permesso riferisco tutto ai capi baracca, tutti sottufficiali come me, ed assieme
esaminiamo le due possibilità per salvare le 37 ragazze Ebree.
Prima ipotesi.
Farle uscire attraverso i reticolati, di notte naturalmente, ma esse non avevano la forza di sollevarli
né l’agilità per potere fare velocemente. Nel caso fossero state anche capaci di farlo sarebbero state
facilmente riconosciute e quindi ricondotte nel lager (nel loro naturalmente, e non più nelle nostre
baracche).
Seconda ipotesi.
Confonderle insieme ad una squadra di nostri connazionali che quotidianamente si recavano al
lavoro; era una soluzione più pericolosa per noi nel caso fossimo stati scoperti, ma molto più sicura
per le ragazze. Abbiamo scelto questa seconda soluzione. In questo caso però bisognava tenere
conto che alla sera si doveva rientrare con il medesimo numero di prigionieri con il quale si era
usciti il mattino.
Il progetto era il seguente: 37 nostri connazionali dovevano uscire dal lager dal di sotto dei
reticolati, recarsi nelle vicinanze dell’ingresso dei cantieri navali e tenersi ben nascosti in attesa del
nostro arrivo.
Dovevamo uscire dal lager vigilatissimo con uno squadrone composto da 103 uomini tutti alti e che
in aggiunta aveva le 37 ragazze mescolate, in modo da formare esattamente 35 quadriglie per un
totale di 140 uomini. Per uscire regolarmente attraverso il corpo di guardia bisognava essere sicuri
di non venire né controllati né perquisiti.
Avevo un amico fra le guardie, di quelle che contavano, ed alla quale ho dato qualche pacchetto di
caffè da me rubato in un posto che conoscevo alla stazione Nord; e la guardia mi era sempre stata
riconoscente. In questo modo ho saputo il giorno preciso in cui era di servizio.
A questo punto stabilii l’appuntamento con il Capitano medico e con il Tenente cappellano francesi.
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Si organizza l’uscita dal lager. Uno spirito improntato ai migliori ideali umani regnava tra i 103
uomini; erano irrequieti come giovani puledri, felicissimi di portare a termine la pericolosissima
impresa. E’ presto, ancora buio, do allo squadrone l’attenti in modo molto marziale. Anche le 37
ragazze scattano sull’attenti – le avevamo bene istruite. Si parte con l’avanti marsch, arrivati davanti
al corpo di guardia do l’alt, saluto militarmente il guardiano amico che si trova al posto di guardia
pronunciando in tedesco il numero 35 delle quadriglie da cui era composto lo squadrone, cioè 140
uomini.
Ci vengono consegnate le due lampade accese che dovevano essere portate, agitandole, dalla prima
e dall’ultima quadriglia in modo da segnalare ad eventuali mezzi in transito la presenza in strada di
prigionieri che si recavano al lavoro molto presto il mattino.
L’amico capoposto mi dice ‘vai tranquillo’ e mi stringe la mano. Non aveva fatto controllare ne
perquisire nessuno. Do quindi allo squadrone l’avanti marsch ed usciamo dal Lager.
Non avevamo fatto neppure 100 metri in direzione dei cantieri navali che incominciamo a cantare
tutti in coro e con voce possente il ‘Va Pensiero’.
Tutte le case ai lati della strada spalancano le finestre salutandoci e battendo le mani mentre a me
tremavano ancora le gambe.
Il Capitano medico ed il Tenente Cappellano francesi erano puntuali ad attenderci e presero in
consegna le 37 ragazze ebree. Corsero a nasconderle con cura prima che spuntasse il sole.
Puntuali anche i nostri bravi 37 giovani usciti dal lager dal di sotto dei reticolati, che si uniscono
subito al gruppo per entrare tutti insieme per il quotidiano lavoro nel cantiere navale chiamato
Schicau.
Quella sera rientro al lager con lo stesso numero di uomini (140) con il quale ero uscito il mattino,
tutto regolare quindi.
E così le 37 ragazze Ebree sono state messe in salvo.
Tutte le sere il nostro cappellano militare celebrava la Santa Messa nella cappella da noi allestita in
una stanza del campo. Non a caso in quella sera al vangelo pronunciò queste testuali parole.
“Le nostre bestemmie, per le sofferenze che quotidianamente sopportiamo, Dio le accoglie come
preghiere. Ringraziamolo per il grande dono che oggi ci ha fatto nell’aver potuto mettere in salvo
37 giovani vite nostre sorelle in Cristo”.
All’uscita dalla Santa Messa mi si avvicina un collega capo baracca e mi dice: oggi abbiamo avuto
la visita delle SS, l’abbiamo fatta franca per un niente. Era scritto, per chi crede nella provvidenza.
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A portare le ragazze Ebree nelle nostre baracche era stata l’iniziativa di un commilitone bergamasco
spericolato, bello, bravo, buono, generoso e dotato di una forza erculea che si era innamorato di una
di quelle ragazze. Mi sono fatto raccontare da lui come era riuscito nell’impresa.
Ho contato, mi disse, quante erano le SS che vigilavano il campo delle ragazze Ebree, erano undici.
Ho contato quante erano le ragazze che si prendevano per il loro divertimento serale, erano ancora
undici, per cui il loro lager era da considerarsi per alcune ore incustodito.
Sono partito quindi sicuro. Con un palo ho strappato il primo tirante del reticolato, poi il secondo e
sono entrato nella baracca delle ragazze dalla finestra e mi sono tirato dietro la ragazza di cui mi
ero innamorato. Questa appena liberata si è messa a piangere dicendo che aveva con sé anche la
madre. Sono quindi tornato indietro ed ho liberato anche la madre. Per non suscitare sospetti ho
rimesso in ordine i reticolati e mi sono riportato indietro il palo.
E le altre 35? Ho preso gusto e sempre con grande prudenza ed utilizzando la stessa tecnica ho
tirato fuori tutte le altre, due per sera.
E per il cibo? L’ho rubato, ma poi aggiunge: tutti abbiamo rinunciato ad un po’ della nostra razione
in loro favore.
La grandezza d’animo di questo meraviglioso compagno d’armi non si è limitata solo alla
liberazione della ragazza che sentiva appartenere al suo cuore e di sua madre e delle altre 35 ebree e
di assisterle tutte anche con il nostro coinvolgimento; ha fatto anche dell’altro che cercherò di
raccontare come posso, perché penso che nessuna penna al mondo e di nessuno scrittore sarebbe in
grado di descrivere.
Come ho ricordato in altra parte di queste mie ‘Memorie’, noi italiani, i francesi ed i belgi siamo
stati, appena liberati dai russi trasferiti a piedi a Gumbinnen (sempre in Prussia Orientale) che
distava circa trecento chilometri, e da dove poi siamo stati rimpatriati.
Ebbene l’amico bergamasco si è procurato un piccolo carretto a due ruote e su questo ha caricato
madre e figlia esauste e denutrite trainandole fino a Gumbinnen.
Questa marcia di trasferimento è durata quindici giorni!.
Dovevate vederlo come tirava quel mezzo di trasporto, come puntava i piedi su quelle strade
ghiaiose e piene di buche provocate dalle granate; teneva il corpo sempre proteso in avanti e la testa
china per produrre uno sforzo maggiore; era sempre sorridente e mai stanco.
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Giunti a destinazione ha dato un grande sospiro di sollievo: “ce l’ho fatta!”. Le due donne erano di
nazionalità polacca, quindi si trovavano relativamente vicine a casa, che hanno raggiunto da
Gumbinnen in qualche giorno. Salve.
Un mattino verso la fine del mese di febbraio 1945 mi sono recato ai cantieri navali dove
lavoravano quasi tutti i prigionieri italiani. Ai lati della strada c’era tanta neve ricoperta di grandi
chiazze di sangue; ancora oggi dopo tanti anni provo la stessa forte impressione nel ricordare tutto
quel sangue.
Ho potuto così capire che durante la notte e sempre nel massimo silenzio erano state portate al porto
tutte le ragazze ebree presenti nel nostro lager. Quelle rimaste vive naturalmente, perché molte di
loro sono finite sulla grande catasta delle salme dietro la baracca n. 3. Tutto quel sangue era dovuto
al fatto che molte non in grado di camminare perso il porto stremate dagli stenti, sono state uccise
sul posto dalle SS, che poi obbligavano le compagne di sventura a trascinarle fino al luogo
dell’imbarco.
I lavoratori del porto mi hanno descritto come queste ragazze siano salite sui barconi aiutandosi a
vicenda a reggersi in piedi una con l’atra, in silenzio, con una rassegnazione infinita.
Non è stato necessario che le SS intervenissero per sollecitare la loro salita sui barconi. Dopo tante
sofferenze anche per loro era meglio la morte.
Meno di mezz’ora dopo la partenza dal porto abbiamo sentito il grande boato della dinamite che
squarciava i barconi, affondandoli. E la morte liberatrice, da loro tanto desiderata le ha avvolte per
sempre nel candido manto della loro giovanile innocenza.
Quarto massacro – aprile 1945.
Prima ancora che fossero state eliminate le ragazze del terzo scaglione, ovvero del terzo massacro,
vale a dire verso la metà del mese di febbraio 1945, un giorno abbiamo cominciato a vedere in
lontananza una lunga linea nera che emergeva dalla bianca coltre di neve. La linea si muoveva e
lentamente sembrava avvicinarsi sempre di più.
La seguivamo con gli occhi incuriositi, finche ci siamo accorti che effettivamente la lunga fila stava
prendendo la direzione del nostro lager.
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Era una colonna di giovani ebree che furono collocate provvisoriamente, in attesa che si liberassero
le baracche loro destinate, nel nostro cortile.
Queste ragazze erano accompagnate e custodite solo da tre anziani soldati della Wermacht. Erano
stremate dalle sofferenze, dalla fame, dalla sete e dai maltrattamenti.
Collaboravano con i custodi quattro ferocissimi cani lupo che sapevano tenerle in piedi tutte vicine
l’una con l’altra con morsiconi alle gambe; si comportavano come se dovessero accudire un gregge,
ma di persone.
Nel mezzo del nostro lager composto da baracche di legno sorgeva un grande fabbricato in
muratura, precedentemente utilizzato come fabbrica di spago.
Il piano superiore era occupato da noi italiani, mentre il piano inferiore – in questa sola circostanza
e solo durante la notte – dalle ragazze ebree appena arrivate.
Il piano inferiore comunicava con la nostra cucina mediante un portone tenuto perennemente
sprangato, ma che lasciava però al di sotto uno spiraglio di luce non più alto di quattro centimetri.
La sera, le ragazze ebree, fatte entrare nel grande stanzone imploravano di dargli dell’acqua. Con il
coperchio della gavetta, l’unico recipiente in nostro possesso che poteva passare attraverso quella
piccola fessura, gliela passavamo. Le prime volte nel contendersela la rovesciavano, poi – convinte
che da noi ne avrebbero ricevuta fin che serviva – si davano un’ordine. Alcuni volonterosi italiani
passavano la notte in quest’opera di amore e di amicizia verso persone molto più sfortunate. Ma
come dissetare in quel modo circa 950 ragazze? Tante erano le ultime arrivate.
Il mattino seguente, molto presto, il sole non si era ancora alzato, i tre custodi della Wermacht
collocano vicino al muro esterno del fabbricato un tavolino con sopra tre filoni di pane ed un
coltello, mentre i quattro cani lupo fanno uscire all’aperto tutte le ragazze ebree disponendole in
piedi, assiepate una sull’altra come il giorno precedente.
A quelle più vicine alla mia baracca ho potuto offrire alcune caramelle, ed una bella bambina, che
non aveva ancora 14 anni nel ringraziarmi mi dice: ‘sono sei anni che non assaggio queste cose’.
Preparo per loro una gavetta di the bollente, senza zucchero perché non ce n’era, loro mi rispondono
che quel the è troppo freddo.
Finché arriva anche per queste sventurate l’ora del pranzo.
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I tre anziani custodi tagliano a piccoli quadrettini i tre filoni di pane e ne lanciano una manciata qua
ed una manciata la, come si fa con le galline, ma nessuna ragazza si abbassa a raccogliere quei
mozziconi di pane. Ricordo che una ragazza che non riusciva più a reggersi in piedi, si era
accasciata tra la rete ed il palo che la sosteneva ed ha urlato di disperazione per diversi giorni; non
so dove trovasse tanta forza e sempre senza mangiare e senza bere.
Torna di nuovo la sera. I quattro cani hanno provveduto a far rientrare le poverette nello stanzone da
dove imploravano ancora acqua. Da quella seconda sera abbiamo organizzato un servizio vero e
proprio, a turno, per cercare di alleviare per quanto possibile le loro grandi sofferenze.
Ma era sempre tanto poco quello che potevamo fare attraverso quella piccola fessura.
Completato il rientro nello stanzone di tutte le ragazze ebree, sono rimaste sul campo 35 loro
compagne morte di stenti, che sono state raccolte la mattina seguente dalle amiche più in forza e
portate sempre dietro la baracca n. 3 dove ce n’erano già accatastate alcune centinaia.
La fessura di cui ho parlato e che ci serviva per far passare l’acqua alle ragazze ebree, durante il
giorno la tenevamo chiusa con della cenere per evitare di respirare il grande fetore che proveniva
dal loro stanzone provocato dall’odore delle feci e dei cadaveri in decomposizione.
Tutto questo è durato per una decina di giorni, fino a quando cioè non si sono liberate le baracche
occupate dalle prigioniere vittime del terzo massacro di cui ho detto, e realizzato con
l’affondamento dei barconi al largo del porto.
Quella parte di lager, una volta liberato, è stato subito occupato dalle ragazze ospitate
provvisoriamente nel nostro cortile.
Queste disgraziate sono state fatte entrare nelle baracche, dopo di che le guardie hanno sprangato
porte e finestre con assi di legno inchiodate trasversalmente per impedire loro di uscire. Quindi
niente luce, neppure di giorno, niente cibo naturalmente, niente acqua, niente servizi igienici ed in
queste condizioni sono state tenute diversi giorni.
Nel frattempo l’Armata Rossa aveva circondato la città di Königsberg stringendola d’assedio,
mentre la marina militare russa si era schierata ad alcune miglia dal porto.
La tecnica della soppressione delle donne ebree mediante annegamento per questa ragione è stata
abbandonata.
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Sorprende il fatto che i tedeschi abbiano continuato nel massacro degli ebrei pur trovandosi il terzo
Reich in ginocchio ed alla vigilia delle resa incondizionata.
Alla fine del marzo del 1945 vediamo scendere da un camion, proprio all’ingresso del nostro lager,
una ventina di vigili urbani della città di Königsberg e li sentiamo discuter tra loro del modo con cui
aprire le baracche, del modo con cui far uscire le ragazze e di come sopprimerle con un colpo alla
nuca.
Corro subito ad avvisare i capi baracca di quello che stava per succedere. Decidiamo di stare all’erta
tutta la notte, di dormire tutti vestiti pronti all’eventuale reazione nel caso fossimo stati coinvolti.
Mentre prendevamo queste decisioni e discutevamo sul modo eventuale di reagire sentiamo i primi
caratteristici colpi della pistola con il silenziatore.
L’eliminazione fisica delle giovani vite aveva avuto inizio.
Tutti ci siamo procurati un qualche mezzo per difenderci smontando le brande in ferro.
Ho voluto avvicinarmi il più possibile al luogo della carneficina per rendermi conto della realtà di
come si svolgeva il dramma.
I vigili urbani avevano aperto una prima baracca, fatte uscire con l’aiuto dei cani e delle frustate
tutte le ragazze – ma ne hanno dimenticata una - le hanno messe in fila indiana a ridosso della
baracca n. 3 al di là della quale si svolgeva il rito della morte mediante un colpo alla nuca.
E come gli altri miei commilitoni, anch’io quella notte non mi sono svestito per dormire. Ho atteso
con ansia le sei del mattino per dare la sveglia a tutte le baracche: era un mio compito come
fertrauesman (uomo di fiducia). Quella mattina ho deciso di iniziare proprio dalla baracca n. 7 di
fronte alla quale vi era la baracca n. 3.
Sono rimasto impietrito alla vista dell’orribile spettacolo di angoscia e di terrore. Il boia fortemente
indispettito dalla mia presenza ed attenzione lasciò cadere a terra la pistola ed imbracciò il fucile
puntandomelo addosso. Meno male che la baracca n. 7 era vicina e la mi sono rifugiato di corsa.
Riavutomi dal momento di smarrimento i commilitoni mi fanno osservare attraverso il vetro rotto di
una finestra quello che stava succedendo. I vetri delle baracche, per ragioni di oscuramento
antiaereo, erano dipinti di blu; grazie ad un angolo rotto potevamo vedere fuori.
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Così ho potuto vedere una catasta enorme di cadaveri; in tutte le poverette si notava l’assenza di
biancheria intima, avevano solo pelle e ossa.
Ad eseguire questa operazione di sterminio erano impiegati sei militari. Essi non vestivano la divisa
della S.S. tedesca, ma quella polacca di volontari nella S.S. tedesca: era leggermente più chiara, ma
sempre con i simboli della morte sul berretto.
Lo sterminio si svolgeva in questo modo: un militare prendeva dalla fila indiana a ridosso della
baracca n. 3 una ragazza per un braccio, la spingeva con violenza verso il boia, che a sua volta la
ghermiva per i capelli facendole chinare la testa, le sparava un colpo alla nuca e cadeva a terra.
La salma veniva successivamente raccolta dagli altri quattro militari e lanciata con forza sulla
catasta di cadaveri.
L’angolo della baracca impediva alle moriture di vedere quello che stava accadendo alla collega ed
amica che la precedeva.
C’è stato un momento in cui ho potuto osservare un fatto veramente singolare. Una ebrea eludendo
lo sguardo dei militari si affaccia all’angolo ed osserva tutto. Con contegno dignitoso, molto decisa,
si dirige verso il boia, china la testa, riceve il colpo di pistola e stramazza a terra senza farsi toccare.
E finalmente spunta l’alba, le sei S.S. volontarie polacche sospendono la loro delittuosa, infame
azione dopo aver massacrato le ragazze ebree ospitate in quattro baracche e lasciando ancora intatta
la baracca n. 2 ben sprangata con le ultime vittime ancora da eliminare.
Ogni tanto giungeva qualche colpo di artiglieria a conferma dell’avvenuto accerchiamento di
Königsberg da parte dell’Armata Rossa.
Questa situazione ci rendeva molto preoccupati delle conseguenze dell’urto finale che sarebbe
avvenuto tra i due eserciti in conflitto, capace di seminare ancora morte anche tra noi italiani, come
del resto effettivamente succederà di li a poco.
Passarono tre giorni da quella tragica notte e visto che i sei volontari polacchi non si facevano vivi
decidiamo di provare ad aprire la baracca n. 2; cominciamo dalle finestre.
Veniamo investiti da un odore fortissimo e nauseabondo e prima di spalancare la porta lasciamo
correre l’aria per circa due ore. Nel frattempo alcuni di noi mettono a cuocere un centinaio di chili
di patate (tutte rubate naturalmente), ed una volta cotte le portiamo vicino all’ingresso della baracca
n. 2.
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Con molta fatica riusciamo a togliere dalla porte le traverse, una volta entrati non sappiamo dove
mettere i piedi: cadaveri dappertutto, alcuni in avanzato stato di decomposizione. Tutto il pavimento
era imbrattato da feci, sangue da tutte le parti. Le ragazze sopravvissute, alla nostra vista
pronunciavano frasi sconnesse ed incomprensibili, cercavano di sollevare le braccia in segno di
saluto, ma senza riuscirvi. Alcune succhiavano il sangue dalle braccia delle compagne, erano
veramente impazzite.
Le abbiamo fatte uscire aiutandole piano piano, non potevano camminare, ma alla vista delle patate
si sono buttate a terra con una scena indescrivibile.
Ma non tutte si sono rialzate dopo essersi sfamate, a terra sono rimaste 22. Le rimaste vive, ma
quasi morenti erano 262. Con grande fatica le abbiamo fatte rientrare nella loro baracca che si
rivelerà anche la loro tomba.
E qui noi, presi dallo zelo della umana solidarietà, abbiamo commesso involontariamente un grande
errore. Dovevamo dare a quelle poverette in quel giorno solo due patate per ciascuna, il giorno
successivo tre, e poi quattro e così via.
Queste precauzioni nei confronti di persone lungamente denutrite noi italiani le abbiamo imparate a
Francoforte, quando le autorità russe ci hanno consegnato a quelle americane per il rimpatrio. Un
ufficiale medico ci disse: non andate in cerca di altro cibo al di fuori di quello che vi diamo noi,
rischiate di non arrivare a casa adesso che la guerra è finita.
Nel giro di soli tre giorni quelle 262 giovani vite ridotte a scheletri dal sadismo di altri uomini,
hanno trovato finalmente la pace nel lungo sonno della morte.
Dopo aver aperto la baracca n. 2 siamo andati a vedere cosa rimaneva nelle quattro baracche che
contenevano le ragazze sterminate qualche notte prima.
Da una branda abbiamo notato un impercettibile movimento della coperta, ci avviciniamo, la
scopriamo. Era la ragazzina dimenticata, le chiediamo quanti anni avesse e lei con un filo di voce ci
risponde ‘quattordici’ e ci sorrideva; aveva capito che noi eravamo italiani, suoi amici.
Chiamai subito il nostro infermiere per pulirla e metterla in ordine. Indossava gli stivali e nel
toglierli si staccava la carne dalle ossa. Evidentemente da quando era stata catturata non se li era
mai tolti. E lei, pur nel grande dolore che le procuravamo, ci continuava a sorridere fino a quando il
suo respiro divenne affannoso e spirò tra le nostre braccia.
Quel dolcissimo sorriso, denso di tanti e tenti significati, non l’ho mai dimenticato.
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Alla fine di questa mia testimonianza sullo sterminio degli ebrei, personalmente vissuta e sofferta,
desidero ricordare anche una eccezione.
Quasi tutte le mattine, davanti al nostro lager, passava un uomo con il carretto trainato da un
asinello.
Volgeva sempre lo sguardo verso il campo di concentramento degli ebrei, chinava il capo e si
asciugava le lacrime.
Quest’uomo era probabilmente l’unico ebreo di tutta la Germania che Hitler ha dovuto rispettare.
Era infatti decorato di medaglia d’oro al valor militare, guerra 1915-18, e la motivazione dell’alta
onorificenza portava le firme del famoso generale Prussiano Von Hindemburg e dell’Imperatore
Franz Joseph.
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La presa di Königsberg (Prussia Orientale), ultima roccaforte di Hitler.
I bombardamenti aerei della città di Königsberg da parte alleata sono stati quattro. L’ultimo è stato
di particolare intensità.
Eccone la descrizione.
La prima ondata di aerei lanciò sulla città i bengala che illuminavano a giorno la zona da colpire
evitando la periferia della città, dov’erano sistemati i baraccamenti dov’erano concentrati i
prigionieri russi, francesi, belgi ed italiani.
Le ondate successive … sono arrivate le bombe, tante bombe.
Il cielo era stellato e la luce dei bengala ci consentiva di vedere distintamente le fortezze volanti
tanto che le potevamo contare, lente com’erano dato il loro carico e la missione che si apprestavano
a compiere.
La contraerea tedesca era quasi inesistente.
La successione delle ondate era impressionante, passata una ecco che subito ne arrivava un’altra, e
un’altra ancora.
Ne ho contate 22 e ciascuna era composta da almeno una ventina di aerei.
Come ho detto i campi di concentramento dove si trovavano i prigionieri non sono stati interessati
dal bombardamento. Tutti noi quella sera abbiamo assistito ad uno spettacolo terrificante.
Non abbiamo mai saputo quante persone sono morte in città in quella occasione, abbiamo solo
saputo che i senzatetto erano circa 200.000.
Noi prigionieri siamo stati utilizzati per cercare di recuperare i feriti. Ci sorvegliavano alcuni soldati
anziani della Wermacht i quali ci impartivano anche gli ordini dove scavare. Ma disponendo solo
dei badili non riuscivamo a fare gran che di fronte alla enormità delle maceria che avevamo di
fronte. E così molti feriti sono stati lasciati morire.
Nel corso di questo bombardamento è stato distrutto tutto il centro sorico della città, tra cui il
duomo, il castello imperiale e l’Università. Nel duomo ed in altre chiese gli organi erano stati
costruiti e montati da artigiani italiani; ricordo uno in particolare – forse quello del duomo –
costruito da Adamo Gasparini.
Soprattutto i giovani tedeschi – i più fanatici -, dopo ogni bombardamento, organizzavano cortei
con bandiere e labari e cantavano canzoni che inneggiavano alla vittoria finale.
Anche dopo l’ultimo grande bombardamento si è ripetuto il corteo. Lo ricordo bene perché mi ha
dato modo di capire l’orgoglio che sosteneva i tedeschi anche di fronte all’evidenza della disfatta
che si preparava.
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Dunque il corteo, non molto numeroso per la verità, percorre le strade invase dalle macerie, ed ogni
tanto si ferma. Quando si avvicina a noi che eravamo impiegati tra le macerie, fa una nuova sosta.
Vedo con chiarezza che uno dei ragazzi comincia a piangere a dirotto di fronte ad una casa che
fumava ancora, quasi certamente la sua. A quel punto gli si avvicina il ‘capo’ e gli da uno
schiaffone: “un appartenente alla Hitler Jugend (Gioventù Hitleriana) deve fermamente credere
nella vittoria finale e deve mostrarsi fiero e combattivo in ogni occasione”.
I dirigenti dei cantieri navali erano persone realistiche e sapevano bene che la città sarebbe stata
occupata. Quello che volevano in ogni modo evitare era il saccheggio delle attrezzature da parte dei
russi.
Per questo ai primi del mese di marzo del 1945 la direzione dei cantieri ‘Schicau’ decide di
prelevare la maggior quantità possibile di macchinario (frese, torni ecc…) dalle diverse fabbriche e,
dopo averlo ben ingrassato, lo affonda poco fuori del porto. Questo con l’intenzione di non farlo
cadere in mano ai russi, e di poterlo magari riutilizzare a guerra finita quando sarebbero rientrati in
possesso di quel territorio.
Nel profondo, credo che buona parte dei tedeschi, era convinto nella possibilità di rovesciare le sorti
della guerra.
Ma le cose non andranno così.
Ed intanto la città continuava a vivere assediata dalle divisioni russe.
Verso la fine di quel mese di marzo del 1945 i russi, forse per non dover conquistare solo un
mucchio di macerie e perdere troppo uomini, misero in atto una nuova forma di guerra: la guerra
psicologica.
Il loro obiettivo era quello di fiaccare la resistenza degli abitanti e dei militari. E per questo, da quel
giorno in poi, tutte le sere e per tutta la notte una imponente batteria di altoparlanti diffondeva la
voce perentoria del generale comandante dell’Armata Rossa che invitava i ‘valorosi soldati
tedeschi’ alla resa incondizionata.
Ascoltare quella voce nel buio che tutte le sere martellava l’invito alla resa per avere salva la vita,
faceva venire il pelo diritto.
Credo che non abbia sortito alcun risultato.
Si arriva così all’ottava di Pasqua del 1945.
Porto un ricordo ancora vivissimo di quel triste mattino di aprile, si preannunciava una giornata
tersa, scintillante nei colori della primavera che riprendeva il proprio ciclo vitale.
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Avevo da poco dato – come ogni mattina - la sveglia ai miei compagni di prigionia, molti dei quali
erano già in piedi e passeggiavano respirando a pieni polmoni l’aria profumata, in attesa di essere
incolonnati verso il lavoro ai cantieri, quando migliaia di bocche da fuoco iniziano a rovesciare
sulla città il loro carico di distruzione.
I russi avevano potuto raccogliere attorno a Königsberg nelle settimane precedenti tutte le forze che
si erano liberate dai fronti già caduti.
Il loro obiettivo non era una particolare zona della città, ma la sua distruzione totale.
I colpi sono incominciati a cadere sulla periferia, dove c’era anche il nostro campo ed in questo
frangente anche per molti di noi non c’è stata via di fuga.
Senza preavviso non abbiamo potuto prepararci un qualche riparo. Io stesso non so come sono
riuscito a salvarmi. Le bombe sono cadute ininterrottamente per un’ora facendo del nostro campo
uno sfracello. E dove fino a poco prima c’era la vita di tanti giovani prigionieri, quando ho potuto
rialzare la testa – alla prima pausa del bombardamento – ho trovato una distesa di cadaveri.
Morti dilaniati dappertutto, lamenti dei feriti, impossibilità a soccorrerli privi come eravamo di
qualunque medicinale.
In quella circostanza ho perso tanti carissimi amici con i quali avevo condiviso stenti, rischi, fatiche
… ho ripercorso in un attimo tutta la nostra odissea cominciata in Montenegro, e che per molti di
noi finiva a brandelli insanguinati sulle rive del Baltico a migliaia di chilometri dalle nostre case.
Dopo una breve interruzione per sistemare di qualche grado gli strumenti di puntamento che
consentissero una gittata più lunga, l’inferno ricomincia cinquecento metri più avanti verso la città.
E così di bombardamento in bombardamento, con brevi soste per allungare il tiro arriva l’imbrunire.
E’ proprio vero che in situazioni così estreme non si è più in grado di ragionare, e si prendono
decisioni del tutto illogiche, dettate solo da quell’innato istinto di sopravvivenza che ciascuno di noi
porta dentro.
Del nostro lager non era rimasto praticamente niente. Sembrava un grande campo - in autunno quando sono finite le arature pieno di zolle e buche e corpi dilaniati dappertutto.
Presi dal terrore per una possibile ripresa dei bombardamenti e constatato che per molti dei nostri
amici non c’era più niente da fare, un gruppetto di noi arrivata la sera e cessato il bombardamento si
incammina verso il centro della città.
Com’è facile capire, a quel punto guardie non c’erano più, ognuno doveva badare a se stesso, e
cercare di cavarsela.
Al buio tra rovine, lamenti che venivano da ogni parte arriviamo in Parade Platz, al centro della
città. Chissà cosa ci diceva che lì saremmo stati al sicuro. Forse ci sorreggeva la speranza che i russi
si sarebbero fermati ad un certo punto.
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Alle prime luci dell’alba del giorno dopo cerchiamo di capire dove siamo finiti, facciamo solo in
tempo a vedere che non lontano c’è un rifugio, che riprendono a cadere le granate, sempre più
vicino al punto in cui ci trovavamo.
Io e l’amico che avevo più vicino, dopo un cenno d’intesa, corriamo a gambe levate verso il rifugio
e ci mescoliamo con la gente che era lì già dal giorno prima.
E’ stata la nostra salvezza.
Subito dopo infatti una squadriglia di bombardieri russi ha completato la distruzione di qel poco che
rimaneva in piedi al centro della città.
La baracca dove avevamo trovato riparo per una parte della notte, e dove erano rimasti alcuni dei
miei amici, tra cui Bruno Gaffurini e la segretaria del Consolato Italiano di Königsberg, centrata in
pieno da una bomba venne completamente disintegrata e tutti morirono.
Desideroso di poter essere di un qualche aiuto a coloro che davano ancora segno di vita cerco di
raggiungere l’ospedale, non troppo distante. Quando lo intravedo capisco che non rimane niente da
fare, era del tutto distrutto, le macerie erano un groviglio di letti, pazienti, medici ed infermieri.
Gemiti disperati provenivano dai feriti. Ma a chi dare ascolto tanta era la distruzione, la polvere, il
fumo che gravava su tutta la città.
In questa situazione decido di ritornare rapidamente al bunker che mi aveva salvato la vita.
Nel bunker tutti ad aspettare qualcosa o qualcuno.
Verso il pomeriggio inoltrato arrivano le avanguardie russe. Di fronte ai fucili spianati alziamo le
mani in segno di resa e facciamo capire che siamo italiani. Tra queste avanguardie c’erano alcune
soldatesse russe, che ci ispezionano da cima a fondo e dopo un po’ ci fanno segno di seguirle per
uscire dalla zona dei combattimenti. Dietro a loro mi metto alla testa di un misero drappello, forse
una quindicina di noi.
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Violenze e sevizie degli occupanti.
Ci incamminiamo verso la direzione che le soldatesse ci indicavano.
Lungo il percorso si unisce al nostro drappello una signora tedesca, che ci disse essere moglie di un
capitano della Wermacht. Sia la signora che la figlioletta che aveva con sé, molto provate dagli
stenti e dalle sofferenze, facevano veramente pena.
Lungo il tragitto ci imbattiamo in un soldato russo completamente ubriaco che si divertiva a roteare
la propria pistola sull’indice della mano destra.
Ci fa sedere tutti sul ciglio della strada, controlla a ciascuno di noi le scarpe e visto che nessuno
portava la sua misura, ci lascia andare.
Dentro la camicia aveva nascosto una sveglia, rubata in qualche casa abbandonata, e mentre ci
stiamo alzando lentamente per riprendere il cammino, la sveglia comincia a suonare. Di scatto se la
toglie di dosso, la lancia lontano e gli scarica contro tutto il caricatore della pistola, forse non ne
aveva mai viste e quindi di fronte ad una novità era stato assalito dalla paura.
Man mano che si procedeva incontravamo solo distruzione e morte, tutto era uno sfacelo. Verso
l’imbrunire le nostre guardie decidono di farci fermare vicino ad una stalla per trascorrere la notte.
Rimaneva in piedi ancora un po’ di copertura e del fieno che abbiamo utilizzato per materasso.
Abbiamo trovato in una specie di sottoscala una brandina che abbiamo ceduto volentieri alla signora
perché potesse riposare meglio con la sua bambina.
Ci prepariamo a trascorrere una notte ‘tranquilla’ ormai in mano ai vincitori, dopo tante di paura e
di tensione. Per qualche minuto teniamo accesa una candela che ci faceva compagnia per le ultime
chiacchiere. Quella flebile luce è però bastata per guidare verso il nostro ricovero dei soldati russi in
perlustrazione.
Tra le macerie sentiamo dei passi e poco dopo la nostra candela illumina il volto di un soldato russo
che ci spiana contro il proprio fucile. Si guarda bene tutto intorno quasi a voler scoprire qualche
soldato tedesco sfuggito all’annientamento, ci chiede qualcosa in russo, noi rispondiamo con quella
specie di lasciapassare che avevamo imparato in fretta: ‘talianski’.
Sta per andarsene quando butta lo sguardo sulla ragazzina. In un attimo la afferra e cerca di abusare
di lei incurante delle sue urla. La madre spinta dall’istinto materno si butta sul soldato, lo afferra al
collo e gli fa capire di prendere lei e di lasciar stare la bambina. E così succede.
Nel frattempo arriva tutto il drappello di cui quel soldato faceva parte, e tutti a turno - erano 21 –
abusano di quella povera donna.
Alla fine era svenuta, mentre la bambina si era addormentata tra le braccia di un commilitone che
con umanità le teneva la mano sul visetto per risparmiarle la vista di quella scena inumana, ed alla
quale tutti noi abbiamo dovuto assistere terrorizzati.
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Partiti i russi mi alzo da giaciglio e mi avvicino alla donna per capire come sta. La chiamo e non
ricevo risposta, era svenuta. La ricopro per ridarle un minimo di dignità ed aspettiamo che faccia
giorno. A nessuno di noi era tornata la voglia di dormire.
Il mattino seguente ci rimettiamo in cammino, anche la donna tedesca e la sua bambina che nelle
poche ore si era un po’ ripresa. Ci trovavamo sempre alla periferia della città lungo i binari che
portavano alla Stazione Nord. Qui incontriamo un altro gruppo di prigionieri: francesi, belgi ed
italiani; ci aggiungiamo a loro in attesa che i russi ci dicano cosa fare o dove andare.
Mentre chiacchieriamo del più e del meno, quasi ad esorcizzare gli orrori di tutti i giorni, un collega
mi dice “ … meno male che c’erano le donne”. Ed io: “non capisco”.
Lui di rimando: “… sei ancora uno sbarbatello, non hai capito che se i russi non trovavano le donne
sulle quali sfogare i loro istinti sessuali, le sevizie sarebbero toccate a noi”.
Mi racconta che in quei giorni aveva visto i russi che tutte le volte che incontravano qualche donna
tedesca la assalivano in gruppo e la violentavano incuranti di chi c’era li presente. La stessa terribile
sorte era capitata anche a tre suore del vicino ospedale che agitavano sul viso dei russi il crocifisso
nella speranza di farli desistere, ma le suppliche non sortirono alcun effetto.
Ad una donna, dopo averla violentata in diversi di loro, le infilarono un manico di scopa
provocandone una morte orrenda.
Di queste atrocità i tedeschi erano informati già prima della capitolazione. La stampa locale
descriveva come l’Armata Rossa nell’entrare in territorio tedesco massacrava sistematicamente
molti degli abitanti e le donne dopo averle violentate.
Ho avuto notizia di molti casi nei quali il capofamiglia, nell’intento di risparmiare ai propri cari una
fine così orrenda, si incaricava di ucciderli personalmente, cominciando dai figli, poi la moglie ed
infine togliendosi la vita.
Gli alleati fecero di tutto per evitare che l’Armata Rossa penetrasse troppo in profondità nel cuore
dell’Europa. Nonostante questo i russi riuscirono ad entrare a Vienna ed a rimanerci per quattro
giorni durante i quali si macchiarono di decine di migliaia di stupri.
Ci trovavamo quindi – sempre in attesa di ordini - in un punto strategico, vicini come eravamo alla
Stazione Nord della città. E così potemmo osservare che i russi stavano preparando interi convogli
ferroviari con i carri pieni di prigionieri tedeschi.
Deportazioni in massa e Miseranda fine di una gloriosa città.
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Concentrati a Gumbinnen in attesa del rimpatrio
(italiani, francesi, belgi e polacchi).
Chiesa di Salisburgo a Gumbinnien,
costruita per i protestanti, e trasferita fuori di Salisburgo al tempo della reggenza di
Federico Guglielmo 1°.
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Nella marcia per raggiungere Gumbinnen – distante da Königsberg 250 chilometri - si unirono a noi
moltissime ragazze polacche, circa 200, deportate in Germania perché utili come forza lavoro.
Durante la sosta notturna ci chiesero di nasconderle, per il sonno, con il nostro corpo: i soldati russi
che ci accompagnavano non dovevano infatti accorgersi della loro presenza, altrimenti le avrebbero
senz’altro violentate.
Dormivamo naturalmente nei prati e sotto le stelle, avvolti nel telo da tenda.
Fortunatamente non è mai piovuto. Le ragazze da Gumbinnen raggiunsero poi la loro Polonia, a
piedi e in pochi giorni.
A Gumbinnen ci ammassarono in una piazza. Il maggiore russo che ci comandava chiamò tutti i
sottufficiali, affidò a ciascuno 120 uomini e le indicazioni sul luogo dove sistemarci. A me
consegnò, come del resto a tutti gli altri sottufficiali, una fascia rossa da mettere sul braccio sinistro
con la scritta “ROTA COMPANI”. Diventai così il comandante della seconda compagnia facente
parte del terzo Battaglione.
Prima di sciogliere quel raduno ci avvertì in tono perentorio che all’indomani dovevamo presentarci
alle ore sette del mattino, in questa stessa piazza, per andare a lavorare.
Ci presentammo. Ci portarono sul posto di lavoro dove trovammo un mare di cannoni, di
mitragliatrici e mortai, preda bellica, tutti da smontare per essere poi inviati in fonderia.
Dopo alcuni giorni il Maggiore Russo si accorse che il lavoro assegnato alla mia compagnia non
andava avanti e scoprì che diversi miei soldati se la squagliavano subito dopo il loro arrivo sul posto
di lavoro.
Mi chiamò nel suo ufficio e mi disse:” Non sei capace di farti ubbidire, è per questo che avete perso
la guerra. L’esercito italiano ha degli ufficiali e dei sottufficiali buoni a niente. Ora la tua
compagnia sarà smembrata. Trenta uomini dovranno andare subito all’ospedale militare femminile
dove ci sono 262 soldatesse con malattie veneree, servono anche due elettricisti e quattro muratori.
Fammi avere subito i nomi e per gli altri 90 … ci penserò io a raddrizzarli”.
Accompagnati da un soldato russo andammo a piedi all’ospedale militare, distante una decina di
chilometri. Si trattava di un piccolo agglomerato di case che non aveva subito danni dalla guerra,
adibito alla cure delle soldatesse dell’Armata Rossa.
A riceverci c’era un maggiore medico, piuttosto anziano, che ci diede subito le prime disposizioni:”
Andate per le case e prendete tutte le vasche da bagno in ghisa, e disponetele in fila lungo il fiume.
Sotto di esse, perché stiano sollevate dal terreno, mettete dei mattoni; poi riempitele fino a metà
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d’acqua, attingendola dal fiume. Sotto le vasche dovete accendere il fuoco per intiepidire l’acqua.
Questo lo farete domani mattina e poi tutti i giorni. La legna la troverete nel bosco oppure tra i
ruderi delle case distrutte. Voglio che tutto sia pronto entro questa sera perché da domani mattina le
pazienti devono incominciare a farsi il bagno. Voi naturalmente dovrete provvedere al risciacquo
delle vasche e a riempirle di nuovo affinché altre possano lavarsi”. Poi chiamò i due elettricisti e li
portò in sala operatoria per mostrare loro il lavoro che dovevano fare e aggiunse:”Voi andate avanti
con il vostro lavoro e io vado avanti con il mio”. Così i due miei commilitoni eseguirono le
riparazioni richieste fra la molta polvere e le urla delle pazienti sottoposte a raschiamento.
Alla sera, prima di lasciare gli uomini e rientrare al mio accantonamento, dissi loro che se
desideravano veramente riabbracciare la loro famiglia dovevano evitare di andare con quelle donne.
Passarono solo tre giorni da quel mio ammonimento quando uno di essi mi confessò di non aver
ascoltato le mie raccomandazioni e di sentire dei forti disturbi, voleva da me dei consigli.
Eravamo tutti e due appoggiati al davanzale di una finestra dalla quale si scorgeva un grande ponte
e al di sotto il fiume. Dissi:” Per quanto ne so il tuo male al giorno d’oggi è incurabile. Io non avrei
il coraggio di presentarmi a casa in quelle condizioni; tra l’altro è anche un male verso il quale
nessuno sente pietà, anzi il massimo schifo verso la persona che lo ha contratto.
Se fossi in te raggiungerei quel ponte, mi lascerei cadere nel vuoto e eviterei agli amici e soprattutto
ai parenti il dispiacere e la vergogna di venire a conoscenza delle ragioni per le quali hai contratto
questo male. Finché muori in zona d’operazioni sei un caduto per la Patria e vieni onorato come
tale; se invece rientri sarai disprezzato da tutti”.
Si mise a piangere e ritornò dai suoi amici all’ospedale.
Dopo alcuni giorni andai a trovare i miei uomini distaccati presso l’ospedale e così potei incontrare
nuovamente il ragazzo malato. Si era molto aggravato: i testicoli erano diventati talmente grossi da
non poter sopportare il loro peso. Con l’aiuto di un commilitone tagliai il suo cappotto per fare così
un sospensorio da mettere a tracolla. Non poteva nemmeno camminare, gli facemmo delle
stampelle con due scope capovolte.
E venne l’ora del rimpatrio. Vidi rientrare dall’ospedale solo 29 uomini, il trentesimo era rimasto là
perché non riusciva a camminare.
Riferii il fatto al Maggiore Russo, nostro comandante. Mi disse di andarlo a prendere. Mi fece avere
una carriola e io andai. Nessuno volle darmi una mano.
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Partii di buon mattino e in poco più di tre ore arrivai all’ospedale. Lo caricai sulla carriola
avvertendolo che quella non era una poltrona e di limitarsi nei lamenti…Feci ritorno
all’accantonamento verso le quattro del pomeriggio e assegnai al malato, per il riposo notturno, un
sottoscala, in modo che non disturbasse nessuno. Erano mesi che non si lavava e puzzava
tremendamente.
Era il 15 settembre 1945 e quella tradotta tanto desiderata era pronta alla stazione di Gumbinnen per
portarci in Patria. Salimmo tutti, quaranta per carro ferroviario, e già ci sembrava di essere in Italia.
Eravamo felici.
Mi sentii chiamare, era il soldato ammalato che implorava aiuto, mi disse che dal vagone riservato
agli ammalati lo avevano cacciato e che io, suo comandante, dovevo proteggerlo. Gli porsi la mano
e lo aiutai a salire sul mio vagone. Nessuno degli occupanti protestò.
Il treno partì e in circa un mese raggiunse Francoforte. Ci fecero scendere e accampare in un grande
prato li vicino. Per due notti dormimmo sotto le stelle avvolti nel telo da tenda, chi ce lo aveva
ancora naturalmente.
In questi due giorni ci fecero fare il bagno, e funzionava anche un ambulatorio gestito da personale
medico femminile. Convinsi l’ammalato ad approfittarne e lo accompagnai. Davanti ai medici si
mise a singhiozzare. Lo invitai a calare i pantaloni, perché non conoscevo la lingua russa. I medici
si misero le mani nei capelli e lo vollero ricoverare subito in ospedale.
Di li a poco arrivò un mezzo di trasporto molto economico: un carrettino a quattro piccole ruote con
su un sacco di farina, trainato da un soldato russo. Vi salì con le sue stampelle e il sospensorio
allacciato alle spalle. Lo salutai e da quel momento persi le sue tracce.
Abbandoniamo questo triste episodio e ritorniamo alla vita quotidiana di Gumbinnen.
Nelle ore libere, poiché lavoravamo fino all’una del pomeriggio, sorsero diverse attività artigianali:
il mugnaio, il panettiere, l’orefice, il profumiere, il distillatore. Queste attività trovavano una
favorevole accoglienza sul mercato russo fra i militari in transito. Le monete di scambio erano il
tabacco e il pane.
Una sera si presentarono da me sette miei soldati e mi dissero:” noi saremo assenti per circa otto
giorni, ci devi dare presenti tutte le sere, ritiri le nostre razioni di pane e le tieni per te”. Non
aggiunsero altro e li vidi sparire.
Ritornarono dopo otto giorni con un carro sul quale avevano caricato un mulino per macinare
cereali che veniva azionato da un cavallo. Lo collocarono nella grande soffitta e molto
ingegnosamente veniva fatto funzionare da tre coppie di pulegge azionate a mano. Erano stati
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organizzati turni di due ore, in modo tale da far funzionare il mulino ininterrottamente. Così
facendo si riusciva a produrre fino a cento chili di farina al giorno.
Il frumento lo si trovava con una certa facilità perché la deportazione delle famiglie era avvenuta
prima del raccolto, e per trebbiarlo veniva usato il bastone.
Si costruirono i forni con mattoni e argilla, così si ebbe il pane. Naturalmente la produzione era
molto limitata e andava a beneficio esclusivamente degli intraprendenti e dei loro amici.
C’era anche una officina di un idraulico, abbandonata, con dentro un po’ di attrezzatura e tubi di
diverso diametro in ferro zincato, dai quali alcuni esperti ricavavano anelli, fedi, braccialetti, e fatti
poi passare per gioielli d’argento. Questi oggetti andavano a ruba quando, scesi dalle tante tradotte
in transito, arrivavano i militari russi. In tasca i venditori avevano sempre della carta vetrata per
tenere sempre lucidi i “gioielli” perché dopo un’ora erano già ruggini.
Sulla riva del fiume c’erano diversi automezzi in disuso e abbandonati dall’Armata Rossa. Alcuni
commilitoni tolsero l’olio bruciato dai motori e riempirono centinaia di bottigliette trovate in una
farmacia abbandonata, i cui proprietari erano stati deportati. Le tapparono con dei tappi di sughero
tagliati a fior di bocchino così da rendere difficile la loro apertura, e sopra vi spalmarono una goccia
di acqua di colonia. Così l’olio diventava brillantina, e andava letteralmente a ruba. Gli ignari
acquirenti dopo pochi minuti risalivano sul convoglio e si accorgevano della truffa quando ormai
era troppo tardi.
E ora parliamo dei distillatori produttori di grappa.
Dopo essersi procurati una decina di contenitori in ferro abbastanza capienti, li riempirono di bucce
di patate e di altro materiale da essi conosciuto che facilmente trovavano nelle vicinanze delle
cucine russe, e lo facevano fermentare. Avevano costruito un elementare alambicco con dei tubi in
rame trovati in una ex bottega artigiana. Per tappare le varie fessure del coperchio usarono
dell’argilla. E diedero inizio alla produzione. Accesero un tenue fuocherello sotto un recipiente e
dopo 24 ore zampillò la prima grappa. La notizia dell’esistenza di una distilleria arrivò all’orecchio
di alcuni russi che si presentarono subito per l’acquisto del prodotto.
Pronte per la vendita erano dodici bottiglie. Assaggiarono la grappa e dissero “carasciò” che
significa ottima e fecero l’offerta per l’acquisto:” Vi diamo tutta la farina che abbiamo nel cassone
di questo camioncino in cambio delle dodici bottiglie”. Il distillatore capo accettò. Erano 22 sacchi
di farina di frumento da un quintale ciascuno.
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Chissà chi attendeva quel carico. Furti di questo genere erano frequenti anche in casa russa.
Con fulminea decisione i distillatori scardinarono una porta, la stesero per terra poiché tavoli non ce
n’erano, e diedero inizio alla produzione di gnocchi in grande stile.
Su di essa quattro alpini in ginocchio preparavano l’impasto con grande lena, altri due facevano i
gnocchetti, e già la pentola bolliva per accoglierli. Nel giro di un’ora avevamo la pancia piena.
Pur di stare in piedi mettevamo nello stomaco qualsiasi cosa. I russi ci davano alle due del
pomeriggio, ogni giorno, una mezza gavetta di brodaglia composta da barbabietole da foraggio e
patate e alla sera una fetta di pane nero di circa tre etti e null’altro.
Un giorno ci distribuirono dell’avena bollita. Chiedemmo come potevamo mangiarla. Ci risposero
di metterla in bocca, succhiare l’albume e sputare la pula.
La stazione di Gumbinnen era un nodo ferroviario importante. Da qui, finita la guerra,
rimpatriavano i soldati russi impegnati in operazioni belliche in Prussia Orientale.
Ogni giorno ne rimpatriavano migliaia ed era uno scenario avvilente vederli raggiungere i carri
ferroviari, erano dei pezzenti. Sulla schiena portavano non meno di cinque materassi ciascuno, sotto
le braccia biciclette, secchi, pentole: preda bellica naturalmente.
E dire che erano passati 28 anni da quando sulle cupole del Cremino era stata issata la bandiera
rossa. Come gli episodi che ho raccontato dimostrano, mi sono sempre chiesto dov’era il benessere
che quella rivoluzione d’ottobre aveva portato.
Nel corso di una delle passeggiate pomeridiane che facevamo tra amici ci ritrovammo vicini a un
casolare abbandonato, non molto lontano dalla stazione ferroviaria, qui un bambino che non poteva
avere più di tre anni ci venne incontro, ci saltò sulle braccia e ci abbracciò e baciò tutti. Ci prendeva
per le gambe e non voleva staccarsi. Era un vero amore. L’amico Iorio, maresciallo, si mise a
piangere dicendo:” a casa ne ho anch’io uno così…”.
Era pulito come un confetto, aveva le scarpette marron lucidissime, i calzetti bianchi candidi, la
camicetta pure candida. Sulle spalle portava uno zainetto con due canottierine e due paia di
mutandine fresche di bucato. Aspettammo ore e ore per vedere se qualcuno veniva a prenderlo, ma
nessuno arrivò.
Stava calando la sera e decidemmo di portarlo nel nostro accantonamento e lasciarlo sulla porta del
Comando Sovietico. I russi gli davano si da mangiare, ma lo vedevamo sempre giocare sulla strada
e quindi era come abbandonato.
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Quattro commilitoni, sensibilissimi al caso di questo bambino, padri di famiglia, sapendo che nei
pressi di Insterburg, ad una quarantina di chilometri di distanza, vi era un concentramento di donne
tedesche, si misero in cammino portando sulle spalle il simpaticissimo bambino.
Si fermarono nelle vicinanze del campo finché videro una donna uscire e glielo consegnarono. Il
piccolo angioletto l’abbracciò affettuosamente e questa così divenne la sua nuova mamma.
Chissà che fine aveva fatto la sua vera mamma, una madre esemplare a giudicare dal modo con il
quale teneva la sua piccola creatura. Quale dolore fu per lei vedersi strappare dalle braccia quel suo
piccolo grande amore…
I quattro uomini fecero ritorno all’accantonamento dopo quattro giorni, felicissimi di aver trovato
per il piccolo una nuova famiglia. Durante il tragitto se lo contendevano l’un l’altro: carezze sul
volto e baci sui capelli non si contavano.
Un pomeriggio mi allontanai dall’accantonamento da solo, strada facendo vidi in un casolare uno
straccio ad asciugare: era un segno di vita e entrai. Trovai una nonnina con a fianco la nipotina di
otto anni accanto al focolare acceso.
In quella casa non c’era nessuna suppellettile, nessuna sedia. Come ovunque ogni oggetto era stato
portato via con i camion. Chiesi alla bambina se aveva la mamma e mi disse che era in un’altra
stanza. Chiesi cosa mangiassero e mi mostrarono le radici di erbe appena raccolte nei campi, lavate
e pronte per essere cucinate.
Mi dissero che si trovavano ancora li nella loro casa perché scapparono e si nascosero nel bosco
appena videro in lontananza il camion della deportazione. Quando rientrarono trovarono la casa
spoglia: non più vestiti, coperte, pentole, nulla. Dormivano tutte e tre sulla paglia e si avvicinava
l’inverno. La distanza tra un casolare e l’altro era chilometrico, e tutti erano disabitati a causa delle
deportazioni.
Il primo maggio 1945 venimmo ammassati nella grande piazza di Gumbinnen. A ciascuna
compagnia fu consegnata una bandiera rossa con falce e martello con la quale dovemmo sfilare, a
passo di parata, davanti alle Autorità russe. Uscite vincitrici dalla guerra, ritenevano naturalmente di
aver conquistato anche le nostre coscienze.
Durante la nostra permanenza a Gumbinnen ci accorgemmo che la terribile polizia sovietica
chiamata G.P.U., l’attuale K.G.B., si era messa alla ricerca dei fascisti, destinati alla deportazione in
Siberia.
I nostri due cappellani militari si presentarono spontaneamente alla G.P.U. dichiarando di essere
sacerdoti cattolici. Non li vedemmo più.
C’erano anche tre cappellani francesi e uno belga, ma non furono toccati.
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La deportazione in Siberia toccò ingiustamente a una sessantina di soldati italiani colpiti da vili
delazioni da parte di connazionali.
Anch’io fui messo sotto torchio dalla bestiale G.P.U. All’ufficiale che mi pose una serie di domande
incalzanti al fine di sapere se io ero fascista gli dissi: “non sono mai stato fascista”. E aggiunsi:
“Durante la mia prigionia a Königsberg nascosi nella mia baracca due ufficiali superiori della
Armata Rossa, e per diversi mesi”. Rispose: “Lo sappiamo”.
Nel congedarmi mi invitò a fare un giro per i reparti per vedere se c’era qualche fascista per poi
riferirglielo. Mi recai dopo alcuni giorni dall’ufficiale della G.P.U. e gli riferii di aver controllato
accuratamente gli appartenenti il mio battaglione e di non aver trovato alcun fascista. Anche se lo
avessi trovato, mai e poi mai mi sarei macchiato dell’infamia di cui godono i delatori. Essi hanno
rovinato degli innocenti unicamente per soddisfare le loro ambizioni.
All’uscita dall’interrogatorio non trovai ad attendermi il camion della deportazione come invece
accadde a tanti commilitoni prima di me.
Un giorno venne tra noi un maggiore dell’Armata Rossa, piuttosto anziano, e ci chiese se tra noi
c’era qualcuno che desiderava ascoltare alcuni pensieri su Carlo Marx. Pensai che fosse utile
mostrarmi interessato, accettai per primo e come me fecero altri, senza sentire peraltro alcun
interesse per quella dottrina. Si trattava di tornare a casa, quindi bisognava fingere di essere
pienamente d’accordo con loro.
Ci sedemmo sul prato attorno a lui ma di Carlo Marx non disse una sola parola. Ci chiese se la
Russia aveva fatto bene a uccidere tutti i ricchi, nemici del popolo, al che tutti noi, dopo esserci
strizzati l’occhio uno con l’altro, rispondemmo con un prolungato applauso. E tutto contento ci
disse bravi, bravi!
Parlò poi della presenza delle donne nell’Armata Rossa e ci informò che, in tempo di guerra, erano
obbligate a svolgere il servizio militare dai 21 ai 30 anni e potevano raggiungere al massimo il
grado di capitano. Prese nome e cognome di tutti. Eravamo promossi.
E venne il momento del rimpatrio.
Eravamo tutti esultanti nel sapere che presto potevamo riabbracciare i nostri cari, dopo cinque
lunghi anni di guerra.
Non fu così per tutti.
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Venne fatto salire sui carri ferroviari il primo scaglione e allontanati tutti i curiosi. Sul marciapiede
che costeggiava la linea ferroviaria rimasero il maggiore russo, nostro comandante, e l’ufficiale
della G.P.U. con un foglio di carta in mano ed accanto l’interprete.
L’ufficiale della G.P.U., aiutato dall’interprete, fece scendere dai carri ferroviari in partenza per
l’Italia una quindicina di connazionali che vennero fatti poi salire su di un camion che li attendeva
fuori dalla stazione.
Da quella chiamata capirono tutta la tragedia in essa racchiusa. Le lacrime che scendevano dai loro
occhi sembravano goccioloni di pioggia. Li salutammo da lontano, ma loro non avevano nemmeno
la forza di risponderci, neanche un gesto della mano. Non rientrarono in Italia. I loro corpi riposano
in Siberia, dove nessuna persona cara ha mai potuto depositare sulla loro tomba un fiore o recitare
una preghiera.
Dopo otto giorni partì un secondo scaglione e si ripetè il medesimo angoscioso fatto. Chissà a quei
delatori, ignobili persone che causarono ingiustamente queste orrende sentenze della G.P.U., se il
rimorso, quel sentimento di dolore per aver ingiustamente accusato di essere fascisti buoni e onesti
amici, li ha lasciati vivere tranquilli e sereni una volta ritornati ad una vita normale.
Una sera, dopo questa seconda sconfortante amarezza, ero appoggiato al davanzale della mia
finestra e potei sentire alcuni soldati appartenenti alla compagnia da me comandata commentare,
molto preoccupati, i provvedimenti della G.P.U. e dire: “Quando rimpatrierà il nostro scaglione
toccherà senz’altro al nostro sergente Rustico scendere dalla tradotta e salire sul camion che porta in
Siberia”.
Mi si strinse il cuore al pensiero che non avrei mai più potuto vedere la mia famiglia che tanto
amavo.
Il fatto di aver tenuto nascosti due ufficiali superiori dell’Armata Rossa durante la prigionia nazista
di Königsberg e lo zelo da me dimostrato nell’organizzare l’incontro con l’anziano maggiore che ci
voleva esporre il suo pensiero su Carlo Marx, giocarono un ruolo decisivo in mio favore.
A questo punto il mio commilitone Ferruccio Bertogna, di Aquileia, mi disse che non dovevo
dimenticare che la G.P.U. era convinta che fra noi italiani si nascondessero dei soldati tedeschi per
sfuggire alla deportazione.
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Un giorno nel tragitto Königsberg - Gumbinnen individuarono due soldati italiani dai capelli
biondissimi come la canapa, e li accusarono di essere tedeschi. I poveretti si buttarono a terra dalla
disperazione, ma non c’è stato nulla da fare: vennero mandati in Siberia.
Il nostro malcontento per questo comportamento della G.P.U. giunse all’orecchio del nostro
maggiore comandante, che ci convocò in un grande stanzone. Ci disse di stare tranquilli perché
l’opera di eliminazione dei fascisti era terminata. Con questa assicurazione uscimmo dalla breve
riunione.
Pochi giorni dopo era pronto per la partenza il terzo scaglione, al quale io appartenevo. Salimmo sui
carri ferroviari tutti esultanti. L’ufficiale della G.P.U. non c’era, ma solo il nostro maggiore
comandante. La locomotiva si mise in moto e la stazione di Gumbinnen la vedevamo sempre più
lontana finché scomparve all’orizzonte.
Per giungere a Francoforte impiegammo quasi un mese a causa dei frequenti impedimenti causati
alla linea ferroviaria dalla guerra e che ostacolavano il corso del nostro convoglio.
Una notte, durante una fermata, vennero aggiunti al nostro convoglio tre carri ferroviari che
trasportavano circa 200 tra bambini e bambine dai tre ai sei anni. Era troppo buio e non riuscii a
leggere il nome di quella stazione.
I bambini erano accompagnati da tre suore. Ci dissero che quelle creature erano orfane di entrambi i
genitori e che avevano ottenuto dalle autorità russe il permesso di portarle a Colonia dove avevano
la loro Casa Madre. I russi, incivili com’erano, a noi non dettero cibo e nemmeno ai bambini.
Il treno si fermava anche due giorni nella stessa località, in aperta campagna, così potevamo
scendere dai vagoni e andare a rubare patate nei campi, e con queste facevamo la zuppa dentro la
gavetta accendendo centinaia di piccoli fuochi.
Facevamo a gara nel portare ai piccoli una gavetta di zuppa. La suora ne dava ad ogni bambino un
cucchiaio.
Mi colpì la disciplina e la compostezza di quei bambini. Erano consapevoli del dramma che stavano
vivendo. Stavano seduti tutti attorno sul pavimento del carro ferroviario composti e in silenzio e
ricevevano dalla suora quel cucchiaio di zuppa calda ristoratrice con la stessa devozione con la
quale si poteva ricevere la Santa Comunione. Avevano tanta fame ma non un lamento usciva dalla
loro bocca.
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Arrivammo a Francoforte, in una zona amministrata dai russi, e ci ospitarono in un grande prato
sotto le stelle. Ma di questo abbiamo già raccontato.
Poi ci consegnarono alle autorità americane che ci rifocillarono avvertendoci di non andare alla
ricerca di altro cibo perché a persone lungamente denutrite avrebbe potuto causare una morte
istantanea.
Il convoglio per raggiungere Innsbruk era già pronto, vi salimmo e in meno di due giorni eravamo
in quella città. Qui fummo sottoposti a disinfestazione, uno per uno. Pulci e pidocchi li lasciammo
in Austria.
A Innsbruk ci prese in consegna la Pontificia Opera di Assistenza, e subito ci rendemmo conto della
sua efficienza organizzativa. Ogni membro dell’organizzazione vaticana portava al braccio sinistro
una fascia gialla e bianca, i colori della bandiera della Santa Sede.
Un frate con un altoparlante dirigeva il traffico ferroviario dei prigionieri da rimpatriare. Fece
partire la nostra tradotta ordinando alla stessa di fermarsi sotto la pensilina della stazione, lungo la
quale erano disposte tante marmitte quanti erano i vagoni. Ogni marmitta era sostenuta da due
ragazze, sempre con la fascia gialla e bianca attorno al braccio, e in meno di un quarto d’ora
eravamo tutti rifocillati. La tradotta riprese rapidamente la sua corsa e si fermò solo una volta
raggiunta l’Italia: Pescantina (Verona).
Anche qui un frate dirigeva i convogli dei prigionieri rimpatriati. Fece scendere dai carri ferroviari
prima noi appartenenti al Veneto e al Friuli e ci assegnò, per la notte, il recinto n°1. Qui c’erano
tante tende molto ben fatte, con della paglia abbondante e pulita. Dopo cinque anni di guerra ci
sembrava di essere entrati in un albergo a cinque stelle.
Subito dopo il simpaticissimo frate, sempre con il suo altoparlante, ci chiamò per la cena.
Ricevemmo un buon minestrone abbondante e dai mille sapori, poi pane e formaggio e ci diede la
buonanotte.
Al mattino il buon fraticello ci svegliò e ci chiamò a colazione dandoci la bella notizia che di li a
poco sarebbe arrivata la tradotta per il Friuli, e subito arrivò.
Ci dette la sua benedizione augurandoci di trovare la famiglia come l’avevamo lasciata cinque anni
prima. Arrivati nella bella e sospirata Udine, in assenza assoluta di mezzi di trasporto per
raggiungere il proprio paese, ognuno si arrangiò come poteva e per conto proprio.
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Con un camion che trasportava ghiaia io feci una decina di chilometri verso casa. Altrettanti ne feci
con un carretto trainato da un somarello, poi sul ferro di una bicicletta guidata da un robusto
giovanotto ne feci altri quattro circa. Il resto a piedi.
Per strada tutti mi salutavano e dicevano:” E’ un prigioniero”.
Giunto a Torviscosa, mio paese, una famiglia mi riconobbe e mi offrì una bicicletta per giungere
fino a casa.
Strada facendo mi fermò un gruppo di ragazze che aveva appena finito di lavorare nei campi e che
stava consumando all’ombra dei pioppi il semplice pasto del mezzogiorno. Le salutai una per una e
chiesi loro notizie della mia famiglia, e in coro mi risposero: “Bene, bene!”.
Una di queste ragazze in quei pochi momenti di colloquio mi folgorò: la portai all’Altare e divenne
la madre dei miei quattro meravigliosi figli: Lodovico, Maria Angela, Marco e Sara.
Raggiunta quindi la mia casa salutai con tanto calore mia madre e mia sorella.
Mi tolsi la divisa di Sergente del Regio Esercito Italiano, che tanto cercai di onorare vestendo gli
abiti civili.
Mi recai subito a salutare il mio buon parroco don Olivo che mi accolse con tanta gioia. Il suo cane,
con cui non giocavo più da cinque anni, pur non vedendomi mi riconobbe dalla voce, spezzò la
catena, entrò in casa spalancando violentemente la porta e si scaraventò sulle mie braccia facendomi
mille feste.
Anche lui, meraviglioso animale, volle felicitarsi con me per il mio rientro dalla prigionia.
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