Sua giusta gloria - Archivio Flavio Beninati

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Transcript Sua giusta gloria - Archivio Flavio Beninati

Palermo 10 Maggio 2016 N. 4
Antonino Palminteri.
Sua giusta gloria
Giovanni Messina sul maestro di Puccini
di Giovanni Messina
“
Nell’alba rosea d’un giorno del
cadente Luglio l’Angelo della
Morte, improvviso, inesorabile
stendeva su di Lui l’ala gelida.
Antonino Palminteri, fra i sorrisi del
genio che gli suscitava nell’anima lontana le ultime armonie: nella visione di
Menfi lontana e dei suoi cari a cui non
dette gli estremi baci, s’addormentava
al rezzo dell’aura mattutina spirante
dai colli pistoiesi, sognando il Cielo.
Il gentiluomo dai modi signorili, l’artista fecondo che aveva affidato alle
note i fremiti melodiosi del suo cuore
buono; che sapeva i trionfi delle scene
e il plauso fascinatore, temprato dalla
modestia, giacque inerte, per sempre.
Queste pagine, per volere dei fratelli,
parleranno ai posteri di questa gloria
fulgidissima della loro casa e dell’Italia, non tanto a dimostrazione del dolore che pur sentono atrocissimo; ma
affinché quanti son cultori dell’arte apprendano come si fa a divenir grandi.”
Con tali, accorate, parole principia la
monografia, redatta da Giuseppe Matranga nel 1916 e stampata a Palermo
dalla Tipografia Pontificia, sul Maestro
Palminteri. Ci piace l’idea di tracciarne
un breve ritratto, nelle righe che seguiranno, che renda testimonianza dell’artista ed, insieme, dell’uomo che fu.
Per far questo ci serviremo dei documenti epistolari, puntualmente riportati
nella bibliografia essenziale dedicata al
Maestro, e di lettere più famigliari ed
intime custodite fra le carte di famiglia.
Il Maestro Palminteri (Menfi 3 X 1846
– Pistoia 31 VII 1915) fu compositore, musicista ed artiere. Artiere senza
spregî dall’eco dannunziana ma, dedito e meticoloso artigiano di armonie.
Nasce in Menfi prima che l’Italia fosse
una, da Baldassare Palminteri, medico,
amante di musica e notabile e Donna
Paola Ragusa, le cui cifre ed insegne
campeggiano a tutt’oggi sul portale di
ingresso della casa avita. Manifestata
da subito l’attitudine all’armonia, si
forma presso il Regio Conservatorio
di musica di Palermo. A sintetizzare gli
anni di formazione pare d’uopo citare
un documento, riportato dal Matranga,
rilasciato dal Conservatorio. Ammesso
a posto gratuito per concorso il 15 Dicembre 1863.
A20 luglio 1870 ne uscì, terminati gli
studi. A 12 Maggio 1873 ebbe rilasciato un certificato dal Direttore Platania,
rettore forzano e presidente unico Gaetano Daita, lodando il corso completo
di armonia e contrapunto da lui fatto,
l’assiduità allo studio del pianoforte e
valentia nel detto strumento. Occupò
il posto di Maestrino e Concertatore di
orchestra nel conservatorio; tenne ottima condotta e fece un corso regolare
di studi letterari. A quei tempi non si
rilasciavano diplomi.
Formatosi a Palermo, si radicò a Milano ove entrò in sintonia col direttore
del Conservatorio, Bazzini. La temperie culturale gravitante sulla Milano del
tardo Ottocento fu alveo fecondo per la
Creatività metodica del Palminteri.
Nel 1878, infatti, va in scena al Teatro
Sociale di Monza la prima rappresentazione del Suo Arrigo II, tragedia lirica
in quattro atti, con libretto di Ramirez
ed edita dalla Lucca. Critica e pubblico
accolsero l’esordio con giubilo ed esortazioni tantoché l’opera venne presentata nelle stagioni di Ferrara, Novara,
Voghera, Bergamo e Casalmonferrato.
La rivista Il Trovatore (29 X 1882) descrive così l’atmosfera creatasi al Teatro Sociale di Voghera:
Il Maestro Palminteri venne fatto segno
di lusinghiere onoranze, mentre davasi
il suo Arrigo II. Fu chiamato 22 volte al
proscenio e regalato di due magnifiche
corone con ricchi nastri. Favorevole
fu anche la critica. In un lunghissimo
articolo su La Gazzetta provinciale di
Bergamo (27 I 1881), il critico Bettoli, ponderando il suo giudizio sullo
spartito, assevera che il Palminteri non
appartiene per sua ventura a quel novero di giovani maestrucci che sudano
e sgobbano a filare un magro pensiero
e seguita affermando che basterebbe
quindi questo pezzo a rivelare nell’autore un bell’ingegno, ed a consacrare la
riputazione di un maestro.
Di poco successiva, l’Amazilia, dramma lirico ove, nel libretto di Zanardelli,
si sviluppano storie d’odio e d’amore
aventi sullo sfondo Cortez e Montezuma. Fu rappresentata per undici sere
consecutive al Dal Verme di Milano e
consacrò il Palminteri nel firmamento
dei compositori. Grandi successi tuttavia non ne produssero ulteriori. Il maestro compositore limitossi a due opere
e si volse con passione alla carriera da
direttore d’orchestra. Inutile citare i
podî ed i palchi calcati. Basti dire che
da Madrid a Valencia, da San Pietroburgo a Zara e per tutto l’italico suolo
il suo zelo e la sua dedizione furon tributati da apprezzamento e stima.
Gustoso è lo scambio di missive (lo
ricostruiamo invero) fra Palminteri
ed il Puccini in occasione della prima
di Manon Lescaut a Sanremo. Siamo
nel 1894, Puccini, timoroso per l’esito
dell’opera che il Maestro Palminteri
s’appressava a condurre ebbe a scrivere: Carissimo Maestro, ieri mi giunse
un giornale di Sanremo dove, a vero
dire, non trovai che si preparasse buon
terreno per la Manon. Ho saputo inoltre che l’orchestra non è al completo,
non so chi siano gli artisti; solo mi è
noto che vi è un direttore coscenzioso e
vero artista. Ciò mi è arra di buona riuscita… [...] Tanti affettuosi saluti dal
vostro G. Puccini- Milano 18-12-94.
Il Palminteri ebbe a rassicurarlo e consigliò di discutere con Ricordi riguardo
alla completezza dell’orchestra; il Puccini infatti torna a scrivere: Carissimo
Maestro, parlai con Ricordi [...]. Adesso tocca a lei a star forte ed esigere
l’occorrente. [...] Mille saluti cordiali
dal suo aff.o G Puccini- Milano 22-1294. Non ebbe a rammaricarsi il Puccini,
anzi; telegrafò: Lietissimo buon esito
ringrazioti caldamente, pregoti complimentare esecutori tutti. Auguri. Puccini. Poi precisò in epistola:
Milano 29-12-94 carissimo amico, non
può credere come sia contento del successo di costì. Temevo molto per il cattivo trattamento fatto a priori a Manon.
Devo a Lei, egregio Maestro, devo alla
sua valentia ed alla sua fraterna cooperazione, se l’opera è andata bene.
Grazie infinite, e si abbia la riconoscenza del suo aff.o G. Puccini. Frammenti di vita come questi composero il
mosaico della sua esistenza finché un
colpo apoplettico non lo condusse laddove apparteneva: le spoglie custodite
dal simulacro della Musica sulla terra
natìa, l’anima al Cielo, la musica negli
spartiti e nella storia.
Ci piace tuttavia concludere con un
tassello di mosaico che aprisse uno
squarcio nella storia dell’uomo, perché
uomini si è prima d’ogni altra cosa.
Questo frammento riguarda Sant’Antonino, il casale immerso nella campagna menfitana che il Maestro elesse a
suo rifugio. In una lapide posta in suo
ricordo, per volere dell’Ing. Baldassare
Palminteri – nipote- si legge:
Nella quiete solitaria di questo soggiorno campestre che Egli amava chiamare
il mio romitaggio, Antonino Palminteri, Musicista 1848 – 1915, onore e
gloria della natìa Menfi, trascorreva
le vacanze ispirandosi nel comporre,
al cinguettio degli uccelletti, al frinire celle cicale, all’accorato richiamo
dell’assiuolo ed a tutta l’armonia del
creato.
Musica, fede, radici. Ecco l’uomo,
ecco il Maestro.
Giovanni Messina
(Discendente)
1
TEATRO E MUSICA
Alla
volta
di
Siro
Piediscalzi sulle tracce di Siro di Pavia
di Cosimo Piediscalzi
P
er ragioni che voglio considerare oscure, mi sono ritrovato a
vivere presso la città di Pavia.
Sono siciliano, nato il 15 agosto, ho un
sistema organico che va a fotosintesi,
ogni giorno io imiterei quell’Amenofis
IV che si volge idolatrante al sole e
dice “solo tu sei la vita medesima”, e
come lui fonderei una gaia tirannia del
sole, Eliolatria pura! Ebbene, un vincolato dell’Hélios come me, anziché ai
Caraibi, finisce a Pavia? Ahimè si, sono
in una gora al centro dell’Europa,
46.000 chilometri quadrati di pianura
alluvionale. Sono nella terra della gens
Papilia – l’antica Ticinum dei Romani,
infossata in quella ex-palude malarica
che riuscì persino a fare secchi gli elefanti di Annibale! Pavia è il mio cenobio e la sua nebbia mi garantisce una
buona invisibilità. Ma quando la nebbia si dilegua, debbo ammettere che
Pavia è una graziosa cittadina! E se ci
scordiamo degli elefanti che ha fatto
secchi; senza dubbio Pavia è una gemma del nord Italia. Un piccolo diamante
la cui luce è un eco prolungato di una
storia eccellente che è indiscutibile.
Città barbosa come nessuna. “Quando
si ama qualcosa la si vive, quando si
odia una cosa allora la si può solo analizzare” – è il mio motto di sopravvivenza. Pavia è piena di chiese, ed è anche piena di torri, quando una città
italiana ha molte chiese e molte torri
allora avrà anche tanti misteri. Guarda
caso già le torri mi fanno scoprire che
esse hanno assecondato un arcano,
quello di un anziana veggente che aveva annunciato ai pavesi un profezia:
“Colui che avrebbe innalzato la torre
più alta avrebbe preso il potere della
città”, e fu così che anno dopo si mitragliavano al cielo torri su torri. In genere, quando un luogo ha piccole storiografie simili, è prossimo alla
benedizione o alla maledizione, chi la
vincerà? Oggi questo match di torri è in
parte eclissato dalle trasfigurazioni edilizie; spesso falciate o inglobate in altri
edifici. Questa leggenda delle torri mi
porta dritto alle chiese, bingo! Ho trovato l’analisi da fare: si tratta di un ragazzetto citato pure nei Vangeli e nominato Siro. Mi spiegherà lui la natura
bianca o nera di questa città? Iniziamo:
io che entro nel Duomo di Pavia e mi
tuffo nei quadri seicenteschi di Carlo
Sacchi e Filippo Abbiati, e raffiguranti
sempre lui, san Siro. Immaginatemi
elegantissimo, camicia e cravatta nera,
cardiopalmo, scarpe logore. Piacere
Siro! Siro è il patrono della città festeggiato qui il 9 dicembre, il 9 dicembre è
una data cara anche ai Templari. Mi
catapulto nei Vangeli e poi al fratello di
Simon Pietro che dice: “C’è qui un ragazzo…”, si è lui! E’ il ragazzetto di
origini siriache citato anche da San
Giovanni Evangelista, è il ragazzo che
tese a Cristo Gesù i pani e i pesci per il
miracolo della moltiplicazione. Fu davvero Siro di Paviail ragazzino in questione? Seduto sulle ultime panche mi
faccio queste domande. Sopra di me a
fare scudo dei miei pensieri c’è una cupola a pianta ottagonale da brivido! Tra
le più maestose d’Italia, 97 metri,
20.000 tonnellate di peso. E’ lui? Non è
lui? Dunque, Siro da Pavia è per molti
quel ragazzino dei 5 pani e 2 pesci, e
che poi una volta adulto avrebbe seguito San Pietro alla volta dell’Italia, qui
proprio su commissione di Pietro sarebbe stato mandato ad evangelizzare
le genti della Pianura Padana, ed eccolo
divenire primo vescovo di Pavia. Questo è anche il Siro dell’origine e della
leggenda: il Siro del “De laudibus Pa-
RELIGIONE
piæ”, XIV secolo. E’ il ragazzino
dell’apostolo Andrea: “Vi è qui un fanciullo con cinque pani d’orzo e due pesci, che cos’è mai questo per tanta gente?”. Poi, parallelamente a questo può
esservi il Siro discepolo di Sant’Ermagora di Aquileia, che a sua volta fu discepolo di San Marco Evangelista. E la
cronostassi inizia a farsi tortuosa: un
profano può cominciare a smarrirsi tra
una figura di Siro e un’altra. In difesa
del Siro giunto qui con Pietro, vi sono
però anche fonti particolari, Innocenzo
I in una sua Decretale precisa gli “invitati diretti da Pietro”, tra questi spunta
Ermagora dopo Marco ad Aquileia e
anche lui, Siro mandato a Pavia. Nel
XIX secolo, altre fonti ci attestano che
nessuno, fuorché coloro consacrati Vescovi da San Pietro, fondarono Chiese
in Italia. Se le fonti si faranno lotta
spesso, finisci per scoprire che anche i
Cataloghi Vescovili hanno tirato qui e
là qualche dado – senza malizia vi sarà
stato un’ovvio vantaggio per la Sede
Vescovile incensare origini apostoliche
– qualora Siro incespicasse qui e là con
le date, lo si fa morire alla bellezza di
112 anni. Più 56 di Episcopato! Qui è il
Siro del I secolo che insomma la vince,
o no? Che confusione! Questo santo
inizia a tormentarmi. La stessa notte
sogno di parlare con un monaco, ci ritroviamo davanti al ponte coperto di
Pavia, lì il monaco mi mostra una targa
con dei numeri dove mi spiega che la
città è maledetta per mano di un eletto.
(Nella realtà mi accerterò che non esiste nessuna targa su quel ponte). Mi
sveglio contrariato. Di pomeriggio visito la chiesa più antica di Pavia, la basilica di Santi Gervasio e Protasio, edificata proprio da Siro. Questa sorgeva
in una zona fuori dall’antica Pavia, qui
venne a rintanarsi anche San Martino e
proprio qui per 600 anni furono conservate le spoglie mortali di Siro. Mi piace
subito il posto, qui erano di casa i benedettini, poi i francescani, qui vi era una
specie di gerocomio per i pellegrini.
C’è odore di fiori bagnati, e oltre a me
c’è solo un vecchio che se non sta dormendo allora è morto. Esco e penso che
capire su due passi l’identità di Siro
non mi sarà facile. Recupero fonti a
man bassa, finisco per imbattermi persino nei testi di un francescano del
‘600, qui si loda a tutto spiano Siro
operante addirittura dei miracoli – un
uomo cieco dalla nascita, residente a
Lodi, grazie a Siro ritornò a vedere – e
poi memorie, tante, più o meno vere, di
un Siro ancora nella terra di Cristo, che
ha un incontro presso il Monte degli
Ulivi con l’apostolo Andrea. Secondo
Bernardino da Casteggio, quello era
proprio il dì della resurrezione del
Messia, e Andrea svelò il futuro a Siro.
Costui era ancora giovane e ricordava
già con malinconia l’incontro con Gesù
avuto da bambino. L’apostolo Andrea
rasserena Siro, profetizzando per lui un
lungo viaggio di cristianizzazione in
Italia. E’ singolare quando l’apostolo
descrive Pavia come un paradiso a totale disposizione del giovane Siro – “luogo incantevole ricco di fiumi immacolati e di sorgenti, di campi verdeggianti
e di frutti, di soli primaverili e prati ridenti”. Non c’è che dire, un Eldorado!
Nel testo è narrato persino il viaggio,
l’approdo a Verona, le strade e il percorso sino alle mura pavesi. Vi è pure
una descrizione dell’entrata di Siro a
Pavia, con i cittadini in festa che lo accolgono bramosi del battesimo. Qui
Siro è tutt’altro che malaugurante, egli
rinfranca gli astanti con un monito pro2
digioso: “questo luogo è da adesso caro
a Dio, gioite”. E’ agiografia estrema o
realtà? A Milano per esempio esiste un
reperto archeologico di un misterioso
personaggio siriano chiamato appunto
Sirus-Siro, e parliamo del primo secolo. Il tutto è all’Antiquarium dell’Anfiteatro Romano: sotto il ritratto la scritta
– SEX(to) COELIO SEX(ti) F(ilio)
SUR(o) MEDIOLANENSI. Torniamo
al Siro dei Vangeli? Sorrido quando
vengo a sapere che dall’anno 1969 san
Siro non è più annoverato nel calendario dei santi della Chiesa cattolica, e
perchemmai? Quante impervietà questo santo! Penso. Quasi un “santo maledetto”? Ed eccomi, solito indovino a
tempo perso. Capirò di aver detto l’aggettivo giusto solo qualche ora più tardi, dentro una piccola libreria che gestisce un vecchio. Dentro non vi è anima
viva, io giro tra gli scaffali contenenti
per lo più testi usati e giallo-canarino.
Poi tento un dialogo con il proprietario:
“Cercavo qualcosa che riguardi san
Siro, qualcosa di antico” – “Qualcosa
c’è si, puoi guardare qui…” – e gli
vado appresso, scombussola un po’ di
libri in un ripiano, la polvere è sovrana,
poi sbaglia e me ne porge uno con
Sant’Ambrogio, io non dico nulla. Tra
la sua ricerca poco convinta, sbuca
pure un libricino con un titolo che mi
incuriosisce. Glielo prendo dalle mani:
“Perché dice maledizione? Che significa?” – lui sorride e fa un gesto con la
bocca imbronciata – “va là, è una leggenda, poi con la Torre caduta…”. Io
annuisco ma non ci capisco granchè. Lì
per lì la parola torre non mi aveva suggerito nulla. Il vecchio mi annoia, la
polvere dei libri mi rende isterico. Non
prendo nulla, memorizzo soltanto alcune pagine. Scannerizzo tutto con gli
occhi. Saluto e filo via. Appena fuori
però, realizzo la mia frase azzeccata sul
santo – “maledetto” – che sia vero allora? Maledetto e maledizioni? Non bastava già la nebbia? Siro ha persino
lanciato esecrazioni? Ha “maledetto la
povera Papilia” che a detta di quel frate
l’aveva accolto in festa? Giorni dopo
inquadro tutto meglio, inclusa quella
“torre” a cui si riferiva il libraio. Costui
intendeva chiaramente la fine della torre Civica sull’angolo settentrionale
della facciata del Duomo! Essa cadde
senza alcun apparente motivo, un Venerdì 17 del mese di marzo, era il 1989,
crollò alle 9 di mattina e causò addirittura 4 morti. Inutile dire che, immediatamente, ripenso allo strano sogno di
una notte fa e la targa funesta sul ponte
indicata dal monaco. Inizio quasi a sorprendermi. Effettivamente, un fondo di
jettatura c’era – scopro che il misterioso Siro, secondo una nota leggenda,
ebbe a dire ai suoi fedeli: “attenti! Perché tutto ciò che costruirete con sacrificio non resterà”, caspita! Il mio sogno!
C’è poi Carlo Mo, uno scultore pavese
che scovo per caso indagando sui dossier del cedimento, egli conferma: “la
Torre era destinata a crollare perché
essa era maledetta”. Esco dal Duomo,
istintivamente ora volgo lo sguardo lì
dove sorgeva la torre, adesso è solo un
recinto torbido con le rovine del basamento a ricordare quel venerdì 17. Vi
passo davanti. Vado via pensieroso. Il
cielo è un inferno. Corso Cavour, l’odioso shopping, vetrine infiorettate a
festa, manichini e commesse-zombie,
cani al guinzaglio, uno straniero che
elemosina suonando Ravel con la fisarmonica, cammino dritto. “Avrà davvero funestato questo posto il santo in
questione?” – me lo domando fino a
Piazza Minerva. E a rispondermi, è
proprio lei, la Minerva! Intanto diciamo che questa colossale statua è la prima cosa vista appena giunto qui – mi
spiace essere lagnoso ma, la detesto –
l’autore è un mio conterraneo, è colui
che ha fatto anche quell’equino verde-gastrico della Rai, quello ormai
simbolo di Viale Mazzini, insomma
Francesco Messina. Mai sopportato. E
fatalità vuole che sia lui a rispondermi?
Ha un che di maledetto Pavia? Ho un
illuminazione! Mi accorgo che lo scultore ha eretto qui questa Athena Parthenos ma, cos’ha fatto? Ha assecondato i
presagi del caro Siro? Vediamo come:
la mitica Dea è un icona famosissima,
essa è la Dea vittoriosa contro l’ignoranza, insieme a Giove e Giunone è una
triade perfetta per i Romani, ed è sempre stata rappresentata con la sua lancia
vincente rivolta ovviamente verso l’alto, e così ha fatto anche Fidia nel Partenone ad esempio, ma qui davanti a me
cosa vedo? Una Minerva che non impugna la lancia con l’apice rivolto in
alto bensì in basso! Proprio così! La
punta della lancia mira al suolo, per terra, sulla testa di chi vi passa sotto. Una
mossa questa che ribalta, inverte e capovolge l’augurale trionfo della Dea e
tutta la sua iconografia. Insomma è una
Minerva alla rovescia? Sorrido invasato, quasi vorrei comunicare la cosa al
primo passante che incrocio. Ma a che
serve? Tra i passanti aguzzo l’occhio; è
un attimo, un flash, un tizio con la barba più lunga della mia sembra quel monaco che ho sognato. Rabbrividisco. Lo
perdo subito di vista, mi agito, inizia a
piovere, di colpo sento che la mia modesta analisi su Siro finisce qui: sarà
stato davvero l’eletto maledicente?
Spero di no.
A nowhere Man
di Jacopo De Bertoldi
P
Quando l’ho conosciuto, Nino
La Rocca, al secolo Cheid Tijani Sidibe, viveva negli scantinati di una moschea di Roma della quale ancora oggi gestisce le attività. Sono
andato a incontrarlo dopo che un amico mi aveva indicato quella moschea
come l’abitazione dell’ex campione dei
pesi welter. Mi si è presentato un uomo
risolto, dall’aria serena, e mi è stato
chiaro da subito che tra i tempi della
gloria, dei soldi e del matrimonio con
la modella Manuela Falorni, e quelli dell’uomo religioso, c’era un vuoto
narrativo che nascondeva una vicenda
umana straordinaria. Con il tempo siamo diventati amici, lui mi ha dato fiducia e ha accettato di raccontarmi la
sua storia.
Il nostro obbiettivo è quello di fare un
film biografico, con il quale intendiamo
ripercorrere anche il contesto storico
nel quale si inseriscono gli avvenimenti. La storia di questo campione arrivato dall’Africa, in anni in cui il razzismo
non aveva ancora la forma aggressiva
che ha oggi, si sovrappone agli anni
della popolarizzazione del mezzo televisivo attraverso il quale per la prima
volta l’Italia impara a guardare alla realtà nella sua superfice spettacolarizzata. Nino La Rocca è stato in Italia uno
dei protagonisti di questa epoca. La sua
vita è passata sotto i riflettori televisivi
durante l’ascesa, e poi ancora durante
il suo veloce e drammatico declino,
ma nonostante la grande copertura mediatica, la parte più straordinaria della
sua storia non è mai stata raccontata e
si tratta di una storia che ha la qualità
archetipica e la potenza narrativa del
mito. Quando nel 1990 è partito improvvisamente per Roma, dove avrebbe incontrato un amico, Nino La Rocca
non sapeva che in quell’appartamento
di Montecatini, dove era ospite del
sindaco dopo lo sfratto subito dalla ex
moglie, non sarebbe mai più tornato.
Così, alla fine del 2013, abbiamo deciso di tornare con lui in quei locali di
proprietà del comune sparando di trovare ancora tracce del suo passato. Lo
abbiamo seguito con la telecamera per-
ché sapevamo che proprio là, 25 anni
prima, Nino aveva abbandonato tutta
la sua vita. I muri dell’abitazione non
vedevano la luce da anni. Una volta
aperti i battenti ci siamo ritrovati in un
ambiente vuoto e fatiscente, gli intonaci erano in parte caduti e avevano coperto i pochi oggetti rimasti. L’appartamento era stato razziato. Negli anni si
erano portati via quasi tutto. Qualcuno
però aveva avuto cura di raggruppare
nell’angolo di una stanza una ventina
dei suoi trofei. Poi, in un’altra stanza,
un po’ dentro i cassetti di un mobile, un
po’ a terra, Nino ha ritrovato il resto.
Centinaia di fotografie, di giornali, decine di cassette video con registrazioni
televisive e private, lettere e diari personali hanno rivisto la luce.
Attraverso l’analisi di questo materiale siamo stati in grado di ricostruire la
storia dimenticata e a tratti oscura di
un uomo dal passato complesso e articolato. Nato a Port Etienne da madre
marocchina di origini siciliane e da padre del Mali, prima di arrivare in Italia
dove ha conosciuto la gloria, Nino La
Rocca ha attraversato l’Africa francese, vivendo in Mali e a Marrakech, trasferendosi infine a Parigi, solo e senza
un soldo in tasca, dove ha mosso i primi passi nella boxe professionistica. La
sua è una storia esemplare di successo,
quella di ragazzino povero, apolide e
praticamente senza famiglia, che con la
sola forza del proprio talento, è stato in
grado di trovare la via del riscatto. Si
tratta di un mito moderno che nel suo
caso, più che in altri, si svolge per intero sulla ribalta televisiva. Siamo nei
primi anni ’80, gli anni, come dicevo,
dell’esplosione della “televisivizzazzione” del reale, gli anni del craxismo
imperante e del nascente impero televisivo di Silvio Berlusconi.
Nino ama il mezzo, sembra esserci nato
dentro, e ha tutte le caratteristiche che
la televisione richiede; è bello, spigliato e simpatico. L’Italia infatti risponde.
In pochi anni il pugile nero diventa uno
dei personaggi televisivi più amati e
seguiti del paese. In quegli anni tutta
Italia si svegliava nel cuore della notte
per assistere ai combattimenti del campione in diretta dagli Stati Uniti.
Allo stesso modo, mentre aspetta l’incontro che gli avrebbe cambiato la vita,
quello con Donald Curry, campione
del mondo imbattuto da qualche anno,
Nino è ospite fisso delle più importanti trasmissioni nazionali. Attraverso lo
schermo televisivo si appella insistentemente all’allora Capo dello Stato Pertini perché gli conceda la cittadinanza
italiana, e proprio in diretta televisiva
viene chiamato al telefono dal Presidente in persona che lo invitava al Quirinale per consegnargli la nuova carta
d’identità italiana. Ed è così che proprio sotto le luci degli studi televisivi
si consuma il dramma finale della sua
carriera, la sconfitta al titolo mondiale,
un matrimonio sbagliato, il tradimento del suo manager, che lo sacrifica
per far avanzare il più giovane Oliva,
e infine l’alcol e la solitudine. Quella
parte dei giornalisti che non avevano
mai amato il suo stile pugilistico, si avventano su di lui come avvoltoi su un
cadavere ancora caldo. In una serie di
rimandi infiniti, le riviste di gossip raccontano la tragedia di un uomo finito,
accanendosi con particolare furia sui
dettagli della sua vita coniugale. Sua
moglie Manuela Falorni, dopo il divorzio e una lotta violenta per l’affidamento del figlio, che occuperà per anni
le pagine dei giornali, per via dei suoi
aspetti controversi, comincia infatti ad
acquistare notorietà dopo aver intrapreso la carriera di pornostar.
“Volevo farla finita, volevo morire,
scomparire in silenzio.” Nino non riesce ad accettare l’improvvisa e durissima caduta. Dopo lo sfratto ricevuto
dalla ex moglie che lo costringe a lasciare la grande casa coniugale, Nino
comincia a bere ed entra in una spirale
discendente e senza fine. E’ ancora un
uomo molto ricco, ma terribilmente
solo. Spesso sale ubriaco a bordo delle
sue potenti automobili che lancia a velocità paurose sperando in un incidente
fortuito, mentre dall’altra parte spende
immense somme di denaro nei night o
per gli amici che si approfittano della
3
sua evidente carica autolesionista. E’
a questo punto che l’eterno mito della
parabola del campione di boxe, nella
quale si inscrive perfettamente anche la
storia di Nino La Rocca, si arricchisce
di una svolta insolita e per alcuni versi
straordinaria.
Maria è la donna che fa abitualmente
le pulizie in casa sua. Con lei Nino comincia ad andare a letto, è solo una delle tante che Nino frequenta in questo
periodo di sbando, ma c’è una cosa che
fatalmente li lega, l’alcol. I due assieme
non fanno che bere e cadere sempre più
in basso, agganciati l’uno all’altra in
una complicità autodistruttiva. Quando
finalmente un giorno Nino le annuncia
che non vuole più stare con lei, Maria
lo minaccia “se mi lasci mi uccido”. La
tragedia ha raggiunto il suo punto più
alto, oltre il quale Nino riesce a vedere solo orrore. E’ a questo punto che,
forse riuscendo a fare appello al suo
forte istinto di sopravvivenza, lo stesso che lo ha guidato fuori dalla povertà
dell’Africa, prende una decisione che
gli cambierà per sempre la vita. In Africa Nino è nato e là vuole morire. Propone così a Maria di accompagnarlo. I
due prendono un aereo per Dakar dove
vive una sorella di Nino. A Dakar aprono addirittura un piccolo ristornate che
gestisce Maria, ma le cose non vanno
meglio. Nino è ingrassato di 30 chili, si
trascina per le strade della città gonfio
di alcol e medicine. La gente lo tiene
a distanza, come un qualsiasi barbone,
compresa sua sorella che lo allontana
da casa. Poi una notte, mentre sta rientrando a casa, ubriaco come sempre,
accade l’inatteso. Nino è semicosciente
quando gli si avvicina un uomo che lo
conosce di vista e sa della sua storia.
Ton Ton Dioup, questo il nome dell’uomo, gli chiede di regalargli l’orologio
che porta al polso. Nino, senza chiedere spiegazioni, si toglie l’orologio e
glielo consegna. L’uomo allora gli da’
un appuntamento. Si fa promettere che
la mattina seguente si farà trovare nello
stesso posto sobrio. Ancora oggi Nino
non sa’ perché quel giorno ha deciso di
dare retta allo sconosciuto, ma la mat-
tina seguente fa quello che gli è stato
chiesto, si fa trovare rasato di fresco
all’appuntamento. Dioup lo fa salire
a bordo di un’auto e parte. Dopo un
lungo viaggio i due raggiungono la destinazione, si tratta di una piccola casa
isolata nel nulla del deserto dove vive
un Marabout. Il santone accoglie Nino
e gli pratica un lavaggio sacro, gli recita alcuni brani del Corano e lo congeda.
Quello che segue ha qualcosa di miracoloso. Una volta tornato a casa, Nino
si rende conto di non aver più voglia
di bere. Dal giorno seguente smette
gli psicofarmaci e sta bene, anzi non
si è mai sentito meglio. Decide così di
tornare in Italia. Regala il ristorante a
Maria che non ha nessuna intenzione di
seguirlo e parte per Roma. Oggi Nino
non ha un soldo in tasca, ma sembra
non averne bisogno. L’incontro, o meglio il ritrovamento della religione di
suo padre, lo ha cambiato profondamente. Sulla sua fronte è apparsa una
larga cicatrice, la zibiba, che segna il
volto di pochissimi fedeli. La preghiera gli ha regalato quella serenità di cui
mai nella sua vita ha potuto godere.
Il ‘record’ di Nino La Rocca conta 80
incontri, di cui 74 vinti (54 per k.o.), e
solo 6 sconfitte. Ha combattuto e vinto
contro avversari di altissimo livello. E’
stato un pugile tra i più veloci che si
siano visti in Italia, dotato di potenza
e di una particolarissima intelligenza
tattica. Il suo stile istrionico, la difesa
bassa, i balletti sul ring, le imitazioni
alla Muhammad Ali, le scarpette con le
frange, i colpi a sorpresa hanno fatto di
lui un personaggio unico e memorabile. Il ragazzo povero arrivato dall’Africa che voleva a tutti i costi diventare
italiano è ancora oggi un personaggio
allo stesso tempo commovente, indecifrabile e a tratti potentemente melodrammatico. Le sue presenza in TV
con Rafaella Carrà, Gianni Minà, gli
sketch televisivi con Ben Gazzara, il
sorriso furbo, la follia narcisistica, ci
hanno regalato il ritratto di un uomo
che prima di essere un grande campione è stato un grande attore della scena
sportiva italiana e internazionale.
DIPORTO
Lo strappamanifesti
Mark Kostabi su Mimmo Rotella
A
l secondo piano del MoMA (tutto maiuscolo tranne la ‘o’ della preposizione of ), il
celeberrimo Museo di Arte Moderna di New York, alloggia una una nutrita collezione
di decollage del catanzarese Domenico Rotella più noto ai più come Mimmo. Chi sa
di cosa sto parlando, sono certo, starà pensando « embè, cosa c’è di strano? », dunque corro a
precisare che « nulla, non ci trovo assolutamente nulla di strano nel fatto che il più onniscente, aperto e lungimirante museo del mondo ospiti nella sua ricchissima collezione anche quel
lavoro di Rotella che tanto ha influenzato moda, mode e costumi con la semplicità di un gesto
così diffuso anche tra i bimbi ». Mi piaceva, semmai, ricordarlo, cosicché a chiunque capitasse
di perdersi a quelle coordinate possa sorgere il desiderio di vedere il bel colpo d’occhio di
manifesti strappati e così bene installati. Questo, almeno, avrei scritto fino a ieri l’altro. Ieri,
invece, ho scoperto che del nostro Mimmo di manifesti strappati al MoMA non ve n’è neppure
uno. Quelli che ero sicuro fossero dei Rotella al punto da non doverne leggere le didascalie, di
altri non erano che di un di-lui emulatore, tale-celebre Jacques de la Villeglé. Che altro dire?
Ci provo e chiedo al mio confidente (interno al museo): « Ma… di Rotella ne avete di decollage? » e lui: « Chi è Rotella? ». Io la chiudo lì. Andiamo a cena. Annegherò la frustrazione che
m’assale nel vino.
Per la cronaca, in verità, di Rotella al MoMA qualcosina c’è. Una sculturina per nulla rappresentativa che trovate quì: Little Monument to Rotella (Petit Monument à Rotella)
Oggi qualcosa m’ha risollevato. Mi sono imbattuto in questo articolo del mio amico Kostabi:
Mark Kostabi
on Mimmo Rotella
Mark Kostabi
su Mimmo Rotella
Mimmo Rotella invented the technique of
using torn posters to make art in the early
1950s. This technique, known as decollage,
has subsequently been widely employed by
innumerable artists world-wide, including,
in recent years, the young Williamsburg artist, Michael Anderson, and the East Village
new-expressionist, Rick Prol. 1980s art legend David Salle devoted an entire exhibition at the colossal Larry Gagosian Gallery
to works that explicitly and unapolagetically
employed wholesale quotations from Rotella’s oeuvre. Rotella’s influence can also be
felt in fashion and graphic design—clothing
designers have used his “torn poster look” as
prints and countless contemporary magazine
art directors owe a debt to Rotella’s lacerated
posters. Rotella himself invaded the world of
fashion by designing a popular Swatch watch
in the early 1990s. In the exhibition at Charles Cowles Gallery, Rotella comments on fashion with a series of works from his recent
“Flashion” series. He also presents his new
lacerated flowers. By focusing on images of
fashion and nature, Rotella confronts parallel
issues of the cyclical nature of the seasons.
His rips and savage gashes transform mechanically reproduced images of promise into
unique compositions by revealing layers of
related material beneath their surfaces. Rotella’s artificial aging process questions the
authenticity of fresh flowers and youthful
models as signifiers of the prime of life by
bringing attention to their temporary nature.
In the fashion images, the addition of painted
words addresses the relationship of advertisement and graffiti as urban message bearers.
ISince the 1950s, critics have observed the
Rotella re-presents, rather than represents his
subject matter, investing it with mystery and
elegance by fragmentation, juxtaposition and
concealment—thus bringing a fresh and personal meaning to mass media.
A famous dictum proclaims that the best art
changes the way we view the world. As we
now walk the streets and see torn posters,
which reveal layers of information, we can’t
help but think of Rotella’s brilliant invention
and his ongoing archeological poetry. Mimmo Rotella is an historian of the street and
daily life. At their best, his works are painfully beautiful and easily hold their own among
the greatest works of modern or contemporary art.
Mimmo Rotella inventò la tecnica di utilizzo
di manifesti strappati per fare arte nei primi
anni 1950. Questa tecnica, nota come decollage, è stato successivamente ampiamente
impiegato da innumerevoli artisti di tutto il
mondo, tra cui, negli ultimi anni, il giovane
artista Williamsburg, Michael Anderson, e
la nuova-espressionista East Village, Rick
Prol. 1980 arte legenda David Salle dedicato
un intero mostra al colossale Larry Gagosian
Gallery di opere che esplicitamente e unapolagetically impiegati quotazioni all’ingrosso
da opera di Rotella. L’influenza di Rotella
può anche essere sentito in fashion designer e
graphic design di abbigliamento hanno usato
il suo “strappato sguardo poster”, come stampe e innumerevoli registi rivista d’arte contemporanea un debito per i manifesti lacerati
di Rotella. Rotella si ha invaso il mondo della
moda disegnando un orologio Swatch popolare nei primi anni 1990. Nella mostra a Charles Cowles Gallery, Rotella commenta moda
con una serie di opere dalla sua recente serie
“Flashion”. Si presenta anche i suoi nuovi
fiori lacerate. Focalizzando l’attenzione sulle
immagini di moda e natura, Rotella affronta
temi paralleli della ciclicità delle stagioni. I
suoi strappi e tagli selvaggi trasformano immagini riprodotte meccanicamente di promessa in composizioni uniche rivelando strati
di materiale relativo sotto le loro superfici.
Processo di invecchiamento artificiale di Rotella in dubbio l’autenticità di fiori freschi e
di modelli giovanili come significanti del fiore della vita, portando l’attenzione sulla loro
natura temporanea. Nelle immagini di moda,
l’aggiunta di parole dipinte riguarda la relazione di pubblicità e graffiti come portatori di
messaggi urbane. ISince 1950, i critici hanno osservato le Rotella ri-presenta, piuttosto
che rappresenta la sua materia, investendolo
di mistero ed eleganza dalla frammentazione,
giustapposizione e portando occultamento,
quindi un nuovo significato personale e ai
mass media. Un famoso dictum proclama che
la migliore arte cambia il modo di vedere il
mondo. Come noi oggi camminiamo per le
strade e vedere i manifesti strappati, che rivelano strati di informazioni, non possiamo fare
a meno di pensare a un’invenzione geniale di
Rotella e il suo corso di poesia archeologico.
Mimmo Rotella è uno storico della strada e
della vita quotidiana. Al loro meglio, le sue
opere sono dolorosamente bello e facilmente tenere proprio tra i più grandi opere d’arte
moderna o contemporanea.
Mark Kostabi
November 2000
Mark Kostabi
Novembre 2000
Original article on mkostabi.com | Copyright 2000
© Shout / Mark Kostabi
(Tradotto con Google Translate)
Grazie, Mark e a presto
Manfredi
ARTE
4
Una lettura
lacunosa di
“i quanti
del suicidio”
Barbara Marras su Helle Busacca
Q
uello che Helle Busacca intende con “I quanti del suicidio”,
primo volume di una trilogia,
auto-pubblicato nel 1972, a sette anni
dal suicidio del fratello minore Aldo,
lo dice lei stessa nella premessa: “Questo libro è una summa: registrazione
dell’impatto di una coscienza, con un
medioevo. Presuppone ogni categoria
distinta da Aristotele in poi, e non ne
esclude nessuna, in quanto io ritengo
poesia solo la espressione di una integrale esperienza umana. (…) «Quanti», secondo Einstein, «sono quantità
di energia o di materia o di elettricità». La vita intera dell’universo non è
in fondo che inter-azione di «quanti»;
così quella umana (…) L’atomo che è
la coscienza, colpito dalla carica morte-suicidio, in questo caso non solo ha
emesso energia, ma si è in certo modo
trasformato. La reazione è stata a catena (…) D’altra parte, la coscienza, oltre ad essere campo e strumento di tale
processo, ne registra i fenomeni (…)
Che lo strumento di misura non possa
captare nella loro assoluta obiettività i
fenomeni in esame (…) è assioma della
fisica (…)” ed altro aggiunge che non
sarebbe superfluo riportare. L’operazione è complessa, sofferta, necessaria,
anzi inevitabile, ed è estremamente
consapevole. É una visione del mondo
che nasce dal bisogno di comprendere e
dare senso al vissuto traumatico, ad una
vita che si è conclusa ed al sopravvivere, al come ed al perché di una parabola
umana, al suo significato. É una ribellione al destino di oblio e mancanza di
senso di quella parabola che è chiave di
lettura del presente. É necessità e valore della testimonianza, quindi vangelo
umano dove nell’umano vero è il solo
vero divino. É tentativo di ricostruire,
attraverso la metafora tratta dalla fisica
quantistica, ciò che è accaduto all’anima nell’impatto col trauma e con la
verità che esso svela e, contemporaneamente, ciò che ha condotto un’altra
anima a scegliere il suicidio; ricostruire
il percorso che vede la poeta (e pittrice
e insegnante) complice inconsapevole,
cieca, fino al risveglio in cui si manifesta la consapevolezza, all’accettazione
dolorosa del proprio compito ed alla
catarsi. É, perciò, in questo senso, un
viaggio dantesco (con il fratello Aldo
a fare da Virgilio, supportato da un amplissimo coro di altre voci): una moderna, post-moderna, Divina Commedia
- come è sottolineato dall’indentificazione dei componimenti con numeri romani, dai frequenti dantismi, dalla furia
dei toni accusatori, dello sdegno civile
e morale, dal ricorso alle immagini di
animali, insetti ecc., dai neologismi (es.
coprocrazia neanderthalense, copropsichi ecc.) da un lessico ed una sintassi
ardui, talvolta arcaici (fino al latinismo
ed alla traslitterazione dal greco) così
stranianti, e quindi ultramoderni, che
servono anche a sottolineare il riferimento al medioevo come metafora
dell’oscurità in cui si trascina l’uomo
moderno ma, anche, come metafora di
una situazione
psicologica determinata dall’improvvisa devastazione, dall’abrasione di
un mondo precedente. Lo stesso, delle
minuscole: cui si contrappone la maiuscola usata unicamente per la parola
Uomo quando riferita al fratello, rappresentante dell’umanità vera contrapposta alle belve che la fanno a pezzi,
la sfruttano e la crocifiggono. Le minuscole provengono dai codici medievali
e, contemporaneamente, rovesciano
il sistema di valori esterno al libro. In
esso, d’altro canto, non sono trascurate
le esperienze delle varie avanguardie
del ’900, non solo letterarie e non solo
italiane, o quelle, inevitabili, della neoavanguardia: semmai, tutto il libro si
pone sotto il segno della sperimentazione. Né ciò inficia il costante riferimento ai classici, latini ma soprattutto
greci, ai poemi omerici ed alle tragedie,
i cui accenti si confondono talvolta con
quelli biblici. In armonia con questi
modelli e con l’ispirazione generale
dell’opera sono i toni profetici di molti
componimenti, tra cui XCV :
«E io vi dico da questa vetta / di desolazioni che non c’è più spazio / più
tempo più terra per chi può pensare /
non ho risposto non ho capito non ho
guardato / non ho inteso, siate tali che
diciate sempre / e per chiunque ho donato e non mi fu reso, / ma non mai non
ho reso e mi fu donato // e vi giuro che
è meglio sentirsi in credito / che in debito, che solo il credito va cancellato, /
ma non il debito, perché quando non ve
lo aspettate / può venire il tempo che il
debito non si può pagare. (…)»
In poesie come questa citata, il carattere allocutorio consegue all’acquisizione di una verità che è necessario
trasmettere, una verità che è la conclusione di un lungo interrogare e
che, spesso, smentisce atteggiamenti
assunti in precedenza, a caldo. E la risposta può anche essere conforme agli
insegnamenti di Cristo, o di Maometto,
o di Buddha ecc., ma procede sempre
dall’esperienza e dalla maturazione di
essa nella coscienza, da una riflessione
che la furia non vanifica: non ci sono
assunti sfuggiti alla verifica da parte di
questo processo.
“I quanti del suicidio” è anche, e preminentemente, un colloquio ininterrotto della poeta col fratello, che parla attraverso le sue carte, attraverso il
ricordo di parole dette, scritte o taciute, di sguardi, occhiaie livide, guance
incavate, mani bellissime. Lo strenuo
tentativo d’interpretarne il silenzio, di
estrarre Aldo dai suoi libri sottolineati, dalle sue equazioni, dalle lettere
non spedite, come dalla creta che egli
plasmava, come la volontà ci estrae, a
tratti, dal caso, come ci si affanna in sofismi a distinguere fra queste due spinte
per capire: che cosa?
Che cosa è “sorte”, se non il cieco intrecciarsi di quelli? Testimonia l’impresa di estrarre il destino (in senso
heideggeriano) dalla sorte, persino
controvoglia: «(…) come credere a una
libertà / qualsiasi, non aver voglia di
scerpare gli astri / rinfacciando il tuo
martirio predestinato (…)» (CXVI)
- e, del resto, l’antitesi si risolve nel
concetto di Karma – di arrivare al significato del gesto finale che forse è rinuncia ma forse è la conclusione di un
percorso, la fuga irrinunciabile verso le
stelle, la soluzione di un’equazione: = a
0 oppure = a infinito? E Aldo risponde
con un appunto in calce: CATARSI (cfr
CXV).
Il silenzio nel quale Aldo Busacca è
sparito, il silenzio che lascia accanto
ad Helle, è qualcosa che si può ancora interrogare, è un silenzio dal quale
possono ancora maturare risposte, è lo
spazio entro il quale fratello e sorella
sono ancora in comunicazione. Aldo,
che è oramai in Helle, il cui nucleo si
è fuso col suo, è finalmente lo specchio
attraverso il quale ella si conosce, così
come riconosce il fratello attraverso se
stessa, cercando di riportare alle coscienza ciò che prima non ammetteva
di sapere, di attingere alle informazioni
che sono stratificate nella sua memoria
e nelle cose.
Organizzati in 12 sezioni (I quanti
dell’integrazione, della rottura, della
desolazione, della nostalgia, dell’angoscia, della memoria, del conflitto,
del pellegrinaggio, della confusione,
della discriminazione, del rifiuto, della
visione), i componimenti articolano un
lungo discorso inframmezzato al pianto e c’è un sospiro in ogni pausa, un
singhiozzo alla fine di ogni verso e mai
una tregua, un’orizzonte in qualche
modo rassicurante o consolatorio, una
rima, neanche a pagarla oro – e in ciò
è tanto un segno di modernità quanto
una testimonianza dell’influsso dei lirici greci e latini. Alla misura del verso,
talvolta regolare, assai di rado corrisponde il ritmo atteso dagli accenti: a
dare un’impressione di prosa che più
facilmente può accogliere il linguaggio
scientifico o quello propagandistico
del boom, le interferenze del mondo
esterno, o le voci degli amici (anche
loro intenti a ricordare ed a cercare
un senso, soprattutto con l’intento di
confortare la poeta) e che meglio si addice al colloquio, ma anche a rilevare
che chi produce il suono è “scordato”
– tranne recuperare il ritmo verso la
fine, per esempio nei doppi novenari di
CXXII, qua e là spezzati, dove alle frasi e ai gesti di Aldo fanno eco le parole
di Richard Wright, dei sufi, di Holderlin, del Buddha e degli yoghi e quelle
poi di Helle che, ormai in possesso del
codice, riassume la vicenda e ne trae
l’insegnamento ad ammonire i “suoi”:
«(…) E dunque, chi fosse dei / nostri,
/ lo sappia: se noi li ascoltiamo, perdiamo noi stessi, non solo, / ma, quello
che è dannazione, perdiamo il fratello,
il compagno / di strada; / né giova che
poi, quando lo spirito ansante / ha scelto in un modo o nell’altro l’approdo
invisibile a noi, / diciamo, diciate, / era
poe, era kleist, era trakl, era aldo.»
Il carattere di colloquio dei componimenti è sottolineato continuamente
dal ricorrere del pronome alla seconda persona singolare, ma la forma più
frequente sembra essere la soggettiva:
è Aldo che fa e dice, Helle che ricorda
e racconta ad Aldo. Tale forma è mantenuta pure nella sequenza “io e tu”,
che era forse già un arcaismo all’epoca e che evidenzia, perciò, l’alterità di
Aldo, la sua individualità irriducibile,
l’impossibilità relazionale, l’assenza e,
insieme, paradossalmente, la compresenza delle voci sua e di Helle come
espressione della stessa coscienza che
in sé contiene entrambi, in cui Aldo
sopravvive e che il suicidio di Aldo ha
fatta nuova. Fratello e sorella sono due
individui, spesso in contrasto, in lotta, insieme eppure soli, anche mentre,
nella fantasia della poeta, condividono
la fuga e attraversano le dimensioni
dell’universo, perdendo il corpo strato
dopo strato, per essere una sola cosa:
spirito, polvere, aria, “enigma irridente”, ormai e per sempre invisibili agli
altri che non possono più perseguitarli, che si accorgono della beffa – e
nell’opposizione a questi e nella conquista di questo stato, tornano ad essere “io e te”, finalmente complici e in
accordo (cfr CXXIII). Così veniamo
a conoscere il rapporto fra la poeta e
suo fratello: un rapporto sofferto, difficile, vissuto forse nel modo sbagliato,
condizionato e contaminato da energie
esterne, negative, che si frappongono e
cui viene concesso di usurpare lo spazio del rapporto – ma, del resto, tutti i
rapporti sono assimilabili ad uno scontro fra atomi che implica lo spostamento di elettroni e dunque la trasformazione degli atomi stessi (oppure ciascuno
è un elettrone la cui fuga rispetto all’orbitale di appartenenza originario muta
l’atomo).
Verso dopo verso, siamo messi a parte delle abitudini dell’uno e dell’altra,
delle dinamiche interne alla coppia, di
tensioni, incomprensioni, pianti, litigi
quasi sempre indotti dalle difficoltà
economiche, pasti miseri, visite, conversazioni, degli incubi di Aldo, della
lampada che egli direziona sul proprio
viso e lascia accesa tutta la notte per
cercare di contrastarli, dell’ossessione
di Helle per le bollette della luce, delle
sigarette con le quali cerca di bruciare
la propria rabbia ecc.
La concretezza dei dettagli è straziante:
rimpianto e rimorso si annidano in ogni
angolo della casa in cui la poeta ha accolto il fratello e nella quale questi è
stato ritrovato morto con la canna del
gas fra i denti. Questa casa, rifugio e
prigione, da cui la poeta verrà poi sfrat5
tata, si fa specchio del suo io e subisce
il destino di chi la ha abitata. Dapprima
piena delle cose di Helle e delle sue
speranze, diventa poi il luogo di una
convivenza forzata, ingombra delle
cose di Aldo, dei classificatori, delle
carte, dei libri, del suo disordine, dei
suoi sogni e del suo dolore, per essere
infine abitata da un fantasma, di nuovo
sgombra ma colma di quanto vi è stato
vissuto. Ogni oggetto, ogni parete vi
sono testimoni muti dei pensieri e delle
azioni di Aldo vivo, ne sono stati trasformati, ne trattengono l’impronta, ne
conservano l’energia e rompono a tratti
il silenzio, riportando immagini e voci
dal passato che custodiscono. Questa
non è più casa alla poeta: casa era la
vita col fratello, casa è ciò che fratello
e sorella avrebbero potuto essere l’uno
per l’altra e forse, in qualche modo,
sono stati o sono adesso.
Verso dopo verso veniamo, soprattutto,
a conoscere Aldo Busacca: l’ingegnere
tessile, lo scienziato e il poeta, l’uomo
ridotto alla miseria dall’avidità altrui e
costretto ad emigrare, a vagare di città
in città e di paese in paese, saltando i
pasti per rimediare agli errori altrui ed
anche per portare aiuto (o gioia e bellezza) a chi pretendesse di averne bisogno; costretto da sempre a rinunce
via via più gravose, a lavorare 18 ore
al giorno o a cercare lavoro inutilmente
perché troppo qualificato, ad elemosinare ciò che avrebbe potuto guadagnarsi e che gli spettava; bello, dai
modi regali per dignità e grazia, la sua
mente ed il suo cuore perfetti ma del
tutto inadeguati alla società ed al tempo, che la società ed il tempo non poterono corrompere ma che ammalarono e
poi uccisero; braccato da sveglio e nel
sonno, timido e gentile, sempre pronto
a comprendere, a dare e che nessuno
comprese, cui nessuno rese mai; Aldo
che non aveva niente e non risparmiava
se stesso, che non smetteva di cercare
perché finché c’è speranza c’è vita, disposto a fidarsi e sempre tradito.
Il suo suicidio istituisce una colpa
collettiva, ricade su tutti coloro che
l’hanno ingannato, ferito o che, semplicemente, sono venuti in contatto
con lui senza riconoscerlo, su tutte le
generazioni che hanno contribuito a
creare il meccanismo che lo ha soffocato. La maledizione è scagliata su tutti
i discendenti di costoro fino all’ultima
generazione, fino alla fine del mondo.
Non solo per vendetta: il male va estirpato alla radice e chi risparmia i carnefici sacrifica nuovi innocenti, perché il
potere si tramanda e il potere del denaro, della violenza, sbagliato, illusorio,
che ignora la complessità dell’universo, che priva l’umanità del suo potenziale, che si fa beffe della vita, questo
potere ridicolo e falso, distruggerà tutto. Eppure, verso la fine, ricordando le
parole dei nonni, Helle Busacca si chiede: «(…) di chi, veramente, siamo noi i
figli?» (CXXXVIII) e, riferendosi a se
stessa, osserva: «(…) in tanti altri modi
/ figlia del saggio, può essere, chi non
è saggio, delirio / e attonitaggine e tenebra a chi ama… » (ivi)
Che cosa ha ucciso Aldo? La fatica di
una vita che è lotta vana dal principio
alla fine, l’ingratitudine, la mancanza di
riconoscimento e d’amore, la consapevolezza di sé e l’impossibilità di essere
sé e sopravvivere nella società dell’epoca, nell’Italia ipocrita e spietata del
Boom, corrotta, borbonica, provinciale
e gretta, oggi giunta alle sue estreme
conseguenze. Per sottrarsi ai torturatori
si è ucciso, agli automi ed agli aguzzini con i quali non aveva nulla a che
fare, per affermare la sua differenza,
per esaurimento di ogni energia e motivazione, per stanchezza di sentirsi peso
con tutto quello che aveva da dare, per
darsi finalmente riposo e pace. É stato
ucciso dal padre e dalla matrigna avidi,
ingrati e privi di scrupoli, dalle banche,
dal fisco che chiede sempre a chi non
ha, da un sistema fondato su un potere
che è funzione biunivoca del denaro e
in nessuna relazione con la responsabilità, che si regge sullo sfruttamento e
sul consumo, che spinge la classe operaia a desiderare l’elettrodomestico,
che deruba e deride il genio, che misura gli uomini in base a quel che guadagnano, che li svuota della loro umanità e ne fa insetti o zombies o vittime
sacrificali. É stato ucciso da tutti quelli
che non si oppongono a questo sistema, da tutte le kristhe, sally e giselle
che, indegne, lo hanno sacrificato a più
solidi partiti e anche da Helle: che non
ha potuto rispondere ad Aldo nel modo
che lui chiedeva, di cui aveva bisogno,
che è stata prima madre per essere, poi,
figlia, che gli lasciava cioccolatini anziché fiori sul comodino, che pensava
di avere qualcosa cui rinunciare e perciò non era libera di amare nel modo
giusto, non era ricca, non era cosciente;
Helle che prestava orecchio agli “altri”
lasciandosene assimilare senza avvedersene, che pensava di desiderare ciò
che non desiderava affatto, tutta intenta
a fuggire dalla famiglia e che, arredata
la casa per l’Atteso, non lo riconobbe;
Helle che non si sapeva nucleo, che resisteva, che si sobbarcava di responsabilità superflue e marginali e non aveva
ancora imparato ad assumersi l’amore,
a scegliere, libera, di non esserlo, a
considerare le conseguenze delle sue
decisioni per la vita altrui, perché tutto
è interconnesso e vivere è accettare la
responsabilità di questa trama, proteggerla da ciò che la minaccia, che non si
è scelto, che non ci appartiene e che va
rifiutato – e amare è riconoscere l’altro, vederne l’anima, avere il coraggio
di abbracciarne l’abisso interiore che si
riflette nello spazio profondo, seguirne
la mente mentre lo sonda, esserci insieme, sempre: « (…) Lui lo sapeva,
il cieco nato, / che non ti è amico chi
non partecipa del tuo appassire (…) »
(CXXVI). È anche accettare che l’altro ci riveli, che ci veda e ci ami per
quello che siamo ed è anche lasciarsi
cambiare. In LVII l’anima dell’amante è il cristallo che ci riflette e ci svela
diversi dalle stelle: mostri; il cristallo
che va in frantumi, distrutto dall’odio
di chi non vuole vedersi quale è e si rifiuta all’amore.
Nell’accusare gli assassini del fratello
e nel riferire le circostanze che lo hanno condotto alla morte, la poeta ritrae e
denuncia tutto il sistema, la razza umana che nella sua evoluzione ha scelto
una strada perversa, rivendica la sua
appartenenza ad un’altra specie, esorta
i suoi simili alla resistenza ed alla rivolta, indica loro gli strumenti della lotta.
Nel libro, l’Italia appare come il più
corrotto e feroce tra tutti i paesi. A leggere quest’Italia dei “Quanti” mi viene
in mente tanta letteratura dell’epoca ed
anche antecedente. Mi viene in mente,
per esempio, guarda caso, Bianciardi –
soprattutto “L’integrazione” e “La vita
agra”, che precede i QdS di dieci anni.
Mi viene in mente che “La vita agra”,
la quale rovescia tutto ciò che ingloba e
che la costituisce, sarebbe di nuovo rovesciata se il protagonista facesse finalmente saltare in aria il Pirellone. Perché
così ci si disfa dei fantasmi: i nemici si
mettono nell’inferno! A Berlioz si taglia la testa! Com’è che quando Dante
o Bulgakov si liberano, noi pure ci sentiamo così liberati? Ma la catarsi toglie
forza alla denuncia e disinnesca la vendetta. Amleto scrive un appunto sul suo
taccuino e con ciò ha bell’e sistemato
lo zio già al primo atto, scena V. Helle
Busacca si libra tra sentenza ed esecuzione, si erge a puntare il dito e pronuncia maledizioni da compiersi, perché il
suo dire è irreversibile, ma non già perfettamente compiute col dire o, meglio,
non già avverate sulla pagina. Così la
poesia mantiene la vibrazione potente
della sua furia e l’effetto è certo perché
non siamo nella metafora, non si tratta
solo di un’immagine poetica ma di fisica e tra le due cose non c’è distinzione
sostanziale: quella di Helle Busacca è
tanto una fede nella parola quanto una
fede scientifica ed è fede nell’umanità,
volontà di recuperare l’uomo in tutti gli
aspetti e aldilà delle separazioni che lo
impoveriscono e lo rendono impotente,
recuperarlo in ogni sua espressione che
contiene il tutto, ove s’incarna ed effonde lo spirito dell’universo. La poesia
dei “Quanti” è tesa fra rabbia e catarsi,
è il percorso che va dall’uno all’altro
polo, ma senza posa. Nei versi sono
raggiunte e scolpite le trasformazioni
dell’io lungo il percorso, è acquisita la
consapevolezza che permette lo scatto
da un livello al successivo, è registrato
lo scatto. É un percorso che non può essere lineare: un’orbita. É La coscienza
che gira intorno al nucleo buio dell’io.
Gli stessi elementi girano e rigirano
ossessivamente intorno, acquisendo
man mano un senso sempre più profondo, sempre più vicino alla verità. Il
ragionamento torna costantemente sui
POESIA E LETTERATURA
propri passi a ripercorrere infinitamente la memoria ed a cercare il nodo da
sciogliere. Perché si tratta, in fondo, di
elaborare il lutto, attraversare il dolore,
trovare la maniera di metabolizzarlo, di
conviverci in qualche modo, di dargli
un senso che non può essere esclusivamente privato, che non può essere
se non universale. In questo contesto
è inevitabile che privato e pubblico
s’intreccino; del resto, tutto s’interseca nel medesimo punto: l’individuale
con l’universale, la sfera psichica con
la sociale, il terrestre e il cosmico, lo
storico e il mitologico, lo scientifico e
il filosofico. S’incontrano nell’istante e
quindi coincidono nel tempo, s’incontrano nella coscienza e quindi nell’uomo, s’incontrano nel libro che non può
non rilevarne la compresenza ed anzi
l’unità. E la lingua può solo alludervi,
tanto più che l’universo si rivela via via
più misterioso di quanto non crediamo
e molto di ciò che appare incongruente
è solo l’effetto d’ignote cause. La parola è limitata, come lo è il numero: la
matematica esprime per simboli l’universo, è musica (la lingua dell’eden),
è, anch’essa, scala per le stelle – per
Aldo Dio era “Astratto Assoluto” – ma
il simbolo non dice intera la cosa e la
fisica contravviene. Rifletteva inoltre
Aldo, che i numeri sono ripetizione
dell’1 (quantità arbitrariamente definita) più una sequenza infinita di 0
(quantità nulle), sicché «un numero
indefinito di quantità nulle, / (…) è il
simbolo dell’universo e la sua realtà,
/ lo zero che è inconcretezza ne è la
trama e il filo…» per concludere che se
Dio è l’essere, assunto che sia immutabile e senza causa, allora il tutto è non
essere. (cfr CXVIII). Riflette poi Helle
che i numeri ci beffano, sono segni di
cui non abbiamo il codice se non a posteriori: le date che scandiscono i suoi
lutti, per esempio, ripetono il numero
11, e l’11, numero primo, a volerlo
scomporre è, magari, 1 e 1, ma non 1
più 1, è solitudine, doppia: la solitudine ineluttabile dell’uomo e del fiore,
di tutto ciò che nasce solo per morire.
La vicenda umana di Aldo Busacca è
tanto più paradigmatica in quanto storicamente determinata ed allo stesso
tempo segnata da una sorte che rende
riconoscibile in essa il modello universale e non mai smentito dell’Uomo.
Destino e Storia, da Heidegger in poi,
non sono concetti in contraddizione e
nei “Quanti”, mi pare, la Storia verifica
il Destino, la Storia è tela ed il Destino
è ragno, annunciato ad ogni incontrarsi dei fili: in ogni torto subito, in ogni
errore di Helle, in ogni rifiuto di amata, negli specchi rotti, nei lutti passati,
nella morte per gioco di Helle bambina,
nei dischi di Aldo che tornano a suonare sul giradischi che lui non ha conosciuto, nei quadri di Helle pieni di croci antiche che prefigurano la croce in
attesa. Perché in effetti non possiamo
interpretare se non a partire dalla fine.
È il finale che determina il significato
di una vicenda e il cristianesimo non
esisterebbe senza resurrezione. Il finale
svela il senso degli accadimenti che lo
hanno preceduto, conferma le etimologie (in XXXVIII: “(…) diverso. Da
di-vertere.”), mette in luce gli elementi
coerenti con esso, rivela le tappe di un
destino, i nodi significativi, le svolte
apparenti, le occasioni sprecate che mai
avrebbero potuto essere colte, se non
da un attante onnisciente, da un uomo
o da una donna così perfettamente consapevoli e lucidi, come se si trovassero
a rivivere la situazione per l’ennesima
volta – ma sapendo che si tratta proprio
della stessa. La morte di Aldo Busacca
è questo finale in virtù del quale si riorganizza non solo il racconto, non solo
la vita di Aldo stesso e di Helle, ma tutta la vicenda umana; è l’evento centrale
della storia che si ripete a riavvolgere
il tempo e ad invertirlo, collocando la
speranza nel passato e la memoria nel
futuro, come dal domani non si può
attendere più nulla altro che la replica
di ciò che è già accaduto, il compimento di ciò che è stato annunciato tante
e tante volte, in così tanti modi, con i
segni che ora sappiamo leggere. Così
passato e futuro sono compresenti in
ogni istante ed Helle, vedova e profeta,
se ne assume la responsabilità. Contemporaneamente il suicidio è finale
che lascia aperto il discorso, l’eterno
incompiuto, lo sguardo da decifrare, il
seme da cui deve germogliare la nuova
POESIA E LETTERATURA
coscienza. Ogni atto compiuto si rivela
ora per le sue conseguenze, la pietà per
il padre è ferita inferta al fratello e, se
fosse morta Helle, sarebbe forse vivo
Aldo – ma sarebbe Aldo?
Colui che non fu riconosciuto e che fu
perso in vita, è riconosciuto e ritrovato
nell’assenza insopportabile ed inconcepibile e non vorrebbe, Helle, riportarlo
indietro dove non potrebbe che morire
di nuovo, sulla terra dove è solo dolore
e tormento e ingiustizia, non vorrebbe
che, per sopravvivere, fosse costretto
a rinunciare a se stesso, a darla vinta
alla genetica. Sa, adesso, di essere stata
l’ultima possibilità di Aldo, sa che egli
era la sua sola possibilità e, adesso che
nulla ha più sapore, ha ancora un senso, regalato da lui. Perciò acconsente a
ritardare il ricongiungimento, la morte
che è madre, patria vera, la sposa non
mai trovata nel mondo, la pace mai conosciuta, il riposo eterno (e meno non
basterebbe dopo l’orrore della vita). E
se per l’uno la morte era assorbimento
di luce, simbolizzato dal panno bianco con cui si coprì il volto nel morire,
gli emarginati; per immaginare la fuga
di Aldo e vedere l’Alahambra farsi fantasma nella sua dimensione per essere
vera in quella di lui, dalla quale certo
proviene; per maledire il mondo dalle
colonne d’Ercole e per intuire, oltre
quelle, le isole felici: «(…) Così, se l’odio / è “la parola” come l’amore, e ha
minato sempre / le tane dei ben pasciuti
per ogni dove (…) uragani d’odio dai
picchi / ho scatenato delle canarie da
ovest a est / e da nadir a zenith perché
dirocci / in su e in giù dal cerchio che
traversa l’africa-isola, // e dai quattro
angoli e nei quattro angoli non ci sia
suolo / non ci sia aria non ci sia acqua che non lo incroci / e lo convogli
sugli usurai e sui loro figli // e implorino di morire restando vivi / e siano
restando vivi lezzo e carogne, / e aspiri
odio finché in cancrena sputi i polmoni
// chiunque io cito da questa tomba al
giudizio di Dio.» (C) Ma anche parte
alla ricerca del sole, di un motivo per
tornare ad amare, e trova nebbia e vento, perché il mondo “si fa più opaco e
sempre più si risolve in cenere” quan-
che non sopravvive alla ferocia degli
uomini: come gli uccelli, come i pesci,
come l’Uomo. E nulla è casuale: i se e
i ma sono vano rimpianto perché l’Uomo, il poeta, lo scienziato, il saggio, il
profeta, non hanno alcuna possibilità di
sopravvivere, di evitare il sacrificio di
sé che la società parassita pretende da
loro per prosperare. Perché la famiglia
è il luogo degli abusi in cui sin dall’infanzia si sperimentano l’ingiustizia e
la violenza proprio per mano di coloro
che amiamo e che dovrebbero amarci,
che non abbiamo scelto e cui siamo
legati, dei quali portiamo il peso e l’eredità, la maledizione che possiamo
restituire o condonare ma che dobbiamo scontare comunque – ed è scritto
che il santo nasca dal mostro per il suo
martirio ed a maggior soddisfazione di
questi. Nulla è casuale e tutto è già nelle circostanze della nascita, nel nome
stesso, nel meccanismo sociale e nelle stelle. Tutto è determinato siccome
irreversibile e destinato ad una fine
precisa ed inevitabile, dall’incrociarsi
delle traiettorie cosmiche, del tempo
nell’esperienza dell’altra, vita e morte
si scambiano segno e valore: se la vita
è una tale sofferenza, è un tale rovello
insolubile di energie imbrigliate inutilmente e se la morte è liberazione, fuga
di energie liberate, allora è l’una buco
nero e l’altra è luce. Per questo non è
la morte di Aldo che la poeta piange,
ma il tormento e lo spreco della sua
esistenza.
Il cammino della coscienza si fa concretamente pellegrinaggio ed ecco,
allora, la Spagna, la Grecia, i viaggi
sognati sognati insieme, cui entrambi
avevano rinunciato. A cercare Aldo,
Helle va nei luoghi dove egli non è stato e cui appartiene, e lo porta con sé,
perché li veda, e lo porta con sé per vederli. Dove non è stato ferito e ripudiato, lì può sederle accanto ad ascoltare
la voce dell’acqua, a guardare una rosa:
accanto a lei e, immenso, a lei intorno.
E va nei luoghi di cui le ha raccontato:
il cielo, la luce; per scoprire che essi
non esistono affatto, che è stato lui ad
inventarli. Perciò essi non saranno più,
perché con ogni uomo muore un mondo, perché è l’uomo a vedere il mondo, a crearlo, come un dio, senza poter
mai raggiungere la meta che fissa, che
è solo dentro se stesso, che chiuderà
sotto le palpebre e porterà con sé nella terra umida della propria sepoltura
(cfr CXXIX e CXXXI). La poeta parte per trovare il fratello negli occhi di
altri poveri, di altri re in lacere vesti,
di altri innocenti sognatori, di coloro
che pagano, dai quali sempre, con interesse assurdo, si esige il debito; per
riconoscere il dio con la mano protesa;
per implorare di rinascere fra i miseri e
do “ne trapassa il cerchio/ una grande
anima per tornare al suo paese” (CIII).
La morte di Aldo è lo spartiacque della sua coscienza, l’evento in forza del
quale ella riconosce il volto vero delle
cose e delle esperienze. C’è un prima
e c’è un dopo: l’istante zero costringe
a ripensare tutto ciò che lo precede e
priva di senso ciò che lo segue. La poeta deve ricostruire questo senso alla
luce della sua esperienza, concedersi
un orizzonte e uno scopo, ma solo per
amore di Aldo, per amore dell’Uomo.
Del resto è inevitabile che il trauma
getti la psiche nella confusione ma,
altrettanto inevitabilmente, a tale confusione segue la necessità di elaborare
il trauma. Il confronto con la morte
estremizza il sentimento delle cose, del
confine tra il bene e il male, tra luce e
buio, e spinge a schierarsi, a prendere
una posizione netta. L’istante zero dà
luogo, momentaneamente, ad una bipartizione del mondo, dell’esistenza,
del tempo, della psiche, dell’anima, genera le opposizioni: tra “noi” e “loro”,
uomini e automi, Cro-Magnon e Neanderthal, ricchi (arricchiti per sfruttamento) e poveri (sfruttati e perseguitati), vittime e carnefici, Spirito e Parola,
eden e inferno – dove l’inferno è la vita
degli Uomini nella società degli zombies ma anche, e soprattutto, la vita in
un mondo dove Aldo non c’è più, e l’eden è collocato sempre dove non può
essere riconosciuto al presente: l’eden
sprecato della vita con Aldo, l’eden
dell’infanzia nella casa dei nonni, nonostante i funesti presagi, e nell’infanzia dell’umanità, in un’ Atlantide prima
dell’”ubris”: lo stesso eden è qualcosa
con lo spazio; tutto precipita col precipitare delle stelle e dei pianeti nell’universo. Quello che si ha il dovere di
fare, per opporsi a ciò, è recuperare la
propria umanità, svegliarsi (in un senso assimilabile a quello zen) e parlare:
perché lo spazio non è vuoto, perché il
pensiero e la parola sono energia: come
l’odio, come il dolore, come ogni altra cosa nell’universo. Perché tutto è,
allo stesso tempo, relativo dacché tutto è soggettivo e quindi influenzabile:
è questione di coscienza, di sottrarsi
all’influenza negativa e prossima per
vibrare in consonanza col cosmo – bisogna però rinunciare agli “spettri”.
Nel tentativo di comprendere il senso
della sorte del fratello, di tramandarne
il ritratto e gli insegnamenti, di additarne gli assassini, di accusare la famiglia
e la società contemporanea, il sistema
capitalistico che fagocita gli uomini,
li spolpa, li denigra, li umilia e li condanna a morte, Helle Busacca traccia
dunque le coordinate di una mappa
astrale, filma l’universo nella sua fuga,
i sistemi nel loro vertiginoso ed impercettibile precipitare, il tempo nel suo
implacabile fluire per mai tornare indietro, come ogni cosa in ogni istante
cambia, ma anche nel suo riannodarsi,
perché ogni evento ne ribadisce altri
remotissimi e li presentifica e ne amplifica il significato; legge i sintomi, i
presagi trascurati e si fa profeta presso
quelli che sono ancora innocenti, i giovani, non coinvolti nella tragedia del
fratello, e presso le generazioni future
– perché possa quella tragedia servire a
qualcosa. Aldo è venuto come il cristo
ad insegnare la via e, quindi, a dividere.
6
Ma se Aldo è il cristo, vessato e crocifisso, il capro espiatorio che prende
su di sé i peccati e le pene del mondo
senza deviare dalla verità e da se stesso
e, in ciò, capace di redenzione per gli
altri, se Aldo è testimone e insieme Dio,
il Dio in cenci, colui nella cui morte è
una sentenza ma anche una possibilità, se Aldo è l’agnello di un Dio che
non esiste se non in lui stesso, è anche
Ipazia scarnificata per la sua scienza
e bellezza, è “abele-dionisio-orfeo”
(contrapposto a “edipo-testa-di-bietola erede di “adamo-coccodrillo-verme” cavalcato dal serpente-ada – cfr
XVIII – e qui Helle è Antigone che lo
seppellisce e canta l’epinicio: perché la
vittoria sarà loro e il suo poema è già
vendetta e riscatto, è messaggio verso
le stelle che annuncia la fine del mondo
in bilioni di anni luce o in un baleno) è
il buddha – il perfettamente risvegliato
all’armonia dell’universo – è il popolo Inca sterminato dai conquistadores,
Achille tormentato da Tersite e schiavo
di Agamennone. Naturalmente anche
la poeta è coinvolta nelle metamorfosi, sin dall’inizio, dal primo componimento ed a partire dal proprio nome,
che consente l’identificazione con la
leggenda di Helle e Frisso, speculare
alla vicenda sua e di Aldo e chiave di
lettura della stessa. Conviene qui riportare intera la nota di Helle Busacca che
riassume efficacemente:
“ (…) il re Atamante e la regina Nefele Avevano due figli, Helle e Frisso.
Morta Nefele, Atamante si risposò e la
matrigna fu così bestiale che Frisso invocò l’aiuto di Apollo. Il dio inviò loro,
perché fuggissero, un montone alato,
dal vello d’oro. Passando sul mare
che da lei si chiamo Ellesponto, Helle ebbe il capogiro e precipitò. Frisso
giunse nella Colchide, terra di favola
e di magia.” Se nella realtà è la donna a sopravvivere, è tuttavia evidente
che le cose vanno proprio nello stesso
modo: è proprio l’uomo a raggiungere
la Colchide, mentre la sorella precipita
nell’abisso.
La morte di Aldo Busacca ripete quella
di Empedocle, di Giordano Bruno, di
Ataualpa, Pitagora, Socrate, Demostene, Cristo, Lao-Tse. Attraverso le citazioni continue, inesauste, egli non è
trasfigurato: è annunciato dalla storia,
dalla letteratura di tutti i tempi, da leggende, mitologie, metafore e rivelazioni, da codici luminosi provenienti da
stelle morte millenni fa: ricompreso in
questo orizzonte e svelato nella verità
della sua essenza. A costruire questo
orizzonte sono chiamati in causa Einstein, Omero, Leibniz, Machiavelli,
Platone, Dante, Virgilio, Eisenstein,
Ichikawa, Shakespeare, Seneca, Lucrezio, Orazio, Saffo, Leonardo da
Vinci, Kipling, Leopardi, Kafka, Wells,
Egiziani e Sumeri, Gotamo Buddho, i
Maya, Goya, Eschilo, Sofocle, Euripide, i Sufi, il principio d’indeterminazione di Heisenberg, Novalis, Holderlin, Maometto, Erasmo, Spinoza, Luca,
Buddha, Krishnamurti ed altri – insieme agli amici, italiani e non (tra cui
Margot Einstein), insieme a qualcuno
che telefona, all’intestazione dei fogli
antichi, testimonianza della carriera di
Aldo Busacca negli USA, insieme alla
sue carte, insieme ai racconti della zia
morta giovanissima, alle parole dei
nonni (parole da saggi, da illuminati,
con cui quelle di Aldo si confondono,
che potrebbero essere le sue o quelle di
Buddha), insieme agli inviti ai convegni cui non aveva soldi per andare, alle
attestazioni di stima di scienziati statunitensi. E queste voci s’intrecciano con
quelle dei medici esosi ed inconcludenti, con quelle di scherno dei colleghi invidiosi, dei capintesta boriosi ed
ignoranti, dei burocrati ottusi e vili, con
le réclames alla televisione, con le parole stupide e crudeli del padre e della
matrigna ecc.
Nei due collages (LXXIV e CXLVIII)
frasi e periodi tratti da libri altrui, posti
in relazione fra loro ed inseriti all’interno della cornice dei “Quanti”, parlano
di Aldo, parlano per Helle, acquistano
un senso nuovo, il senso, appunto, che
Helle riceve da Aldo. E La matassa si
srotola, Il discorso si allarga all’infinito fino a comprendere, all’altro capo
del filo, qualcuno non ancora nato.
Nell’ultima sezione dell’opera, intitolata “I quanti della visione”, il nodo si
scioglie e si delinea, finalmente, una
prospettiva capace di confortare. Que-
sta visione, ancora una volta, dipende
dall’accettazione del senso emerso con
l’elaborazione del trauma. Come si è
detto, il significato può essere affermato solo a conclusione del processo
che l’ha sin qui messo in discussione,
argomentato, rifiutato, verificato, reinterpretato, e così via: solo dopo essere
stato ripulito delle scorie, messo alla
prova nello scontro con istanze ed elementi coesistenti nella coscienza della
poeta, averli inglobati in sé, giro dopo
giro. A questo punto Helle Busacca può
rallegrarsi che Il fratello non debba invecchiare, né mai venire corrotto dal
tempo o dalla vita, né più soffrire, ma
possa per sempre restare “l’essenza più
intatta e pura, l’infanzia e il sogno” di
ciò che ella fu (cfr CXXXV). Può sentirlo in un “morire d’autunno”, nelle
nuvole che attraversano il cielo leggere, nei venti “gentili”, nel silenzio,
e pensarlo fuso con “l’Astratto Assoluto” (cfr CXLII). Ormai può tacitare
il risentimento e l’angoscia e fargli gli
auguri per il suo viaggio: «che quanto
hai scelto sia prospero / buono e felice (…)» (CXXXVI) Può persino dire,
con gli amici: «Sembrava che dormisse (…) il sorriso / beato di chi alfine è
giunto in porto, / a casa, tra i suoi cari»
e: Se «è così, / aldo, come dev’essere
gentile / la morte a chi non ebbe ultimo
dono / da offrire, che, la propria vita, /
e come / dev’essere abbagliato e senza
limite / lume a chi a un tratto vi si desta
attonito… » (CXXXVII) senza che in
ciò sia perdono, né oblio, né vana consolazione. È piuttosto che il mondo in
cui la poeta vive è, ormai, una dimensione meno reale dell’altra in cui il fratello è andato e che ne assorbe la realtà,
rendendone labili le coordinate e confusi i contorni ed i piani. Perciò: tutto
quel che è stato, di cui non restano che
carte, sarà poi stato davvero? Ed esistiamo noi quando la nostra esistenza
non importa a nessuno? E qual è la direzione vera del tempo, se l’istante non
è misurabile né avvertibile? E qual è il
senso di una vita: nel suo trascorrere o
nelle tracce che lascia dietro di sé? Non
è più la furia che sola resta (cfr XIV),
ma l’amore: il significato ultimo della
vita il cui scopo è, dunque, imparare
ad amare. Ecco cosa trova la poeta alla
fine, ecco di cosa si scopre capace: ella
ama, d’amore: Aldo e in Aldo l’uomo
«(…) che vive e non muore, / mai, che
è prima e che è dopo, che è luce, che è
alito / che è fame che è sete che è morte
che è Dio; (…)» (CXXXVIII), l’Assoluto che esiste nelle parole di Aldo, che
Aldo crea col nominarlo, che Aldo è
essendo l’uomo – e anche il mondo, la
terra riscattata dal suo esservi nato
e morto, dal suo esserci stato (cfr
CXXXIX). Trova il principio riarmonizzante delle dicotomie che riproducevano la sua scissione interiore e
trova, con esso, una speranza: quella di
poter attraversare i secoli per giungere alle generazioni future, da secoli in
attesa di raccogliere il messaggio. Più
che di speranza, si tratta di certezza e
la profezia è già confermata mentre
scrive, mentre lei stessa, ed altri come
lei, sollevano il capo e si scorgono l’un
l’altro, intenti ai messaggi provenienti
da tempi remoti: tutti archeologi, tutti
astronomi e tutti poeti, le cui mani si
sfiorano attraverso i millenni, le cui
voci si ricongiungono nel silenzio, nel
cercare, ancora e sempre, l’umano, il
senso della vita, la via del risveglio,
l’armonia col tutto.
Quando il mondo sarà stato devastato
dagli uomini e nulla sarà sopravvissuto
e non l’Uomo e non Dio (cioè l’essenza
delle cose, la meraviglia che nell’uomo
ha sede), allora i giovani si rivolgeranno ad Helle, che sarà lì con loro, invisibile, per immaginare – e forse, con ciò,
cominciare a ricreare – ciò di cui saranno stati privati (cfr CXLIX).
Proprio nello stesso modo in cui la luce
ci giunge di stelle morte, così squarcia
il tempo la voce di Helle Busacca. E
questo non sarà meno vero un giorno di
quanto lo sia oggi, adesso: mentre leggo le sue parole – e forse non sono sola.
Lo Chef Italiano
Cesare Cardini
[24 Febbraio 1896/ 3 Novembre 1956]
I
l 3 di novembre del 1956 moriva in quel di Los Angeles un illustre emigrato italiano
tanto poco conosciuto nel nostro paese quanto famosa ed amata è, da sempre, la sua
insalata oltreoceano. L’inventore della celebratissima Ceasar Salad, altri non era,
infatti, che quel Cesare Cardini che, in cerca di fortuna, dal suo Lago Maggiore salpò, ventenne, per le Americhe stabilendosi tra le due Californie (quella statunitense e quella messicana,
la Baja) che ancor’oggi continuano a contendersi la paternità della squisita ricetta.
Cardini morì il 3 novembre 1956 nella sua abitazione di Los Angeles a seguito di un ictus, e
fu sepolto nel cimitero di Inglewood Park.
La Cesar Salad
La Caesar salad è una celebre insalata creata dallo chef italiano Cesare Cardini, emigrato
negli Stati Uniti dopo la prima guerra mondiale e vissuto a San Diego; nel 1924 Cesare apre
e gestisce un ristorante a Tijuana, in Messico, dove crea questa insalata che diverrà molto
famosa negli Stati Uniti e in seguito anche in Europa.
Nella Caesar salad Cardini vuole unire sapori tipici italiani come il parmigiano, la lattuga
romana e l’olio extravergine di oliva, e sapori americani come la salsa Worcestershire che
viene usata per il condimento dell’insalata.
Ingredienti
Lattuga romana 4 cespi medi
Pane casareccio 2 fette
Parmigiano reggiano a scaglie 100 gr
Aglio 2 spicchi
Worcestershire sauce 1 cucchiaino
Uova 1
Sale q.b.
Aceto di vino bianco 1 cucchiaio
Limoni succo 2 cucchiai
Pepe macinato a piacere
Olio di oliva 150 m
Preparazione
Per preparare la Caesar Salad iniziate scegliendo le foglie più
tenere e interne della lattuga romana; lavatele e asciugatele
senza spezzarle. Tagliate il pane a fette alte 1 cm, eliminate
la crosta e tagliatelo a quadretti; mettete un cucchiaio di olio
aromatizzato all’aglio (oppure frullate uno spicchio di aglio e
unitelo all’olio) in una pentola antiaderente e fate tostare i quadretti di pane a fuoco moderato.
Proseguite preparando la salsa: mettete nel bicchiere del robot
il succo di limone, l’uovo freschissimo (la ricetta originale dice
che l’uovo deve cuocere nell’acqua bollente per 1 minuto), l’aceto, l’aglio, la salsa worcestershire, il sale, il pepe macinato
fresco e cominciate a frullare il composto, unendo poco alla
volta l’olio, fino ad ottenere una salsa densa simile alla maionese. Servite la Caesar Salad mettendo le foglie di lattuga romana sul fondo, unendo i crostini di pane, le scaglie di parmigiano reggiano e infine condendo il tutto con la salsa ottenuta.
(Ricetta: Giallo zafferano)
Giovanni Achille Gaggia
Inventore del caffè espresso
G
iovanni Achille Gaggia (Milano, 1895 – Milano, 1961) è stato un inventore ed imprendittore. Nel 1938, mentre lavorava da barista, presentò un brevetto di un primo modello
di macchina da caffè. Nel 1948, l’azienda da lui fondata – Gaggia S.p.A – realizzò la prima
macchina da caffè con il funzionamento a leva.
Barbara Marras
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CUCINA
Clipeologia
Italiani e vecchi ufo
L
a clipeologia (o paleoufologia) è la branca dell’ufologia che si occupa di
presunti contatti con oggetti volanti non identificati che sarebbero avvenuti nel passato, anche remoto, dell’umanità.
L’ufologia (o anche, e più correttamente, ovniologia da OVNI = Oggetto Volante
Non Identificato), infatti, ha origini ben più remote di quanto siamo abituati a pensare. La sua origine viene comunemente fatta risalire al 1947, l’anno del primo
avvistamento riportato del pilota americano Kenneth Arnold nonché dell’arcifamoso Incidente di Roswell. Per esempio, già nel 1933, secondo molte fonti – e
certamente non meno documentate di quelle di Roswell – un avvenimento straordinario ebbe luogo nei pressi di Milano: un disco volante si sarebbe schiantato al
suolo ed i suoi resti sottoposti a scrupolosi studi affidati da Benito Mussolini ad un
gabinetto d’indagine scientifica (Gabinetto RS/33) composta dai più validi ricercatori italiani dell’epoca capeggiati da Guglielmo Marconi e coordinati dell’OVRA
(i servizi segreti dell’epoca).
La Clipeologia
Il termine clipeologia fu coniato nel 1959 da Umberto Corazzi, che lo fece derivare dalla parola “clypeus”, nome dello scudo dei legionari dell’Antica Roma, in
riferimento ai racconti di apparizioni di “clypei ardentes” (scudi di fuoco) riferiti
da vari autori latini. In Italia le idee inerenti alla clipeologia vennero diffuse dalla
rivista Clypeus, fondata a Torino nel 1964 dal giornalista Gianni Settimo mentre
al di fuori dell’Italia il termine clipeologia non ebbe fortuna e si preferì quello di
paleoufologia.
Progettato il primo
Pene Robotico
Può essere controllato col Pensiero
È
pronto il progetto del primo
pene robotico. Al suo interno
è integrato un meccanismo
che simula l’erezione e che viene attivato in modo naturale. Potrebbe diventare una realtà fra qualche anno ed
è l’obiettivo al quale stanno lavorando
tre dottorandi della Scuola Superiore
Sant’Anna di Pisa. Sergio Tarantino,
Andrea Cafarelli e Alessandro Diodato hanno illustrato il loro ‘Robot
Penis’ agli investitori, nella giornata
conclusiva del corso High-tech business venturing, finanziato dalla Regione Toscana e coordinato dall’ateneo
pisano.
Secondo i suoi progettisti, il pene robotico “potrebbe rivelarsi dominante
nel campo chirurgico già dal prossimo
futuro”. “Gli strumenti forniti dalla
biorobotica – spiegano i tre studiosi –
possono consentire di dotare la protesi
di un sistema di movimento e di un si-
stema di sensorizzazione accurati.
L’obiettivo è rendere il funzionamento della protesi il più vicino possibile
rispetto a quello dell’organo naturale.
La possibilità di controllare la protesi
tramite il pensiero e gli stimoli nervosi, garantendo alla persona che la
‘indossa’ il piacere sessuale, grazie al
sistema di sensorizzazione, rendono
questo sistema particolarmente innovativo rispetto alle soluzioni attuali”.
Nella ricostruzione chirurgica del
pene invece il paziente recupera la
percezione del piacere solo in maniera limitata e l’erezione avviene tramite controllo manuale e non come
nel caso del ‘Robot Penis’, quando
si manifesta il desiderio sessuale. Lo
sfruttamento innovativo di principi di
attuazione, materiali smart e di materiali elastici biocompatibili, permetterà lo sviluppo della protesi.
Fonte: ANSA
Riferimenti in Letteratura
Secondo i sostenitori delle teorie clipeologiche, nella letteratura antica vi
sarebbero numerose segnalazioni di
oggetti volanti che si muovevano nel
cielo. Spesso tali fenomeni sono stati
attribuiti a divinità o entità soprannaturali, ma in altri casi, come nelle cronache o in altri testi storici, gli autori
avrebbero cercato di descrivere ciò che
vedevano senza confonderlo con immagini mitiche o religiose.
Diodoro Siculo ha raccontato che
nell’Antica Grecia il condottiero Timoleone avvistò una torcia volante durante un viaggio in mare tra la Grecia
e la Sicilia.
Nell’Antica Roma, autori come Plinio
il Vecchio, Tito Livio e Giulio Ossequente hanno raccontato l’apparizio-
ne nel cielo di torce, fiaccole e scudi
ardenti e riferito anche l’apparizione
di due soli o due lune, mentre Seneca
nelle Naturales quaestiones ha riferito
dell’apparizione di travi luminose; Cicerone, nel De divinatione, ha riferito
anche di un’apparizione del sole di
notte.
Anche nelle cronache del Medioevo
si trovano riferimenti a scudi ardenti,
come quelli comparsi in cielo a Sigiburg nel 776 e descritti negli Annales
Laurissenses, all’epoca di Carlo Magno, ma anche a croci luminose, come
quella comparsa a Firenze nel 1301 e
descritta dallo storico Dino Compagni
nella Cronica delle cose occorrenti ne’
tempi suoi.
Nel Rinascimento vi sono riferimenti
a travi volanti infuocate, come quella
segnalata da Leone Cobelli nel 1487 a
Forlì e quella segnalata da Benvenuto
Cellini vicino Firenze intorno al 1550.
Le cronache del Cinquecento hanno
tramandato due famosi eventi, il Fenomeno celeste di Norimberga del 1561
e il Fenomeno celeste di Basilea del
1566.
Nel 1680 il cronista Erasmus Francisci
nel libro Der Wunder ha riferito di avvistamenti di navi volanti avvenuti nei
paesi del Nord Europa sul Mar Baltico nella seconda metà dei Seicento e
in un caso avvenuto nel 1665 sarebbe
apparso tra le navi un oggetto circolare avente la forma di “un cappello da
prete”.
Riferimenti nella pittura Italiana
Secondo alcuni ufologi, una delle possibili testimonianze del possibile passaggio
di UFO in passato sull’Italia verrebbe dalla dall’arte del XIV-XVI secolo. Infatti,
secondo i sostenitori di tali teorie, alcuni dipinti sembrerebbero raffigurare corpi
volanti le cui caratteristiche ricorderebbero da vicino quelle descritti dai testimoni
di presunti avvistamenti o dai cosiddetti contattisti. Gli storici dell’arte forniscono
per tali presunti UFO interpretazioni tradizionali.
Tra i principali vanno ricordate:
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la Tebaide di Paolo Uccello, per la presenza di un oggetto volante “a cappello
da prete”;
la Madonna con Bambino e San Giovannino esposta nella “Sala di Ercole”
di Palazzo Vecchio a Firenze, in cui pare apparire un oggetto somigliante ad
una nave volante;
l’Annunciazione di Carlo Crivelli, in cui Maria viene illuminata da un raggio
‘sparato’ da una nuvoletta che ricorda in tutto e per tutto un disco volante;
la Glorificazione dell’Eucarestia di Ventura Salimbeni, dove sembra essere
rappresentato un globo simile ad un moderno satellite;
la Natività di Pinturicchio a Spello dove appare un globo luminoso dall’aspetto metallico;
la Madonna di Foligno di Raffaello dove compare un grosso corpo luminoso
che cade sul tetto di un edificio.
Il
‘Superaereo’
Roma-New York in 2ore
Si chiama Hyplane
I
n Italia si lavora a un ‘supervelivolo’ in grado di percorrere Roma –New York in due
ore, volando fino a 70 chilometri di
quota: si chiama Hyplane ed è un aereo di 26 metri in grado di trasportare
6 persone più due piloti. Il progetto è
coordinato dall’università Federico II
di Napoli e trovare investitori disposti
a realizzarlo è uno dei primi obiettivi
del Centro per lo spazio vicino (Center for Near Space, Cns).
Con sede a Napoli, il Cns è il primo
dei centri di competenza dell’associazione no profit Italian Institute for the
Future e punta ad avvicinare lo spazio
alle persone e a potenziare le attività
di ricerca, formazione e divulgazione nell’ambiente dei voli suborbitali,
cioè spaziali ma con traiettoria inferiore a quella necessaria per entrare
nell’orbita terrestre.
Fra le prime attività programmate si
punta a cercare investitori e risorse
umane per il progetto Hyplane che
”prevede un velivolo che può essere
utilizzato anche come spazioplano
ipersonico per collegare più velocemente punti distanti della Terra, sfruttando il volo parabolico” spiega Gennaro Russo, ingegnere aerospaziale e
direttore del Cns.
Il progetto, prosegue, prevede un
aereo che parte e atterra da normali aeroporti, come un volo di linea e
non necessita dunque di infrastrutture
dedicate. ”L’aereo – aggiunge Russo
– è in grado di volare alla quota di 30
chilometri e di arrivare alla quota di
70 chilometri con 3 ‘salti’ parabolici
che fanno provare l’esperienza della
microgravità”.
Il confronto, spiega, è quello con SpaceShipTwo di Virgin Galactic che al
momento è il precursore del turismo
spaziale e che si compone i un aereo
madre che arriva a 15 chilometri dove
sgancia un secondo stadio che arriva a
100 chilometri. Ma a differenza SpaceShipTwo, Hyplane prevede un solo
aereo.
Fonte: ANSA
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Progetto Grafico e impaginazione
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