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Aspettando il 112 L’azzardo, l’impegno, i dubbi: un racconto di Sergio D’Angelo A cura di Giovanni Attademo e Mario Petrella PREFAZIONE Quando lo psichiatra Franco Basaglia nel 1978 vinse la battaglia per la chiusura dei manicomi riuscendo a ispirare la legge che ancora oggi porta il suo nome, in Italia si viveva un clima di profonde contraddizioni politiche e sociali. Erano gli anni di piombo, quelli delle violenze di piazza e dell’estremizzazione della dialettica politica che sfociò nella lotta armata e nel terrorismo. Gli anni dei contrasti nei posti di lavoro e nelle fabbriche, delle bombe sui treni e delle stragi. Il Paese fu segnato dal fallimento del compromesso storico, dall’omicidio Moro e da una radicalizzazione dei conflitti che viene tradizionalmente attribuita alle organizzazioni extraparlamentari di Sinistra come le Brigate Rosse e Prima Linea ma che fu dovuta anche all’eversione di destra e al terrorismo nero. Nella memoria collettiva restano impresse le immagini delle città deserte e delle scuole chiuse per la paura ma anche quelle di qualche anno dopo, dei territori terremotati dell’Irpinia dove il Presidente Pertini gridò in televisione contro uno Stato che abbandonava a se stessi i suoi cittadini. Ma se l’Italia era arretrata in fatto di assistenza – l’ultima legge in merito risaliva al 1890 e aveva la firma di Crispi – era anche un Paese in cui nascevano, un po’ ovunque, importanti esperienze di impegno sociale nelle periferie difficili, di lotta alla povertà con metodi di protesta collettiva come le autoriduzioni delle bollette, gli espropri proletari e i boicottaggi dei supermercati con i mercatini rossi, dove le merci venivano vendute a prezzi notevolmente più bassi. Napoli era attraversata da un processo di impoverimento molto forte e pullulava di comitati di quartiere, di doposcuola, di mense per i bambini indigenti, di forme di impegno laico che si affiancavano a quelle nate sotto l’egida della Chiesa. Nello stesso anno della legge Basaglia, nacque in città la cooperativa sociale Il Calderone, che tempo dopo parteciperà attivamente al processo di dismissione dai manicomi. La coop fu fondata da un gruppo di ragazzi che al Rione Traiano aveva aperto un centro giovanile e a Soccavo organizzava diverse attività culturali e teatrali e ospitava al mitico ristorante “Calderone” concertini informali di musicisti che sarebbero diventati famosi, come Eduardo Bennato e Pino Daniele. “Fare” sociale allora significava offrire opportunità culturali ed educative sui territori dove erano insufficienti, e dove la lotta politica veniva traghettata in una dimensione lavorativa senza che se ne avesse fino in fondo la consapevolezza. Nel giro di qualche anno questa esperienza collettiva incominciò a fare i conti con gli sbocchi più devastanti del disagio giovanile e il forte legame con il territorio segnò il passaggio dall’attivismo in campo culturale all’impegno nella lotta alla droga: un problema sempre più diffuso, che mieteva vittime tra amici e conoscenti. La ricerca di metodi di intervento che non si limitassero alla sola somministrazione del metadone (e alla sostituzione terapeutica della sostanza) portò ad incrociarsi con il servizio sanitario pubblico e alla nascita, nell’88, del Progetto Aleph a Rione Traiano, dove le persone con problemi di tossicodipendenza venivano aiutate a emanciparsi dall’uso di droghe e a recuperare il rapporto con la società. Si iniziò a parlare di approccio sociale alle tossicodipendenze e di lavoro integrato tra “pubblico” e “privato” sociale: termini presi in prestito dalla burocrazia, che serviranno a designare, nel corso del tempo e ancora oggi, ambiti eterogenei e diversissimi tra loro, come la cooperazione sociale, l’associazionismo e il volontariato da un lato, e le Asl ma anche tutte le altre istituzioni deputate a prendersi cura dei cittadini, dai Comuni allo Stato stesso, dall’altro. Nel 1991 la storia del Calderone si intrecciò con quella di altre sette cooperative sociali, di cui alcune ancora esistenti (L’Aquilone, Gea, Maccacaro, Alisei) con cui diede vita al consorzio Gesco, da un acronimo il cui significato si è volutamente perso nel tempo. In venticinque anni ci sono stati molti cambiamenti nella cooperazione e in tutto il mondo sociale: sono nate leggi, istituzioni e fondi dedicati alle politiche sociali e si è passati dalle azioni per arginare il disagio alla promozione dell’agio, un po’ come accadeva alle origini. Le cooperative si sono evolute e trasformate in vere e proprie imprese sociali, hanno diversificato le loro attività e hanno svolto una funzione supplente rispetto al servizio pubblico. Sono state protagoniste di confronti aspri con gli enti pubblici, soprattutto dopo la riforma del Titolo V della Costituzione che assegnava alla Regioni il compito di provvedere al welfare e tornando a dividere l’Italia in due, con la Valle D’Aosta che spendeva per il benessere dei suoi cittadini cento volte di più della Campania. Ci sono stati anni bui, di manifestazioni di piazza contro i tagli del governo alla spesa sociale e i ritardi di comuni e Asl nei pagamenti, che a Napoli hanno portato a occupare luoghi­simbolo della città come il Maschio Angioino e il Museo Archeologico Nazionale. È una storia che ha visto Gesco come protagonista, insieme ai suoi operatori e in prima linea il suo fondatore, Sergio D’Angelo, uno dei giovani che costituirono Il Calderone e oggi direttore del più grande gruppo di imprese sociali del Sud Italia. Quella che leggerete nelle prossime pagine è un’intervista­verità a Sergio D’Angelo fatta da due rappresentanti del “pubblico”, Mario Petrella e Giovanni Attademo, l’uno a lungo dirigente Asl e l’altro del Comune di Napoli, che, come lui, hanno contribuito a costruire il welfare a Napoli. Ma è anche una sorta di ​
autofiction dove chi si confessa restituisce, insieme al vissuto personale, quello di una città in lotta perenne con i suoi limiti, con l’abitudine al vittimismo, lo stereotipo dell’approssimazione e il marchio della negatività a tutti i costi. Una città dove si stanno sperimentando nuove forme di emancipazione dal disagio e dove non si è mai smesso di credere che la camorra non sia una malattia ma un fenomeno da combattere con le armi giuste, a partire da quelle della cultura e del lavoro. La vicenda di Sergio, che ha iniziato al Calderone come cuoco e che oggi, a quasi sessant’anni, è ancora il cavaliere errante dell’imprenditoria sociale, generoso, visionario e geniale, è una vita che vale la pena raccontare mentre si sta evolvendo, perché coincide con quella di tre generazioni: operatori sociali, attivisti, psicologi, schiere intere di sociologi ma anche educatori, scrittori, formatori, avvocati e giornalisti. Questa è una narrazione aperta, senza conclusioni ma con la sola possibilità di contribuirvi ancora. Ida Palisi