8 maggio 2016 - L`Agenzia Culturale

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a
Milano - Basilica di Sant’Ambrogio
La
n
Rassegna
Stampa
8 maggio 2016
A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano”
Con sede in Milano, via Locatelli, 4
www.agenziaculturale.it
Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it
Estratti da:
Ciclostilato in proprio
1/5/2016
IDEE & VALORI DA CONSERVARE
Fiducia e speranza muovono l'economia
di ARMANDO TORNO
Jens Weidmann, presidente della Bundesbank,
nel suo recente viaggio a Roma ha, tra l'altro,
parlato di fiducia. L'ha ricordata per meglio
focalizzare la crisi che stiamo cercando di
lasciarci alle spalle, notando che proprio la
fiducia è mancata alla solidità delle finanze
pubbliche. Difficile contraddirlo, almeno in tal
caso.
Tutti hanno capito che la sua penuria, anche se
non si conosce la formula finanziaria in grado di
calcolarla, può creare da sola depressione o
acutizzarne gli effetti. Senza fiducia l'economia
collassa, i conti non tornano, le prospettive
tendono al cupo.
Il discorso parrà politico o sociologico, ma sulla
fiducia si basano anche le speranze della
popolazione di uno Stato e, di conseguenza, le
responsabilità che i cittadini sono chiamati ad
assumere. Persino i paradisi fiscali, per fare un
esempio dibattuto ai nostri giorni, attirano i
renitenti alle tasse se riescono a conquistare la
loro fiducia garantendo impunità e segretezza;
di contro, chi desidera eliminarli, deve soltanto
minare questo rapporto. Basterà aggiungere, per
passare a un altro ambito, che la grande
componente delle diverse crisi italiane è stata la
crescente sfiducia che il cittadino ha avuto,
soprattutto negli ultimi decenni, nelle
istituzioni.
Senza fiducia non si governa o si governa male,
proprio perché mancando l'impulso di questo
indispensabile elemento delle società (e delle
religioni) le speranze si rattrappiscono o si
riducono a poca cosa. Si vive alla giornata e non
si investe nel futuro. Dietro le storie dei capitali,
che hanno prodotto lavoro, ricchezze e
benessere, vi saranno stati anche rischio e
dedizione, fortuna e intelligenza, ma soprattutto
c'erano fiducia e speranza.
D'altra parte, questi ultimi due termini hanno
una storia millenaria, antica quanto le società
civili. Il vocabolo "fiducia" indica (probabilmente
da "fidem ducere") l'avere confidenza in se´ o in
altri, o meglio la convinzione che qualcosa o
qualcuno sarà conforme alle proprie aspettative.
Tommaso d'Aquino, che lo meditò non poco,
ricorda nella Somma Teologica come la fiducia
sia parte completa della virtù cardinale della
fortezza. Per completare il discorso, ricordiamo
che nella premessa alla sua opera dal titolo Il
principio speranza, un filosofo marxista e
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teorico dell'ateismo, sito agli antipodi rispetto al
sommo dottore della Chiesa, Ernst Bloch
(scomparso nel 1977), notava: «L'importante è
imparare a sperare.
Il lavoro della speranza non è rinunciatario
perché di per sé desidera aver successo invece
che fallire».
Siamo così giunti alla riflessione che sta alla base
di ogni convivenza o economia. Aggiungiamo la
segnalazione di un piccolo ma prezioso libro di
Eugenio Borgna, psichiatra e docente, fine clinico
dei problemi che turbano la coscienza del nostro
tempo: Responsabilità e speranza (Einaudi, pagg.
100, € 12,00). Tali pagine, apparentemente,
potrebbero sembrare utili all'indagine della
psiche, in realtà sono scritte per coloro che
intraprendono, che rischiano, che capitalizzano
la fiducia. Borgna ricorda che «noi non siamo
mondi isolati» e che nessuno si conosce fino a
quando è soltanto se stesso; ci offre, tra l'altro,
definizioni da meditare per guardare oltre le
possibili crisi: «La vita è proiezione di speranza».
Non si creda che la via scelta da questo psichiatra
sia quella del linguaggio tecnico della sua
disciplina. Egli invita a conoscere se stessi e gli
altri - da qui nasce il modo più intenso di essere
responsabili - attraverso un teologo come
Bonhoeffer o un magnifico letterato come Rilke;
coglie il desiderio della morte (quando la
speranza non appartiene più all'umano) in
talune missive di Antonia Pozzi, cita le rigorose
indagini statistiche di Luc Ciompi,
dell'Università di Berna, per rammentare che
l'incidenza terapeutica dei farmaci cresce se nei
medici curanti non viene meno la «speranza in
quello che sembrava impossibile». A dire il vero
Borgna si occupa anche delle «emozioni ferite» e
ricorda lo psichiatra Manfred Bleuler per meglio
curarle. Ma qui il discorso ci porterebbe lontano,
giacché le emozioni sono le molle e i sensori di
fiducia e speranze.
Adam Smith ha scritto: «Non é dalla generosità
del macellaio, del birraio o del fornaio che noi
possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo,
ma dalla valutazione che essi fanno dei propri
interessi». Chiunque rilegga l'Indagine sulla
natura e le cause della ricchezza delle nazioni, la
cosiddetta Bibbia del capitalismo, si accorgerà
che speranza e fiducia sono continuamente
presenti. E abbracciano senza requie il vocabolo
"interessi".
© RIPRODUZIONE RISERVATA.
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4/5/2016
COME INVESTIRE NEL FUTURO
di ALESSANDRO ROSINA
UNO dei principali nodi del nostro Paese è la
difficoltà a far stare positivamente assieme la
scelta di avere un figlio con quella di un lavoro.
Favorire la possibilità di realizzare tali due
obiettivi ha ricadute positive per tutti: dovrebbe
quindi essere considerata una priorità per un
Paese che vuole crescere e migliorare le
condizioni di vita dei propri cittadini. Passare
dalla competizione alla conciliazione tra lavoro e
famiglia è stato uno dei punti di svolta principali
delle società moderne avanzate. I Paesi sviluppati
che più hanno investito in tale direzione
presentano oggi una fecondità più elevata e una
maggior presenza femminile nel mercato del
lavoro.
SI TROVANO, di conseguenza, con un
invecchiamento della popolazione meno
accentuato, una crescita economia più solida, un
sistema sociale più sostenibile, maggiori entrate
nelle famiglie e quindi anche una minore povertà
infantile. Se l'Italia mostra una condizione più
problematica in tutti questi ultimi aspetti nel
confronto con il resto del mondo avanzato, è
perché abbiamo a lungo pensato che le misure di
conciliazione fossero un costo sul quale
risparmiare, anziché un investimento ad alto
rendimento in termini di benessere sociale e di
crescita economica. Ci troviamo quindi ora con
un numero di nascite sceso ai livelli più bassi di
sempre e con una occupazione femminile
bloccata su valori tra i più imbarazzanti in Europa.
Non è certo questo l'esito di politiche intelligenti.
Una conferma dell'opportunità e dell'importanza
di sostenere una relazione positiva tra economia
e demografia, che passa attraverso il sostegno
alle scelte delle donne, arriva anche dalle
dinamiche interne al territorio italiano. A partire
dalla metà degli anni Novanta si è assistito ad una
crescita della fecondità nel nostro Paese, al netto
delle nascite straniere, concentrata però solo
nelle regioni del Nord dove maggiori sono sia
l'occupazione femminile sia la presenza di servizi
per l'infanzia.
Le regioni del Sud sono invece passate dall'essere
una delle aree più prolifiche d'Europa a una delle
più depresse, scivolando così in un circolo vizioso
di bassa crescita economica, welfare carente e
invecchiamento incalzante.
Dopo aver dimostrato che un percorso positivo
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può essere intrapreso, anche le regioni
settentrionali si sono però bloccate, a causa della
crisi economica. Dal 2011 tutta l'Italia è, infatti, in
triste ribasso su lavoro e figli. Proprio quando
sarebbe stato necessario potenziare gli aiuti per
mantenere il lavoro e per fare scelte
incoraggianti verso il futuro, il sostegno del
welfare pubblico si è fatto ancora più debole per i
tagli agli Enti locali.
La cronica carenza di asili nido ha portato chi
aveva un impiego a non rischiare di metterlo a
repentaglio con l'arrivo di un figlio. Anche dove
c'erano servizi di qualità, molte giovani coppie
con lavoro incerto e remunerazioni basse hanno
trovato difficoltà ad affrontare i costi della retta
chiedendo maggiormente aiuto di accudimento
ai nonni. La bassa copertura, i costi e le rigidità di
orario si fanno ancor più sentire oggi che in
passato per il fatto che le condizioni economiche
delle nuove generazioni sono diventate meno
solide, con l'aggiunta di tempi di lavoro meno
standard. Sono inoltre cresciute flessibilità e
mobilità lavorativa: molti giovani si spostano per
necessità e opportunità di lavoro, allontanandosi
così dal raggio di azione del supporto dei nonni.
Si può poi aggiungere che un crescente numero
di giovani donne qualificate e intraprendenti
cerca di mettersi in gioco con una propria idea
imprenditoriale. Nelle prime fasi il ritorno
economico per le giovani imprenditrici è basso e
incerto, ma con l'arrivo di un figlio tutto si
complica e si rischia così di interrompere una
attività che avrebbe potuto evolvere in modo
promettente.
Le misure di conciliazione costituiscono
l'esempio più evidente di welfare attivante e
abilitante. Un welfare che è investimento sociale
perché consente ai cittadini di stare meglio e fare
di più. Un incoraggiamento ancor più importante
per le categorie più svantaggiate, nelle fasi della
vita di maggior incertezza, nei periodi storici di
recessione. Se vogliamo generare benessere
inclusivo è soprattutto qui che dobbiamo
dimostrare di sapere realizzare politiche
efficienti.
Alessandro Rosina è docente di Demografia
all'Università Cattolica di Milano e curatore del
"Rapporto giovani 2016" dell'Istituto Toniolo
Twitter @ AleRosina68
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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3/5/2016
IL GRAN MOSTRO È L'OMERTÀ
di FERDINANDO CAMON
Quando i soldati russi arrivarono al lager e
videro i prigionieri, morti e moribondi,
chinarono la testa per la vergogna. Si
vergognavano di appartenere all'umanità che
aveva commesso quella colpa. Adesso è la nostra
volta. Arriva la notizia di questa bambina di sei
anni che - stando all'accusa - si è ribellata a un
adulto di 43 che voleva violentarla, ed è stata
presa per un braccio e buttata giù dall'ottavo
piano. Vorremmo non crederci, ma un gip dice
purtroppo di avere testimonianze
«inoppugnabili», e questa parola ci schiaccia.
Apparteniamo a un Paese dove succedono
queste cose, e ci vergogniamo. Non era la prima
violenza per quella bambina, secondo chi indaga
era già stata abusata da quello stesso uomo. E il
fatto non riguarda una bambina e un adulto,
perché altre bambine erano state violentate.
Alcune di queste bambine erano figlie della
donna con la quale l'uomo viveva. E c'è un altro
omicidio nel quartiere, un altro bambino volato
giù dall'ottavo piano. I media dicono: 'C'è un
orco nella zona', e per 'orco' intendono un uomo
sbagliato o malato, che violenta e uccide i piccoli
e non si pente e non smette ma ripete la violenza e
gli omicidi.
Se le notizie restan queste, il concetto di uomoorco, o di orco-uomo, dovrà essere modificato.
Perché il caso di questa bambina di sei anni che
s'è ribellata ed è stata scaraventata giù si
complica di tante complicità. C'è una testimone
oculare, un'amichetta della vittima, che ha visto
la scena della violenza e dell'uccisione, e l'ha
raccontata alla polizia, ma c'è anche sua mamma,
che ha visto tutto eppure le raccomandava: «Stai
zitta, è un segreto».
Se davvero questa donna conosce un orrendo
omicidio, ma lo nasconde, come dev'essere
giudicata? Indifferente? Assente? No. Da
profano, da non-conoscitore del Diritto,
rispondo per istinto: 'Presente e complice'. C'è
una donna che ha delle figlie piccole, qualcuna di
queste piccole veniva violentata, si lamentava
con lei perché la violenza le causava dolore, e la
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donna («non ci regge il cuore di chiamarla
madre», direbbe Manzoni) rispondeva: «Ti
passerà». Come dev'essere giudicata questa
donna? Cinica? Insensibile? No. Da profano, da
non-conoscitore del Diritto, rispondo per istinto:
'Parte attiva e complice'. È lei che tollera,
permette, favorisce la violenza sessuale sulla
figlia piccola.
E quando la permette? Sempre: quando la
violenza si compie e in tutto il tempo futuro,
perché sta sempre zitta, non denuncia mai.
Se le cose stanno così (speriamo sempre di no,
ma le smentite ancora non arrivano) qui 'orco' è
un termine collettivo, che comprende l'uomo
(chiamiamolo così) che fa queste cose, ma anche
tutta l'umanità spicciola che gli ruota intorno e
tace. L'orco-palazzo, l'orco-quartiere, l'orcofamiglia. La forza che crea l'orco collettivo è
l'omertà. A violentare e uccidere questa piccola
bambina è un uomoorco, a uccidere l'altra
vittima volata giù anch'essa dall'ottavo piano è lo
stesso o un altro uomo-orco, a creare i ripetuti
casi di pedofilia nella zona è lo stesso o un altro o
altri uomini-orchi, ma a creare questo habitat
dove i casi di violenza e omicidio si ripetono, è
l'omertà. Al Parco Verde di Caivano e ovunque.
L'omertà sta alla proliferazione degli orchi come
la pioggia in un bosco sta alla proliferazione dei
funghi. L'omertà non è una inerzia, è una forza. È
la forza che espande l'orco-individuo in orcoquartiere. L'omertà non vuole che il delitto venga
scoperto e punito, perché questo crea disordine e
il disordine è pericoloso, mentre l'omertà si trova
bene nell'ordine del male. L'omertà non vuole
che i carabinieri scoprano e portino via
l'assassino, perché non ama i carabinieri e non
ama lo Stato. L'omertà non è paura del male, è
accettazione del male.
Tra la donna che ha visto tutto ma consiglia alla
figlia di tacere, e la figlia che risponde: «Io devo
dire la verità», la speranza è che quella sia il
passato e questa il futuro. Il passato, prima o poi,
passerà.Aiutiamo il futuro a venire avanti.
Ferdinando Camon
RIPRODUZIONE RISERVATA.
pagina 4
28/4/2016
L'ANALISI
Più etica senza se e senza ma
di PAOLO POMBENI
Etica e politica: un binomio necessario,
senza se e senza ma, però anche senza
trasformarlo in un mantra da cui ci si
aspettano risultati che nessuna ripetizione
di formule più o meno magiche può dare. di
Paolo Pombeni I fatti portati recentemente
alla luce in Campania tutto possono essere
meno che eventi inattesi. Va da sé che
un'inchiesta e una incriminazione non sono
ancora una sentenza e dunque deve sempre
valere il diritto degli indagati a non essere
considerati colpevoli sino a quando non ci
sia una sentenza definitiva. È altrettanto
vero che un'inchiesta quando porta alla luce
fenomeni corruttivi credibili non può
lasciare indifferente una opinione pubblica
preoccupata per una decadenza dei costumi
che ha percepito da sola prima ancora che gli
inquirenti ne faccessero oggetto di indagine.
La politica non può estraniarsi da questo
contesto, quasi che la presenza della
corruzione fosse una appendice naturale e
inevitabile delle sue attività, una specie di
rischio del mestiere. Non può farlo perché
ne va della sua credibilità e perché così apre
la strada a tutte le demagogie.
Dunque la prima cosa che oggi tutta la classe
politica deve assumere come obbligo
inderogabile è la sua autotutela rispetto ai
rischi che corre muovendosi in contesti
inquinati dalla corruzione e dal malaffare.
Lasciamoci alle spalle le generalizzazioni
che la buttano sul banale, tipo: tutti i
contesti lo sono. Che il rischio sia presente
ovunque è una banalità, che lo sia in misura
eguale in tutti gli ambienti è una falsità.
Proprio per questo i partiti dovrebbero
predisporre speciali tutele per sé stessi
quando operano là dove è nota l'esistenza di
un alto rischio di interventi corruttivi, vuoi
per la presenza massiccia di criminalità
organizzata, vuoi perché si sono instaurati
circuiti di favoritismi accettati come
normali.
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C'è da chiedersi perché i partiti facciano
molto poco, a volte addirittura nulla per
difendersi da questi rischi. Le tradizionali
spiegazioni, per cui chi vive in ambienti
deteriorati fa fatica a muoversi senza
sporcarsi, sono consolatorie, ma
ingiustificate. Certo ad assumere
atteggiamenti rigorosi si perde consenso in
quegli ambienti e c'è il rischio che quel
consenso si sposti sugli avversari. Ma qui
bisogna far valere due considerazioni.
La prima è che proprio per questo una seria
lotta alla corruzione deve basarsi su un
patto che coinvolga sperabilmente tutti i
soggetti ricattabili. Se chi cerca vantaggi
indebiti e/o illeciti si trova tutte le porte
sbarrate sarà costretto a cambiare registro.
La seconda è che in ogni caso bisogna che
qualcuno inizi a dare l'esempio, altrimenti la
spirale non verrà mai spezzata.
Questo richiede una selezione rigorosa della
classe dirigente politica. Anche qui non ci si
può nascondere che è un'impresa non
semplice, perché siamo in crisi di vocazioni.
La scelta della politica come professione
attira poco, soprattutto persone che non
hanno molte opportunità di collocarsi
diversamente sul piano sociale, oppure
giovani che non trovano ingresso nel
mercato del lavoro. La conseguenza è un
certo scadimento della qualità del personale
(con le dovute eccezioni, ovvio) e in più la
spinta in chi riesce a collocarsi in posizioni
adeguate verso strategie di consolidamento
delle proprie fortune politiche e personali.
Come ciò porti alla facilità di cedere alle
tentazioni che vengono da un sistema di
corruzione che è anche abile a presentarsi
magari come forma di "peccato veniale" è
facile da immaginare.
La dirigenza nazionale dei partiti e chi
elabora le culture di riferimento delle nostre
classi dirigenti queste cose deve saperle e
deve agire di conseguenza.
© RIPRODUZIONE RISERVATA.
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1/5/2016
Paesi ricchi e poveri
I confini del nostro scontento
di Gian Antonio Stella
O sono ciarlatani gli scienziati che studiano la demografia o
sono ciarlatani coloro che buttano lì formulette di soluzioni
facili facili. «Se il sogno di alcuni si realizzasse, e i Paesi
ricchi "blindassero" le loro frontiere», scrivono nel saggio
«Tutto quello che non vi hanno mai detto sull'immigrazione»
(Laterza), Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna citando i
dati ufficiali della Population Division delle Nazioni Unite,
«nel giro di vent'anni i loro abitanti in età lavorativa
passerebbero da 753 a 664 milioni». Ottantanove milioni in
meno. Più o meno la popolazione in età lavorativa della
Germania e dell'Italia messe insieme. Nel nostro specifico,
«nei prossimi vent'anni, per mantenere costante la
popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno dovranno
entrare in Italia, a saldo, 325 mila potenziali lavoratori, un
numero vicino a quelli effettivamente entrati nel ventennio
precedente. Altrimenti, nel giro di appena vent'anni i
potenziali lavoratori caleranno da 36 a 29 milioni». Con
risultati, dalla produzione industriale all'equilibrio delle
pensioni, disastrosi. Vale anche per l'Austria che vuole
chiudere il Brennero: senza nuovi immigrati nel 2035 la
popolazione in età 20-64 calerebbe lì del 16%: da 5,3 a 4,4
milioni. Con quel che ne consegue. Semplice, barricarsi:
ma poi? Chi vuole può pure maledire i tempi, ma poi? E
allora, ringhierà qualcuno, «dobbiamo prenderci tutti quelli
che arrivano?». Ma niente affatto. Sarebbe impossibile
perfino se, per paradosso, lo accettassimo. Se fossero i
Paesi poveri a chiudere di colpo le loro frontiere infatti «nel
giro di vent'anni la loro popolazione in età 20-64
aumenterebbe di quasi 850 milioni di unità, ossia più di 42
milioni l'anno».
Brividi. Nessuno ha la formula magica per risolvere questo
problema epocale. Nessuno può ricavarla dalla storia. Gli
uomini si spostano, come spiega il filosofo ed evoluzionista
Telmo Pievani, «da quasi due milioni di anni». Ma mai prima
c'era stato uno tsunami demografico di questo genere.
Questo è il nodo: se possiamo tenere i nervi saldi e
prendere atto con realismo della difficoltà di individuare qui
e subito soluzioni salvifiche, un po' come quando la scienza
brancola dubbiosa davanti a nuovi virus, è però impossibile
rassegnarci a certi andazzi. Di qua il tamponamento
quotidiano e affannoso delle sole emergenze con la
distribuzione dei profughi a questo o quell'albergatore
(magari senza scrupoli) senza un progetto di lungo respiro.
Di là i barriti contro gli immigrati in fuga dalla fame o dalle
guerre con l'incitamento a fermare l'immensa ondata
stendendo reti e filo spinato. E non uno straccio di statista
che rassicuri le nostre società spaventate mostrando di
essere all'altezza della biblica sfida.
Dice un rapporto Onu che «chi lascia un Paese più povero
per uno più ricco vede in media un incremento pari a 15
volte nel reddito e una diminuzione pari a 16 volte nella
mortalità infantile»: chiunque di noi, al loro posto, sarebbe
disposto a giocarsi la pelle per «catàr fortuna», come
dicevano i nostri nonni emigrati veneti. Anche se, Dio non
voglia, ci sparassero addosso. Tanto più sapendo che in
Europa e in Italia, grazie a una rete familiare e a un welfare
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che comunque garantisce quel minimo vitale altrove
impensabile, c'è ancora spazio per chi è pronto a fare i «ddd
jobs», i lavori «dirty, dangerous and demeaning» (sporchi,
pericolosi e umilianti) rifiutati da chi si aspettava di meglio.
Non basterebbe neppure una miracolosa accelerazione nel
futuro: nella California di Google e della Apple, ricordano
ancora Allievi e Dalla Zuanna, «ogni due nuovi posti di
lavoro high tech ne vengono generati cinque a bassa
professionalità: qualcuno dovrà pure stirare le camicie dei
benestanti, curare i loro giardini, prendersi cura dei loro
anziani». Altro che i corsi di formazione per baristi
acrobatici.
Come ne usciamo? Soluzioni rapide «chiavi in mano», a
dispetto di tutti i demagoghi, non ci sono. Ci vorranno
tempo, pazienza, fermezza, lungimiranza. Alcune cose
tuttavia, nel caos, sono chiare. Primo punto, nessuno, se
può vivere dov'è nato, affronta le spese, le fatiche, i rischi e
le umiliazioni di certi viaggi: occorre dunque «aiutarli a casa
loro» sul serio, non con le ipocrisie, gli oboli (il G8 dell'Aquila
diede all'Africa i 13 millesimi dei fondi dati alle banche per la
crisi), i doni ai dittatori o la cooperazione internazionale
degli anni Ottanta che finì travolta dagli scandali
(indimenticabili i silos veronesi sciolti sotto il sole sudanese)
dopo che Gianni De Michelis aveva ammesso alla Camera
che il 97% dei fondi al Terzo mondo finiva (spesso a
trattativa privata) ad aziende italiane che volevano
commesse all'estero.
Mai più. Meglio piuttosto cambiare le regole del commercio
internazionale che per proteggere lo status quo
dell'Occidente inchiodano i Paesi in via di sviluppo a non
crescere. Citiamo Kofi Annan: «Gli agricoltori dei Paesi
poveri non devono solo competere con le sovvenzioni ai
prodotti alimentari d'esportazione, ma devono anche
superare grandi ostacoli a livello di importazione. () Le
tariffe doganali Ue sui prodotti della carne raggiungono
punte pari all'826%.
Quanto più valore i Paesi in via di sviluppo aggiungono ai
loro prodotti, trasformandoli, tanto più aumentano i dazi».
Qualche anno dopo, la situazione non è poi diversa.
Secondo: basta coi traffici di armamenti verso Paesi in
guerra. Quanti eritrei che arrivano coi barconi scappano da
casa loro dopo aver provato sui loro villaggi e le loro famiglie
la «bontà» delle armi vendute al regime di Isaias Afewerki
anche da aziende italiane ed europee, come dimostrò
l'Espresso, nonostante l'embargo? Pretendiamo che
restino a casa loro e insieme che si svenino a comprare le
nostre armi?
Terzo: parallelamente a un percorso accelerato per mettere
gli italiani in condizione di fare più figli sempre più
indispensabili, a partire da una ripresa vera del ruolo
educativo della scuola anche su questo fronte, è urgente
arrivare finalmente alle nuove norme sulla cittadinanza.
Forse ci vorranno decenni per realizzare il sogno di Mameli
(«Di fonderci insieme già l'ora suonò») allargato a tanti
nuovi italiani che vogliono sentirsi italiani, ma certo non è
facile pretendere che sia un bravo cittadino chi cittadino
fatica a diventare.
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28/4/2016
ATTENTI ANCHE AGLI AMICI
di RICCARDO REDAELLI
All'apparenza è un rompicapo senza soluzioni. È
evidente che la Libia da sola non può farcela e che
quindi una missione militare di stabilizzazione
dovrà essere organizzata, su richiesta del governo
Sarraj. E sembra altrettanto logico che l'Italia la
guidi, il che implica mettere sul tavolo soldati e
soldi. Ma altrettanto evidente è come questa
missione rischi di essere una trappola mortale,
considerate le fratture fra le mille milizie rivali. Ma
anche perché non sembra esservi chiarezza su quali
siano i suoi obiettivi politici e strategici. Perché se
c'è una lezione che abbiamo imparato dalle
precedenti grandi operazioni internazionali di
peacebuilding (cioè di ricostruzione della pace) è
che senza un'agenda politica chiara e condivisa si
rischia il fallimento.
Già, purtroppo, questa chiarezza e comunità di
obiettivi sembra lontanissima quando si parla di
Libia. Deriva forse da questa costatazione la
prudenza del governo, che per qualcuno è
ambiguità o contraddizione, ma che piuttosto
sembra la comprensione dei pericoli di coordinare
una missione internazionale in cui i principali
partner mantengono agende politiche nascoste e
duplici. Oltre a noi, nel Paese nordafricano, sono
molto attivi francesi e inglesi. Alleati- competitori
con cui abbiamo avuto anni di incomprensione e di
anche acuta rivalità. L'atteggiamento inglese, in
particolare è stato talvolta percepito da Roma come
ostile. Londra sembra aver puntato le sue carte sul
consolidamento della presenza in Cirenaica, più
che sulla tenuta della Libia come stato unitario. E
questa è una politica che mina la nostra strategia di
sicurezza e che risulta antitetica all'obiettivo di
sgombrare il campo da ogni ipotesi di
frazionamento del Paese. L'atteggiamento dei
francesi è ancora più ambiguo: a parole
appoggiano il governo di unità nazionale, ma non è
un mistero il loro appoggio al generale Haftar,
l'uomo forte di Tobruk, sponsorizzato da Egitto ed
Emirati. Haftar ha lanciato la sua grande offensiva
contro tutte le milizie e le forze islamiste, in nome
dell'«unità della Libia ». Ma in realtà è egli stesso il
capo di una fazione, che sgomita per assicurarsi
una fetta del potere. E l'idea di considerare come un
unico blocco tutte le fazioni della galassia
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islamista, da quelle violente jihadiste a quelle della
fratellanza islamica, ci spinge dritti in una
pericolosa trappola ideologica. Perché è velleitario
immaginare di agire in Libia senza interagire con i
movimenti islamisti meno ideologizzati.
L'impressione è che Parigi guardi più ai suoi
legami (e alla vendita di armi) all'Egitto e alla
sicurezza della sua area di influenza nella fascia
subsahariana che alla stabilità della Libia in quanto
tale.
Gli Stati Uniti stanno uscendo a fatica da una certa
"letargia" strategica verso questo quadrante.
Hanno finalmente capito che non possono
appaltare la gestione solo a noi europei. E sembra
di capire che guardino con favore alla nostra
politica e alla nostra strategia. Ma la loro campagna
elettorale non ci aiuta.
Fra i partecipanti allo sforzo di stabilizzazione vi
dovrebbe essere anche la Germania; un gigante
economico che ha spesso scelto - per motivi storici
evidenti - di essere estremamente prudente sul
piano geopolitico. Stavolta però, vista e
considerata la rovente situazione sul campo
nordafricano, Berlino dovrà chiarire - e chiarirsi su quale siano gli obiettivi strategici reali che
persegue.
Insomma, date queste prospettive, accettare la
direzione di una missione così pericolosa con
alleati che perseguono interessi non convergenti - o
di fatto divergenti - con i nostri interessi appare
puro autolesionismo. Ma la verità è che saremo
probabilmente costretti ad agire dalle dinamiche
sul terreno; anche per evitare che vi sia un contagio
verso altri Paesi, come la Tunisia e l'Algeria.
Quest'ultima dovrà affrontare una difficile
transizione politica e rischia di venir risucchiata nel
gorgo delle violenze islamiste. Dobbiamo quindi
lavorare - con l'aiuto di Washington e mai senza
consenso significativo tra le parti libiche - per
arrivare a una condivisione, almeno parziale, degli
obiettivi prioritari di una futura missione sull'altra
riva del Mediterraneo. Confidando che risultati sul
campo e faticosi (e discreti) sforzi negoziali
favoriscano questa convergenza. Ma sapendo che
si danza pericolosamente sul ciglio di un abisso.
Riccardo Redaelli
RIPRODUZIONE RISERVATA
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PAPA FRANCESCO
REGINA COELI
Roma - Piazza San Pietro
Domenica, 1 maggio 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo di oggi ci riporta al Cenacolo. Durante l’Ultima Cena,
prima di affrontare la passione e la morte sulla croce, Gesù
promette agli Apostoli il dono dello Spirito Santo, che avrà il
compito di insegnare e di ricordare le sue parole alla comunità dei
discepoli. Lo dice Gesù stesso: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il
Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi
ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Insegnare e
ricordare. E questo è quello che fa lo Spirito Santo nei nostri cuori.
Nel momento in cui sta per fare ritorno al Padre, Gesù
preannuncia la venuta dello Spirito che anzitutto insegnerà ai
discepoli a comprendere sempre più pienamente il Vangelo, ad
accoglierlo nella loro esistenza e a renderlo vivo e operante con la
testimonianza. Mentre sta per affidare agli Apostoli – che vuol dire
appunto “inviati” – la missione di portare l’annuncio del Vangelo
in tutto il mondo, Gesù promette che non rimarranno soli: sarà con
loro lo Spirito Santo, il Paraclito, che si porrà accanto ad essi,
anzi, sarà in essi, per difenderli e sostenerli. Gesù ritorna al Padre
ma continua ad accompagnare e ammaestrare i suoi discepoli
mediante il dono dello Spirito Santo.
Il secondo aspetto della missione dello Spirito Santo consiste
nell’aiutare gli Apostoli a ricordare le parole di Gesù. Lo Spirito
ha il compito di risvegliare la memoria, ricordare le parole di
Gesù. Il divino Maestro ha già comunicato tutto quello che
intendeva affidare agli Apostoli: con Lui, Verbo incarnato, la
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rivelazione è completa. Lo Spirito farà ricordare gli insegnamenti di
Gesù nelle diverse circostanze concrete della vita, per poterli
mettere in pratica. È proprio ciò che avviene ancora oggi nella
Chiesa, guidata dalla luce e dalla forza dello Spirito Santo, perché
possa portare a tutti il dono della salvezza, cioè l’amore e la
misericordia di Dio. Per esempio, quando voi leggete tutti i giorni –
come vi ho consigliato – un brano, un passo del Vangelo, chiedere
allo Spirito Santo: “Che io capisca e che io ricordi queste parole di
Gesù”. E poi leggere il passo, tutti i giorni… Ma prima quella
preghiera allo Spirito, che è nel nostro cuore: “Che io ricordi e che
io capisca”.
Noi non siamo soli: Gesù è vicino a noi, in mezzo a noi, dentro di noi!
La sua nuova presenza nella storia avviene mediante il dono dello
Spirito Santo, per mezzo del quale è possibile instaurare un
rapporto vivo con Lui, il Crocifisso Risorto. Lo Spirito, effuso in noi
con i sacramenti del Battesimo e della Cresima, agisce nella nostra
vita. Lui ci guida nel modo di pensare, di agire, di distinguere che
cosa è bene e che cosa è male; ci aiuta a praticare la carità di Gesù,
il suo donarsi agli altri, specialmente ai più bisognosi.
Non siamo soli! E il segno della presenza dello Spirito Santo è anche
la pace che Gesù dona ai suoi discepoli: «Vi do la mia pace» (v. 27).
Essa è diversa da quella che gli uomini si augurano o tentano di
realizzare. La pace di Gesù sgorga dalla vittoria sul peccato,
sull’egoismo che ci impedisce di amarci come fratelli. E’ dono di
Dio e segno della sua presenza. Ogni discepolo, chiamato oggi a
seguire Gesù portando la croce, riceve in sé la pace del Crocifisso
Risorto nella certezza della sua vittoria e nell’attesa della sua
venuta definitiva.
La Vergine Maria ci aiuti ad accogliere con docilità lo Spirito Santo
come Maestro interiore e come Memoria viva di Cristo nel cammino
quotidiano.
© Copyright 2016 - Libreria Editrice Vaticana
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IL CAMMINO VERSO L'EUROPA,
TERRA COMUNE,
CHE NESSUN MURO POTRÀ FERMARE
Francesco Paolo Rizzo S.I.
Alle origini
Era già tramontata l'età teodosiana. Due principes pueri, Onorio e Arcadio, nel 395
erano saliti al trono rispettivamente di Occidente e di Oriente. Mentre però la pars
orientale si mostrava resistente alle spinte disgregatrici, quella occidentale subiva
presto il flusso barbarico.
La presenza di «popoli nuovi» nelle province occidentali dell'Impero si era delineata
già a partire dal II secolo nella forma di «infiltrazione», cioè come tendenza a inserirsi nei
lavori agricoli e nei bassi servizi domestici e militari.
Ma poi questi popoli erano diventati intere schiere in cerca di terre da abitare,
riuscendo infine a stanziarvisi e a costituirne l'elemento dominante e capace di far
prevalere, nonostante l'iniziale arretratezza dei costumi, il proprio stile di vita. Si era
trattato di una vera e propria invasione, straripante dal Danubio e dal Reno, che aveva
visto, nei primi decenni del V secolo, gli invasori, dopo vari spostamenti, prendere
stabile dimora nelle varie terre dell'Impero: i visigoti nello Stato di Tolosa, i burgundi, i
goti e i franchi nella Gallia, gli svevi nella Spagna, i vandali di Genserico nell'Africa, i
celti in Bretagna.
Il fenomeno sarebbe giunto al culmine nel 476, quando lo sciro Odoacre, deposto
Romolo Augustolo, avrebbe rimandato a Costantinopoli le insegne imperiali
d'Occidente e avrebbe assunto il potere nella penisola italiana. Era così scomparsa
perfino l'ombra dell'antico Impero: dopo Valentiniano III (423-455), succeduto a
Onorio, niente più che una serie di larve imperiali ne aveva tenuto il governo. E neppure
l'Augusta Galla Placidia, madre di Valentiniano III - nonostante la forte personalità
ereditata dal padre Teodosio, e nonostante l'azione militare di Ezio, magister utriusque
militiae -, era riuscita a fermare il violento flusso migratorio.
Il severo giudizio di un asceta
Un contemporaneo e rigoroso interprete degli avvenimenti sopra menzionati fu
Salviano, presbitero di Marsiglia, che li giudicò una punizione predisposta dalla
Provvidenza a correzione dei romani che li avevano subiti. Egli, che era anche asceta
oltre che uomo di cultura, compose la sua veemente accusa, il Degubernatione Dei (Il
governo di Dio), intorno al 450.
Gli studi su questo scritto non sono stati pochi, e concordano nel riconoscere il
rigore spiccatamente monastico e ascetico della trattazione, tuttavia corrispondente
alle situazioni di fatto. Anni fa il card. Pellegrino giudicò la frusta adoperata da Salviano
immeritata da molta parte del popolo romano. Nello stesso tempo, però, la verità storica
impone che si dia ragione al prete di Marsiglia quando rileva i preponderanti lati
negativi dei romani della sua epoca. Ne ebbe piena consapevolezza lo storico Stein,
quando considerò il De gubernatione Dei «la fonte che ci rivela meglio la situazione
interiore dell'Impero di Occidente, la sola che ci fa vedere direttamente tutta la miseria
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del tempo nella sua atroce realtà».
Fanno pensare soprattutto i severi avvertimenti che il presbitero di Marsiglia rivolgeva
a coloro che contravvenivano agli obblighi concernenti la morale sessuale: si veda in
particolare VI, 3, 19. Ma non meno sferzante era la sua frusta nei riguardi dei religiosi - e
«sono parecchi», egli precisava - che ambivano nuove cariche e che, dopo essersi fregiati
del titolo di penitenti, acquistavano poteri enormi che prima non avevano (V, 10, 52); nei
riguardi dei ricchi che, vivendo nell'abbondanza, non si davano pensiero dei fratelli
«oppressi dagli sciacalli» e ridotti a un incessante depauperamento (V, 5, 19; 7, 28; 7, 31);
e nei riguardi di tutti quelli che «si facevano un baffo della legge di Dio» (VI, 7, 38; VII, 1, 1).
La prospettiva di un grande sviluppo storico
L'invettiva salvianea, sebbene sia stata composta in uno dei momenti più turbinosi
della storia europea, non mancò tuttavia di considerare gli aspetti idonei a infondere
speranza per il futuro. Proprio quella fiumana di popoli, infatti, aveva dato inizio a
profondi mutamenti di abitudini e di mentalità, che avrebbero trasformato la vecchia area
imperiale nell'Europa dei secoli successivi. Intanto, proprio la presenza dei popoli
sopravvenuti aveva posto fine alla politica fiscale del governo imperiale e all'imperante
sperequazione tra gli intoccabili divites e la massa sempre crescente dei pauperes.
Salviano, inoltre, scrutando con occhi penetranti l'evolversi degli avvenimenti del suo
tempo, ne aveva riconosciuto anche il carattere «provvidenziale». E questo lo aveva indotto
a giudicare positivamente anzitutto la convivenza tra i due popoli, e a non dare peso lodevole spregiudicatezza! - all'arianesimo dei barbari. Egli aveva colto il profilarsi
all'orizzonte di qualcosa di nuovo. intuendone sia pure vagamente la forma, che la storia
dimostrerà poi avere l'impronta incancellabile di quei popoli sopravvenuti, ma arricchita
dall'eredità romana e cristiana.
Certo, sarebbe ingannevole riconoscere nel De gubernatione Dei la previsione profetica
di questo sviluppo storico, ma la percezione dello «scorrere» della storia è un merito che
non può essere negato a Salviano.
Un eredità da salvare e da potenziare
In verità, la storia ha fatto il suo corso: quel frazionamento dell'area occidentale
dell'Impero romano, causato dagli eventi barbarici, ha attraversato i secoli,
manifestandosi nella molteplicità degli Stati che nelle età successive hanno composto
l'area europea. E questa, dopo secoli di lacerazioni subite in modi svariati e alterni, ci
viene ora consegnata nel tratto finale di un processo di pacifica riunificazione. Ma tocca a
noi perfezionare questo processo, perché si concretizzi nella creazione di una casa che,
oltre a essere davvero comune, sia pure aperta all'accoglienza.
Abbiamo già assistito al ripetersi - e con modalità incredibilmente simili - della lenta e
pacifica infiltrazione di genti esterne: oggi sono quelle provenienti da Paesi poveri
(dall'Africa, per esempio, o dalla Romania), e da noi impiegate in mansioni di basso profilo
e per lo più disdegnate dai lavoratori locali.
Questo fenomeno, allora, preluse a quello massivo delle invasioni barbariche. Oggi,
quelle che premono sulle nostre frontiere sono moltitudini di migranti - già parecchi
milioni - in fuga da patrie oppresse da guerre e da fame, e talvolta desiderosi di
congiungersi nelle nostre terre con parenti precedentemente emigrati, o da noi stessi
chiamati a lavorare.
Non pochi di questi profughi sono già riusciti a prendere stabile dimora nelle nostre
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città, conducendo nella maggior parte dei casi uno stile di vita lontano dal nostro. Lo
spettacolo di interi nostri quartieri abitati da gente di colore si affianca a quello parallelo
dei quartieri abitati da cittadini del luogo.
Frattanto aumenta giorno dopo giorno il numero degli emigranti che premono sulle
nostre città, dando luogo a scenari strazianti che gridano vendetta dinanzi a Dio: migliaia
di disperati costretti a versare i risparmi dell'intera loro vita a trafficanti senza scrupoli
per essere da loro traghettati sulle nostre spiagge, ma in realtà per finire, a volte,
catapultati nei mari, che stanno diventando terribili cimiteri di vite umane martoriate,
comprese quelle di innocenti bambini. E ancora migliaia sono quelli che, pur riuscendo a
toccare terraferma o trascinandosi fino allo sfinimento per lunghi e impervi percorsi
terrieri, trovano alla fine frontiere di ferro spinato o muri disposti per bloccare la loro
disperata ricerca di salvezza.
L'enfasi sulla sicurezza ha infatti come conseguenza immediata un'accelerazione
delle politiche di chiusura dei confini, che già alcuni Stati membri dell'Europa orientale
avevano iniziato a mettere in atto. Pochi, al contrario, si rendono conto che proprio coloro
che oggi chiedono rifugio potrebbero essere una risorsa per rinnovare l'Europa.
ll futuro dell'Europa affidato alla nostra responsabilità
Di questo compito epocale si è spesso fatto interprete autorevole Papa Francesco,
raccomandandone, oltre allo spirito umanitario con cui va compiuto, anche l'urgenza:
«Con l'accoglienza e la fraternità si può aprire una finestra sul futuro e, più che una
finestra, una porta, e si può avere ancora un futuro!»: «Accogliere con attenzione la
persona che arriva significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano senza calcoli,
senza timore, con tenerezza e comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli
apostoli».
Questa attenzione fraterna. naturalmente, non esclude, anzi esige, che si pratichino
al contempo politiche «che aiutino i Paesi di origine di questi migranti a superare i loro
conflitti interni». Ma - chiediamocelo francamente - troviamo noi nella nostra Europa
tanta apertura d'animo quanta ne esigerebbe una simile fraterna disponibilità?
Per Salviano, le invasioni dei barbari nel V secolo hanno, sì, rappresentato un evento
traumatico, ma hanno dato vita ai regni romano-barbarici, nei quali stava per avere
sbocco l'assetto dell'intera Europa. Ma ora? Forse si può ripetere la definizione che del De
gubernatione Dei ha dato un commentatore: «un esame di coscienza per la cristianità di
ieri e di oggi».
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«FUOCOAMMARE», UN DOCUMENTARIO
DI GIANFRANCO ROSI
Virgilio Fantuzzi S.I.
Dopo aver vinto il «Leone d'oro» a Venezia con il documentario Sacro Gra nel 2013 (cfr
Civ. Catt. 2013 IV 603-606), colloquio a tu per tu con le persone che vivono ai margini di
Roma, lungo il percorso del Grande raccordo anulare, il regista Gianfranco Rosi ha vinto
con Fuocoammare l'«Orso d'oro» alla Berlinale di quest'anno con la seguente motivazione:
«La giuria ha sentito tutta la compassione del regista e la sua forza cinematografica nel
combinare una questione politica e un racconto squisitamente artistico, coraggioso e
struggente. Rosi ci ha spiegato quanto possa agire un documentario quando è così
urgente, immaginativo e necessario».
Il film parla della tragedia degli sbarchi a Lampedusa, e il regista, che ha trascorso più
di un anno nell'isola per realizzarlo, ha dedicato il premio «a tutte le persone che non sono
mai approdate a Lampedusa perché morte in mare e a quelle che invece vivono sull'isola.
Persone così aperte ad accogliere me come ciascuna donna e ciascun uomo che vi arriva,
da ovunque. Loro hanno veramente il cuore aperto e a chi chiede il perché, rispondono che
i pescatori prendono tutto ciò che viene dal mare».
Samuele
Il film inizia con una lunga inquadratura dove si vede un albero con il tronco e i rami
stranamente contorti. C'è del verde all'intorno. Chi conosce Lampedusa sa che è un'isola
brulla. Una striscia di roccia frastagliata, venti chilometri quadrati, settanta miglia
dall'Africa e centoventi dalla Sicilia. Verde non se ne vede qui, salvo una lieve «peluria» nel
mese di aprile. Il verde che si vede in questa immagine dice che Rosi ama quest'isola e ha
aspettato mesi per poterla fare apparire meno arida di come effettivamente è.
L'albero contorto parla della fatica che la scarsa vegetazione ha dovuto affrontare per
secoli, lottando per sopravvivere contro le raffiche di vento e gli spruzzi delle onde
salmastre. Questo pensa lo spettatore mentre l'inquadratura si prolunga, ed è già una
lezione di vita: se hai uno scopo da raggiungere non devi aver paura dei sacrifici, perché la
vita stessa è un sacrificio. Un ragazzino di 12 anni, Samuele, vispo e intraprendente, si
arrampica sull'albero di ramo in ramo. La sua salita, che la macchina da presa segue in
maniera analitica, detta il tempo dell'inquadratura.
È l'inizio di un percorso che non sarà breve, e che il regista ha deciso di intraprendere
partendo da lontano. Samuele ha adocchiato un ramo dal quale intende ricavare la
forcella di una fionda. Lo vediamo mentre costruisce con le sue mani l'arma che gli serve
per andare a caccia. Mentre lavora, spiega a Mattias, un amichetto suo coetaneo, che per
costruire un oggetto a regola d'arte e sapersene servire a dovere bisogna avere passione. Si
capisce che il percorso che ci sta davanti, oltre a essere lungo e laborioso, sarà irto di
ostacoli da superare.
Samuele, che ha una mira infallibile quando tira i sassi con la fionda, ha l'abitudine di
chiudere l'occhio sinistro per centrare meglio il bersaglio. A un certo punto però,
chiudendo l'occhio destro, si accorge che con il sinistro non ci vede affatto. Va dall'oculista
e viene a sapere che il suo occhio sinistro è pigro. Dovrà mettere una benda sull'occhio
destro per aiutare il sinistro a risvegliarsi. Continuerà a giocare, ma, a questo punto, il
gioco diventa un'occasione di crescita.
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Qualcuno dice che l'occhio pigro di Samuele è la metafora della pigrizia con la quale
tutti noi distogliamo lo sguardo dalla presenza degli immigrati che bussano alle porte
dell'Europa. Rosi ricorda che, durante la lavorazione del film, ha fatto in modo che
Samuele non vedesse le immagini dei cadaveri, che sono il punto di arrivo del lungo
viaggio del regista nell'isola. «A quel momento lo spettatore deve arrivare attraverso il
mondo interiore di Samuele - dice Rosi -. Deve conquistarla quell'immagine. Quando
Samuele va a esplorare la natura di notte con la torcia elettrica è come se fosse dentro una
fiaba. È il suo romanzo di formazione: la sua difficoltà a crescere, e la nostra difficoltà a
cogliere questa dura realtà».
Vita sull'isola
Invece che davanti alla pianta plurisecolare, il film avrebbe potuto cominciare su una
nave anfibia che solca le acque internazionali davanti alle coste nordafricane per
intercettare l'arrivo delle imbarcazioni dei migranti dirette a Lampedusa. Inizio da film di
guerra. Radar, cannocchiali, plance di comando, elicotteri che si alzano in volo, comandi
lanciati via radio, sonar dal bip ipnotico. Nella luce a cavallo di un'alba sul Mediterraneo si
apre la poppa della nave che ingoia una piccola imbarcazione di migranti.
Nell'immensa stiva iniziano le operazioni di accoglienza, assistenza e riconoscimento.
Lunga sequenza in piano fisso. Si respira la tensione di un'operazione militare. Prologo
che dà il segno alla storia. Ma Fuocoammare non è un film di guerra, salvo che per il titolo,
che contiene un riferimento alla situazione di settant'anni fa, quando nel mare
divampavano i fuochi degli scontri navali.
Nell'ottobre del 2013 - dice Rosi -, dopo che più di quattrocento persone avevano perso
la vita in un naufragio, mi è stato chiesto di andare a Lampedusa per realizzare un corto di
dieci minuti. Un instant movie che portasse fuori dai confini italiani un'immagine diversa
di Lampedusa. Avevo un'idea molto precisa. Raccontare il silenzio, l'assenza del clamore,
una sorta di reazione emotiva alla continua aggressione mediatica, provocata dagli
sbarchi con le relative tragedie. Arrivato sull'isola, dopo poche ore ho capito che lì non
c'era né clamore né silenzio. Con il passare dei giorni, invece, si faceva più forte il desiderio
di raccontare gli abitanti, le loro storie... Cresceva la consapevolezza che tutta questa vita
non potesse essere condensata in dieci minuti».
Rosi si serve normalmente della macchina da presa per entrare in contatto con le
persone. È il suo metodo. Per mesi e mesi ha «pedinato» gli abitanti dell'isola. Ha cercato di
conoscerli. Si è introdotto nelle loro case. Senza essere invadente, ha puntato l'obiettivo
(come se fosse un microscopio) sui loro minuscoli gesti quotidiani, gli intercalari, i tic, le
pause nel discorso quando il pensiero passa al di là delle parole.
Zia Maria, una donna di casa che ascolta la radio mentre cucina e rifà il letto. Pippo, il
dj che manda in onda le canzoni mélo, intercalandole con le dediche dei lampedusani ad
altri lampedusani. La radio che alterna il bollettino dei naufragi con la sospensione della
corrente elettrica. «Poveri cristiani!», commenta zia Maria, quando sente parlare dei morti
in mare...
Un pescatore subacqueo s'immerge nelle acque limpidissime per andare in cerca di
ricci. La nonna di Samuele racconta al nipotino come si viveva sull'isola quando lei, da
bambina, andava a rifornire di cibo suo padre rimasto a lavorare sulla barca...
Un medico
Poi accade l'imprevisto. Durante i sopralluoghi, Rosi è colpito da una fastidiosa
bronchite. Va alla Asl. Incontra il dott. Bartòlo, l'unico medico dell'isola. Da trent'anni
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Bartòlo assiste a ogni sbarco. Decide lui, sul molo, chi va in ospedale, chi va nel Cie e chi è
morto. Battezza tutti i morti, li fotografa e dà loro un numero. Tiene un archivio personale
di tutti i migranti passati a Lampedusa. Non sa che Rosi è un regista in cerca di storie.
Mentre Bartòlo racconta la sua, Rosi capisce che ha trovato il personaggio che cercava, la
figura che può abbracciare e tenere insieme tutto.
«Il medico apre il suo computer - dice Rosi -. Vuole farmi capire e, perché io capisca,
deve farmi vedere. Immagini strazianti fino alle lacrime. Immediato senso della tragedia.
Diventiamo complici. Lì, in quel preciso istante, capisco che questo è il film che devo fare.
Indietro non si può tornare».
A chi gli domanda quanti immigrati sono passati per le sue mani, il medico risponde:
«Non ho mai tenuto la contabilità, perché per me sono tutte persone e non numeri, ma mi
dicono che sono più di 250 mila in 25 anni. Dal primo sbarco di tre tunisini su una
barchetta ai settemila che nel 2011, anno delle Primavere arabe, in una sola settimana
invasero l'isola. Erano molti di più dell'intera popolazione. I lampedusani aprirono le loro
case. Diedero loro vestiti, cibo, letti, affetto. In quell'occasione Lampedusa mostrò a tutto
il mondo il suo amore grande».
Con il monologo che ha registrato per il film, il dott. Bartòlo ha commosso il pubblico
internazionale del festival. Rosi racconta: «Quando è arrivato l'invito di Berlino, la scena
del dottore davanti al computer con le immagini dei migranti non l'avevo ancora girata.
Sono tornato a Lampedusa perché sentivo che mancava qualcosa. In fondo, anche io,
senza Bartòlo, certe cose non le avrei potute capire. Abbiamo girato tre quarti d'ora. Nel
film sono rimasti cinque minuti. Ma non si può vedere tutto. Nel computer di Bartòlo ci
sono immagini insopportabili».
Ma quale abitudine - dice il dott. Bartòlo nel film -. Non ci si abitua mai a queste cose.
Ti resta un vuoto dentro che di notte ti fa sognare fantasmi...».
«Tra i racconti di Bartòlo - aggiunge Rosi - ce n'è uno che mi è entrato nel cuore, anche
se non sono riuscito a metterlo nel film. Quando su una nave carica giunse una donna
incinta che, stretta tra la folla, non era riuscita a partorire, Bartòlo attrezzò una piccola
sala operatoria e fece nascere la bimba. Non aveva detto nulla a nessuno, ma quando uscì
dall'ambulatorio, sfinito, trovò ad aspettarlo cinquanta lampedusane con pannolini e
vestitini. Quella bimba oggi si chiama Gift, dono, e abita con la mamma a Palermo».
Preghiera in forma di rap
«Mi sono mosso per un anno nell'isola - racconta Rosi -, inserendomi nella comunità di
pescatori come un osservatore invisibile. Mi chiedevano sempre: "Ma quando cominci a
girare?", e io stavo già finendo. Poi, per un mese, sono salito a bordo della nave militare
"Cigala Fulgosi". Per tre settimane non è accaduto nulla. L'ultima settimana, invece, è
arrivata la tragedia. Mi sono trovato davanti a 49 morti accatastati nella stiva di un
barcone.
«Non avrei mai voluto raccontare i morti. Non li ho cercati. La tragedia del barcone mi è
arrivata addosso e non ho avuto scelta. Mi sono trovato davanti a quelle immagini, e sarei
stato ipocrita se non le avessi messe nel film. Il comandante della nave mi ha spinto: "Devi
scendere nella stiva e filmare quei corpi. Sarebbe come se ti trovassi davanti alle camere a
gas dell'Olocausto e ti censurassi perché le immagini sono troppo forti". Il film è un viaggio
emotivo verso quelle immagini necessarie. Nulla è gratuito. Nessuno è manipolato.
«Ho seguito l'intero viaggio di un gruppo di nigeriani dal soccorso sulla nave militare al
trasbordo sulla guardia costiera, lo sbarco a Lampedusa, l'arrivo al Centro di
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identificazione. È nata così la scena in cui un giovane nigeriano guida una sorta di
preghiera a mezza strada tra il gospel e il rap. Il giovane elenca, come in trance, tutti i
pericoli del viaggio: il deserto, la prigione, gli stenti, le percosse, le umiliazioni, la perdita
dei compagni... Gli altri lo assecondano con un mormorio di dolore, un canto le cui note si
perdono nella notte dei tempi. Non volevo fare interviste, ma quel momento da solo vale
più di mille racconti».
Dopo le immagini raccapriccianti dei cadaveri e le lacrime che rigano il volto dei
sopravvissuti, si torna nella casa di zia Maria (quella che aveva detto: «Poveri cristiani!»),
che sta rimettendo in ordine la camera da letto. Bacia le foto dei suoi cari defunti e la
statua di padre Pio. La radio sta trasmettendo la Preghiera del Mosè di Rossini: «Dal tuo
stellato soglio...».
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