24 aprile 2016 - L`Agenzia Culturale

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250
con il patrocinio di
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tr
a
Milano - Basilica di Sant’Ambrogio
La
n
Rassegna
Stampa
24 aprile 2016
A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano”
Con sede in Milano, via Locatelli, 4
www.agenziaculturale.it
Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it
Estratti da:
Ciclostilato in proprio
17/4/2016
«I migranti sono persone, non numeri»
Da Lesbo, Francesco chiede all'Europa umanità, responsabilità e solidarietà
di STEFANIAFALASCA
INVIATAA LESBO Rifugiati, donne e uomini siriani e
musulmani con in braccio i loro bambini hanno fatto da
seguito al Papa mentre scendeva la scaletta
dell'aeroporto di Ciampino. Francesco lì ha portati con
sé a Roma. Quelli che ha potuto, dodici in tutto. La
solidarietà e la speranza si sono tradotti in realtà. Alla
conferenza stampa in volo rivolgendosi ai giornalisti ha
detto visibilmente commosso: «Non è un privilegio,
sono tutti figli di Dio». Vengono dai campi profughi di
Lesbo. All'andata verso l'isola dell'Egeo aveva
annunciato: «Questa è una visita segnata dalla tristezza.
Non è un viaggio come gli altri.
Noi andiamo ad incontrare la catastrofe umanitaria più
grande dopo la Seconda Guerra mondiale. Lo dico non
per amareggiavi ma per trasmettervi lo stato d'animo
con cui faccio questo viaggio».
A ridosso del piccolo borgo di Molyvos a nord dell'isola
di Lesbo è l'estremo confine d'Europa. È una striscia
azzurra di mare la frontiera del dolore. Ad appena dieci
chilometri c'è la Turchia. All'hotspot del Moria refugee
camp, divenuto famoso dopo l'accordo Ue-Ankara che
l'ha trasformato in quello che le organizzazioni
umanitarie tutte definiscono un luogo di detenzione, al
mattino di ieri papa Francesco, insieme al patriarca
ecumenico Bartolomeo e all'arcivescovo Ieronymos,
hanno incontrato personalmente più di 250 profughi.
Più di tremila i richiedenti asilo, chiusi nel filo spinato.
E forse davvero questa volta le immagini hanno parlato
più delle parole. Abbracci, carezze, lacrime, sorrisi:
tanti i gesti e i sentimenti che hanno caratterizzato
l'incontro con questa gente. Un incontro fortemente
umano ed ecumenico con la presenza di tre leader
religiosi che insieme hanno voluto dare una
testimonianza di solidarietà al mondo. E mentre
insieme percorrevano la grande tenda allestita in fretta
per l'evento hanno ascoltato storie laceranti di famiglie
divise dalla guerra e dalla morte in mare. Mentre
stringevano le mani di ragazzini arrivati soli e i bambini
si affollavano intorno, alcuni uomini si sono gettati ai
piedi di papa Francesco piangendo e chiedendo la
benedizione. Non sono mancati neppure momenti di
tensione e proteste silenziose. «Non abbiamo bisogno
di dire molte parole. Soltanto quelli che hanno
incrociato lo sguardo di quei piccoli bambini che
abbiamo incontrato nei campi dei rifugiati, potranno
immediatamente riconoscere, nella sua totalità, la
"bancarotta" dell'umanità e della solidarietà che
l'Europa ha dimostrato in questi ultimi anni a queste
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 250 del 24 aprile 2016
persone e non soltanto a loro» ha detto l'arcivescovo
Ieronymos nel suo breve e deciso intervento al campo di
Moria «tuttavia noi agiremo - ha ribadito - fino a che si
ponga fine a tale aberrazione e svalutazione della
persona umana. Da questa isola di Lesbo, spero che
abbia inizio un movimento mondiale di consapevolezza
per un cambiamento dell'attuale situazione da parte di
coloro che hanno nelle mani il destino delle nazioni e
per riportare la pace e la sicurezza per ogni casa, per
ogni famiglia ». Anche il patriarca ecumenico di
Costantinopoli non è stato meno incisivo: «Abbiamo
pianto mentre vedevamo il Mediterraneo diventare una
tomba per i vostri cari. Abbiamo pianto vedendo la
simpatia e la sensibilità del popolo di Lesbo e delle altre
isole. Ma abbiamo pianto an- che quando abbiamo visto
la durezza dei cuori dei nostri fratelli e sorelle - i vostri
fratelli e sorelle - chiudere le frontiere e voltare le spalle.
Coloro che hanno paura di voi non hanno guardato nei
vostri occhi. Coloro che hanno paura di voi non vedono i
vostri volti. Coloro che hanno paura di voi non vedono i
vostri figli». «Il mondo - ha concluso - sarà giudicato dal
modo in cui vi ha trattato. E saremo tutti responsabili per
il modo in cui rispondiamo alla crisi e al conflitto nelle
vostre regioni di origine». Alle loro voci si è aggiunta
quella di Francesco: «Siamo venuti per richiamare
l'attenzione del mondo su questa grave crisi umanitaria
e per implorarne la risoluzione.
Come uomini di fede, desideriamo unire le nostre voci
per parlare apertamente a nome vostro. Speriamo che il
mondo si faccia attento a queste situazioni di bisogno
tragico e veramente disperato, e risponda in modo
degno della nostra comune umanità ». Insieme hanno
firmato una dichiarazione congiunta e dopo essersi
fermati a mangiare con alcuni profughi i tre capi delle
Chiese cristiane si sono portati al porto di Mytiline, per
pregare e gettare corone d'alloro nello specchio d'acqua
diventato cimitero delle vittime di questa tragedia. Sullo
sfondo del mare nel sole bruciante il Papa si è rivolto
agli abitanti di Lesbo: «Dimostrate che in queste terre,
culla di civiltà, pulsa ancora il cuore di un'umanità che
sa riconoscere prima di tutto il fratello e la sorella,
un'umanità che vuole costruire ponti e rifugge
dall'illusione di innalzare recinti per sentirsi più sicura.
Le barriere creano divisioni e anziché aiutare il vero
progresso dei popoli, e le divisioni prima o poi
provocano scontri». La rapidità della visita è
inversamente proporzionale alla testimonianza e al
coraggio testimoniati da questa giornata.
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pagina 2
19/4/2016
La trilaterale a Roma
I «potenti del mondo» non temono i migranti
di Maurizio Caprara
Le imbarcazioni di povera gente in viaggio nel
Mediterraneo, che affondino o meno, ci
trovano in notevole ritardo. Malgrado il
fenomeno duri da anni e nonostante
l'attenzione che gli viene riservata da uno dei
più «globalizzati» dei Papi, parti consistenti
della nostra classe dirigente e della nostra
società faticano ad affrontare con la
necessaria consapevolezza dello stato dei fatti
un fenomeno del nostro tempo: la non
occasionalità dei flussi di profughi e migranti.
L'ordinarietà viene scambiata per emergenza.
Le proporzioni degli ingressi di stranieri nel
nostro Paese rispetto alle dimensioni della
popolazione residente in Italia vengono
dilatate. Alla fine tra le inquietudini, che sono
anche legittime per quanti abitano nei punti di
impatto e concentramento dei flussi,
prevalgono le immaginarie: gli stranieri ci
invadono, ci domineranno.
Ciò fa risultare come cinematografici spezzoni
di fiction , sempre e comunque, stragi di massa
come quella sulla quale ieri si sono rincorse
notizie non confermate.
Non è il modo più proficuo per affrontare il
fenomeno.
Proprio due giorni fa, nell'assemblea plenaria
della Commissione Trilaterale riunita a Roma si
era ragionato su questa tesi: quando nei Paesi
poveri sono intense le spinte di insicurezza,
violenza e miseria, e nei Paesi sviluppati
esistono fattori di attrazione come il mercato
nero del lavoro, aperto benché illegale, le
barriere non fermano i flussi di persone decise
a raggiungere gli Stati più abbienti. Le morti nel
Mediterraneo, è stata una delle argomentazioni sottoposte ai 280 presenti all'incontro,
costituiscono l'esempio più tragico del costo
che i migranti sono pronti a pagare.
I lavori della Trilateral si svolgono a porte
chiuse, tuttavia quando ci si assiste da invitati
non si riscontrano tracce di clima da Spectre .
Nella sessione romana a saltare agli occhi è
stato altro: l'impressione che qualcosa non
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 250 del 24 aprile 2016
funziona nel dibattito italiano e nel modo di
presentare nell'informazione il fenomeno
migratorio se osservazioni così controcorrente
vengono non da un centro sociale, bensì da
una rete fondata nel 1973 da David Rockefeller
composta da personalità di governo in carica o
ex, banchieri, imprenditori, diplomatici analisti
politici di America, Europa e Asia.
Nella Trilaterale è emerso l'orientamento a
rovesciare i termini del dibattito in corso nei
Paesi sviluppati su rifugiati e immigrazione
mettendo in evidenza gli aspetti positivi per le
società europee, tenuti in ombra da tendenze a
far leva su paure di «invasioni» per ragioni
elettorali o sensazionalismo.
Si è constatato che in un continente nel quale
la popolazione invecchia e occorre
manodopera straniera esiste un divario tra
percezioni e realtà. Senza sottovalutare
quanto epocale sia il problema, si è
evidenziato che le proporzioni dei flussi dei
profughi sono pesanti nei Paesi vicini alla Siria,
non catastrofiche da noi. Nell'Ue nel 2015 è
arrivato da fuori circa un milione di persone, ma
tra 508 milioni di abitanti. Valutazione
ricorrente è stata che le diffidenze verso
rifugiati e migranti derivano da una crisi di
identità dei Paesi europei più che dagli
extracomunitari.
Per ridimensionare i flussi gestiti da trafficanti
l'esortazione è stata potenziare i canali di
ingresso legale, programmare più permessi di
lavoro temporanei rinovabili. Se questi
orientamenti prevalgono in un'associazione
fondata da Rockefeller e sono simili a quelle
del Papa dei poveri, i filoni culturali e politici
collocabili nel mezzo di questi due mondi non
farebbero male a rifletterci sopra. Se allo
spettro dell'invasione volessimo sostituirne un
altro oggi altrettanto immaginario, domandiamoci: come sarebbero le routine di tanti italiani
se mancassero badanti, babysitter e
infermiere straniere, maghrebini nelle cucine
dei ristoranti e addetti non italiani a lavori umili?
Sarebbero migliori?
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14/4/2016
Schönborn: "Stiamo mostrando il
volto di un'Europa dal cuore duro”
L'arcivescovo di Vienna sul giro di vite ai confini contro i migranti
"Ciò che accade alla frontiera mi dà una sensazione di tristezza"
di ANDREA TORNIELLI
prossimo».
«Stiamo mostrando il volto di un'Europa dal cuore
duro». Il cardinale Christoph Schönborn,
arcivescovo di Vienna, commenta così le notizie che
arrivano dal Brennero e la decisione di creare
controlli serrati per evitare il passaggio incontrollato
di immigrati dall'Italia verso l'Austria.
C'è chi obietta che non si può accogliere tutti,
indiscriminatamente.
«Accogliere e ricordare i valori fondanti dell'Europa
non significa non porsi il problema di come
governare il fenomeno migratorio e le emergenze.
Penso al peso che sopportano alcuni Paesi che sono
sull'orlo del collasso, dove si trovano a vivere
ammassati nei campi milioni di profughi: parlo del
Libano, della Giordania, della Turchia, ad esempio.
Penso poi agli avamposti della nostra Europa, a isole
come quella che visiterà il Papa. Bisogna mettere
sempre al centro la dignità umana degli immigrati,
che non sono numeri per le nostre statistiche. Sono
donne, bambini, giovani, uomini, anziani. Persone in
carne e ossa che fuggono dalla disperazione, che
hanno lasciato tutto, che spesso non hanno più una
casa. Finché non ci abitueremo a vedere i volti in
carne e ossa delle persone dietro i numeri, non
ritroveremo quel cuore che l'Europa, l'Europa
cristiana, sembra aver smarrito. Non ci possiamo
permettere di smarrire i valori e i principi di umanità,
di rispetto per la dignità di ogni persona, di
sussidiarietà e di solidarietà reciproca, anche se in
certi momenti della storia, come ha ricordato Papa
Francesco, possono essere un peso difficile da
portare».
Che reazione le provoca ciò che sta accadendo
al confine tra Italia e Austria e, in generale, in
alcuni Paesi europei?
«Una sensazione di tristezza. L'opposto della
misericordia, alla quale ci richiama in continuazione
Papa Francesco, è l'indurimento del cuore. Ecco, in
Europa stiamo vivendo una situazione di questo tipo.
Invece di accogliere pensiamo ad innalzare nuove
barriere»
Come giudica questo atteggiamento?
«Dobbiamo cercare di costruire, tutti insieme e
senza lasciare soli i Paesi di frontiera o i Paesi più
piccoli, un'Europa che non ruoti solo intorno
all'economia, ma anche alla sacralità della persona
umana. Dove sono andati a finire i valori che ci hanno
unito? Li abbiamo dimenticati? Rischiamo di essere
un'Europa dal cuore indurito. Dietro a questa perdita
di sensibilità nei confronti del prossimo c'è
l'incapacità di commuoversi, di compatire, cioè di
patire insieme a questi fratelli. È una perdita di
umanità, una nuova forma di paganesimo. L'antico
paganesimo, come ha ripetuto più volte Joseph
Ratzinger, era segnato proprio dall'insensibilità».
Che ha significato ha la visita del Papa a
Lesbo, sabato prossimo?
«La domanda che ci pone Francesco è semplice:
dov'è tuo fratello? Il Papa, prima con il suo viaggio a
Lampedusa e ora con la visita a Lesbo ci ricorda che
siamo di fronte a delle persone umane. Prima di
vedere il problema o l'emergenza, ci sono delle
persone, come me e come te, e queste sono il nostro
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 250 del 24 aprile 2016
Cosa bisogna fare, secondo lei?
«Ci sono le emergenze da affrontare con buon
senso, ragionevolezza e accoglienza, coinvolgendo
tutti i Paesi della Ue. Non dobbiamo mai dimenticare,
tra l'altro, le responsabilità che abbiamo come
Occidente nei confronti di certi Paesi i cui cittadini
pagano le conseguenze delle nostre guerre. Ma oltre
l'emergenza, servono politiche concrete che aiutino i
Paesi di provenienza dei migranti a superare i conflitti
interni e a svilupparsi garantendo la pace. Noi
dovremmo lavorare per superare i conflitti, non per
alimentarli».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
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15/4/2016
PERCHÉ SI OBIETTA
di FRANCESCO D'AGOSTINO
Se sia vero o no che per l'elevato numero dei
medici obiettori il «servizio di aborto» in Italia
non sia adeguatamente garantito e che il nostro
Paese meriti quindi di essere 'bacchettato'- come
qualcuno ha scritto - dal Consiglio d'Europa di
Strasburgo è questione non solo fattuale, come
sembra ritenere il nostro ministero della Salute
(che sostiene che il Consiglio si è pronunciato a
partire da una raccolta non recente di dati,
attualmente superati), ma primariamente etica,
anzi etico-sociale.
L'obiezione di coscienza all'aborto (come
peraltro quella al servizio militare e in generale
ogni altra forma di obiezione e di disubbidienza
civile) hanno indubbiamente una
giustificazione a livello di etica personale, ma
per gli obiettori hanno (o dovrebbero avere) una
valenza ulteriore, a livello di etica pubblica.
Se sono un pacifista e per coerenza rifiuto di
indossare divise militari e di farmi istruire
nell'uso delle armi, se sono un animalista e per
coerenza rifiuto di sperimentare sugli animali
farmaci potenzialmente dolorosi e mortali, se
credo - appunto - che quella prenatale sia
autentica vita umana e non possa essere uccisa
da pratiche abortive, ma vada sempre e
comunque salvaguardata, non posso non
auspicare che le mie scelte etiche individuali
possiedano anche e soprattutto un valore
pubblico. Con il suo portato di testimonianza
l'obiezione è chiamata a suscitare processi di
imitazione da parte di altre persone, che, al
limite, potrebbero sfociare nel superamento
universale di pratiche che l'obiettore ritiene che
debbano essere assolutamente riconosciute da
tutti come inaccettabili: la guerra, per gli
obiettori al servizio militare, la violenza sugli
animali non umani, per gli obiettori alla
sperimentazione sugli animali, l'uccisione della
vita per gli obiettori all'aborto.
Si obietterà: ma l'aborto è comunque un
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 250 del 24 aprile 2016
«servizio» esigibile, nei limiti stabiliti dalla
legge, e lo Stato ha il dovere di garantirne la
praticabilità. Non c'è dubbio; ma nel momento
stesso in cui la legge dello Stato riconosce
l'obiezione di coscienza a tutto il personale
medico e sanitario che dovrebbe prestare la sua
assistenza all'aborto volontario riconosce
implicitamente che la legge che legalizza
l'aborto non possiede un fondamento eticosociale assoluto, ma relativo, come dimostra il
fatto che ove tutti i medici divenissero obiettori
la pratica dell'aborto volontario medicalizzato si
rivelerebbe impraticabile. E proprio qui è da
vedere non solo l'eticità dell'obiezione di
coscienza, ma il suo carattere di sfida sul piano
dell'etica pubblica, di denuncia dell'immoralità
delle pratiche cui l'obiettore decide di sottrarsi,
del tentativo di orientare diversamente la
legislazione del Paese. L'altissimo numero dei
medici obiettori all'aborto in Italia possiede,
sotto questo profilo, una valenza rivelativa.
La conclusione di questo discorso può essere
molto rapida: non stiamo a discutere sul
pronunciamento del Consiglio d'Europa in una
prospettiva strettamente legale (anche se si
tratta ovviamente di una prospettiva più che
ragionevole): cerchiamo di alzare il tono del
dibattito e di mostrare che il vero obiettivo di un
obiettore non è quello di ottenere un'esenzione
personale da un obbligo legale, ma quello di
dare una testimonianza fondamentale a favore
della vita. La posta in gioco non è quella del
diritto dei medici a obiettare o delle donne ad
abortire, ma è quella di non banalizzare l'aborto
stesso, riducendolo a un intervento sanitario
come un altro. Non è così: la legalizzazione
dell'aborto è la più grande lacerazione eticosociale del nostro tempo, inferiore soltanto,
probabilmente, ai genocidi novecenteschi: gli
obiettori di coscienza ci aiutano a non
dimenticarlo.
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pagina 5
18/4/2016
VALORI IN CORSO
Un'Italia più diseguale
senza il volontariato
di ELIO SILVA
Il fenomeno del volontariato, che coinvolge in Italia,
con modalità organizzate o in forma spontanea,
almeno sei milioni di cittadini, viene solitamente
richiamato allorché si tratta di valorizzare le
migliori energie civili, piuttosto che di coprire
qualche falla nell'intervento pubblico in campo
sociale. Il fatto che i volontari mettano a
disposizione gratuitamente il proprio tempo e le
proprie competenze per scopi di pubblica utilità
determina in via automatica la classificazione di
queste prestazioni come "attività meritorie" agli
occhi della collettività e del legislatore, chiamato a
incoraggiarle e sostenerle.
Questo assunto non esime, però, i decisori pubblici
dalla responsabilità di comprendere e interpretare il
vero "valore aggiunto", sociale ma anche economico,
dei servizi erogati secondo princìpi di gratuità. Uno
dei meriti del Festival italiano del volontariato, che
si è concluso ieri a Lucca e che quest'anno era
dedicato al tema dell'abitare "le città invisibili",
consiste indubbiamente nell'ambizione di
dimensionare il fenomeno, in forma sia quantitativa
che qualitativa, e porlo in relazione con gli obiettivi
di crescita del Paese.
Sotto questo profilo, una chiave inedita è stata
offerta da uno studio della Fondazione volontariato
e partecipazione, curato da Andrea Bertocchini e
Paola Tronu, che ha posto in evidenza il legame tra
volontariato e politiche di contrasto alle
disuguaglianze. Secondo la ricerca, elaborata a
partire dalle risultanze dell'indagine Istat 2014 sugli
aspetti di vita quotidiana degli italiani, senza l'opera
dei volontari il nostro Paese presenterebbe livelli di
disuguaglianza molto più marcati.
«Abbiamo dimostrato - spiega Edoardo Patriarca,
presidente del Centro nazionale per il volontariato e
promotore del Festival - che il volontariato è un
potente fattore di redistribuzione solidaristica da
parte di chi è socialmente garantito, ma è anche
un'occasione di inserimento sociale e crescita
culturale per chi si trova in una situazione socioeconomica più debole».
Come si arriva a questa affermazione? I ricercatori
hanno preso in considerazione, da una parte, le
attività svolte gratuitamente da persone con elevate
risorse economiche familiari o personali (più
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precisamente, quelle che hanno dichiarato agli
intervistatori di non avere particolari problemi
d'ordine economico) e, dall'altra, le prestazioni dei
più "poveri", o meglio di quanti si sono dichiarati
tali. I risultati smentiscono il luogo comune secondo
cui fare volontariato è un lusso per persone agiate e
con tanto tempo libero: in realtà lo fanno tutte le
categorie sociali, anzi in termini assoluti più gli
occupati che i pensionati, anche se questi ultimi
mettono a disposizione più ore settimanali. Le
attività coesistono e concorrono a smussare le
disuguaglianze del Paese, sia in ambito educativo e
culturale, sia in campo socio-assistenziale.
Esistono, ovviamente, significative differenze. I
volontari con maggiori risorse economiche si
impegnano preferibilmente nella cultura,
nell'istruzione, nella filantropia. Svolgono, inoltre,
più frequentemente della media ruoli tecnici e
organizzativi. Non prevalgono, però, nelle cariche
dirigenziali all'interno delle associazioni, dove si
registra una sostanziale parità con volontari
provenienti da classi sociali più deboli. Se per i
"benestanti" la motivazione prevalente è quella di
«dare un contributo alla comunità», per i meno
agiati la scelta di fare volontariato è ispirata dalla
«possibilità di arricchimento professionale e
relazionale». Ad accomunare tutti è la
considerazione che l'esercizio di attività gratuite
«porta a sentirsi meglio con se stessi». Un risultato
che riconduce alla tesi iniziale, secondo cui l'Italia
senza i volontari sarebbe un Paese più disgregato e
disuguale. «Le dinamiche sociali - riassume
Alessandro Bianchini, presidente della Fondazione
volontariato e partecipazione - sono influenzate
positivamente dall'azione dei volontari e i risultati
delle attività si misurano anche in termini di
coesione». Il fatto che questa verità non venga
presentata come un assioma, ma discenda da un
percorso di ricerca è un segnale significativo della
piena consistenza e della raggiunta maturità del
fenomeno associativo. Ora, anche attraverso la
valorizzazione nel contesto della riforma del Terzo
settore di prossima approvazione parlamentare, la
sfida diventa quella di riuscire a tradurre i progressi
in un nuovo protagonismo del volontariato italiano.
[email protected]
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pagina 6
17/4/2016
Le incognite del Califfato indebolito
di MAURIZIO MOLINARI
Lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi mostra
segnali di indebolimento strategico innescando un
domino di conseguenze, militari e politiche, difficili da
prevedere in Medio Oriente come in Nordafrica.
La debolezza del Califfato, proclamato il 29 giugno
2014, ha quattro indicatori.
Primo: nelle operazioni di terra ha perso il controllo di
Ramadi e Palmira, le uniche città conquistate nel
2015, e si trova obbligato a difendere Raqqa, Mosul e
Fallujah ovvero le sue ultime roccaforti. Secondo: sta
perdendo ingenti flussi di denaro a seguito dei
successi dell'intelligence finanziaria americana,
riuscita negli ultimi tempi a identificare singoli conti e
percorsi bancari come non era finora avvenuto. Terzo:
la decisione degli ex fedelissimi di Saddam Hussein,
ora al servizio del Califfo, di aumentare la repressione
ai danni dei civili in città come Fallujah nel timore di
rivolte interne. Quarto: gli ordini impartiti dal Califfo in
persona affinché volontari e «foreign fighters»
anziché seguire le precedenti rotte per raggiungere i
territori controllati in Siria ed Iraq optino invece per
destinazioni «più sicure» in Libia, a cominciare da
Sirte.
È la prima volta che il Califfato appare in concreta
difficoltà, testimoniando il risultato tattico della
convergenza fra le aggressive operazioni aeroterrestri
condotte in Siria dalla coalizione guidata dalla Russia e composta anche da forze del regime di Bashar
Assad, miliziani sciiti e contingenti iraniani - e
l'offensiva aerea della coalizione occidentale-araba
guidata dagli Stati Uniti dimostratasi capace, anche
grazie al contributo di Francia e Gran Bretagna, di
eliminare un considerevole numero di leader jihadisti
e di depositi di carburante. I pianificatori del
Pentagono osservano ogni tassello di tale processo,
esaminando la mole di informazioni raccolte da droni,
truppe speciali ed informatori al fine di comprendere
se possa portare all'implosione del Califfato. Ovvero, a
rivolte dall'interno di clan o tribù sunnite di dimensioni
tali da innescare la dissoluzione di Isis. Finora questi
segnali però non si registrano: seppur con il numero di
jihadisti ridotto - secondo le stime più prudenti è
passato da 30 mila a 25 mila effettivi - e sulla difensiva,
il Califfato resta in piedi. E a dimostrarlo vi sono le
operazioni iniziate nell'area di Aleppo, all'evidente fine
di far sapere agli avversari che la guerra continua ed ai
seguaci che non è il momento di smobilitare.
Poiché la caduta dall'interno del regime dispotico di alBaghdadi non sembra all'orizzonte, l'amministrazione
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 250 del 24 aprile 2016
Obama pianifica una forte spallata dall'esterno ovvero
attacchi terrestri da parte di forze locali alleate
sostenute da massicci bombardamenti in una
ripetizione in grande stile dell'offensiva che portò alla
caduta di Kobane, al confine fra Turchia e Siria. Nello
schema del Pentagono, da quanto si apprende da fonti
arabe nel Golfo, dovranno essere i contingenti ribelli
arabo-curdi ad attaccare Raqqa, quelli governativi
iracheni ad avanzare su Mosul e le milizie sciite ad
aggredire Fallujah. Nessuno è in grado di prevedere se
Isis deciderà di resistere fino all'ultimo uomo,
trasformando ogni città in un campo di battaglia
disseminato di trappole esplosive come a Palmira,
oppure se preferirà ritirarsi nel deserto e dileguarsi per
poi scegliere come e dove tornare a battersi. Ma
Obama appare determinato a coordinare
quest'offensiva anti-Califfato al fine di provare a
chiudere i conti con al-Baghdadi prima di lasciare la
Casa Bianca per togliere la macchia di Isis dalla
propria eredità presidenziale.
Si spiega così la crescente attenzione di Washington
per il rafforzamento di Isis sulla costa libica attorno a
Sirte: poiché è qui che il Califfato fa affluire i volontari
è qui che deve essere colpito, per scongiurarne il
consolidamento. In particolare, Isis in Libia è al
momento composto quasi esclusivamente da jihadisti
tunisini e nigeriani: attaccarli ora consentirebbe di
prevenire la possibilità di reclutamento nelle tribù
libiche. Londra e Parigi condividono tale urgenza e
vorrebbero raid per fare terra bruciata ovunque c'è
un'enclave di Isis.
Ed anche per vendicare le stragi di Parigi e Bruxelles.
Ma i disaccordi fra le capitali alleate ritardano tale
scenario, trasformando il Nordafrica in un'area più
accogliente per i jihadisti rispetto al Medio Oriente. E
non è tutto perché la debolezza del Califfato schiude le
porte ad una prova di forza in Siria fra Mosca e
Washington. Si tratta della gara per arrivare primi a
Raqqa con i rispettivi alleati: è una riedizione
mediorientale della corsa a Berlino che nel maggio
1945 pose termine alla Seconda Guerra Mondiale.
Chiunque isserà il proprio drappo sulle rovine dei
palazzi del Califfato jihadista potrà ambire
all'egemonia regionale. Sulla carta ad essere favoriti
sono i reparti governativi di Assad - sostenuti dai russi
- perché i ribelli arabo-curdi armati dal Pentagono non
hanno analoghe capacità operative. Ma poiché Obama
non vuole arrivare secondo è lecito prevedere che
andiamo incontro a mesi delicati.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
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PAPA FRANCESCO
REGINA COELI
Roma - Piazza San Pietro
Domenica, 17 aprile 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo di oggi (Gv 10,27-30) ci offre alcune espressioni
pronunciate da Gesù durante la festa della dedicazione del tempio
di Gerusalemme, che si celebrava alla fine di dicembre. Egli si
trova proprio nell’area del tempio, e forse quello spazio sacro
recintato gli suggerisce l’immagine dell’ovile e del pastore. Gesù
si presenta come “il buon pastore” e dice: «Le mie pecore
ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro
la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le
strapperà dalla mia mano» (vv. 27-28). Queste parole ci aiutano a
comprendere che nessuno può dirsi seguace di Gesù, se non presta
ascolto alla sua voce. E questo “ascoltare” non va inteso in modo
superficiale, ma coinvolgente, al punto da rendere possibile una
vera conoscenza reciproca, dalla quale può venire una sequela
generosa, espressa nelle parole «ed esse mi seguono» (v. 27). Si
tratta di un ascolto non solo dell’orecchio, ma un ascolto del
cuore!
Dunque, l’immagine del pastore e delle pecore indica lo stretto
rapporto che Gesù vuole stabilire con ciascuno di noi. Egli è la
nostra guida, il nostro maestro, il nostro amico, il nostro modello,
ma soprattutto è il nostro Salvatore. Infatti la frase successiva del
brano evangelico afferma: «Io do loro la vita eterna e non
andranno perdute in eterno e nessuno può strapparle dalla mia
mano» (v. 28). Chi può parlare così? Soltanto Gesù, perché la
“mano” di Gesù è una cosa sola con la “mano” del Padre, e il
Padre è «più grande di tutti» (v. 29).
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Queste parole ci comunicano un senso di assoluta sicurezza e di
immensa tenerezza. La nostra vita è pienamente al sicuro nelle mani
di Gesù e del Padre, che sono una sola cosa: un unico amore,
un’unica misericordia, rivelati una volta per sempre nel sacrificio
della croce. Per salvare le pecore smarrite che siamo tutti noi, il
Pastore si è fatto agnello e si è lasciato immolare per prendere su di
sé e togliere il peccato del mondo. In questo modo Egli ci ha donato
la vita, ma la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10)! Questo mistero si
rinnova, in una umiltà sempre sorprendente, sulla mensa
eucaristica. E’ lì che le pecore si radunano per nutrirsi; è lì che
diventano una sola cosa, tra di loro e con il Buon Pastore.
Per questo non abbiamo più paura: la nostra vita è ormai salvata
dalla perdizione. Niente e nessuno potrà strapparci dalle mani di
Gesù, perché niente e nessuno può vincere il suo amore. L’amore di
Gesù è invincibile! Il maligno, il grande nemico di Dio e delle sue
creature, tenta in molti modi di strapparci la vita eterna. Ma il
maligno non può nulla se non siamo noi ad aprirgli le porte della
nostra anima, seguendo le sue lusinghe ingannatrici.
La Vergine Maria ha ascoltato e seguito docilmente la voce del Buon
Pastore. Ci aiuti Lei ad accogliere con gioia l’invito di Gesù a
diventare suoi discepoli, e a vivere sempre nella certezza di essere
nelle mani paterne di Dio.
© Copyright 2016 - Libreria Editrice Vaticana
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RICORDO DI DAVID BOWIE
Giovanni Arledler S.I. - Claudio Zonta S.I.
David Robert Jones, questo il vero nome di David Bowie, ci ha lasciato il 10
gennaio scorso, appena due giorni dopo l'uscita del suo ultimo album,
accompagnato da un visionario video che commentava il brano «Lazarus»,
evidente metafora della figura evangelica che risorge per morire di nuovo, ma che
è, al tempo stesso, un preludio a una vita senza fine e testimonianza di fede,
come approfondiremo al termine di questo scritto.
Quello che ci aiuta a iniziare a parlare di lui è il fatto che tanti in quelle
immagini, ancora una volta estraniate e trasformate, del cantante, lo hanno
riconosciuto non solo per l'inconfondibile voce, ma anche per quella sua figura
caratteristica, elegante e allampanata e, nello stesso tempo, propria di chi pare
stia per volarsene lontano da un momento all'altro.
Un alieno terrestre
Nato a Brixton, un quartiere di Londra, l'8 gennaio 1947, David si appassiona
fin da piccolo alla musica che viene dagli Stati Uniti: Elvis, il rock, ma anche il
jazz di Coltrane. Lo stimola anche il fratellastro Terry, che legge molto della
generazione beat, e la scuola fa il resto, introducendolo a varie forme di
espressività. Canta nel coro della sua chiesa e a tredici anni riceve in regalo un
saxofono non più giocattolo e inizia a suonare in una band. Nel 1963 ha la sua
prima audizione dalla casa discografica Decca e, sebbene essa non risulti
positiva, lo stimola a fare esperienze sempre nuove.
Nell'anno successivo c'è la prima incisione, e lo scarso successo non lo
scoraggia. Nel 1966 adotta il nome d'arte di David Bowie e l'anno dopo esce il
primo album, intitolato semplicemente con il suo nome. Sempre nel 1967
partecipa a un evento musicale, Pierrot in Tourquoise, incentrato sul triangolo
delle maschere di Pierrot, Arlecchino e Colombina, e alcune sue canzoni vengono
apprezzate.
Diviene normale per lui partecipare a forme di spettacolo e concerti sempre
più vari, e inizia, con Amburgo, ad andare all'estero. Il 1969 è l'anno del primo
incontro con la futura moglie Mary Angela Barnett e del suo primo grande e
duraturo successo, «Space Oddity», che diviene una sorta di colonna sonora per
l'Apollo 11, che raggiunge la luna. Space Oddity sarà anche il titolo del primo di
27 album, che costituiscono la base del suo lascito musicale.
Sempre nel 1969, partecipa come figurante a un film, The Virgin Soldiers:
attività che diventerà sempre più importante a partire dal 1976, quando egli è
protagonista de L'uomo che cadde sulla terra, di Nicolas Roeg. Benché tra circa
venti lungometraggi si possano citare prove decisamente più importanti, come
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Furyo (1983), di Nagisa Oshima, o Labyrinth (1986), di cui compone
un'accattivante colonna sonora e recita nella parte - che gli calza a pennello - del
malvagio Jareth, re degli gnomi, il fragilissimo alieno del film di Roeg rappresenta
la più valida delle sue infinite metamorfosi.
Tra i personaggi di cui veste i coloratissimi panni in molti dei suoi tours e
spettacoli, accanto ai vari Halloween Jack, Nathan Adler, The Thin White Duke, vi
è in effetti, nei primi anni Settanta, un altro quasi alieno come Ziggy Stardust, una
sorta di folletto, mediatore tra l'umanità e altri mondi. Eccessi e sperimentazioni
estreme a parte, David Bowie si è confrontato con molti generi di musica, compresa
l'elettronica, la sperimentale e la classica, ed è stato un valido visitatore del suo
tempo.
Nel suo pensiero
La scrittura musicale di David Bowie rispecchia la complessità della sua
esistenza, del suo essere in anticipo sui tempi, che lo ha portato a peregrinare
senza sosta in un mondo, a volte vertiginoso, che tuttavia non lo ha ingabbiato.
Molteplici sono le fonti alle quali si ispira: solo per citare le più celebri, le atmosfere
di 2001 Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick, riappaiono nel brano «Space
Oddity»; una citazione non priva di polemica nei confronti di Khalil Gibran, autore
celebre soprattutto tra la cultura hippie degli anni Sessanta, a cui Bowie aveva
aderito per un certo tempo, si ritrova in «The Width of a Circle». Così le teorie del
superuomo di Friedrich Wilhelm Nietzsche riecheggiano in «Superman», mentre
Charles Bukowski aleggia nel riferimento all'uccello azzurro nell'ultima sua
canzone «Lazarus», che riprende la poesia «Bluebird» scritta dallo scrittore
statunitense e pubblicata nel 1992 nella raccolta The Last Night of the Earth Poems.
L'abilità e la grandezza di Bowie si possono comprendere solo osservando il
processo di rielaborazione di questo caleidoscopio di spunti, di idee, di sensazioni,
di esperienze che sfocia nella creazione di un linguaggio personale e autentico: una
poetica dinamica e a volte sfuggente, permeata da una ricerca esistenziale senza
sosta. Possiamo intercettare alcune tematiche, come fili di diverso colore che
intessono un arazzo e che accompagnano la produzione artistica e musicale
dell'artista inglese.
Il dolore
Il dolore dell'uomo ha rappresentato una questione ben presente sin dagli inizi
della vita di Bowie, se pensiamo alla relazione con il fratellastro Terry Burns, che lo
introdusse nel mondo della musica jazz e del beat e che fu ricoverato in una clinica
psichiatrica perché affetto da schizofrenia, che lo portò al suicidio. Questa è
un'esperienza che lascia il segno nella vita di Bowie, come mostra il brano «All The
Madmen» dell'album The Man Who Sold the World (1970). Bowie canta: «Giorno
dopo giorno / relegano i miei amici / in palazzi freddi e grigi / nella parte lontana
della città / dove magri uomini si aggirano come steli per le strade». Nella strofa è
messa in evidenza la sensazione di sradicamento generata dalla mancanza del
fratello: una privazione che si sente nel tempo, giorno dopo giorno, mentre
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l'ospedale psichiatrico è descritto come un anonimo palazzo grigio e freddo, nel
quale vivono uomini depersonalizzati. Bowie canta il vuoto, l'abisso, il non senso di
coloro che vi sono reclusi: «Non liberarmi, sono così affranto / soltanto il mio
librium ed io / e il mio elettroshock facciamo tre».
Questi versi ricordano molto da vicino l'esperienza del manicomio fronteggiata
dalla poetessa italiana Alda Merini: «Il dottore agguerrito nella notte / viene con
passi felpati alla tua sorte / e sogghignando guarda i volti tristi / degli ammalati,
quindi ti ammannisce / una pesante dose sedativa / per colmare il tuo sonno e
dentro il braccio / attacca una flebo che sommuova / il tuo sangue irruente di
poeta. / Poi se ne va sicuro, devastato / dalla sua incredibile follia / il dottore di
guardia, e tu le sbarre / guardi nel sonno come allucinato / e ti canti le nenie del
martirio».
La libertà: «Cygnet Committee»
Il concetto di libertà, inteso come la condizione a cui l'essere umano aspira, è
indagato da Bowie attraverso un'analisi dei contesti in cui l'uomo vive e si
relaziona. Proprio le strutture sociali e gli stessi movimenti culturali che
inneggiano alla massima libertà vengono criticati, come testimonia la canzone
«Cygnet Committee», contenuta nell'album Space Oddity (1969), in cui è presente
una forte polemica al movimento hippy: «Ho dato loro la vita / ho dato loro tutto /
Loro hanno prosciugato la mia anima».
Bowie indaga e abita luoghi esistenziali che divengono per lui alienanti,
paranoici, laceranti. Vive in prima persona le contraddizioni del mondo dello
spettacolo, subendo uno stato di ansietà che si tramuta in rabbia e protesta, come
possiamo osservare nella canzone «Big Brother» (1973), titolo ispirato al celebre
romanzo di George Orwell 1984: «Lui costruirà un ricovero di vetro / con appena
un indizio di confusione [...] Qualcuno che ci richieda, qualcuno da seguire [...]
Qualcuno che ci inganni, qualcuno come te / vogliamo te, Grande Fratello».
Secondo Bowie, le stesse strutture create per poter vivere meglio rischiano di
avere un effetto contrario, in quanto impediscono di sviluppare le proprie capacità,
il proprio essere libero nel pensare e nell'agire, impediscono di essere
trasformatore e «simboleggiatore» della realtà attraverso la propria arte. L'uomo
rischia di diventare una massa generica, un «noi» che desidera non pensare ed
essere guidato dal Grande Fratello, che tutto domina e tutto dispone. Per questo il
cantante britannico non si è mai lasciato ingabbiare dagli stili e dalle mode: è
riuscito a conservare un personale anelito di libertà di espressione, forse utopico,
che gli ha sempre suscitato un desiderio di spingersi in una ricerca dell'essenza
dell'uomo, un cammino fatto di conversioni, ripensamenti, cadute e vicoli ciechi.
L'inganno del mondo
Le contraddizioni della vita da star sono cantate in prima persona nel brano
«Teenage Wildlife», dell'album Scary Monsters (and Super Creeps) (1980): «Così ti
alleni a lottare con i fantasmi, / cerchi la verità / ma è tutta, ma è tutta esaurita [...]
Mi prenderai in disparte e mi dirai / "David, cosa dovrei fare? / mi attendono
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all'ingresso" / Io dirò "Non chiedere a me, non conosco nessuna entrata"». È la lotta
con i propri fantasmi e le proprie ombre che si riaffacciano nella vita, lo sfidano,
mostrando apertamente l'incongruenza, le incoerenze di ogni vita. Ad essi il
cantante risponde con un verso di sublime verità - «Non conosco nessuna entrata»
-, che rimanda a quel suo atteggiamento di fondo di indagine, esplorazione, in un
equilibrio instabile e fecondo che gli permette di distaccarsi, o almeno di desiderare
di separarsi da una vita già determinata, dalle tentazioni del mercato discografico,
come canta nella stessa canzone: «La stessa vecchia roba, vestita di nuovo».
Questa è una sfida infinita, che probabilmente non ha vincitori né vinti, ma solo
round assegnati all'una o all'altra parte. È l'emblema della storia di chi si assume la
responsabilità delle proprie scelte, di chi prova a determinare la propria esistenza
in una realtà ammiccante facili e rapidi successi, che nello stesso tempo sono
effimeri ed eterei. L'artista per Bowie deve abitare la storia, ma nello stesso tempo,
profeticamente, deve spingersi oltre l'evento specifico, cercando di comprendere e
descrivere i simboli della realtà.
Umanità
Un altro tema importante della poetica musicale di David Bowie è l'umanità,
intesa come il desiderio provocato dalla bellezza e dall'amore che, a volte, l'essere
umano riesce a trasmettere. In un universo alienato e alienante, come viene
descritto nella canzone «Space Oddity», uscito come singolo nel 1969, il pilota
Major Tom diviene simbolo della solitudine esistenziale, di quella chiusura verso
l'altro, inteso sia da un punto di vista umano che cosmico. Egli afferma: «Il pianeta
terra è blu, e non c'è nulla che io possa fare», giocando sul doppio significato del
termine blue, che può essere interpretato come il colore, ma anche come il
sentimento di tristezza.
Tuttavia una frase, forse autobiografica - in quanto proprio nei giorni
antecedenti alla registrazione del brano David Bowie aveva interrotto la relazione
con la propria compagna Hermione -, rivela come l'amore sia un'àncora e un faro
nella vita del cantante: «Dite a mia moglie che la amo tanto / lei lo sa». Non è solo
una frase romantica all'interno di una canzone. Proprio per il fatto che potrebbe
essere evitata, in quanto si sta descrivendo la solitudine e la desolazione umana
attraverso la metafora del viaggio nello spazio, essa assume un valore decisamente
forte e appassionato.
In questo stato di inquietudine e di angoscia, l'amore diviene luogo di salvezza
per un uomo che si confronta con l'asperità e la delicatezza dell'esistenza. La
semplicità del verso ha il potere di infrangere, almeno per un momento, la
solitudine esistenziale: è breccia, fessura, dove vibra e canta ancora la vita.
Un desiderio che permane in diverse canzoni dell'album Space Oddity, come
nella già citata «Cygnet Committee», che si conclude con la ripetizione del verso: «E
io voglio credere / nella pazzia che chiama "ora" / E io voglio credere / che una luce
stia splendendo completamente / in un modo o nell'altro [...] Noi vogliamo vivere /
io voglio vivere / vivere». In questi ultimi versi il desiderio dell'esistenza passa da un
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«noi», attraverso un «io» personale, fino a lasciare solo il verbo «vivere»,
sottolineando come 1a vita sia fulcro vitale e non necessita di un soggetto agente,
in quanto essa stessa avvolge e abbraccia l'essere umano.
Semi di questa ricerca di senso, di libertà e di amore sono sparsi nell'album
Station to Station (1976), album di transizione e dalle tinte oscure, a causa di un
periodo in cui l'artista era dedito a droghe, che gli provocavano squilibri e paure.
Nel brano che dà il titolo all'album, Bowie canta così: «Un tempo c'erano montagne
su montagne / E un tempo c'erano uccelli di sole con cui librarsi in volo / E un
tempo mai avrei potuto essere depresso / si deve continuare a cercare senza sosta
/ Oh, in che cosa crederò e chi mi metterà in contatto con l'amore?». Nonostante il
periodo di insicurezze e di instabilità, il desiderio, espresso come un imperativo,
assurge in tutta la sua chiarezza, sottolineato dall'insistenza del searching and
searching. È un «cercare senza sosta» che Bowie sente far parte del suo cammino,
nonostante le strade impervie, tortuose che ha imboccato.
Questo è un periodo in cui nascono in lui un interesse e una riflessione sulle
religioni, come mostra il retro della copertina dell'album, che mostra Bowie mentre
disegna l'albero della vita del sistema della cabala ebraica, mentre nel brano
«Station to Station» vi sono alcuni riferimenti a Kether (la corona) e Malkuth (il
regno), che sono proprio gli estremi di questo albero.
Anche la celebre canzone «Heroes», contenuta nell'omonimo album (1977),
composta con Brian Eno a Berlino, proprio negli studios che si affacciano sul muro
della città, vuole cogliere quello spirito di libertà simboleggiato dall'amore di una
coppia di ragazzi che vivono separati dal muro eretto nella città tedesca. «Io posso
ricordare / in piedi, vicino al muro / e le pistole fecero fuoco sopra le nostre teste / e
ci baciammo, come se nulla potesse succedere / e l'infamia era dall'altra parte. /
Oh li possiamo battere, per sempre / allora potremmo essere eroi / solo per un
giorno».
In questa strofa lo scontro tra la struttura della città, violenta, escludente (il
muro, gli spari), e quella dell'amore, della parte vitale dell'essere umano (il bacio),
si fa duro, ineludibile: la vita esige un compromesso radicale, anche a costo della
propria esistenza (un solo giorno). Il brano diviene un inno a lottare contro quelle
istanze che provocano nell'uomo l'alienazione da se stesso e dagli altri. Il muro di
Berlino diventa simbolo di tutti i muri che le strutture politiche e ideologiche
erigono per annichilire l'uomo, costringendolo a sopravvivere e non a vivere
pienamente tutte le proprie dimensioni umane.
Non a caso pochi anni dopo, nel 1982, i Pink Floyd scrissero un concept album
intitolato The Wall, ripresentato da Roger Waters, poco dopo la caduta del muro, in
versione live proprio a Berlino, il 21 luglio del 1990.
Il verso «Allora potremmo essere eroi / solo per un giorno» esprime tutta la
contingenza del sentimento della vita di Bowie. Il tempo sembra fremere, non
essere sufficiente per vivere; un senso di precarietà invade l'animo, come viene
cantato anche nella canzone «Tonight» (1984): «Io ti amerò fino alla fine / Io ti amerò
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fino a quando non raggiunga la fine / Io ti amerò fino a quando non muoia / Io ti
vedrò in cielo / Stanotte».
Il desiderio di amare, espresso dal tempo futuro, non si estingue nel momento
presente, così come l'anelito di un «Oltre» in cui potersi di nuovo incontrare permea
il pensiero dell'autore. Tuttavia l'avverbio «stanotte» confonde la dimensione
temporale, riporta questo slancio amoroso in una dimensione spazio-temporale
delimitata. Bowie gioca con le parole, tra limite e infinito, tra storia e sentimento,
lasciando che i contrasti si abbraccino, i poli opposti si sfiorino.
Oltre
Un processo esistenziale così condotto non può che portare Bowie a una
riflessione su un «Oltre», come mostra lo struggente testo «A better Future» (1976).
È una preghiera al Signore che sottolinea la fatica di vivere, le croci che ciascun
uomo si carica sulle spalle e il desiderio di un incontro che permetta di vedere luce
nell'ombra, speranza nella disperazione: «Dona ai miei bambini un sorriso solare /
Donagli la luna e un cielo sereno / Esigo un futuro migliore / O potrei smettere di
amarti / Quando parliamo, parliamo a te / Quando camminiamo, camminiamo
verso di te / Dalla fabbrica al campo / Quante lacrime devono cadere»
Scritti in un periodo di buio e di sofferenza, i versi di questo brano acquistano
una incisività sorprendente. La ricerca di Dio passa attraverso il sorriso dei
bambini, che simboleggiano la pace e la speranza di una esistenza migliore;
l'incontro con Dio è fatto di parole e di passi, di cammini paralleli e distorti, come di
preghiere che possono essere lacrime di gente che vive di lavoro, «dalla fabbrica al
campo».
Una domanda, tormentata, priva di risposte appaganti, accompagna David
Bowie nelle sue vicissitudini, come canta nel brano «Bus Stop» (1989): «Ora Gesù è
apparso in una visione / E ha offerto la redenzione dal peccato / Non sto dicendo
che non ti credo / Ma sei sicura che fosse veramente lui?». Proprio in questi versi
egli mostra l'incertezza, la debolezza e la difficoltà che comporta la fede; un
camminare esitante, tra valli che s'illuminano di luce e d'amore e cunicoli oscuri di
angoscia e di dubbio. Bowie li percorre entrambi, ma percependo il valore e la
grandezza del significato della vita.
Pochi giorni prima di morire il musicista ha pubblicato l'ultimo suo lavoro,
Blackstar (2016), che, nello stile proprio del cantante, è un'opera che contiene
un'ampia varietà di idee, citazioni, simboli, generi e ritmi musicali. Ci soffermiamo
sulla canzone «Lazarus», che descrive il confronto con l'ultimo passo di ogni uomo:
la morte.
Il brano è accompagnato da un video che mostra David Bowie con il volto
bendato e due bottoni sugli occhi (forse un richiamo all'usanza, nell'antichità, di
porre due monete sugli occhi del defunto) e sdraiato in un letto di una vecchia e
tetra camera di ospedale, che tanto richiama gli «edifici freddi e grigi» di «All the
madmen». La malattia che lo sta portando alla morte è osservata in prima persona
in tutta la sua verità. In questa situazione, i primi versi delle prime due strofe sono
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un richiamo, un grido a un «tu» non esplicitato, ma sicuramente fraterno: «Guarda
su, sono in paradiso [...] Guarda qui, sono in pericolo».
Il paradiso da una parte, e il pericolo dall'altra: di nuovo lo stare in bilico tra due
abissi. Il brano inizia con una dichiarazione senza compromessi: «Ho cicatrici che
non possono essere viste / ho un dramma che non può essere rubato / mi
conoscono tutti ora». Il viaggio dell'esistenza porta con sé i segni dell'umanità,
quelle ferite che non si vogliono mostrare, i drammi che non si sono condivisi e il
cui peso ricade solo sulle spalle di chi li ha vissuti. E anche se Bowie è personaggio
pubblico, che tutti conoscevano, non ha voluto manifestare la sua malattia finale.
Diafano è il contrasto tra il «tutti mi conoscono» e quel conoscersi solo.
Nella seconda strofa, egli canta: «Guarda qui, amico, sono in pericolo / Non ho
più niente da perdere [...] ho fatto cadere il mio cellulare laggiù», esprimendo così la
nudità dell'uomo di fronte alla morte. I versi esprimono un forte desiderio di
attenzione, di aiuto, e svelano la presa di coscienza che tutto è compiuto,
sottolineata dall'immagine di lasciar cadere il cellulare, luogo di contatti, di
relazioni, di vita.
Prosegue descrivendo in due versi il senso della vita: «Quando arrivai a New
York / vivevo come un re / poi ho finito tutti i miei soldi / ti stavo cercando
ovunque». Senza voler «cristianizzare» Bowie, questo passo ricorda molto la
dinamica che si racconta nella parabola del figliol prodigo (cfr Lc 15,11-32): il figlio
si separa dal padre, si trasferisce in altre città vivendo come un re, spendendo tutti
i beni che aveva, alla ricerca di un benessere che non riusciva a trovare, o per lo
meno che non poteva comprare con il denaro, «Ti stavo cercando ovunque»,
espresso in una forma colloquiale, tipica di amici in confidenza, rivela la ricerca di
Bowie, in ogni storia che ha vissuto, negli innumerevoli stili e mode che ha
attraversato, nella moltitudine di incontri che ha avuto. Sembra proprio che la
parola chiave dell'esistenza di Bowie sia stata proprio «ricerca», una situazione
esistenziale che lo ha attraversato e lo ha condotto a non fermarsi sul già
conosciuto.
La canzone continua con la ripetizione del desiderio di libertà, forse mai
raggiunto nella vita: «Lo sai, sarò libero / Come un uccello azzurro». Questa
immagine probabilmente riprende, come abbiamo detto inizialmente, l'incipit della
poesia di Charles Bukowski, The Bluebird: «C'è un uccello azzurro nel mio cuore
che vuole uscire».
Questo desiderio, cercato, anelato, è rimasto intatto fino alla fine della vita di
David Bowie: un artista che ha segnato (e si è fatto segnare da) un'epoca iniziata
negli anni Settanta e conclusasi pochi giorni fa; un cantante che ha fatto della sua
arte un luogo di sperimentazione, provocazione, trasformazione; un artista che ha
cercato una pienezza di senso nella propria vita, essendo consapevole della
fragilità umana, delle contraddizioni e dei possibili cammini erronei; un uomo con i
piedi radicati nella terra e il cuore palpitante verso la libertà.
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