6/4/2016 - studio ducoli

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Mercoledì, 06 aprile 2016
IL CASO DEL GIORNO
CONTABILITÀ
Per le divisioni senza
conguaglio prezzo
valore non applicabile
Bilancio 2015 all’insegna della discontinuità per
sindaci e revisori
/ Anita MAURO
L’applicazione dell’imposta di registro alla divisione è tema piuttosto
delicato, che pone non pochi problemi.
Tra di essi, ci si può soffermare sulla
questione della corretta individuazione del valore dei beni immobili
compresi nella comunione ereditaria da dividere, atteso che per la tassazione della divisione è indispensabile determinare il valore della massa comune.
Prima di tutto, è bene ricordare che,
come ribadito dall’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 18/2013, il contratto di divisione ha natura dichiarativa, sicché rientra nella disciplina
prevista dall’art. 3 della Tariffa, parte
I, allegata al DPR 131/86, che ne prevede la soggezione ad imposta di registro dell’1%.
Il trattamento impositivo della divisione, tuttavia, è diversificato a seconda dell’esistenza (o meno) di
“conguagli”, come previsto dall’art. 34
del DPR 131/86. Tale norma dispone,
infatti, che la “divisione con la quale
ad un condividente [...]
Le modifiche del DLgs. 139/2015 alla disciplina civilistica costituiscono un
fattore di rischio di comportamenti non corretti di cui tenere conto
/ Fabrizio BAVA e Alain DEVALLE
Sono numerose le problematiche del
bilancio 2015 che interessano l’attività del Collegio sindacale e del revisore legale (il cui incarico è spesso attribuito allo stesso Collegio sindacale).
Nella propria Relazione al bilancio
2015, il Collegio sindacale si troverà
in molti casi a dover esprimere il
consenso o meno sulla capitalizzazione delle spese di sviluppo. Talvolta gli amministratori potrebbero,
in considerazione dell’entrata in vigore delle novità del DLgs. 139/2015
dal 1° gennaio 2016, richiedere il
consenso per l’iscrizione nell’attivo
di spese di pubblicità e costi di ricerca applicata sostenuti nel 2015. In
tali situazioni delicate, il Collegio è
chiamato a valutare la correttezza
dei comportamenti adottati (si veda
“Problematica la valutazione delle
spese di pubblicità e ricerca nel bilancio 2015” del 14 marzo).
La legge di stabilità 2016 disciplina
la possibilità di rivalutare i beni
d’impresa e, in caso di ricorso alla
rivalutazione, spetta al Collegio sindacale dichiarare, nella Relazione al bilancio 2015, che non è stato superato
il valore massimo. Il comma 895
dell’art. 1 della L. 208/2015 rinvia, infatti, all’art. 11 della L. n. 342/2000, il
quale al comma 3 prevede che “gli
amministratori e il collegio sindacale
devono indicare e motivare nelle loro
relazioni i criteri seguiti nella rivalutazione delle varie categorie di beni e
attestare che la rivalutazione non eccede il limite di valore di cui al comma 2” (che disciplina il valore massimo).
Tale valore, in caso di determinazione in base al valore d’uso, dovrà essere definito applicando le modalità disciplinate dal principio contabile OIC
9, entrato in vigore nel 2014. Pertanto,
il Collegio sindacale dovrà verificare
le correttezza delle modalità di determinazione del valore d’uso. Se, invece, il valore massimo è determinato
riferendosi al valore di mercato, si
pensi, ad esempio, al caso della rivalutazione di immobili, il [...]
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IN EVIDENZA
LAVORO & PREVIDENZA
Indetraibile l’IVA sulle commissioni fatturate dalle società di
private equity
Principio di cassa “allargato” per i ricavi delle associazioni sportive
Per il socio di snc,
subordinazione solo in
presenza di controllo
gerarchico
Nei costi black list motivazione blindata dell’avviso di
/ Luca MAMONE
accertamento
Nell’ambito di una società di persone,
un rapporto di lavoro subordinato tra
la società e uno dei soci [...]
ALTRE NOTIZIE
/ DA PAGINA 9
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ancora
IL CASO DEL GIORNO
STUDIO DUCOLI
Per le divisioni senza conguaglio prezzo valore non
applicabile
In tal caso è possibile la valutazione automatica; il prezzo valore è ammesso per divisioni con
conguaglio con oggetto immobili abitativi
/ Anita MAURO
L’applicazione dell’imposta di registro alla divisione è
tema piuttosto delicato, che pone non pochi problemi.
Tra di essi, ci si può soffermare sulla questione della
corretta individuazione del valore dei beni immobili
compresi nella comunione ereditaria da dividere, atteso che per la tassazione della divisione è indispensabile determinare il valore della massa comune.
Prima di tutto, è bene ricordare che, come ribadito
dall’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 18/2013, il contratto di divisione ha natura dichiarativa, sicché rientra nella disciplina prevista dall’art. 3 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86, che ne prevede la soggezione ad imposta di registro dell’1%.
Il trattamento impositivo della divisione, tuttavia, è diversificato a seconda dell’esistenza (o meno) di “conguagli”, come previsto dall’art. 34 del DPR 131/86. Tale
norma dispone, infatti, che la “divisione con la quale ad
un condividente sono assegnati beni per un valore
complessivo eccedente quello a lui spettante sulla
massa comune è considerata vendita limitatamente
alla parte eccedente”.
Pertanto, per definire il trattamento impositivo della
divisione, dal punto di vista dell’imposta di registro, è
necessario, in primo luogo, determinare il valore della
massa comune, per poi determinare la quota “di diritto”
spettante a ciascun condividente e verificare se essa
corrisponda alla quota effettivamente assegnata al
condividente (una tesi controversa, sulla verifica
dell’esistenza dei conguagli, è stata proposta da Cass.
n. 20119/2012).
Secondo l’art. 34 del DPR 131/86, nel caso di comunione ereditaria, la massa comune è determinata dal valore, riferito alla data della divisione, dell’asse ereditario
netto determinato secondo le regole dettate, per l’imposta sulle successioni, dall’art. 8 comma 1 del DLgs.
346/90, secondo cui il “valore globale netto dell’asse
ereditario è costituito dalla differenza tra il valore
complessivo, alla data dell’apertura della successione,
dei beni e dei diritti che compongono l’attivo ereditario, determinato secondo le disposizioni degli articoli
da 14 a 19, e l’ammontare complessivo delle passività
deducibili e degli oneri diversi da quelli indicati
nell’art. 46, comma 3” del medesimo DLgs. 346/90.
Ne deriva che, per definire il valore dei beni da dividere, in caso di divisione di una comunione ereditaria
avente ad oggetto immobili è necessario fare riferimento alle regole previste per l’imposta sulle successioni e donazioni che, in relazione agli immobili, all’art.
14 del DLgs. 346/90 dispone il riferimento, per la piena
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proprietà, al “valore venale in comune commercio alla
data di apertura della successione”.
Per quanto concerne, poi, l’applicabilità della valutazione automatica alla divisione, l’Agenzia delle Entrate, nella circ. n. 6/2007 (§ 1.2), ha espressamente ricordato che la valutazione automatica di cui all’art. 52
commi 4 e 5 del DPR 131/86 continua a trovare applicazione alle divisioni senza conguaglio, in quanto esse,
non configurando “cessioni”, non restano assoggettate
al disposto del comma 5-bis dell’art. 52 del DPR 131/86,
che ha limitato l’applicazione della valutazione automatica alle sole cessioni nelle quali vi sia stata l’opzione per il “prezzo valore” (in tal senso, si veda la ris. n.
136/2007; lo Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 117-2006/T e Cass. n. 2480/2006).
Pertanto, ove la divisione:
- non preveda conguagli, nella determinazione del valore dei fabbricati divisi, risulta applicabile la “valutazione automatica”;
- preveda un conguaglio, il “prezzo valore“ (e limitatamente ai beni oggetto di prezzo valore, la valutazione
automatica) risulta applicabile limitatamente agli immobili abitativi.
In breve, per le divisioni senza conguaglio:
- non è comunque possibile avvalersi del meccanismo
agevolato di definizione della base imponibile del
“prezzo-valore” (di cui all’art. 1 comma 497 della L.
266/2005);
- trova applicazione la “valutazione automatica” di cui
all’art. 52 commi 4 e 5 del DPR 131/86, quale limite al
potere di accertamento dell’Agenzia delle Entrate (limitatamente agli immobili per cui essa è “ammessa”,
ovvero escludendo, ad esempio, i terreni edificabili, cfr.
lo Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 242015/T, § 1).
Con tale soluzione il Fisco non può rettificare il valore
dei beni immobili
Di conseguenza, pur non potendosi, in tal caso, richiedere l’applicazione “forfetaria” della base imponibile,
l’Amministrazione finanziaria non può rettificare il valore dei beni immobili divisi dichiarato in misura superiore al valore catastale opportunamente rivalutato.
Alla luce degli elementi sopra riportati, si può concludere che, in linea di principio, la valorizzazione degli
immobili oggetto di comunione ereditaria, ai fini della
determinazione della massa comune, debba avvenire a
“valore venale”, come disposto, per le divisioni eredita-
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ancora
STUDIO DUCOLI
rie, dal combinato disposto degli artt. 34 del DPR 131/86
e 8 e 14 del DLgs. 346/90. Inoltre, tale valore, a norma
dell’art. 52 commi 4 e 5 del DPR 131/86, non è oggetto di
verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate, se superiore a quello determinato moltiplicando il valore catastale per gli appositi coefficienti di legge).
Invece, a norma dell’art. 34 comma 3 del DPR 131/86,
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ove, a seguito della verifica dell’Agenzia delle Entrate,
risultasse che il valore dei beni assegnati ad uno dei
condividenti, determinato a norma dell’art. 52 del DPR
131/86, fosse superiore a quello dichiarato, la differenza si considererebbe conguaglio e, ove superasse la soglia del 5%, sarebbe soggetta ad imposizione come una
vendita.
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CONTABILITÀ
STUDIO DUCOLI
Bilancio 2015 all’insegna della discontinuità per
sindaci e revisori
Le modifiche del DLgs. 139/2015 alla disciplina civilistica costituiscono un fattore di rischio di
comportamenti non corretti di cui tenere conto
/ Fabrizio BAVA e Alain DEVALLE
Sono numerose le problematiche del bilancio 2015 che
interessano l’attività del Collegio sindacale e del revisore legale (il cui incarico è spesso attribuito allo stesso Collegio sindacale).
Nella propria Relazione al bilancio 2015, il Collegio sindacale si troverà in molti casi a dover esprimere il consenso o meno sulla capitalizzazione delle spese di sviluppo. Talvolta gli amministratori potrebbero, in considerazione dell’entrata in vigore delle novità del DLgs.
139/2015 dal 1° gennaio 2016, richiedere il consenso per
l’iscrizione nell’attivo di spese di pubblicità e costi di
ricerca applicata sostenuti nel 2015. In tali situazioni
delicate, il Collegio è chiamato a valutare la correttezza dei comportamenti adottati (si veda “Problematica
la valutazione delle spese di pubblicità e ricerca nel bilancio 2015” del 14 marzo).
La legge di stabilità 2016 disciplina la possibilità di rivalutare i beni d’impresa e, in caso di ricorso alla rivalutazione, spetta al Collegio sindacale dichiarare, nella
Relazione al bilancio 2015, che non è stato superato il
valore massimo. Il comma 895 dell’art. 1 della L.
208/2015 rinvia, infatti, all’art. 11 della L. n. 342/2000, il
quale al comma 3 prevede che “gli amministratori e il
collegio sindacale devono indicare e motivare nelle loro relazioni i criteri seguiti nella rivalutazione delle varie categorie di beni e attestare che la rivalutazione
non eccede il limite di valore di cui al comma 2” (che
disciplina il valore massimo).
Tale valore, in caso di determinazione in base al valore d’uso, dovrà essere definito applicando le modalità
disciplinate dal principio contabile OIC 9, entrato in vigore nel 2014. Pertanto, il Collegio sindacale dovrà verificare le correttezza delle modalità di determinazione del valore d’uso. Se, invece, il valore massimo è determinato riferendosi al valore di mercato, si pensi, ad
esempio, al caso della rivalutazione di immobili, il Collegio sindacale dovrà verificare, nella maggioranza dei
casi, la disponibilità di una perizia redatta da un perito
indipendente.
In alcuni casi, qualora l’entrata in vigore del DLgs.
139/2015 faccia ricadere la società nella fattispecie di
cui agli artt. 2446 e 2447 c.c. (artt. 2482-bis e 2482-ter
per le srl), il Collegio dovrà verificare, non appena sarà
disponibile il progetto di bilancio 2015, che gli amministratori si attivino ai sensi di legge, convocando senza
indugio l’assemblea dei soci per gli opportuni provvedimenti. Se l’andamento dei primi mesi del 2016 fosse
positivo, potrebbe essere opportuno valutare di predisporre una situazione patrimoniale ad hoc, aggiornata,
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ad esempio, a fine febbraio.
Numerosi sono anche i motivi di interesse per i revisori (o lo stesso Collegio incaricato della revisione
legale). Il 2015 costituisce infatti un momento di discontinuità rispetto alle precedenti norme di bilancio e
le significative modifiche apportate dal DLgs. 139/2015
alla disciplina civilistica costituiscono un fattore di rischio di comportamenti non corretti di cui il revisore
deve tenere conto.
A prescindere dal consenso del Collegio sindacale per
la capitalizzazione, sono comunque i revisori a dover
valutare la presenza dei requisiti per la capitalizzazione dei costi di sviluppo, così come la correttezza del
trattamento contabile dei costi di pubblicità e di ricerca applicata sostenuti nel 2015, che, a nostro parere,
non è più opportuno siano capitalizzati.
Ai revisori compete inoltre la verifica, in caso di rivalutazione dei beni d’impresa, della correttezza delle metodologie contabili adottate, anche per quanto riguarda la fiscalità differita e l’iscrizione della riserva da rivalutazione.
La legge di stabilità 2016 comporta poi l’adeguamento
della fiscalità differita pregressa in relazione alla riduzione dell’IRES al 24% prevista a partire dall’esercizio
2017; il revisore dovrà verificare che sia stato ridotto
l’ammontare delle attività per imposte anticipate
iscritto nell’attivo di Stato patrimoniale, in modo particolare in presenza di importi significativi iscritti su
perdite fiscali riportabili a nuovo. Nei casi di effetti negativi significativi sul patrimonio netto al 1° gennaio
2016 prodotti dalle novità del DLgs. 139/2015, per effetto dello stralcio di spese di pubblicità e di ricerca non
qualificabili quali spese di sviluppo, così come per
l’iscrizione di strumenti finanziari derivati con fair value negativo, piuttosto che a seguito dell’applicazione
della nuova disciplina delle azioni proprie, il revisore
deve verificare che sia riportata ampia informativa in
Nota integrativa, in quanto l’effetto sul patrimonio netto è qualificabile come fatto successivo che, pur non
comportando la modifica del bilancio 2015, richiede
una adeguata informativa in base all’OIC 29, trattandosi di avvenimento la cui mancata comunicazione potrebbe pregiudicare la possibilità per i destinatari del
bilancio di assumere decisioni appropriate.
Infine, si ricorda che i revisori legali, nel redigere la Relazione al bilancio 2015, dovranno applicare per la prima volta le indicazioni e i nuovi format previsti dagli
ISA Italia, che sono significativamente differenti rispetto a quelli utilizzati fino al bilancio 2014.
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LAVORO & PREVIDENZA
STUDIO DUCOLI
Per il socio di snc, subordinazione solo in presenza di
controllo gerarchico
Secondo la Cassazione, è inoltre necessario che la prestazione lavorativa non costituisca un
conferimento previsto dal contratto sociale
/ Luca MAMONE
Nell’ambito di una società di persone, un rapporto di
lavoro subordinato tra la società e uno dei soci è configurabile, in via eccezionale, solo nel caso in cui il socio presti la propria attività lavorativa sotto il controllo
gerarchico di un altro socio, e sempre che detta prestazione non costituisca un conferimento previsto dal
contratto sociale. Questo principio di diritto è stato ribadito dalla Suprema Corte con la sentenza n.
6576/2016 di ieri, sul solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità ( cfr. Cass. n.
4725/1999).
Il caso in esame trae origine da un verbale redatto dagli ispettori dell’INPS, con il quale era stata accertata
una simulazione di rapporto di lavoro subordinato tra
due coniugi, entrambi soci di una snc.
Sul punto, vale la pena di ricordare che l’INPS (cfr. circ.
n. 12/2008) tende di consueto a considerare il rapporto
di lavoro tra familiari non riconducibile allo schema
del lavoro subordinato delineato dall’art. 2094 c.c., in
base al principio di gratuità, in virtù del quale il familiare non lavora per negoziare un compenso, ma per
solidarietà ed è connaturato al vincolo familiare che
lega il coniuge e i parenti e affini fino al sesto grado.
Tornando al caso di specie, nel giudizio d’appello, parzialmente favorevole all’Istituto previdenziale, i giudici avevano dichiarato la validità del verbale, evidenziando come spetti alla società provare l’esistenza degli indici atti a far ritenere l’esistenza della subordinazione, ovvero la titolarità di un potere di supremazia
che consenta un controllo gerarchico e che la prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale.
Per i giudici d’appello rilevava, in primis, quanto era
avvenuto nel corso degli anni nell’ambito dell’asset societario. In sintesi, gli unici soci, il marito con la quota
del 72% e la moglie, con il 28%, si erano sostituiti nel
ruolo di amministratore unico definendo le posizioni
con il primo socio (il marito) formalmente qualificato
come lavoratore subordinato, ma al quale erano stati
attribuiti – con delega notarile dalla stessa moglie divenuta amministratrice unica – i poteri di gestione e
organizzazione tipici dell’amministratore.
Inoltre, per la Corte territoriale non assumevano rilievo le testimonianze fornite in giudizio dai dipendenti,
secondo le quali il presunto lavoratore subordinato
avrebbe osservato, con specifiche mansioni di cuoco,
un orario di lavoro non inferiore a quello previsto per
tutti, nonché percepito uno stipendio.
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Nel ricorso per Cassazione, la moglie, in qualità di amministratrice unica, lamenta innanzitutto come in
realtà spettasse all’INPS dover dimostrare i fatti costitutivi del proprio credito, quindi l’insussistenza del
rapporto di lavoro subordinato, poiché ai sensi dell’art.
2697 c.c. l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto
incombe su colui che si proclama titolare del diritto
stesso e che intende farlo valere.
La ricorrente evidenzia poi che la Corte territoriale non
ha debitamente tenuto conto delle testimonianze offerte dagli altri dipendenti circa presunti indici di subordinazione rilevabili nel rapporto in questione (orario di lavoro, mansioni e retribuzione).
Nel rigettare il ricorso, i giudici di legittimità sottolineano innanzitutto che, con riferimento al primo motivo, non siamo di fronte a un’inversione dell’onere della prova, bensì a un accertamento in fatto riservato al
giudice di merito compiuto dalla Corte d’Appello, con il
quale è stato validato quanto dedotto dall’INPS per disconoscere il rapporto di lavoro subordinato, ovvero
che il lavoratore, socio al 72% con la moglie della snc
(28%), ne era stato amministratore unico per diversi
anni e, successivamente, gli erano stati delegati dalla
moglie (divenuta amministratore unico) poteri gestori
e organizzativi.
Rileva il controllo gerarchico esercitato
dall’amministratore sul dipendente
Invece, con riferimento alle testimonianze degli altri
dipendenti, la Suprema Corte evidenzia come in realtà
non fosse emerso alcun elemento circa la sussistenza
di un potere disciplinare e direttivo esercitato dal socio formalmente amministratore della società (ossia la
moglie) nei confronti del socio lavoratore dipendente,
al quale erano state peraltro delegate le funzioni proprie dell’amministratore unico.
In conclusione, per la Cassazione va ribadito il principio secondo cui “nella società di persone che non siano enti giuridici distinti dai singoli soci, un rapporto di
lavoro subordinato tra la società ed uno dei soci (che,
assumendo la veste di dipendente, non perde i diritti
connessi alla predetta qualità), è configurabile, in via
eccezionale, nella sola ipotesi in cui il socio presti la
propria attività lavorativa sotto il controllo gerarchico
di un altro socio, e sempre che la predetta prestazione
non integri un conferimento previsto dal contratto sociale”.
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FISCO
STUDIO DUCOLI
Indetraibile l’IVA sulle commissioni fatturate dalle
società di private equity
In presenza di mera attività di detenzione di partecipazioni il diritto non spetta
/ Simonetta LA GRUTTA e Fabrizio PAPOTTI
Con la circolare n. 6 del 30 marzo 2016, l’Agenzia delle
Entrate ha fornito chiarimenti, tra l’altro, in merito alla
deducibilità ai fini delle imposte dirette e alla detraibilità ai fini IVA rispettivamente dei costi e dell’imposta
afferente alle c.d. other fee addebitate dalle società di
private equity alla portfolio company nell’alveo delle
“operazioni di acquisizione con indebitamento” (note
anche come leverage buy-out o LBO).
Tali operazioni sono finalizzate all’acquisizione di
un’azienda o di una partecipazione in una società c.d.
target mediante la creazione di una società veicolo ad
hoc (c.d. special purpose vehicle o SPV), finanziata in
parte con capitale proprio ed in parte mediante prestiti contratti a titolo oneroso. Di fatto, si ricorre all’utilizzo dell’indebitamento come leva finanziaria che comporta benefici fintanto che il costo del prestito contratto è inferiore al rendimento del capitale di rischio.
A tale modalità operativa se ne affianca un’altra, denominata LBO istituzionale, in cui solitamente un fondo
di private equity (investitore istituzionale) acquista la
società target; in tal modo, quest’ultima entra a far parte del portafoglio di investimenti del fondo (diviene
una portfolio company) ed è da questo gestita al fine di
massimizzare gli utili nell’interesse degli investitori.
Le società di private equity ricevono una remunerazione per le attività di gestione dei suddetti investimenti
che consta di due componenti: una fissa, non ancorata
ai risultati ottenuti dall’attività svolta; una variabile, finalizzata a remunerare quanto realizzato dal fondo in
relazione alla singola operazione o alla gestione complessiva. La componente fissa, a sua volta, si articola in
due distinte tipologie di commissioni: le c.d. management fee addebitate al fondo; le c.d. other fee, addebitate alla società acquistata (la portfolio company).
I documenti istitutivi e regolamentari del fondo, che
fissano gli importi delle remunerazioni dovute alla società di private equity, normalmente prevedono che le
other fee (o alcune di esse) siano scomputate in misura totale o parziale dalle management fee. In altri termini, si prevede che una parte delle management fee
dovute dal fondo alla società di private equity sia a
questa corrisposta dalla società acquistata. Ciò richiede, ai fini delle imposte dirette, un’attenta analisi
dell’inerenza e della corretta qualificazione delle commissioni addebitate, per evitare che costi per servizi
erogati nell’interesse dei quotisti del fondo gravino in
capo ai veicoli costituiti in Italia, piuttosto che essere
dedotti dal rendimento corrisposto dal fondo ai quotisti stessi.
È, parimenti, necessario, ed è ciò che qui interessa,
Eutekne.Info / Mercoledì, 06 aprile 2016
compiere un’analisi al fine di accertare l’esistenza del
diritto alla detrazione dell’IVA dovuta sulle commissioni in parola, nel caso in cui queste non rientrino
nelle previsioni di cui all’art. 10 del DPR 633/72 e, come
tali, siano esenti.
La questione deve risolversi avendo riguardo all’attività svolta dalla SPV. L’art. 168 della direttiva
2006/112/UE, a cui corrisponde l’art. 19 del DPR 633/72,
prevede che il soggetto passivo possa detrarre l’imposta assolta sugli acquisti di beni e servizi qualora questi siano afferenti all’attività esercitata.
È consolidato orientamento della Corte di Giustizia Ue
che le disposizioni di cui al citato art. 168 debbano essere interpretate nel senso che il diritto alla detrazione dell’IVA corrisposta a monte all’atto dell’acquisto di
beni e servizi presuppone che le spese compiute per
acquistare questi ultimi siano elementi costitutivi del
prezzo delle operazioni tassate a valle (ex multis causa C-29/08, SKF).
È altrettanto consolidato il principio di cui all’art. 4
comma 5 DPR 633/72, riconfermato più volte dalla Corte di Giustizia Ue (causa C-496/11 Portugal Telecom),
secondo cui non esercitano attività commerciale (e sono quindi privi della qualifica di soggetti passivi d’imposta) i soggetti la cui attività consiste nel mero possesso di attività finanziarie, non strumentali, né accessorie ad altre attività svolte dal medesimo soggetto
economico.
Pertanto, nel caso di specie, se l’attività della SPV si limita a una mera detenzione di partecipazioni, senza
interferire in alcun modo nella gestione delle società
presenti in portafoglio, non può riconoscersi il diritto
alla detrazione dell’IVA gravante sulle other fee né in
capo alla SPV, né successivamente in capo alla portfolio company, qualora sia stata incorporata o abbia incorporato la SPV.
Né il diritto alla detrazione potrà essere riconosciuto in
capo alla portfolio company, qualora le other fee siano
riferibili in tutto o in parte a un servizio che la società
di private equity rende nell’interesse esclusivo del fondo e dei quotisti e non della società. Non si ravvisa, infatti, in questo caso l’esistenza di un nesso diretto e
immediato tra operazione di acquisto a monte ed operazione di vendita a valle.
A diverse conclusioni sulla detraibilità dell’IVA addebitata si potrebbe giungere nel caso in cui la SPV non rivesta un ruolo di mero detentore di partecipazioni, ma
svolga effettivamente un’attività commerciale, secondo il disposto dall’art. 9 della direttiva 2006/112/CE, a
cui corrisponde l’art. 4 del DPR n. 633/72.
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FISCO
STUDIO DUCOLI
Principio di cassa “allargato” per i ricavi delle
associazioni sportive
Secondo la C.T. Reg. di Milano per il calcolo dei limite di 250.000 euro contano anche i proventi
commerciali fatturati ma non incassati
/ Enrico SAVIO e Alberto RIONDATO
La C.T. Reg. di Milano, sezione staccata di Brescia, con
la sentenza n. 1401/67/16, ha considerato rilevanti per
la fruizione della L. 398/91 anche quei proventi commerciali che, pur non ancora incassati, sono stati comunque oggetto di fatturazione.
La vicenda, che ha coinvolto un’associazione sportiva
dilettantistica lombarda, nasce a seguito di un accertamento SIAE nel corso del quale i verificatori, constatando l’emissione di fatture per un importo imponibile
ai fini IVA superiore a 250.000 euro (pur non interamente incassate), avevano ritenuto violati i presupposti per fruire della “398”. Contro i successivi avvisi di
accertamento, contenenti un mero richiamo al verbale SIAE, la contribuente presentava ricorso risultando
vittoriosa in primo grado. Nel sostenere le ragioni del
sodalizio, infatti, la C.T. Prov. aveva sottolineato come,
in ogni caso, per la verifica del parametro in oggetto
sarebbero rilevanti esclusivamente i proventi commerciali “effettivamente incassati”.
Tale decisione veniva però riformata in appello, dove
la C.T. Reg. poneva a base della propria motivazione
non solo il DM 18 maggio 1995 ma anche, stranamente,
la dottrina di una Guida di una casa editrice, così come richiesto dalla stessa Agenzia delle Entrate.
Ciò premesso, si ricorda che il regime forfetario di cui
alla L. 398/91 può trovare applicazione da parte delle
associazioni senza scopo di lucro che ne rispettino i
presupposti oggettivi, primo fra tutti quello dei proventi da attività commerciale “conseguiti” o, per gli enti di
nuova costituzione, “conseguibili”.
Infatti, l’art. 1, comma 1 della L. 398/91 prevede che “Le
associazioni sportive e relative sezioni non aventi scopo di lucro, affiliate alle federazioni sportive nazionali
o agli enti nazionali di promozione sportiva riconosciuti ai sensi delle leggi vigenti, che svolgono attività
sportive dilettantistiche e che nel periodo d’imposta
precedente hanno conseguito dall’esercizio di attività
commerciali proventi per un importo non superiore a
250.000 euro” possano scegliere di applicare l’IVA e le
imposte sul reddito in modo forfetario così come previsto nel successivo art. 2.
Successivamente, il Ministero delle Finanze (circ. 11
febbraio 1992 n. 1), aveva chiarito che per l’identificazione del limite in questione sarebbe stato necessario
riferirsi al “criterio di cassa”.
Tuttavia, nonostante la chiara presa di posizione ministeriale del ’92, la SIAE, forse per effetto dell’esonero
dagli obblighi di fatturazione di cui godono i soggetti in
“regime 398”, con propria circolare n. 712/92 aveva rite-
Eutekne.Info / Mercoledì, 06 aprile 2016
nuto che nel limite dei proventi commerciali si sarebbe dovuto tener conto non solo dei proventi incassati
ma anche, in presenza di fattura, dei proventi certificati ancorché non riscossi (criterio di fatturazione). Lo
stesso Ministero aveva provveduto poi, recependo le
considerazioni della SIAE, con il DM 18 maggio ’95 a
implementare il disposto già introdotto dalla circolare
n. 1/92, prevedendo che per “l’individuazione dei proventi conseguiti nell’esercizio di attività commerciali
deve aversi riguardo al criterio di cassa, nel cui ambito,
peraltro, resta fermo il principio voluto dalla normativa IVA secondo cui vanno computati gli introiti fatturati ancorché non riscossi”.
Non c’è uniformità di vedute sul concetto di “proventi
conseguiti”
L’applicazione del principio di cassa “allargato” non ha
però trovato sostegno né nella dottrina prevalente, né
nella giurisprudenza di merito: infatti, sia la C.T. Prov.
di Reggio Emilia n. 274/2/14 ( “l’Associazione sportiva
nel caso di specie non avrebbe conseguito il provento
non avendolo incassato”) che la C.T. Reg. L’Aquila, sez.
Pescara, n. 256/6/15 (“non pare quindi, alla luce della
chiara e inequivocabile espressione usata dal legislatore, che possa attribuirsi un diverso e più ampio significato alla norma contenuta nel citato art. 1 della legge
n. 398/91”), proprio per la particolarità della norma in
esame, escludono che possano essere ricompresi nel
limite dei 250.000 euro anche i proventi fatturati ma
non incassati.
Significativa risulta essere la pronuncia dei giudici
abruzzesi anche nel motivare la non condivisibilità del
ragionamento espresso dalla SIAE e poi ripreso dal Ministero delle Finanze nel DM 18 maggio ’95 e utilizzato
nella motivazione della CTR lombarda in commento.
Infatti, secondo i giudici di Pescara, l’introduzione del
“principio di fatturazione” accanto a quello di “cassa”
avrebbe portato a una “distinzione arbitraria circa le
modalità di incasso dei proventi, non desumibile
neanche indirettamente dal tenore della norma di cui
alla legge n. 398/91”.
Da ultimo si sottolinea come il DM 18 maggio ’95, previsto dall’art. 2, comma 6 della L. 398/91, si debba riferire
all’approvazione dei “modelli di distinta”, delle “dichiarazioni di incasso” nonché delle “relative modalità di
compilazione” e non, come ritenuto dal Fisco e dalla
Regionale di Milano, alla definizione delle modalità di
determinazione del limite dei “proventi conseguiti”.
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ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
Nei costi black list motivazione blindata dell’avviso
di accertamento
In giudizio il Fisco non può addurre l’inesistenza dell’operazione se prima si era fermato alla mancata
indicazione in dichiarazione
/ Giovambattista PALUMBO
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6103 del 30
marzo 2016, ha chiarito un tema processuale non sempre ben chiaro: il cosiddetto divieto di mutatio libelli e
la stretta connessione tra atto impositivo e thema decidendum.
Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione nell’ambito di una controversia relativa ad un avviso di accertamento con cui
erano stati ritenuti indeducibili, perché non separatamente indicati in dichiarazione, i costi derivati da operazioni commerciali intrattenute con fornitori fiscalmente domiciliati in Hong Kong, Paese a fiscalità privilegiata.
In riforma della sentenza di primo grado, il giudice di
appello aveva negato l’indeducibilità dei costi oggetto
del recupero e applicato alla società contribuente la
sanzione prevista dall’art. 8, comma 3-bis del DLgs. n.
471/97 (introdotto dell’art. 1, comma 302 della L.
296/2006), commisurata al 10% del complessivo importo di spese e componenti negative non separatamente
indicate.
Ferma restando l’indeducibilità dei costi in rassegna in
assenza di prova sull’effettiva operatività delle contraenti estere, ovvero della convenienza economica
delle operazioni, con effetto retroattivo, la separata indicazione dei costi in dichiarazione era stata infatti
“degradata” da presupposto sostanziale di deducibilità
ad obbligo di carattere formale, passibile di sanzione
amministrativa.
L’Agenzia censurava allora la sentenza della C.T. Reg.
per difetto di motivazione, in quanto i costi scaturenti
da operazioni intercorse con soggetti residenti in Paesi a fiscalità privilegiata non erano comunque deducibili in mancanza di prova in merito all’effettiva operatività delle contraenti estere, ovvero della convenienza economica delle operazioni.
I giudici di legittimità, oltre a dichiarare la censura
inammissibile, in quanto diretta a richiedere alla Corte
un diverso apprezzamento delle risultanze processuali, rispetto a quello effettuato dal giudice di merito, evidenziano comunque che la contestazione contenuta
nell’avviso di accertamento era esclusivamente incentrata sul profilo della mancata indicazione dei costi in
dichiarazione, senza alcun riferimento alla sostanziale elusività delle operazioni.
La ricorrenza o meno delle circostanze (effettiva operatività della contraente estera e convenienza dell’operazione), in relazione alle quali l’Agenzia lamentava
l’insufficiente motivazione, si rivelava dunque estra-
Eutekne.Info / Mercoledì, 06 aprile 2016
nea al thema decidendum.
Al riguardo la Corte ricorda infatti che “è regola fondamentale del diritto tributario quella secondo cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo definiscono i
confini del giudizio tributario, che (anche se con sue
specifiche caratteristiche) è, pur sempre, giudizio d’impugnazione d’atto; sicché l’ufficio finanziario, restando le contestazioni adducibili in sede contenziosa circoscritte alla motivazione dell’avviso di accertamento,
non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse o modificare, nel corso del giudizio, quelle definite dalla motivazione suddetta”.
Né, aggiunge la Corte, tale criterio, anche per le funzioni di garanzia del diritto di difesa che la motivazione
dell’atto impositivo assolve, poteva ritenersi derogato
dall’entrata in vigore di una previsione normativa con
effetti retroattivi, anche considerato che tale previsione si limitava comunque a degradare, da presupposto
d’indeducibilità a violazione amministrativamente
sanzionata, il solo profilo formale della mancata indicazione dei costi in dichiarazione.
La motivazione rappresenta i confini del processo
tributario
Al di là della disciplina sostanziale in discussione (si
ricorda solo come la disciplina black list sia poi stata
modificata prima dall’art. 4 del DLgs. 147/2015 e poi
dalla legge di stabilità 2016), preme evidenziare che si
ha sempre un’inammissibile modificazione della causa petendi quando si introduce nel processo un nuovo
tema di indagine, alterando così i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa
da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non
si è svolto in quella sede il contraddittorio.
Si parlerà allora in questi casi di mutatio libelli, a seguito della quale una delle parti del giudizio cerca, in
sostanza, di cambiare l’oggetto del giudizio.
Peraltro, dato il ruolo dell’Ufficio nel processo tributario come attore sostanziale (è con la notifica dell’atto
impositivo che in sostanza si instaura il “contatto” tra
le due parti), il thema decidendum è individuato già
nell’accertamento. Laddove l’art. 7 del DLgs. n.
546/1992 fa riferimento allo svolgimento del giudizio
“nei limiti dei fatti dedotti dalle parti”, appare allora
evidente che la deduzione dei fatti da parte dell’Amministrazione si attua proprio attraverso la motivazione
dell’avviso di accertamento, la quale segna appunto i
confini immodificabili del thema decidendum.
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ancora
FISCO
STUDIO DUCOLI
Fondo di dotazione virtuale di branch di banche
estere conforme al Rapporto OCSE 2010
Il provvedimento di ieri attua il nuovo art. 152 del TUIR; si attendono ora le disposizioni per le S.O. di
imprese industriali, commerciali e di servizi
/ Gianluca ODETTO
L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato sul proprio sito
ieri, 5 aprile 2016, il provvedimento n. 49121, con il quale vengono individuati i metodi di calcolo del fondo di
dotazione virtuale della stabile organizzazione di imprese bancarie non residenti. Il provvedimento attua
quanto previsto dal nuovo art. 152 del TUIR, così come
risultante dalle modifiche dell’art. 7 del DLgs. 147/2015,
secondo cui il fondo di dotazione è determinato in piena conformità ai criteri definiti in sede OCSE, tenendo
conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati.
La questione della congruità, ai fini fiscali, del fondo di
dotazione si è mostrata in tutta la sua evidenza a seguito di una serie di accertamenti operati nei confronti del settore bancario, i quali hanno segnato un vero e
proprio punto di svolta con la sentenza n. 62/18/12 del
12 giugno 2012 della C.T. Reg. della Lombardia: la pronuncia, relativa ad una causa con la branch italiana
della banca HSBC, ha messo in luce la necessità, per le
S.O., di dotarsi di un fondo di dotazione adeguato alla
natura e alla dimensione dell’attività esercitata; se ciò
non avviene, la parte dei mezzi finanziari erogati dalla
casa madre corrispondente a tale fondo di dotazione
virtuale viene considerata non produttiva di interessi
(essendo equiparata, se può essere consentita la semplificazione, al capitale sociale di un’impresa indipendente che svolge le medesime funzioni), con conseguente ripresa a tassazione degli interessi passivi dedotti dalla stabile organizzazione e relativi al fondo di
dotazione virtuale stesso.
La questione era poi stata ripresa dall’Agenzia delle
Entrate nella risoluzione n. 63 del 17 giugno 2014,
anch’essa riferita ad un gruppo bancario, la quale ha
sostanzialmente equiparato il fondo di dotazione virtuale al patrimonio netto contabile di una società residente ai fini della quantificazione delle perdite riportabili in caso di fusione ai sensi dell’art. 172 comma 7 del
TUIR.
Venendo al provvedimento del 5 aprile 2016, va subito
notato che esso riguarderebbe solo le imprese del settore bancario (e non, quindi, le imprese che svolgono
una diversa attività). Ciò dovrebbe essere riconducibile a quanto previsto dall’art. 7 comma 3 del DLgs.
147/2015, secondo cui i metodi di calcolo del fondo di
dotazione virtuale sono stabiliti “con uno o più Provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, il primo dei quali da emanarsi entro novanta giorni dalla
data di entrata in vigore del presente decreto”. Dal riferimento che la legge ha posto a “uno o più” Provvedi-
Eutekne.Info / Mercoledì, 06 aprile 2016
menti pare di capire che il provv. n. 49121/2016 operi
per il solo settore bancario, mentre con ulteriori disposizioni attuative (che, presumibilmente, replicheranno i medesimi obiettivi di fondo, omettendo però alcuni punti specifici che caratterizzano le banche) verranno regolati i casi delle imprese industriali, commerciali e di servizi.
A livello di principi generali, si prevede:
- che il fondo di dotazione virtuale è determinato in
conformità al Rapporto OCSE del 2010 sull’attribuzione
dei profitti alla stabile organizzazione, con il consueto
approccio della functionally separate entity;
- che gli interessi passivi in eccesso rispetto al fondo
di dotazione virtuale sono ripresi in aumento;
- che il fondo di dotazione virtuale può non trovare una
sua corrispondenza con quello contabile.
I metodi utilizzabili sono il c.d. “capital allocation approach” (ammesso solo se la casa madre risiede in uno
Stato dotato di strumenti di scambio di informazioni ai
fini fiscali con l’Italia), con il quale si attribuisce alla
S.O. una porzione del capitale proprio dell’impresa vista nel suo complesso, oppure il c.d. “thin capitalisation approach”, con il quale viene attribuito alla S.O. lo
stesso fondo di dotazione di un’impresa indipendente
che svolge in Italia la stessa attività nelle medesime o
simili condizioni. È altresì consentito utilizzare il c.d.
“quasi thin capitalisation approach” (peraltro espressamente ritenuto accettabile dalla già richiamata risoluzione n. 63/2014), secondo cui il fondo di dotazione è
determinato applicando le disposizioni di vigilanza
italiane, come se la S.O. fosse un’impresa bancaria indipendente operante in Italia.
Possibili effetti sul contenzioso pendente
Va ancora ricordato che, come previsto dall’art. 7 comma 3 del DLgs. 147/2015, relativamente ai periodi di imposta iniziati prima dell’emanazione del provvedimento riguardante lo specifico settore di appartenenza,
l’eventuale rettifica in aumento del reddito imponibile
o della base imponibile IRAP conseguente alla valutazione della congruità del fondo di dotazione secondo le
nuove regole non dà luogo all’applicazione di sanzioni.
Il principio risulta chiaro per le attività di controllo che
inizieranno da oggi, ma è plausibile che esso possa essere esteso al contenzioso in corso, con la conseguente possibilità di richiedere lo sgravio delle sanzioni se
l’attività di accertamento si è basata su metodologie
non conformi ai nuovi provvedimenti.
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IMPRESA
STUDIO DUCOLI
Nel concordato preventivo disposizioni speciali per
gli atti societari
Saranno disciplinati espressamente i regimi di responsabilità, l’amministrazione provvisoria e le
operazioni straordinarie
/ Michele BANA
L’art. 6 comma 1 dello schema di Ddl. recante “Delega
al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” prevede l’introduzione di significativi principi nell’ambito della normativa sul concordato preventivo, non soltanto con riferimento alla veridicità dei dati aziendali e alla fattibilità
del piano (si veda “Veridicità dei dati e fattibilità, dubbia l’utilità dell’attestatore” del 4 aprile 2016).
Il progetto di riordino prospetta, infatti, una più dettagliata disciplina della fase di esecuzione della proposta concordataria, anche con riguardo agli effetti purgativi e alla deroga della solidarietà passiva di cui
all’art. 2560 c.c. in materia di cessione d’azienda, con
possibilità per il tribunale di affidare ad un terzo il
compito di porre in essere gli atti necessari all’attuazione del piano.
Sul punto, si ricorda che tale disposizione civilistica
stabilisce che:
- l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori alla vendita, se non
risulta che i creditori vi hanno acconsentito;
- nel trasferimento di un’azienda commerciale, risponde delle suddette passività anche l’acquirente
dell’azienda, se esse risultano dai libri contabili.
Peraltro, si deve osservare che, in base alla legislazione vigente, questa normativa non trova applicazione
nel caso della cessione posta legalmente in essere dopo il deposito della domanda di concordato preventivo,
in virtù del combinato disposto degli artt. 182 comma 5
e 105 commi 2 e 3 del RD 267/42, per effetto del quale è
esclusa la responsabilità dell’alienante ex art. 2560 c.c.
– anche nel caso di conferimento dell’azienda del debitore o di rami della stessa – così come, salva diversa
convenzione, quella dell’acquirente per i debiti relativi
all’esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento (si veda “Affittuario dell’azienda in crisi attento alla successione nei debiti” del 13 gennaio 2016).
Tale esonero riguarda anche le passività di natura tributaria di cui all’art. 14 comma 1 del DLgs. 472/97, a
norma del successivo comma 5-bis, in vigore dal 1°
gennaio 2016: quest’ultima disposizione stabilisce, infatti, l’esclusione della responsabilità tributaria solidale dell’acquirente – se non ricorre l’ipotesi dell’alienazione in frode dei crediti tributari (comma 4) – in tutti i
casi in cui la cessione dell’azienda, o di rami della stessa, sia effettuata nell’ambito di procedure concorsuali,
accordi di ristrutturazione dei debiti, piani attestati di
risanamento, procedimenti di composizione della cri-
Eutekne.Info / Mercoledì, 06 aprile 2016
si da sovraindebitamento o di liquidazione del patrimonio del debitore.
L’art 6 comma 1, lett. m), dello schema di Ddl. stabilisce,
inoltre, il riordino della disciplina della revoca, dell’annullamento e della risoluzione del concordato preventivo, riconoscendo la legittimazione del commissario
giudiziale a richiedere, su istanza di un creditore, la risoluzione del concordato per inadempimento.
La riforma prospetta altresì l’introduzione di alcune
specifiche disposizioni riguardanti il concordato preventivo delle società – tematica attualmente poco trattata dal RD 267/42, sebbene sia particolarmente ricorrente – dirette, tra l’altro, ad esplicitare i presupposti, la
legittimazione e gli effetti dell’azione sociale di responsabilità e di quella spettante ai creditori, in conformità ai principi del codice civile, nella logica della
procedura in continuità aziendale, ovvero l’unica forma di concordato che sarà contemplata (si veda “Riforma del concordato preventivo orientata al risanamento” del 17 marzo 2016).
Gli organi sociali devono attuare tempestivamente la
proposta omologata
È pure prevista l’imposizione agli organi sociali del dovere di dare tempestiva attuazione alla proposta omologata, stabilendo che – in caso di comportamenti dilatori oppure ostruzionistici – l’esecuzione del piano
venga affidata ad un amministratore provvisorio: in
particolare, quest’ultimo sarà nominato dal tribunale e
dotato dei poteri spettanti all’assemblea, ovvero della
facoltà di sostituirsi ai soci nell’esercizio del diritto di
voto, con la garanzia di adeguati strumenti di informazione e tutela, in sede concorsuale, dei soci.
È, infine, prevista l’adozione di alcune peculiari misure relative alla trasformazione, fusione o scissione di
società, tra le quali il riconoscimento del diritto di opposizione dei creditori soltanto in sede di controllo
giudiziale sulla legittimità della domanda di concordato preventivo: gli effetti di tali atti di riorganizzazione
saranno considerati irreversibili – anche nell’eventualità della risoluzione o dell’annullamento del concordato, salvo il diritto al risarcimento dei soci o terzi
danneggiati, a norma degli artt. 2500-bis e 2500-quater
c.c. – e ai soci non spetterà il diritto di recesso in conseguenza di operazioni incidenti sulla organizzazione
o struttura finanziaria della società.
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ancora
PROFESSIONI
STUDIO DUCOLI
Con distinti decreti di trasferimento compensi del
delegato per singolo lotto
Il Tribunale di Ivrea ha rilasciato anche una tabella ad hoc rispetto al prezzo di aggiudicazione del lotto
/ Roberta VITALE
Nelle istruzioni fornite dal Tribunale di Ivrea con una
circolare del 24 marzo 2016, vi sono anche le indicazioni relative alla determinazione e liquidazione dei compensi per le operazioni delegate dal giudice dell’esecuzione ai sensi del DM 15 ottobre 2015 n. 227 (cfr. artt.
169-bis e 179-bis disp. att. c.p.c. e artt. 534-bis e 591-bis
c.p.c.) nell’ambito della procedura con più lotti (per la
procedura con un unico lotto si veda “Registrazione e
trascrizione a spese dell’aggiudicatario nelle espropriazioni” del 5 aprile).
In particolare, con riferimento ai parametri di cui
all’art. 2 del regolamento per la determinazione del
compenso nell’espropriazione forzata immobiliare, il
comma 2 stabilisce che per le prime tre fasi di attività
del delegato, in presenza di giusti motivi, il compenso
determinato secondo i criteri generali può essere liquidato per ciascun lotto.
Si ricorda che le prime tre fasi corrispondono rispettivamente alle attività svolte:
- tra il conferimento dell’incarico e la redazione
dell’avviso di vendita, incluso lo studio della documentazione depositata a norma dell’art. 567, comma secondo c.p.c.;
- successivamente alla redazione dell’avviso di vendita e fino all’aggiudicazione o all’assegnazione;
- nel corso della fase di trasferimento della proprietà.
In egual modo si procede per la liquidazione del compenso relativo alle attività comprese nella quarta fase,
relativa alla distribuzione della somma ricavata, qualora la distribuzione abbia ad oggetto somme riferibili a
più debitori.
Premesso quanto sopra, la circolare ha precisato che,
con riferimento alla prima, seconda e quarta fase, si ha
riguardo allo scaglione inerente al valore complessivo
di aggiudicazione. Rimane fermo che, in caso di comprovata complessità della procedura, il giudice
Eutekne.Info / Mercoledì, 06 aprile 2016
dell’esecuzione possa aumentare l’ammontare del
compenso per una o più delle fasi (art. 2, comma 3 del
DM 227/2015).
La liquidazione sarà fatta in maniera contestuale alla
predisposizione del progetto di distribuzione o, in caso
di estinzione, al momento dell’adozione del provvedimento di definizione della procedura esecutiva.
Liquidazione contestuale al progetto di distribuzione
Quanto alla terza fase, qualora vengano redatti distinti
decreti di trasferimento, la liquidazione del compenso
sarà per ogni singolo lotto (ex art. 2, comma 2 del DM
227/2015) e avverrà contestualmente alla sottoscrizione dei singoli decreti, con autorizzazione al delegato al
prelievo della quota a carico della procedura dal conto
corrente sul quale è stato depositato il prezzo derivante dalla vendita.
Il Tribunale di Ivrea, nell’ambito dei valori del primo
scaglione di cui all’art. 2, comma 1 lett. a) del DM
227/2015 (prezzo di aggiudicazione o valore di assegnazione fino a 100.000 euro), – che, come sottolinea la
circolare, riguarda la maggior parte delle procedure –
ha ritenuto opportuno predisporre un tabella ad hoc.
Ciò per “contemperare le diverse esigenze delle parti
ed evitare di gravare eccessivamente la procedura esecutiva”.
Prezzo di aggiudicazione del lotto:
- sino a 25.000 euro: 700 euro;
- da 25.000,01 sino a 50.000 euro: 800 euro;
- da 50.000,01 sino a 75.000 euro: 900 euro;
- da 75.000,01 sino a 100.000 euro: 1.000 euro;
Resta fermo per gli importi superiori a 100.000 euro,
anche in caso di plurimi lotti, il valore medio di cui al
DM 227/2015 rispetto allo scaglione di riferimento.
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LETTERE
STUDIO DUCOLI
L’OCSE dovrebbe vietare i bonifici verso le banche di
Paesi non “trasparenti”
Gentile Redazione,
desidero solo integrare le osservazioni del collega Valente circa l’opportunità di procedere ad una più ampia trasparenza e leale cooperazione non solo in materia fiscale, ma anche allo scopo di sconfiggere il terrorismo (si veda “I «Panama Papers» riaccendono il dibattito sull’elusione internazionale” del 5 aprile).
Già nel 2001, a seguito dell’attacco alla Torri gemelle,
avevo ipotizzato che la reazione degli USA andasse
verso una maggior trasparenza. Ma così non è stato.
Personalmente, penso che a livello OCSE si debba
stendere un protocollo dei principi e delle regole della
trasparenza internazionale, cui faccia seguito la sanzione di vietare bonifici in entrata e in uscita verso le
banche i cui Paesi non aderiscono al suddetto protocollo.
In questo modo i Paesi non aderenti rimarrebbero isolati in un circuito senza possibilità di scambio (e conseguente ripulitura e legittimazione a far rientrare nel
circuito legale il denaro di provenienza illecita) con gli
altri.
Ciò permetterebbe non solo la maggior equità fiscale
auspicata dal collega Valente, ma anche il blocco del
finanziamento delle guerre (non scordiamoci che le
armi costano tantissimo) e del terrorismo in genere,
che a mio avviso sta avanzando come una cancrena in
una comunità internazionale sempre più frantumata e
disgregata nella leadership e negli ideali.
Giovanni Garbelotto
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Treviso
Direttore Editoriale: Michela DAMASCO
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