vota si` contro le trivellazioni

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Transcript vota si` contro le trivellazioni

Settimanale
Fondato il 15 dicembre 1969
1953 – 5 Marzo – 2016. 63° Anniversario della scomparsa
del grande Maestro del proletariato internazionale
Con Stalin
per sempre
Nuova serie - Anno XXXX - N. 11 - 17 marzo 2016
Al referendum del 17 aprile per salvaguardare la salute, la natura e
l’ambiente, per le energie rinnovabili
VOTA SI’
CONTRO LE
TRIVELLAZIONI
Documento dell’Ufficio politico del PMLI
Stalin, 1° Maggio 1946 a Mosca durante i festeggiamenti della
Giornata internazionale dei lavoratori
contro il capitalismo
per il socialismo
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L’articolo 39 della Costituzione
e il tema del riconoscimento
giuridico dei sindacati dei lavoratori
PAGG. 6-11
Come confermato dall’ambasciatore Usa, che chiede di mettere a disposizione 5 mila uomini
L’Italia di Renzi pronta a guidare la
coalizione imperialista contro l’IS in Libia
Un decreto segreto del governo consente al nuovo duce di ordinare azioni di guerra delle
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forze speciali senza autorizzazione del parlamento
Profughi
LGBTI in piazza contro la legge assaltano
insufficiente e discriminatoria le barriere
sulle unioni civili
tra Grecia e
il pmli ha tenuto alto il cartello di appoggio a lgbti
Macedonia
Grande manifestazione nazionale a Roma
PAG. 5
Sentenza della Corte europea dei diritti umani
L’Italia condannata per il rapimento dell’iman Omar
Ritenuta “intollerabile” la grazia concessa da Napolitano e Mattarella ai tre agenti della Cia colpevoli del rapimento PAG. 5
Per aver cacciato il prefetto
di Enna anti-Crisafulli
Il governo francese rade
al suolo la baraccopoli di
PAG. 15
Calais
L’ha confermato la procura di Roma
torturato da professionisti
Alfano indagato Regeni
La procura di Giza: Regeni torturato per sette giorni. Il governo egiziano continua a non collaborare
PAG. 4
L’Italia deve rompere i rapporti diplomatici con l’Egitto
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Organizzata dal PMLI a Riccione (Rimini)
Commemorazione di Marx nel 133° Anniversario della scomparsa
Domenica 13 marzo - ore 11,00 - Di fronte al busto di Marx presso i giardini della Biblioteca Comunale di Riccione - Via Lazio 10 - Centro della Pesa
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2 il bolscevico / referendum 17 aprile
N. 11 - 17 marzo 2016
Al referendum del 17 aprile per salvaguardare la salute, la natura e l’ambiente, per le energie rinnovabili
VOTA SI’ CONTRO
LE TRIVELLAZIONI
Documento dell’Ufficio politico del PMLI
I marxisti-leninisti voteranno
Sì e invitano l’elettorato a votare
Sì al referendum sulle trivellazioni che si svolgerà il prossimo 17
aprile, e sono già impegnati a partecipare ai Comitati per il Sì che
si stanno creando a livello territoriale.
Il quesito referendario sulle trivellazioni, l’unico sopravvissuto
dei sei iniziali proposti da 9 regioni italiane e dal mondo ambientalista No Triv e non superato dalle modifiche introdotte in seguito
dal governo, contesta la norma secondo la quale le autorizzazioni di
estrazione ad oggi rilasciate debbano essere fatte salve “per la durata di vita utile del giacimento”.
Il nuovo duce Renzi non è
dunque riuscito a evitare il referendum sul petrolio, nonostante
il tentativo mal riuscito di eludere
tutti i quesiti con alcune modifiche inserite nella legge di stabilità
di fine dicembre. Nello specifico,
questo referendum è stato confermato dalla Corte Costituzionale
poiché l’emendamento introdotto
dal governo nel tentativo di eludere il quesito, permette che i titoli
già rilasciati restino validi in attesa di tempi migliori, nei quali riprendere a perforare.
Renzi, pur di assecondare le
lobby dei petrolieri, aveva promosso forzature inaccettabili,
tipo la classificazione delle trivellazioni come “opere strategiche di interesse nazionale”, e dunque imposte forzatamente su tutto
il territorio italiano, nonostante
l’opposizione delle popolazioni
locali. Senz’altro il dato dei sondaggi che, alla luce del parere favorevole della Corte, attribuiva
la vittoria antitrivelle al 67% ha
contribuito a far sì che Renzi abbia fatto carte false, in tutti i sensi,
per scongiurare il pericolo di essere delegittimato per volere popolare.
Il governo sta tentando di ostacolare l’espressione del voto referendario con tutti i mezzi, arrivando addirittura a sprecare 360
milioni di euro di soldi pubblici
che si sarebbero risparmiati con un
Election Day assieme alle elezioni amministrative di giugno. Ecco
dunque che è stata scelta la data
del voto a breve scadenza che più
di ogni altra mette a rischio il quorum e comprime i tempi del confronto e dell’informazione. Non
sarà dunque scontato raggiungere
il quorum d’affluenza del 50 per
cento dei votanti più uno per rendere valida la consultazione, per
questo servirà una mobilitazione
quanto più larga e forte possibile.
Il quesito
referendario e i suoi
effetti se vince il SÌ
Nel quesito referendario si
chiede: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano
fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche
Proteste contro le trivelle
rappresenta un passo in avanti ma
contemporaneamente rimarrebbero in piedi, oltre ad altre piattaforme esistenti, tutte le parti dello
“Sblocca Italia” cucite su misura
per le multinazionali dell’energia
e per i petrolieri stessi. Attraverso
il referendum e partecipando attivamente alla campagna referendaria però, sarà possibile sensibilizzare e attivizzare la popolazione al
fine di creare consapevolezza affinché si possa davvero archiviare
quantomeno l’idea di un modello
energetico bicentenario basato sui
combustibili fossili e scegliere finalmente le fonti rinnovabili che,
oltre ad essere meno nocive per
l’ambiente e il clima, rappresentano una potenziale opportunità per
l’occupazione e per l’innovazione
tecnologica.
se c’è ancora gas o petrolio?”. Il
quesito, nello specifico, riguarda
solo la durata delle trivellazioni
già in atto entro le 12 miglia dalla
costa, e non riguarda le attività petrolifere sulla terraferma, né quelle in mare che si trovano a una
distanza superiore alle 12 miglia
(22,2 chilometri).
Se vincerà il SÌ, sarà abrogato l’articolo 6 comma 17 del
“codice dell’ambiente”, dove si
prevede che le trivellazioni continuino fino a quando il giacimento lo consente. La vittoria del SÌ
bloccherà tutte le concessioni per
estrarre il petrolio entro le 12 miglia dalla costa italiana, quando
scadranno i contratti. Tra gli altri saranno interessati dalla misura: il giacimento Guendalina (Eni)
nell’Adriatico, il giacimento Gospo (Edison) nell’Adriatico e il
giacimento Vega (Edison) davanti
a Ragusa, in Sicilia. Non saranno
interessate dal referendum tutte le
106 piattaforme petrolifere presenti nel mare italiano per estrarre
petrolio o metano; tuttavia il ministero dello Sviluppo economico
dovrà chiudere definitivamente i
procedimenti in corso, finalizzati al rilascio dei permessi e delle
concessioni in entro le 12 miglia.
Perché è giusto
abrogare la norma
Sicuramente da un’alta partecipazione al referendum uscirà un messaggio più generale e
chiaro; del resto andò così anche
nel 1987, all’epoca del primo referendum sul nucleare, in cui formalmente si discuteva solo di incentivi ai comuni che accettavano
le centrali e degli investimenti
dell’Enel all’estero, ma di fatto
si votava per una precisa politica
energetica che aveva una larghissima maggioranza parlamentare e
che uscì battuta dal voto popolare.
Anche stavolta, sostanzialmente,
l’elettorato italiano potrà chiedere
di archiviare un modello energetico basato sui combustibili fossili,
scegliendo nei fatti di puntare sulle fonti rinnovabili.
È necessario considerare anche che quando si parla di trivellazioni “offshore”, nessuno può
escludere al cento per cento malfunzionamenti o incidenti. Pur
gravi ovunque, in un mare chiuso come il Mediterraneo un disastro petrolifero causerebbe danni
ingenti e probabilmente irreversibili. Fra l’altro è criminale accettare tali rischi per recuperare,
come ammette anche il governo,
riserve certe di petrolio che nei
mari italiani equivarrebbero a neanche due mesi di consumi nazionali, unite a prelevamenti di gas
che ne soddisferebbero non più di
sei. In più in Italia i petrolieri pagano allo Stato le “Royalties”, diritti sulle estrazioni, più basse al
mondo che ammontano appena al
7% del valore di quanto si estrae;
inutile dire che in questo modo ci
guadagnano solo i petrolieri. Insomma, per estrarre poche gocce di petrolio di scarsa qualità, si
mettono in pericolo la salute della popolazione, le nostre coste, la
fauna, il turismo, la pesca sostenibile e qualsiasi ambizione di passaggio massiccia alle fonti energetiche rinnovabili.
Ad onor del vero non pensiamo che la lotta su questo fronte possa limitarsi alla sola soluzione referendaria, tanto più visto
l’esito tuttora disatteso dell’altro
grande referendum, quello sulla ripubblicizzazione dell’acqua,
enormemente partecipato e stravinto. Va considerato inoltre che,
una volta abrogata la norma in oggetto, non saranno sospese tutte
le trivellazioni ma solo quelle entro le 12 miglia dalla costa; il che
Astensionismo e
referendum
La nostra indicazione di partecipare al suddetto referendum e di
votare Sì non è in contraddizione
con l’indicazione tattica di astenersi (disertare le urne, annullare la scheda o lasciarla in bianco)
alle elezioni amministrative, politiche ed europee. Indicazione che
ribadiamo anche in occasione delle elezioni comunali parziali del
12 giugno prossimo. Per quanto
riguarda i referendum, trattandosi
di scelte concrete, il PMLI stabilisce di volta in volta se partecipare
o no e quale voto indicare, in base
al quesito posto, alle circostanze
politiche e a ciò che è più vantaggioso per il proletariato e le masse
popolari sfruttate e oppresse e per
la lotta di classe.
In questo referendum chi si
oppone a scelte sbagliate in materia energetica, che mettono a rischio la salute, la natura e l’ambiente e, più in generale, chi vuol
dare un colpo alla politica antipopolare, energeticamente obsoleta ed estremamente pericolosa di
Renzi, deve andare a votare e votare SÌ. Deve farlo anche nell’ottica di servire un amaro antipasto
al governo in previsione del referendum che si terrà il prossimo
autunno sulle controriforme del
Senato ed elettorale piduiste e fasciste. Allora andrà votato NO.
Per noi marxisti-leninisti il referendum non è lo strumento privilegiato per far affermare i diritti del proletariato e delle masse.
Per noi la lotta di classe, di massa e di piazza resta il migliore e
più proficuo metodo per difendere le conquiste dei lavoratori, dei
disoccupati, dei pensionati, delle
donne e degli studenti, anche sul
fronte ecologico, e strapparne di
nuove alla classe dominante borghese in camicia nera e al suo governo. Tant’è vero che proprio la
mobilitazione e la lotta sono state
determinanti anche in questa occasione, affinché si svolgesse il
referendum.
Attualmente la lotta di classe,
di massa e di piazza è tanto più
decisiva e necessaria dal momento
in cui il regime capitalista e neofascista amministrato dal governo
Renzi ha reso ancor più angusti e
limitati gli spazi democratici borghesi, ha ulteriormente aggravato le condizioni di vita e di lavoro
delle masse lavoratrici e popolari e sta seguendo le orme nazionaliste, colonialiste e interventiste
di Mussolini, coinvolgendo l’Italia nelle guerre imperialiste per la
spartizione del Nord Africa, del
Medio Oriente e del mondo.
Ciononostante riteniamo assolutamente necessario partecipare
al referendum contro le trivellazioni e facciamo appello affinché
tutte le forze politiche, sindacali, sociali, culturali e religiose che hanno a cuore l’ambiente
e vogliono una politica energetica basata sulle fonti rinnovabili,
si uniscano in questa battaglia e
aderiscano e sostengano i Comitati per il Sì, a partire dall’intera
CGIL e dagli antifascisti dell’ANPI. Noi faremo la nostra parte.
Lottiamo uniti per la vittoria
del SÌ il 17 aprile!
Astensionisti, data la posta in
gioco e il carattere della consultazione, votate e votate SÌ. Potreste
essere determinanti per raggiungere il quorum!
L’Ufficio politico del PMLI
Firenze, 8 Marzo 2016
governo renzi / il bolscevico 3
N. 11 - 17 marzo 2016
Come confermato dall’ambasciatore Usa, che chiede di mettere a disposizione 5 mila uomini
L’Italia di Renzi pronta a guidare la
coalizione imperialista contro l’IS in Libia
Un decreto segreto del governo consente al nuovo duce di ordinare azioni
di guerra delle forze speciali senza autorizzazione del parlamento
“Il livello di pianificazione e
di coordinamento tra i diversi
sistemi di difesa su un possibile contributo alla sicurezza
della Libia è a un livello molto avanzato che va avanti da
parecchie settimane”. Questa
dichiarazione fatta il 1° marzo
dal ministro degli Esteri Gentiloni, immediatamente dopo
quella del segretario alla Difesa americano Ashton Carter sull’appoggio Usa alla richiesta italiana di prendere
la testa dell’intervento militare occidentale in Libia, e pochi giorni dopo le rivelazioni
stampa sulla messa a disposizione della base di Sigonella ai raid dei droni armati americani sulla Libia, confermava
che i preparativi di guerra contro lo Stato islamico ordinati
dal governo Renzi sono in pieno svolgimento e che il nostro
Paese sta per essere gettato
per la terza volta nella sua storia in una sciagurata avventura imperialista e neocolonialista in Libia.
Altri segnali inequivocabili
dell’imminenza di un’operazione militare in grande stile erano la visita di due giorni della
guerrafondaia Pinotti in Israele, per una non meglio precisata missione riguardante
questioni militari e di sicurezza, in cui la ministra con l’elmetto ha detto ai governanti
nazi-sionisti di Tel Aviv che Italia e Israele “sono sulla stessa
barca” contro il comune nemico “terrorista”, includendo perciò in questo termine anche la
resistenza palestinese. E soprattutto la notizia trapelata
sulla stampa che nella riunione del Consiglio supremo di
difesa del 25 febbraio al Quirinale, Renzi aveva presentato
in via riservata a Mattarella un
decreto della presidenza del
Consiglio dei ministri (dpcm),
già approvato e subito secretato il 10 febbraio, per poter
dare immediata attuazione a
operazioni militari in territorio
libico senza passare per l’approvazione del parlamento,
secondo le nuove norme approvate lo scorso 19 novembre col decreto missioni che
in caso di “crisi” autorizzano la
creazione di una catena di comando diretta tra Palazzo Chigi, i servizi segreti e le forze
speciali.
Autocastrazione
parlamentare
Come denunciammo a suo
tempo su “Il Bolscevico”, queste norme guerrafondaie e fasciste erano state inserite nel
decreto di rifinanziamento delle missioni di guerra all’estero tramite un emendamentogolpe dell’ex dalemiano e ora
ultrarenziano, Nicola Latorre,
che era passato incredibilmente a stragrande maggioranza,
in una sorta di autocastrazione parlamentare, con il sì del
M5S e l’astensione di SEL. In
sostanza esso stabilisce che il
premier, al pari dei suoi colleghi imperialisti Obama, Cameron e Hollande, potrà disporre
per le operazioni speciali all’estero di una catena di comando affidata ai servizi segreti interni ed esterni coordinati dal
Dis (cioè da se stesso), che a
sua volta potrà ordinare, saltando lo stesso ministero della Difesa e il parlamento, con
la sola informativa a posteriori
del Copasir (che però ha l’obbligo del segreto), operazioni di corpi speciali come i pa-
dal nostro paese, che avranno
l’onore e l’onere di “mettere gli
stivali sul terreno”.
Si parlava anche di affidare il comando mobile alla divisione Aqui, dell’installazione del comando operativo nei
bunker sotterranei dell’aeroporto di Centocelle (il “pentagono italiano”), del ruolo chiave dell’aeroporto di Sigonella,
con i Predator americani e italiani, di quello di Trapani con
gli Amx e i Tornado e di quello di Pantelleria, dal cui Han-
fornire alla coalizione stessa:
“L’Italia potrà fornire fino a circa cinquemila militari. Occorre
rendere Tripoli un posto sicuro
e fare in modo che l’Isis non
sia più libero di colpire”, aveva
detto il diplomatico Usa, approfittandone anche per chiedere come contropartita al
governo italiano lo sblocco urgente del Muos, sul quale – ha
sottolineato - “abbiamo aspettato troppo”. Per inciso la cifra di cinquemila uomini è la
stessa strombazzata qualche
racadutisti del Col Moschin,
gli incursori del Comsubin e
i Gis dei carabinieri, dotati di
speciali immunità “funzionali”
come la licenza di uccidere e
di commettere altri tipi di reati.
A seguito delle rivelazioni
dell’esistenza di questo dpcm
segreto di Palazzo Chigi, i
giornali davano ormai per imminenti operazioni delle forze
speciali in territorio libico, diffondendosi anche in particolari sulla loro consistenza e
sulle forze impiegate. Si parlava infatti di un reparto di una
cinquantina di incursori del 9°
reggimento Col Moschin in
procinto di partire per andare ad affiancare una quarantina di agenti dei servizi segreti esterni (Aise) presenti
sul campo da tempo e le forze speciali francesi, inglesi e
americane che operano già
sul suolo libico. Ma anche dei
preparativi già in fase avanzata per un’invasione della Libia
a guida italiana, non appena
avuto il via libera dell’Onu su
richiesta del governo libico di
unità nazionale per la cui costituzione si sta trattando: una
previsione minima di tremila
uomini e massima di oltre settemila, di cui due terzi forniti
gar scavato nel fianco di una
montagna partono già da tempo, e senza autorizzazione
del nostro parlamento, altri
droni americani per spiare Libia e Tunisia. Si parlava inoltre di una nave portaelicotteri
tipo San Giorgio, con un battaglione di marò del San Marco
con i loro blindati anfibi al seguito e i paracadutisti del Tuscania. E perfino della portaerei Garibaldi, con la “cavalleria
dell’aria” della brigata Friuli e
i suoi elicotteri Mangusta. E
così via.
tempo fa dalla guerrafondaia
Pinotti appena si cominciò a
parlare di intervento italiano in
Libia contro lo Stato islamico.
Su tutti questi bollenti spiriti di guerra, però, è arrivata improvvisamente la doccia
gelata dell’uccisione a Sabratha, in circostanze non ancora
chiarite, di due dei quattro tecnici italiani della Bonatti rapiti
in Libia nel luglio scorso. In un
primo momento si è parlato di
una loro esecuzione da parte
dell’IS come avvertimento al
governo italiano per l’annunciata invasione della Libia. Poi
di una loro uccisione durante
uno scontro a fuoco tra i loro
rapitori e le milizie del governo locale, durante il loro trasferimento in un’altra località. Mentre gli altri due rapiti,
che si sarebbero liberati da
soli perché rimasti incustoditi,
sono tornati in Italia. Di certo
il sanguinoso bombardamento di Sabratha pochi giorni prima da parte di caccia e droni
Usa, questi ultimi forse provenienti anche da Sigonella, che
hanno fatto molte vittime civili
tra cui anche due ostaggi serbi, aveva fatto precipitare la situazione locale ancor più nel
caos, compromettendo even-
“Sul Muos abbiamo
aspettato troppo”
A
ulteriore
conferma
dell’imminenza dell’intervento italiano, quantomeno nella
forma preliminare di operazioni di forze speciali, per non lasciare tutto lo spazio e l’iniziativa a quelle Usa, britanniche
e francesi, il 3 marzo c’era stata anche l’intervista al “Corriere della Sera” dell’ambasciatore americano in Italia, John
Phillips, il quale non solo ribadiva che all’Italia spettava “la
guida dell’azione internazionale”, ma specificava anche
quante truppe essa dovrebbe
tuali trattative in corso per il
loro riscatto, come ha osservato amaramente uno degli
avvocati dei familiari delle vittime.
Sordina temporanea
alle fanfare belliche
Una vicenda ancora molto oscura in cui si adombrano
quindi anche gravi responsabilità del governo, tanto che
la vedova di uno dei due tecnici uccisi ha respinto le condoglianze di Mattarella, accusando le istituzioni di aver
abbandonato i rapiti e le loro
famiglie in tutti questi mesi.
Sta di fatto che questa inaspettata tragedia, unitamente ai sondaggi che mostravano una maggioranza dell’81%
degli italiani contrari ad un intervento in Libia, e le prime
reazioni negative accennate
dalle opposizioni parlamentari e nel suo stesso partito,
hanno costretto il nuovo duce
Renzi a mettere temporaneamente la sordina alle fanfare
di guerra per assumere tatticamente un profilo più basso
e prudenziale.
Non c’è stato infatti solo
il Costituzionalista Alessandro Pace a bollare come “una
pazzia” incostituzionale l’uso diretto dei servizi segreti
e delle forze speciali da parte del premier per la guerra
alla Libia senza coinvolgere il
parlamento. C’è stato anche
l’ex premier Prodi a consigliare vecchia prudenza democristiana a Renzi, dichiarando
che “la guerra è l’ultima cosa
da fare: o c’è una vera unità
che ti chiama, e allora puoi
andare a costruire lo Stato e
fare la pace, oppure chiunque vada è nemico del popolo”. In sintonia con il cerchiobottista Bersani, per il quale “i
servizi possono essere affiancati dalla presenza di reparti
speciali”, ma in mancanza di
un governo libico riconosciuto da tutti adesso “non ci sono
le condizioni per un intervento
militare in Libia”. Perfino Berlusconi si è detto strumentalmente contrario ai bombardamenti in Libia, aggiungendo di
sperare che prevalga “un filo
di saggezza”.
Più chiaro di tutti è stato il
procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti, che a smentire le
rassicurazioni del ministro Alfano, per il quale “il rischio attentati è alto anche senza un
intervento armato in Libia”, ha
dichiarato invece: “Noi già siamo molto esposti per il solo
fatto di essere il Paese leader
di questa coalizione in formazione destinata a ripristinare
l’ordine e la sicurezza in Libia. Ovviamente se si arrivasse a operazioni belliche il livello di rischio salirebbe ancora”.
Senza contare le dichiarazioni
del ministro degli Esteri di Tripoli, Aly Abuzaakouk, che in
televisione ha ribadito secca-
mente: “Non accetteremo mai
alcun intervento militare in Libia ammantato sotto qualsiasi
scusa”.
Vietato parlare di
guerra
È così che, con una delle sue acrobatiche virate tattiche, Renzi è tornato a
prendersela coi media, accusandoli di essersi inventati di
sana pianta tutta la vicenda
del decreto segreto e dell’imminente partenza delle forze
speciali, e a declassare le loro
ricostruzioni a “improvvide, irresponsabili accelerazioni”: “I
venti di guerra lasciamoli da
parte, non inseguiamo in alcun modo l’agenda dei media
che hanno già messo elmetto
e scarponi”, si è messo a dichiarare in giro il premier, invocando da tutti “grande senso di responsabilità, come
deve fare un grande Paese
come l’Italia”. E per ricompattare opinione pubblica e partiti
sul suo disegno guerrafondaio e interventista ha assicurato che saranno rispettati tutti
i “passaggi istituzionali e parlamentari”, perché “quando ci
sono vicende di questo genere mi piace pensare che l’Italia risponda tutta insieme,
come una comunità. Le singole divisioni particolari vengono
dopo”.
Ma poi, invece di andare in
parlamento a chiarire qual è
la linea del governo, il nuovo
duce ha preferito come al solito propinare la sua “narrazione” ipocrita e demagogica della situazione dal compiacente
salotto televisivo berlusconiano di Barbara D’Urso: “Vedo
gente che dice mandiamoci
5 mila uomini. È un videogioco?”, si è chiesto Renzi in studio fingendo teatralmente di
cadere dalle nuvole e indossando per l’occasione il costume da colomba. “Ci vuole molta calma. La missione militare
italiana in Libia non è all’ordine del giorno perché la prima
cosa da fare è che ci sia un
governo che sia solido, anzi
strasolido, e abbia la possibilità di chiamare un intervento
della comunità internazionale
e non ci faccia rifare gli errori
del passato”. Ma subito dopo
ha sottolineato che “se c’è necessità di intervenire, l’Italia
non si tira indietro ma la guerra è una cosa seria, bisogna
avere molto rispetto per le parole”.
Appunto, è solo una questione di parole. L’Italia è in
guerra ma per il nuovo Mussolini non lo si deve dire, per
non allarmare le masse popolari italiane e risvegliare la loro
istintiva avversione all’interventismo imperialista. Ma intanto i preparativi bellici vanno
avanti, in attesa solo del sospirato accordo tra i governi di
Tobruk e di Tripoli che dia il via
libera all’intervento militare.
4 il bolscevico / interni
N. 11 - 17 marzo 2016
Il Disegno di Legge del governo offre alle aziende risparmi, produttività e totale flessibilità
“Lavoro agile”, il nuovo cottimo a domicilio
Il nuovo duce Renzi aveva
promesso che con il Jobs Act sarebbero scomparse molte tipologie contrattuali ma invece ne
spuntano sempre di nuove, e sono
immancabilmente precarie. Il 28
gennaio il governo ha approvato il
Disegno di Legge (ddl) che introduce il “lavoro agile”, chiamato
più frequentemente con il temine
inglese smart work. Come spesso accade, oltre alla terminologia
anglosassone, il provvedimento
in questione viene imbellettato in
tutti i modi per farlo apparire affascinante, moderno, conveniente.
Il “lavoro agile” permetterebbe di
lavorare comodamente da casa, in
vacanza, al parco o dove meglio
si crede. Una tipologia interessante sopratutto per le donne, favorite nel conciliare il lavoro professionale con quello domestico.
Ma il trucco c’è e non è difficile
scoprirlo. Appena andiamo a leggere i vari articoli è il testo stesso del decreto a dichiarare quali
sono i sui reali obiettivi. Lo smart
work “promuove forme flessibili
del lavoro agile allo scopo di incrementare la produttività del lavoro e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Due cose che sono in contraddizione tra loro in regime capitalistico dove vige la legge del massimo profitto, ancor di più oggi
dove domina la completa flessibilità, la precarietà e con il Jobs Act
la libertà di licenziamento e la ricattabilità.
Lo scopo della nuova legge è
quello di favorire le aziende con
una nuova forma di lavoro precario, superando le regole esistenti.
Già adesso il lavoro a distanza e
il telelavoro è regolamentato: nel
settore pubblico attraverso la legge Bassanini del 2001, mentre in
quello privato vige un accordo interconfederale del 2004 che ne recepisce uno precedente di livello
europeo. Già queste leggi pendono dalla parte dei padroni e frammentano i lavoratori, li dividono
gli uni dagli altri e ledono alcuni fondamentali diritti. Ad esem-
pio in caso di crisi aziendale nella
maggior parte dei casi chi lavora a distanza non ha diritto alla
cassa integrazione. Ma tutto questo evidentemente non basta poiché questi accordi prevedono una
certa regolamentazione del telelavoro che per molti aspetti è soggetto alle stesse regole contrattuali previste per chi lavora in sede.
Prevede orari definiti, i costi delle sedi operative a distanza sono a
carico dei datori di lavoro, vigono
forti restrizioni sui controlli a distanza del dipendente.
Il “lavoro agile” vuole andare
oltre, l’obiettivo del decreto è liberarsi dei lacci e laccioli che in
qualche modo imbrigliano il telelavoro. È totalmente aderente alla filosofia del governo e del
Jobs Act che il ministro Poletti
sintetizza pressapoco così: favorire un lavoro moderno, flessibile, autonomo, creativo. Ma dietro
la retorica modernista si nasconde l’ennesimo attacco ai diritti dei
lavoratori e al contratto nazionale. Quello che balza agli occhi dai
primi articoli del decreto è come
lo smart work sia disciplinato da
un contratto scritto tra lavoratore
e datore di lavoro, nel quale sono
definiti le modalità di esecuzione
della prestazione resa fuori dai locali aziendali, gli strumenti telematici utilizzati dal lavoratore e
le modalità di organizzazione dei
tempi della prestazione lavorativa. Esiste pure un punto che prevede ulteriori misure disciplinari
verso il dipendente non contemplate dal contratto nazionale. Pur
essendoci un articolo che prevede
gli stessi diritti normativi e salariali attuati per chi svolge il lavoro
dentro l’azienda appare evidente
che l’accordo collettivo è subordinato a quello individuale dove il
singolo lavoratore non ha nessuna
voce in capitolo. Lo conferma lo
stesso articolo 8 del decreto dove
si precisa che gli accordi collettivi, di qualsiasi livello, al massimo possono integrare la disciplina che regola il “lavoro agile” e
non il contrario.
Lavoro a domicilio nel 1978
Un altro punto cruciale è quello sulla salute e la sicurezza sul lavoro che viene totalmente accollata al dipendente mentre il padrone
viene deresponsabilizzato; un risparmio economico non indifferente per i padroni. L’unico obbligo che avranno è quello d’inviare
una volta l’anno un’informativa
scritta al proprio dipendente sui
rischi legati alla sua attività, e
con questa regoletta il padrone,
o l’amministrazione pubblica, se
ne laveranno le mani. Anche in
questo ambito si tenta di dare la
sensazione di avere gli stessi diritti affermando che gli infortuni sul lavoro saranno equiparati a
quelli degli altri dipendenti, compreso quello avvenuto durante lo
spostamento per il luogo di lavoro
prescelto. Premesso che generalmente il “lavoro agile” sarà svolto
da casa, sarà molto difficile provare che andavamo in biblioteca
o al parco per lavorare attraverso
il computer e non per fatti propri.
Già adesso l’Inail contesta molti
infortuni avvenuti nel tragitto casa-azienda.
Un altro favore agli imprenditori capitalisti è quello relativo
ai costi legati al consumo di corrente elettrica, alle bollette del riscaldamento dei luoghi di lavoro, a chi dovrà accollarsi le spese
per l’acquisto e la manutenzione
degli strumenti di lavoro come i
computer, stampanti, connessioni internet e quant’altro. In questo
caso il decreto più che dire non
dice, lasciando il lavoratore ricattabile di fronte al padrone che,
tramite l’accordo stipulato con il
dipendente, potrà far ricadere tutti i costi su di lui. E che ne sarà
dei diritti sindacali, della libertà di sciopero, di partecipare alle
assemblee, di avere informazioni
sull’azienda? Ricordiamo che il
“lavoro agile” sarà applicato ai lavoratori subordinati, non a quelli
autonomi. E chi deciderà l’orario
di lavoro, quando sarà considerato straordinario? Senza un luogo
o una postazione fissa sarà molto
difficile stabilire l’orario di lavoro e l’impresa tenderà inevitabilmente a calcolarla al ribasso.
Esperienze simili di smart
work già ci sono in altri Paesi, ad
esempio sono ampiamente diffuse nelle multinazionali con sede
nella Silicon Valley in California.
Queste dimostrano come il lavoratore non sia autonomo e libero
di organizzare la sua vita familiare, il suo tempo libero e le sue vacanze come ci vogliono far crede-
re i sostenitori del “lavoro agile”,
bensì avviene l’esatto contrario:
ovvero il dipendente viene legato
irrimediabilmente alla sua azienda 365 giorni l’anno e alla fine
sgobba più dei suoi colleghi occupati dentro gli uffici. Tanto che
in Francia, dove si sta riscrivendo
il Codice del Lavoro, i sindacati
hanno proposto d’introdurre il
“diritto alla disconnessione”, ossia il divieto di comunicare e spedire mail di lavoro fuori orario e
in certi periodi dell’anno.
Nuova terminologia, nuovi
strumenti di lavoro e tecniche di
controllo ma che ripropongono
vecchi sistemi di sfruttamento che
tanto assomigliano al lavoro a cottimo, per essere più precisi al lavoro a cottimo a domicilio dove i
padroni risparmiano le spese organizzative perché si lavora a casa
propria, la salute e la sicurezza
sono affari del lavoratore, l’orario di lavoro non ha alcun limite
e il contratto collettivo nazionale
di lavoro viene del tutto eluso. Si
stabilisce il lavoro da fare, i tempi di consegna, dopodiché starà al
lavoratore o alla lavoratrice arrangiarsi e trovare il tempo per seguire i figli o gli anziani, per effettuare una visita medica. Ci sembra
di rivedere quelle persone, generalmente donne, che fino a pochi
decenni fa lavoravano a casa ad
assemblare scarpe, borse e piccola pelletteria usando solventi magari in cucina, intente a lavorare
anche dopo cena per finire il lavoro da consegnare in cambio di
pochi soldi.
Adesso forse non vediamo più
donne e uomini a testa bassa a
martellare o a spennellare collanti (ma non del tutto perché adesso
questi lavori sono appaltati a supersfruttati lavoratori cinesi) ma
fissi e sempre connessi davanti a
un computer, ma la sostanza non
cambia. Del resto il lavoro a cottimo, o per obiettivi che dir si voglia, “è la forma di salario che
più corrisponde al modo di produzione capitalistico”, affermava Marx già nell’800.
Per aver cacciato il prefetto di Enna anti-Crisafulli
‡‡Dal nostro corrispondente
della Sicilia
È indagato il ministro dell’interno Angelino Alfano, NCD,
boss dell’agrigentino, per abuso
d’ufficio commesso il 23 dicembre 2015, durante una riunione del
Consiglio dei ministri, presieduta
da Matteo Renzi. L’accusa è legata al trasferimento del prefetto di
Enna, Fernando Guida, spedito a
Isernia, quando aveva iniziato a
dare fastidio a Vladimiro Crisafulli, il Cuffaro del PD.
Nella stessa vicenda ha collezionato il suo ennesimo avviso
di garanzia anche lo stesso boss
Alfano indagato
dell’ennese. Indagati anche il viceministro dell’Interno Filippo
Bubbico, PD, il suo segretario
particolare, l’ex-dalemiano adesso renziano, Ugo Malagnino, e il
presidente dell’università Kore di
Enna, Cataldo Salerno.
Le indagini vengono avviate dal Procuratore capo di Enna,
Calogero Ferrotti che, prima di la-
Direttrice responsabile: MONICA MARTENGHI
e-mail [email protected]
sito Internet http://www.pmli.it
Redazione centrale: via A. del Pollaiolo, 172/a - 50142 Firenze - Tel. e fax 055.5123164
Iscritto al n. 2142 del Registro della stampa del Tribunale di Firenze. Iscritto come giornale
murale al n. 2820 del Registro della stampa del Tribunale di Firenze
Editore: PMLI
chiuso il 9/3/2016
ISSN: 0392-3886
ore 16,00
sciare la città il 30 dicembre 2015,
spedisce un rapporto sul caso della rimozione del prefetto al Procuratore capo di Roma, Giuseppe
Pignatone, che decide di iscrivere nel registro degli indagati ministro e cumpari.
È il 18 dicembre, quando il prefetto Fernando Guida ancora nella
sua sede accelera le pratiche per il
commissariamento della fondazione Kore, che designa il presidente dell’università di Enna, tanto
cara a Crisafulli. Il procedimento avrebbe portato all’azzeramento di tutte le cariche dell’Ateneo.
Ce n’è abbastanza per mandare in
fibrillazione il boss Crisafulli che
intravede all’orizzonte la perdita
di un importante pilastro del suo
potere clientelare.
Crisafulli, indagato nell’ambito dell’inchiesta che riguarda la
succursale ennese dell’università di medicina di Bucarest, viene
intercettato il 21 dicembre dalla
Procura di Enna, mentre chiama
Ugo Malagnino, capo della segretaria del viceministro Filippo
Bubbico. Secondo gli investigatori, il boss dell’ennese fa pressione su Ugo Malagnino per perorare presso le alte sfere la causa
dell’università Kore.
Nelle intercettazioni, Crisafulli
dice a Malagnino “bisogna risolvere questa cosa prima che il ministro parta per le vacanze” e per
gli inquirenti si riferisce infatti al
trasferimento del prefetto Guida.
Passano 48 ore da quella telefonata e il Consiglio dei ministri senza alcuna motivazione trasferisce
inaspettatamente a Isernia il prefetto.
Secondo gli inquirenti, inoltre Crisafulli chiede a Firrarello,
ex senatore del PD, ex sindaco di
Bronte, nonché suocero del sottosegretario del NCD, Giuseppe Castiglione, un incontro urgente mirato proprio a contattare Alfano al
fine di spostare il prefetto.
Gli investigatori ritengono
che l’incontro si sia svolto, poiché hanno ricostruito mediante i
tabulati telefonici gli spostamenti di Firrarello e Crisafulli e hanno rilevato la loro compresenza
in un punto del centro di Catania.
I pubblici ministeri stanno valutando le telefonate di Firrarello
per trovare se vi siano stati contatti con il ministro Alfano. Il ministro tende a minimizzare e insabbiare lo scandalo “È un caso
nato morto - dichiara - superato e smentito dai fatti”, ne sarebbe una prova il commissariamento avvenuto. C’è un “però” molto
consistente. Il commissariamento certo è avvenuto, ma è estremamente tardivo e arriva il primo
febbraio dai vertici della Prefettura di Enna, nominati dal ministero
in sostituzione al prefetto rimosso. Cioè il commissariamento av-
viene lo stesso giorno in cui il ministro dell’Interno Alfano riceve
l’avviso di garanzia. Una sorta di
corsa ai ripari, che più che mostrare l’innocenza di Alfano, dimostra
quanto egli abbia favorito fino ad
un certo punto almeno gli intrallazzi mafiosi di Crisafulli e quanto sia implicato in questa sporca
vicenda.
E ci chiediamo come mai Renzi non si oppose all’anomalo e immotivato trasferimento del prefetto di Enna, dopo appena un anno
e mezzo dalla nomina, avallandone la rimozione durante la seduta della presidenza del Consiglio
dei ministri. Ci sono dentro allo
stesso modo PD ed NCD, dai dirigenti locali fino ai ministri. Tutti
sono responsabili. Lo stesso commissario inviato da Renzi a Enna,
Ernesto Carbone mentre si affretta a prendere le distanze dall’impresentabile Crisafulli non dice
nulla sul comportamento dei vertici del PD, del viceministro renziano Bubbico e di Malagnino e
copre lo scandalo che ha investito Alfano, il quale sta perpetrando ad Enna lo stesso sistema crisafulliano.
interni / il bolscevico 5
N. 11 - 17 marzo 2016
Grande manifestazione nazionale a Roma
LGBTI in piazza contro la legge insufficiente e
discriminatoria sulle unioni civili
il pmli ha tenuto alto il cartello di appoggio a lgbti
In circa 40mila manifestanti
LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, intersessuali) si
sono ritrovate in piazza del Popolo
a Roma sabato 5 marzo, in risposta all’appello di tante associazioni dirette da Agedo e altre associazioni di genitori di omosessuali
e famiglie omogenitoriali.
“Diritti alla meta”: questo era il
titolo eloquente della manifestazione dei LGBTI che non si sono
fatti comprare dai “contentini” di
Renzi e sono scesi nuovamente in piazza per dire che la legge
Cirinnà così com’è stata votata al
rici ma con contenuti importanti,
come: “Renzi, Alfano e Verdini, il
triangolo no”, “Lo stesso amore gli
stessi diritti”, “Stepchild stracciata,
porcata assicurata”.
Gli esponenti delle associazioni promotrici sulla giornata si sono
alternati sul palco a varie testimonianze, soprattutto di genitori gay,
fra i quali Francesca Vecchioni, figlia del cantante Roberto, che ha
ricordato come alla sua compagna fu vietato di assistere al parto della figlia. La fondatrice di Famiglie Arcobaleno, Giuseppina La
Delfa, che già a luglio criticava il
Roma, 5 marzo 2016. La manifestazione a piazza del Popolo per i pari
diritti nelle unioni civili di gay e lesbiche indetta dalle organizzazioni
LGBTI
Senato (ora è alla Camera) non
va bene. È una legge insufficiente che ribadisce le discriminazioni, perché non mette le unioni civili sullo stesso piano dei matrimoni
eterosessuali, per non parlare delle famiglie di fatto. Soprattutto, nel
mirino dei manifestanti c’era lo
stralcio della stepchild adoption,
che nega per l’ennesima volta agli
omosessuali il diritto di essere riconosciuti come famiglia, in particolare rifacendosi crudelmente sui
loro figli, i quali non possono essere riconosciuti come tali.
Questo era lo spirito che animava la piazza, insieme allo sdegno per il voltafaccia del governo
e del PD, che si sono gettati fra le
braccia della destra conservatrice
di Alfano, proprio colui che considera le famiglie gay “contro natura”. Tanti i cartelli, spesso sati-
ddl come insufficiente, dichiara:
“Come lesbica la Cirinnà è una
legge importante. Come madre
lesbica, finché con la mia compagna non ci separiamo e stiamo in
salute è ok. Se nasce un problema siamo nel vuoto. Questa è una
legge che andava bene 20 anni
fa”.
Il PMLI ha tenuto alto il cartello
di appoggio a LGBTI: ai compagni
scesi in piazza il Centro del Partito ha inviato “infiniti ringraziamenti e tanta riconoscenza”. Nel messaggio si dice tra l’altro: “Voi avete
dato una prova concreta al movimento LGBTI che il PMLI è dalla
sua parte, che sostiene fino in fondo le sue rivendicazioni e lo esorta
a combattere questo regime capitalista, neofascista e omofobo e il
governo Renzi che ne cura gli affari e non è disposto a concedere
alle persone LGBTI il matrimonio
e l’adozione del figlio del partner”.
Alla manifestazione erano presenti anche la segretaria della
CGIL, Susanna Camusso, e Luigi
Manconi, il senatore del PD che si
è rifiutato di votare il maxi-emendamento perché l’ha giudicato una
svendita dei diritti dei gay. Hanno
fatto la loro passerella alcuni politicanti borghesi di “sinistra”, compreso Stefano Fassina che pure si
è recentemente espresso contro
la “maternità surrogata”, cioè gestazione per altri, offrendo il fianco
all’ennesima strumentalizzazione ed offensiva reazionaria. Monica Cirinnà era invece assente. La
sua reputazione in difesa dei diritti
delle famiglie gay non le ha consentito di nascondere il suo voltafaccia sulla legge e molte le voci
che l’hanno accusata di incoerenza.
Le associazioni promotrici
della giornata chiedono che le
unioni civili vengano approvate per assicurare i diritti basilari
delle coppie omosessuali, ma ribadisce che la legge “segnata da
molti limiti e dalla discriminazione
che sancisce soprattutto nei confronti dei nostri figli e delle nostre figlie” e chiede perciò “che
sia sancita la piena uguaglianza di tutte e tutti di fronte alla
legge, indipendentemente dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere. Puntiamo pertanto
al matrimonio egualitario, che dovrà iscriversi in una riforma complessiva del diritto di famiglia che
preveda anche l’adozione piena e legittimante per i bambini
e le bambine che già esistono,
e il riconoscimento alla nascita
dei figli che verranno”. Chiedono inoltre l’introduzione del reato di omofobia e transfobia, il diritto di autodeterminazione delle
proprie scelte di vita (comprese
la maternità surrogata e l’eutanasia) “senza discriminazioni di
carattere economico o sociale” e
un’educazione sessuale “pubblica, laica e universale”.
L’auspicio ora è che il movimento LGBTI si rifiuti di accettare la legge sulle unioni civili così
com’è perché rappresenta la vittoria della destra conservatrice
e oscurantista e si batta per l’estensione di tutti i diritti garantiti
dal matrimonio anche unioni civili
e alle famiglie di fatto, compresa
l’adozione. Un successo che potrà
conseguire pienamente solo se,
imparata la lezione, non si affiderà ai partiti parlamentari ma continuerà la lotta avviata con grande slancio in questi mesi in modo
sempre più attivo e dinamico, contribuendo a costruire l’opposizione sociale contro il governo Renzi, che oltre a essere schiavo del
Roma, 5 marzo 2016. Il cartello del PMLI nel cuore della manifestazione
per i pari diritti nelle unioni civili di gay e lesbiche (foto Il Bolscevico)
capitalismo e dell’imperialismo si
è dimostrato anche succube del-
la destra più reazionaria e oscurantista.
40 mila in Piazza del Popolo a Roma per protestare contro il maxiemendamento del ddl Cirinnà
Combattiva manifestazione LGBTI
Apprezzato il cartello del PMLI
‡‡Dal Corrispondente della
Cellula “Rivoluzione
d’Ottobre” di Roma
Sabato 5 marzo, in Piazza del
Popolo, nel cuore di Roma, 40mila
manifestanti appartenenti a varie sigle che si battono da anni per i diritti LGBTI in Italia hanno riempito la
piazza per ribadire il fermo no alla
legge sulle unioni civili tradita in Senato con l’approvazione del maxiemendamento snaturante dell’originale disegno di legge sulle unioni civili.
La piazza già piena dalle 15, è
rimasta unita e combattiva sotto il
palco per oltre tre ore, sfidando l’allerta meteo prevista sulla capitale.
Tanti sono stati gli interventi pubblici di attivisti e gente dello spettacolo, ma anche della Camusso a
nome di tutta la CGIL.
Naturalmente il PMLI era presente per dare il suo contributo politico in questa lotta, con il cartellone
portato vicino al palco, tra le bandiere della CGIL.
“Estendere i diritti del matrimonio alle unioni civili e alle famiglie
di fatto. Diritti di matrimonio per le
coppie LGBTI. Abrogare l’art. 29
della Costituzione. Adozione del figlio del partner”. Con queste parole d’ordine il PMLI sostiene le rivendicazioni del movimento LGBTI. Il
manifesto è stato molto apprezzato
dalla piazza, ripreso più volte dalla regia del palco e mostrato a tutta la piazza anche tramite il maxischermo.
Da questa manifestazione è
chiaro l’intento di continuare a lottare per ottenere finalmente una
legge che sia adeguata. Purtroppo nella successione dei vari governi borghesi non si è mai aperta
veramente una strada per il riconoscimento del diritto al matrimonio
alle coppie LGBTI considerate ancora di “serie B” e che non possono ancora in Italia dirsi una famiglia
dal punto di vista legale, mentre ancor più lontano sembra il tema delle
adozioni con la cancellazione della
cosiddetta “Stepchild Adoption”.
È evidente e condiviso da larga parte delle masse popolari che
osteggiare il riconoscimento dei diritti del matrimonio alle unioni civili e
alle famiglie di fatto è fondamentale
per la borghesia italiana, retrograda e oscurantista, legata indissolubilmente al Vaticano. Da questa
manifestazione si è evinto in buona parte dei partecipanti che dei governi borghesi non ci si può fidare,
perché su questo tema hanno solo
la priorità di preservare la famiglia
borghese, non basata sull’amore,
ma sul mero interesse economico.
Il PMLI invece, vicino alle masse in lotta, sostiene che qualsiasi nucleo familiare sia considerato
egualmente senza distinzione di diritti, superando perciò le discriminazioni sociali ed economiche che
ancora oggi pongono costituzionalmente con l’articolo 29, la famiglia
borghese e cattolica su un piano
superiore e privilegiato.
Ai compagni romani ha fatto
molto piacere ricevere i calorosi ringraziamenti da parte dei Dirigenti nazionali del PMLI con alla testa
il compagno Scuderi per “l’importante missione proletaria compiuta, che giova a tutto il nostro amato Partito”.
Sentenza della Corte europea dei diritti umani
L’Italia condannata per il rapimento dell’iman Omar
Ritenuta “intollerabile” la grazia concessa da Napolitano e Mattarella
ai tre agenti della Cia colpevoli del rapimento
C’è voluta una sentenza del- dare gli agenti Cia condannati in
ra esemplare in questa vicenda, faAbuso di segreto
la Corte europea dei diritti umani, Italia; dalla sentenza della Corte
cendo tutto il possibile per applicare
a cui si erano rivolti i legali di Abu costituzionale che ha giudicato lela legge malgrado gli ostacoli frapdi
Stato
posti dalle istituzioni.
Omar, per fare giustizia, almeno
sul piano morale, sulla vicenda
dell’Imam della moschea di Viale
Jenner a Milano, rapito in strada il
17 febbraio 2003 da un commando di dieci agenti della Cia con la
copertura dei servizi segreti italiani perché sospettato di collegamenti col terrorismo, e poi trasferito segretamente in un carcere
egiziano dove venne anche sottoposto ad atroci torture. E c’è voluto questo intervento sovranazionale per condannare finalmente e
senza ambiguità tutti gli innumerevoli e vergognosi tentativi messi
in atto dalle istituzioni italiane per
nascondere la verità, ostacolare
l’inchiesta dei magistrati di Milano
e salvare i responsabili di questo
atto criminale: dal segreto di Stato opposto dai governi Berlusconi,
Prodi, Monti e Letta per impedire a
tutti i costi il processo al capo del
Sismi Pollari, al rifiuto dei suddetti
governi, ai quali si è aggiunto anche il governo Renzi, di chiedere
alle autorità americane di estra-
gittima l’opposizione del segreto di
Stato, alla grazia concessa da Napolitano e da Mattarella per tre degli agenti Cia responsabili del rapimento.
La sentenza di 81 pagine della
Corte di Strasburgo emessa il 23
febbraio condanna infatti severamente l’Italia per le ripetute violazioni della Convenzione europea
dei diritti umani, commesse nei
confronti di Abu Omar e della sua
famiglia, e in particolare riguardo alla proibizione di trattamenti disumani e degradanti, il diritto
alla libertà e alla sicurezza, il diritto a ricorrere alla giustizia e il diritto al rispetto della vita familiare.
Per quest’ultima violazione la Corte condanna lo Stato italiano a risarcire l’ex imam con 70 mila euro
e sua moglie con 15 mila euro per
i “danni morali” subiti. La sentenza diventerà definitiva a maggio
se lo Stato italiano non chiederà e
non otterrà un riesame dalla Corte stessa.
La sentenza punta anche il dito
sull’operato dei governi e della presidenza della Repubblica, e in particolare per il ricorso al segreto
di Stato, il cui principio pur legittimo “è stato chiaramente applicato
dall’esecutivo italiano per assicurare che i responsabili non dovessero rispondere delle loro azioni”. E
in questo quadro i giudici europei
stigmatizzano anche il silenzio del
Copasir (il Comitato interparlamentare di controllo sui servizi segreti), le sentenze della Consulta favorevoli all’opposizione del segreto
e la grazia concessa dal Quirinale
ai tre agenti Cia. Ricordando inoltre a queste istituzioni che “in materia di tortura e maltrattamenti da
agenti dello Stato l’azione penale
non può esaurirsi per effetto della
prescrizione, e che l’amnistia e la
grazia non devono essere tollerati
in questi casi”. Per la Corte, quindi,
solo la procura di Milano, guidata
dai pm Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, ha agito in manie-
“Nonostante gli sforzi degli inquirenti e giudici italiani, che hanno identificato le persone responsabili e assicurato la loro
condanna, questa è rimasta lettera morta a causa del comportamento dell’esecutivo”, sottolinea
la sentenza: grazie al segreto di
Stato sono stati condannati solo
gli agenti Cia, tutti del resto in contumacia perché riparati impunemente negli Usa e protetti da un
accordo segreto di non estradizione sempre servilmente applicato da tutti i governi italiani. Uno
di loro, il colonnello Joseph Romano (il capo della base di Aviano da
dove l’imam fu trasferito in Egitto),
fu addirittura graziato dal rinnegato Napolitano nell’aprile 2013. Altri due, il capocentro Cia di Milano Robert Seldon Lady e l’agente
Betnie Medero, ricevettero la grazia da Mattarella come regalo di
Natale per Obama lo scorso 23
dicembre. Nessuno di loro ha mai
fatto un solo giorno di carcere e
ora possono anche tornare in Italia da liberi spioni.
Cassazione contro
Consulta
Tra gli imputati italiani sono stati condannati in via definitiva solo
i due agenti del Sismi Pio Pompa e Luciano Seno, a 2 anni e 8
mesi per favoreggiamento, il carabiniere Luciano Pironi a un anno
e 9 mesi per l’ammessa partecipazione al sequestro e il giornalista
(poi parlamentare) Renato Farina,
a 6 mesi, convertiti in 6.840 euro,
per favoreggiamento. Persino la
Corte di Cassazione, nelle motivazioni del proscioglimento degli
altri imputati, volle precisare che
esso era dovuto solo a “lealtà istituzionale” e non per convinzione,
prendendo atto della “dirompente”
e “lacerante” decisione della Consulta, che calando sul processo il
“nero sipario” del segreto di Stato
aveva “inaspettatamente” tracciato quell’“ampio perimetro” di impunità che oggi la Corte europea
condanna severamente.
Commentando la sentenza l’avvocato dell’ex imam, Luca
Bauccio, ha detto che essa conferma che “lo Stato ha agito in modo
illegale e ha coperto reiteratamen-
te le prove che erano state utilizzate per il processo e le sentenze
di condanna”. Quanto alla grazia
concessa dai due presidenti ai tre
rapitori l’avvocato ha sottolineato
che “l’Italia ha concesso la grazia
a persone condannate con sentenza definitiva e che non hanno
mai scontato un giorno di carcere, che non si sono mai pentite, né
ravvedute. Uno schiaffo alla Costituzione”.
Giudizi condivisi anche dall’ex
pm Pomarici, che nel ricordare gli ostacoli, le accuse di favoreggiamento del terrorismo e le
vere e proprie intimidazioni ricevute insieme al collega Spataro,
compresa la minaccia di un’azione disciplinare da parte dei giudici costituzionali irritati per le proteste alla loro prima sentenza, ha
osservato: “È un discorso ancora più amaro oggi, pretendiamo
dal governo egiziano per la morte di Giulio Regeni quella chiarezza che invece non abbiamo avuto. Mi aspetterei che il governo, se
vuole essere autorevole agli occhi
di Al-Sisi, faccia luce ed elimini il
segreto di Stato”. Ma ha poi aggiunto in tono amaro: “Se dovessi scommettere 10 euro direi che
nulla sarà fatto”.
6 il bolscevico / art. 39 costituzione e istituzionalizzazione sindacato
N. 11 - 17 marzo 2016
L’articolo 39 della Costituzione
e il tema del riconoscimento giuridico
dei sindacati dei lavoratori
I lavori dell’Assemblea Costituente sul tema dell’organizzazione interna e del riconoscimento giuridico dei sindacati, tema
che poi avrebbe condotto fino
alla formulazione dell’attuale articolo 39 della Costituzione, durarono dal 26 luglio 1946 fino al
20 dicembre 1947.
Questo articolo costituzionale è stato storicamente uno dei
più travagliati, insieme all’art. 49
che tratta in modo quasi parallelo della vita interna che devono
avere i partiti politici, non soltanto nella fase di redazione ma anche e soprattutto nella fase successiva all’entrata in vigore della
carta costituzionale, in quanto di
fatto non è stato mai attuato per
l’opposizione di tutti i sindacati
che è durata dal 1948, data di entrata in vigore della Costituzione, fino a gennaio 2016 quando
la CGIL attraverso la Carta dei
diritti universali del lavoro ha
espressamente preso posizione a
favore del riconoscimento giuridico dei sindacati.
Ma, mentre per i partiti politici la dura opposizione del PCI
revisionista durante i lavori della Costituente riuscì a sventare il
rischio dell’obbligatorietà di riconoscimento (che avrebbe comportato pesanti ingerenze e con-
trolli da parte dello Stato su di
essi), lo stesso non accadde per
ciò che riguarda i sindacati, per i
quali l’art. 39 impose, al secondo
comma, l’obbligo di registrazione, obbligo vanificato dal rifiuto da parte di tutti i sindacati durato per sessantotto anni, per cui
si è creato a cominciare dall’immediato dopoguerra un sistema
di relazioni sindacali e di contrattazione collettiva fondato su
comportamenti consuetudinari,
poiché nessun sindacato ha mai
avuto finora le caratteristiche imposte dal quarto comma dell’art.
39 della Costituzione per poter
gestire una valida contrattazione
collettiva obbligatoria.
Si ricordi che l’attuale art. 39
della Costituzione recita, nei suoi
quattro commi:
“L’organizzazione sindacale
è libera.
Ai sindacati non può essere
imposto altro obbligo se non la
loro registrazione presso uffici
locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno
personalità giuridica. Possono,
rappresentati unitariamente in
proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per
tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
In seno all’Assemblea Costituente, i lavori che ebbero come
oggetto la discussione e l’elaborazione di quello che oggi è l’art.
39 della Costituzione si svolsero
nella Commissione per la Costituzione e anche nelle sue prime
tre Sottocommissioni, in particolar modo la terza, con interventi
anche della prima e della seconda. Nell’accingersi quindi ad esaminare in dettaglio le posizioni
politiche emerse sul tema durante l’elaborazione di tale articolo
e al fine di meglio comprendere
il dibattito politico dell’epoca in
tema di riconoscimento giuridico dei sindacati, si ricorderà, insieme al nome di ogni deputato
costituente, anche il suo partito
di appartenenza all’epoca dei lavori, e, per il particolare interesse che per questo studio rivestono tali posizioni, le parti trattate
o che si riferiscono direttamente
agli interventi di esponenti costituenti del PCI saranno evidenziati in grassetto, come anche le
proposte che ricevettero da essi
adesione.
La discussione sul riconoscimento giuridico dei sindacati
Viene ora presentata la cronologia delle discussioni sul tema
del riconoscimento giuridico dei
sindacati:
■ il 26 luglio 1946, nella prima seduta della terza Sottocommissione della Commissione per
la Costituzione, Francesco Colitto (Fronte dell’Uomo Qualunque)
propone che essa debba necessariamente occuparsi, poiché tratta delle problematiche del mondo
del lavoro, anche della regolamentazione giuridica dell’ordinamento sindacale nonché della libertà
sindacale, del contratto collettivo
di lavoro e della composizione dei
conflitti di lavoro;
■ il 31 luglio 1946, nell’ambito dei lavori della seconda Sottocommissione della Commissione
per la Costituzione che hanno ad
oggetto le autonomie locali, Gustavo Fabbri (Gruppo misto) attacca duramente la Confederazione generale del lavoro, in quanto
quest’ultima - dopo che è crollato
l’ordinamento corporativo fascista ma non è ancora stato colmato il vuoto normativo relativamente alla forma di regolamentazione
giuridica dei rapporti tra capitale e
lavoro - sostiene il principio della
necessità dell’istituto del contratto
nazionale di lavoro per i lavoratori. Fabbri sostiene invece che debbano esserci vari contratti collettivi di carattere locale o regionale,
con tutele minime differenziate a
seconda delle aree geografiche;
■ il 24 settembre 1946 alla
prima Sottocommissione della
Commissione per la Costituzione
- nell’ambito della discussione generale in tema di rapporti civili, e
trattando quindi anche della personalità giuridica di enti e associazioni - si accenna per la prima
volta anche alla personalità giuridica dei sindacati. In modo particolare Aldo Moro (Democrazia
Cristiana) si dimostra favorevole
alla regolamentazione e al rico-
Torino, 1980. Lo storico striscione delle operaie Fiat nella lotta contro i 15.000 licenziamenti minacciati da Agnelli
noscimento giuridico, tra gli altri
enti, anche dei sindacati, mentre
Giovanni Lombardi (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) si rivela nettamente contrario,
memore di come il fascismo, istituzionalizzando le organizzazioni
rappresentative dei lavoratori, le
incorporò nello stesso Stato fascista annientandone l’autonomia;
■ il 10 ottobre 1946 la prima
Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue
la discussione sui principi dei rapporti sociali ed economici, a seguito delle relazioni di Roberto
Lucifero (Blocco Nazionale della
Libertà) e Palmiro Togliatti (Partito Comunista Italiano). Lucifero
propone il seguente testo: “I cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente per svolgere una attività economica o per tutelare comuni interessi”, mentre Togliatti
propone che la futura Costituzione contempli espressamente
il tema del sindacato e sia del seguente tenore: “I lavoratori hanno diritto di associarsi liberamente per la tutela del loro lavoro e la
conquista di migliori condizioni
di remunerazione e di esistenza.
È contraria alla legge ogni azione che tenda in qualsiasi modo a
limitare questo diritto. La legge
assicura ai lavoratori il diritto di
sciopero”;
■ l’11 ottobre 1946 la prima
Sottocommissione della Com-
missione per la Costituzione prosegue la discussione sui principi
dei rapporti sociali ed economici. Togliatti (Partito Comunista
Italiano), in qualità di relatore,
annuncia di avere trovato un accordo con gli altri due correlatori Lucifero (Partito Liberale Italiano) e Giuseppe Dossetti
(Democrazia Cristiana) sul seguente testo: “È garantita a tutti
i cittadini la libertà di associarsi
per la difesa ed il miglioramento
delle condizioni di lavoro e della
vita economica”, ma che divergenze sono sorte quando i tre
correlatori hanno trattato l’affermazione contenuta nella sua
proposta che tendeva a garantire una difesa rafforzata del diritto di associazione sindacale,
stabilendo che ogni azione che
tendesse in qualsiasi modo a limitare questo diritto sarebbe
stata contraria alla legge. Anche in tema di diritto di sciopero
i tre, pur con qualche dissenso in
relazione alla possibilità di limitarlo per determinate categorie
di dipendenti pubblici, si trovano sostanzialmente d’accordo.
A questo punto, Aldo Moro (Democrazia Cristiana) e Lelio Basso
(Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) introducono il tema
della regolamentazione giuridica
della materia dei contratti collettivi di lavoro e quindi quello, strettamente connesso con il primo, del
problema della personalità giuridica dei sindacati e della loro funzione di rappresentanza nei confronti degli appartenenti alle singole
categorie di lavoratori. Il relatore Togliatti (Partito Comunista
Italiano) si dichiara però contrario alla proposta di inserire
nel medesimo articolo l’affermazione sulla validità giuridica
dei contratti collettivi di lavoro
conclusi dai sindacati, ritenendo che la questione andrebbe discussa insieme a tutta la materia
sindacale, e ritenendo altresì che
tale materia sia di competenza
della terza Sottocommissione,
nella quale siede il suo collega
di partito Giuseppe Di Vittorio,
che è anche relatore, ammettendo altresì che se si dovesse afIl neretto oltre alle citazioni dei Maestri evidenzia gli
interventi ai lavori da parte
degli esponenti del PCI revisionista.
N. 11 - 17 marzo 2016
frontare il tema della validità
dei contratti di lavoro, non potrebbe di certo essere trascurato
il problema del riconoscimento
giuridico dei sindacati. Giorgio
La Pira (Democrazia Cristiana),
la cui posizione è sostanzialmente condivisa anche dal suo collega
di partito Giuseppe Dossetti, osserva che l’associazione sindacale non è una qualsiasi associazione, ma diventa, nella concezione
moderna dello Stato, un elemento strutturale dell’ordinamento sociale. Tale specifica apertura da
parte dell’esponente democristiano è uno dei motivi fondamentali per cui la Costituzione riserverà
ai sindacati un apposito articolo (il
39) come del resto lo stesso ragionamento i deputati costituenti fecero per ciò che riguarda i partiti politici (e infatti anche in questo
caso si dovette dedicare ai partiti
un altro articolo apposito, il 49).
A questo punto il presidente della
prima Sottocommissione, Giuseppe Tupini (Democrazia Cristiana),
riassume la discussione, rilevando
che tutti i membri della Sottocommissione si sono trovati d’accordo
sul principio che il diritto di organizzazione sindacale debba essere riconosciuto dalla Costituzione, ma che i dissensi sono affiorati
solo sul modo di articolare in termini precisi il diritto di organizzazione sindacale, proponendo, in
alternativa alla proposta del testo
presentato da Togliatti, di scrivere “Il diritto di organizzazione sindacale è garantito”. Lelio Basso
(Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) a sua volta propone
la seguente formula, nella quale
per la prima volta entra nella discussione della Costituente il tema
della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende: “È
garantita a tutti i lavoratori la libertà di associarsi per la difesa e
il miglioramento delle condizioni
di lavoro e di vita e per una maggiore partecipazione alla gestione
della produzione”. Tale formulazione viene sostanzialmente condivisa da Togliatti, mentre Dossetti accoglie la formula proposta
dal presidente Tupini in quanto,
a suo avviso, più sintetica e comprensiva di tutto. Basso ritira a
questo punto la sua proposta e la
formula proposta dal presidente è
approvata con 10 voti favorevoli e
2 contrari. La seduta poi prosegue
approfondendo il tema del diritto
di sciopero;
■ contemporaneamente ai lavori della prima Sottocommissione,
lo stesso 11 ottobre 1946, nella seduta mattutina, la terza Sottocommissione della Commissione per
la Costituzione iniziava la discussione sul diritto di associazione e
sull’ordinamento sindacale, dove
viene data lettura della proposta
di Giuseppe Di Vittorio (Partito Comunista Italiano), il quale ha messo agli atti la proposta
del seguente articolo che, dettato in tema di associazioni in generale, deve necessariamente ricomprendere anche i sindacati:
“Il diritto di associazione è riconosciuto a tutti i cittadini d’ambo
i sessi ed agli stranieri residenti
legalmente sul territorio nazionale, senza distinzione di razza. Tale
diritto è garantito dalla legge e
non potrà essere limitato dagli
scopi politici, sociali, religiosi o
filosofici che persegue l’associazione”. Amintore Fanfani (Democrazia Cristiana), interpretando la
proposta di Di Vittorio, ritiene che
il diritto di associazione sindacale
debba essere certamente compreso nel quadro del diritto di associazione in generale, ma che, per
la particolare valenza che tale tipo
di associazione riveste, debba ricevere necessariamente una disciplina giuridica particolare, e così
propone di aggiungere alla proposta di Di Vittorio il seguente testo:
art. 39 costituzione e istituzionalizzazione sindacato / il bolscevico 7
questi mezzi in un mezzo principale e decisivo, è necessario che
il proletariato insorga e conduca un attacco decisivo contro la
borghesia, per distruggere dalle
fondamenta il capitalismo. Questo mezzo principale e decisivo è
precisamente la rivoluzione socialista” (Stalin, Anarchia o socialismo?, 1907, in Opere complete, Roma, 1955, p. 381).
Proseguendo i lavori, Giua
(Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) ritiene che, una volta
ammesso il principio della libertà
di associazione sindacale, e quindi prendendo atto della futura esistenza di più sindacati, bisogna accedere alla creazione di un organo
al di sopra delle parti, che abbia il
potere di stipulare, eventualmente
in seconda istanza, i contratti collettivi;
Battipaglia (Salerno), 9 aprile 1969. Sciopero generale e manifestazione indetti da CGIL-CIL-UIL contro la chiusura di due grosse aziende. I
lavoratori occupano i binari della stazione, saranno poi ferocemente caricati dalla polizia, che sparò lasciando sul terreno due morti. Il giorno
seguente la rivolta è generale e viene subito trovato un accordo per la riapertura delle due aziende
“Il diritto di associazione per la
tutela dei propri interessi economici e professionali è riconosciuto
a tutti coloro i quali partecipano
all’attività economica”;
■ lo stesso 11 ottobre 1946,
nella seduta del pomeriggio, la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sul diritto di
associazione e sull’ordinamento sindacale. Di Vittorio (Partito
Comunista Italiano), facendo seguito alla sua proposta in tema
di associazioni, e con particolare riferimento a quelle sindacali, suggerisce il seguente testo
da inserire nella futura Costituzione: “Il lavoro è la base fondamentale della vita e dello sviluppo
della società nazionale. Lo Stato
dovrà garantire per legge una efficace protezione sociale dei lavoratori manuali ed intellettuali. I
sindacati dei lavoratori, quali organi di autodifesa e di tutela dei
diritti e degli interessi economici,
professionali e morali dei lavoratori, sono riconosciuti enti d’interesse collettivo”. A proposito del
concetto di “interesse collettivo”,
il presidente della terza Sottocommissione Gustavo Ghidini (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) ritiene che debba essere
chiarita la natura giuridica del sindacato, soprattutto per il rilevo che
tale associazione ha in tema di obbligatorietà dei contratti collettivi
che esso stipula, e propone che sia
opportuno ammettere in tal senso il riconoscimento giuridico dei
sindacati, pur senza precisarne la
natura giuridica e senza farne ovviamente degli enti pubblici come
erano le corporazioni durante il
regime fascista. In tale senso egli
ritiene che dovrebbe sopprimersi, perché equivoca, l’espressione
“enti di interesse collettivo” e dichiarare semplicemente che al sindacato viene riconosciuta la personalità giuridica, senza la quale
tale ente non può infatti obbligare giuridicamente e di conseguenza stipulare i contratti di lavoro.
Fanfani a questo punto propone il
seguente testo: “Ai sindacati dei
lavoratori, quali organi di difesa e
di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori è riconosciuta
la personalità giuridica”, in quanto parte dal presupposto che solo
un ente riconosciuto possa avere il
potere di vincolare, tramite il contratto collettivo, anche i lavoratori non iscritti al sindacato, e Colitto (Fronte dell’Uomo Qualunque)
propone, al fine di togliere ogni
dubbio circa il potere dei sindacati di vincolare anche i lavoratori non iscritti alle disposizioni
dei contratti collettivi, di aggiungere l’inciso “Il contratto collettivo di lavoro ha valore di legge”.
Quanto affermato da Colitto però
aveva un chiaro senso quando, in
epoca fascista, ogni corporazione
era un vero e proprio ente pubblico nel quale erano obbligatoriamente iscritti tutti i lavoratori e i
datori di lavoro di un determinato
settore produttivo predeterminato
per legge, per cui non vi era dubbio che tale ente potesse emanare
norme obbligatorie per tutti i lavoratori di quel comparto, ma dopo
la caduta del fascismo il sistema
corporativo era stato abrogato e si
era ricostituita la Confederazione
generale del lavoro, un ente associativo volontario che la Costituzione non avrebbe mai potuto inquadrarlo come ente istituzionale:
il diritto del lavoro e quello sindacale repubblicano avrebbero finito
per assomigliare pericolosamente a quello fascista, e del resto la
stessa Confederazione generale
del lavoro, che costituiva la rappresentanza unitaria dei lavoratori
in assenza di associazioni sindacali concorrenti, non aveva mai manifestato alcun interesse a questo
riconoscimento giuridico. Michele Giua (Partito Socialista Italiano
di Unità Proletaria) a questo punto
ritiene che il riconoscimento giuridico debba farsi per quei sindacati che aderiscono alla Confederazione generale del lavoro, l’unica
organizzazione sindacale esistente all’epoca dei lavori dell’Assemblea Costituente;
■ il 12 ottobre 1946 la terza
Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue
la discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, e, proseguendo l’analisi del
giorno precedente a proposito della competenza a stipulare accordi
di lavoro collettivi, Colitto (Movimento dell’Uomo Qualunque) rileva - pensando sicuramente ad un
futuro nel quale l’allora Confederazione generale del lavoro unitaria si sarebbe scissa in più sindacati indipendenti tra loro - che la
disciplina relativa all’individuazione del sindacato o dei sindacati
autorizzati a sottoscrivere contratti
collettivi vincolanti anche per i non
iscritti dovesse essere demandata,
data la sua complessità, alla legge
ordinaria e non stabilita nella Costituzione. Il problema della frammentazione sindacale porta a questo punto Emilio Canevari (Partito
Socialista Italiano di Unità Proletaria) a proporre l’istituzione di
un Consiglio nazionale del lavoro,
con il compito, tra l’altro, di riconoscere giuridicamente i sindacati ai quali attribuire la funzione di
contrattazione collettiva. Il sindacalista socialista infatti formula la
seguente proposta: “L’associazione per la tutela degli interessi economici, professionali e sindacali,
è libera. La legge provvederà al
riconoscimento dei sindacati professionali, ai quali è attribuito il
compito di stipulare contratti collettivi di lavoro, aventi efficacia
giuridica per tutti gli appartenenti alla categoria, alla quale ogni
contratto si riferisce. Per legge
sarà costituito il Consiglio nazionale del lavoro, nel quale saranno
proporzionalmente rappresentate,
con il Governo, le forze produttive
della Nazione, per la regolamentazione dei sindacati professionali, il loro riconoscimento, l’eventuale stipulazione dei contratti
collettivi di lavoro, la elaborazione della legislazione sociale adeguata ai bisogni del lavoratori,
nell’interesse generale, e la sua
applicazione”. Alla proposta di
Canevari risponde Di Vittorio
(Partito Comunista Italiano),
il quale formula una proposta
non dissimile: “Ai sindacati professionali è riconosciuto il diritto
di contribuire direttamente alla
elaborazione di una legislazione
sociale adeguata ai bisogni dei
lavoratori - e a controllarne l’applicazione - mediante la costituzione di un Consiglio nazionale
del lavoro nel quale siano rappresentate, con il Governo, tutte
le forze produttrici della Nazione,
in misura che tenga conto dell’efficienza numerica di ciascuna di
esse”.
Si noti che in entrambe le proposte, di Canevari e di Di Vittorio,
è previsto l’intervento del governo all’interno di un ancora ipotetico Consiglio nazionale del lavoro, e in entrambe si da per scontata
l’esistenza di più sindacati, dei
quali bisognerà semmai contare il
peso al fine di attribuire rappresentanza nel costituendo Consiglio. I
due esponenti politici, nonché - è
bene ricordarlo - massimi dirigenti sindacali dell’epoca, si muovono già in una visione del sindacato
che punta a privilegiare, depotenziando la funzione di tali associazioni nella lotta di classe tra capitale e lavoro, il ruolo istituzionale
di tali organismi. Nelle piazze Canevari e Di Vittorio predicavano
agli operai la lotta di classe, mentre nelle aule dell’Assemblea Co-
stituente contribuivano di fatto a
costruire un sistema che, istituzionalizzando i sindacati, li coinvolgeva pienamente nello Stato borghese, ma dimenticando entrambi,
a proposito di quest’ultimo, che
nei confronti dello Stato borghese il movimento operaio è antagonista non meno che nei confronti
del capitale, infatti “se lo Stato è
un prodotto dell’inconciliabilità degli antagonismi di classe, se
esso è una forza che sta al di sopra della società e che ‘si estranea sempre più dalla società’, è
evidente che la liberazione della classe oppressa è impossibile
non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza
la distruzione dell’apparato del
potere statale che è stato creato dalla classe dominante e nel
quale questa ‘estraneazione’ si
è materializzata” (Lenin, Stato
e Rivoluzione, Piccola biblioteca marxista-leninista 6, Firenze,
1999, p. 7).
E già Stalin, il cui nome più
volte risuonò nelle aule dell’Assemblea Costituente dove fu presa ad esempio, anche dai democristiani, la Costituzione sovietica
del 1936, rispondendo idealmente a Canevari e a Di Vittorio già
nel 1907, riconosce che gli scioperi e le manifestazioni (e quindi
di conseguenza i sindacati che indicono i primi e le seconde) sono
parte integrante della lotta di classe, e la loro funzione fondamentale (e quindi la funzione fondamentale dei sindacati) è di forgiare la
coscienza di classe nonché di coordinare e organizzare i lavoratori
nella lotta che condurrà alla Rivoluzione socialista, e c’è da giurarci che i due massimi esponenti, sedicenti marxisti, del sindacalismo
italiano dell’epoca beffavano letteralmente i lavoratori tentando
da una parte di irretire i sindacati nello Stato borghese e dall’altra
di mandare in soffitta gradualmente l’idea stessa di Rivoluzione socialista.
Si ascolti dunque con la massima attenzione l’analisi di Stalin
al fine di comprendere quale sia il
ruolo del sindacato, che non è certo quello di essere invischiato nelle istituzioni borghesi e alla fine
risucchiato da esse: “Gli scioperi, il boicottaggio, il parlamentarismo, la manifestazione, la dimostrazione: tutte queste forme
di lotta sono buone come mezzi che preparano e organizzano il proletariato. Ma nessuno
di questi mezzi è atto a distruggere l’ineguaglianza esistente.
E’ necessario concentrare tutti
■ nella seduta del 14 ottobre
1946 la terza Sottocommissione
della Commissione per la Costituzione prosegue i lavori in tema
di diritto di associazione e di ordinamento sindacale. Francesco
Marinaro (Blocco Nazionale della Libertà) ritiene, conformemente
alla sua visione liberale, che non
debba essere riconosciuta alcuna
situazione di preminenza alle associazioni dei lavoratori rispetto a quelle dei datori di lavoro, in
quanto, a suo avviso, gli interessi dei lavoratori coinciderebbero
con quelli generali della nazione,
e si concretizzerebbero nel maggiore sviluppo della economia nazionale, nell’incessante aumento
della produzione e in un maggiore
arricchimento del Paese, interessi
che accomunerebbero i lavoratori
e i datori di lavoro.
Giua (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) gli obietta
che difendere le classi produttrici
in senso astratto significherebbe
tornare indietro alla metà dell’Ottocento e annullare lo sforzo fatto dalle classi lavoratrici per inserirsi nel quadro politico della
vita sociale e politica nazionale,
in quanto le classi produttrici hanno dimostrato di essere conservatrici al punto tale da avere cavalcato il fascismo pur di difendere i
propri interessi e, speculando sul
potere dello Stato che avevano in
mano, trascinarono le masse lavoratrici in uno stato di disagio tale
da fargli rasentare quasi lo stato di
schiavitù.
Antonio Pesenti (Partito Comunista Italiano) appoggia in
pieno la tesi di Giua, aggiungendo che le organizzazioni di categoria dei datori di lavoro non
hanno bisogno di tutela giuridica, in quanto già detengono il
potere economico. Giuseppe Rapelli (Democrazia Cristiana) d’altra parte fa notare che nessuno
contesta all’imprenditore il diritto
di associazione.
A questo punto Colitto (Fronte dell’Uomo Qualunque) propone il seguente testo: “L’associazione sindacale è libera. La legge
ne determina i poteri. Il contratto
collettivo di lavoro ha efficacia di
legge”. Giuseppe Rapelli (Democrazia Cristiana) a sua volta propone il suo testo: “L’associazione
sindacale è libera. Per la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia
obbligatoria per tutti gli appartenenti alla stessa categoria, la legge regolerà la formazione delle
rappresentanze unitarie delle varie categorie professionali e detterà le norme relative”. Infine Marinaro (Blocco Nazionale della
Libertà) propone il suo testo, ovvero “Alle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, quali organi di autodifesa e di tutela
dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori per cui sono costituite,
è garantita l’indipendenza, l’autonomia e la libertà nello svolgi-
8 il bolscevico / art. 39 costituzione e istituzionalizzazione sindacato
mento della loro attività, secondo
le norme che saranno fissate dalla legge. Le suddette associazioni saranno in particolare chiamate a partecipare pariteticamente,
con propri rappresentanti, in tutti
gli organi, enti e istituti a carattere consultivo e deliberativo che
abbiano attinenza con gli interessi della produzione nazionale dal
punto di vista sindacale, sociale
ed economico”;
■ il 15 ottobre 1946, nella breve seduta mattutina, proseguono
i lavori della terza Sottocommissione. Riguardo al tema del riconoscimento giuridico dei sindacati, Mario Assennato (Partito
Comunista Italiano) propone la
seguente formula: “La legge stabilirà i termini per il riconoscimento giuridico dei sindacati, ai
fini della stipulazione di contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia per tutti gli appartenenti alla categoria”. Su tale
formula si sviluppa una discussione che proseguirà nel pomeriggio;
■ infatti nel pomeriggio del 15
ottobre 1946 i lavori proseguono
presso la terza Sottocommissione sullo stesso tema. Assennato
riprende il tema del riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali, a tutela delle quali si preoccupa affinché
il riconoscimento non implichi
indebite interferenze o controlli dello Stato nella loro vita interna, ed è per questo motivo
che la sua proposta va nel segno
del riconoscimento, ma solo ed
esclusivamente ai fini della sottoscrizione dei contratti collettivi. Ritiene insomma il riconoscimento un’arma a doppio taglio:
da una parte conferisce autorità al sindacato e gli consente di
stipulare contratti collettivi, ma
dall’altro lo mette in condizioni di subire controlli da parte
del governo. L’importante, per
Assennato, è che in sede costituzionale si precisi che il riconoscimento giuridico non implichi un inquadramento giuridico
del sindacato come ente pubblico e, quindi una sottoposizione
al controllo dello Stato o di altra autorità pubblica. La seduta
poi prosegue per la trattazione di
altre questioni che non riguardano
la materia qui esaminata;
■ il 17 ottobre 1946, nella seduta mattutina, proseguono i lavori della terza Sottocommissione
sui temi qui esaminati. Giuseppe Di Vittorio (Partito Comunista Italiano) riprendendo la
proposizione di Assennato fatta il giorno precedente, ritiene
che la Costituzione deve necessariamente riconoscere ai sindacati quella che, a suo avviso,
è la sua funzione principale, cioè
la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro e, poiché tali atti
giuridici debbono avere efficacia giuridica e quindi essere obbligatori per tutta la categoria
cui si riferiscono, ne deriva che
il sindacato, per avere il diritto di stipularli, deve avere il riconoscimento della personalità
giuridica. D’altra parte, continua il dirigente politico e sindacale (allora segretario generale
della Cgil), nello stabilire le condizioni di questo riconoscimento, si deve al contempo garantire l’indipendenza, l’autonomia
e la libertà del sindacato, quindi ritiene che il solo obbligo che
possa essere imposto al sindacato riconosciuto, al quale è attribuito il diritto di stipulare contratti di lavoro, è quello della
registrazione e del controllo, per
impedire che un falso sindacato
possa attribuirsi dei diritti senza
avere una consistenza effettiva.
Quindi, nel pensiero di Di Vittorio, occorre necessariamente un
organo terzo e imparziale che
accerti se e in quale misura un
dato sindacato abbia efficienza
e caratteri di indipendenza, autonomia e libertà per gli iscritti, ed egli individua tale organo
nel futuro Consiglio nazionale
del lavoro ed ai suoi organi locali, escludendo nel modo più
esplicito che i sindacati possano essere sottoposti al controllo di organi di polizia, o comunque possano essere suscettibili
di abusi e di ingerenze indebite
da parte di una pubblica autorità. Eppure, a ben guardare, anche il futuro Consiglio nazionale
del lavoro non sarebbe stato al-
na) propone poi il suo testo, per il
quale anche Di Vittorio non dimostra contrarietà: “L’organizzazione sindacale è libera. Al fine della
stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti
gli appartenenti alla stessa categoria, la legge regolerà la formazione delle rappresentanze sindacali unitarie di ciascuna e detterà
le norme relative”. Anche Emilio
Canevari (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) formula la
sua proposta: “L’organizzazione
sindacale è libera. Al fine della
stipulazione dei contratti colletti-
nuove proposte di Di Vittorio
vengono approvate dalla Sottocommissione;
■ il 22 ottobre 1946 la terza
Sottocommissione prosegue la discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.
Giuseppe Togni (Democrazia Cristiana) richiede di migliorare la
formulazione degli articoli proposti da Di Vittorio nella parte relativa al riconoscimento giuridico, e
Di Vittorio si dichiara disponibile
a migliorarli, pur rimanendo fermo
su un punto: a suo avviso infatti il
sindacato deve ottenere il riconoscimento giuridico limitatamente
ratori sia quelle composte dai
datori di lavoro le quali, secondo l’esponente democristiano,
devono formalmente stare sullo stesso piano di parità, ma Di
Vittorio gli obietta che affermare nella Costituzione il concetto
che il sindacato dei lavoratori e
quello dei datori di lavoro siano
due personalità giuridiche uguali non è ammissibile, soprattutto
da un punto di vista sociale, innanzitutto perché i due istituti
hanno entità numeriche molto
differenti, ed in secondo luogo
perché il sindacato dei lavoratori tutela interessi, di carattere
Torino. Lo striscione del CdF Fiat Mirafiori davanti allo stabilimento durante l’autunno caldo
tro che un ente pubblico facente parte dell’ordinamento giuridico di uno Stato borghese, per
cui comunque, con il riconoscimento, i sindacati dei lavoratori
diventerebbero, da antagonisti
per loro stessa origine e natura, parte dell’ordinamento giuridico (in quanto riconosciuti) e
dell’ordinamento economico (in
quanto autorizzati a stipulare
contratti collettivi). Di Vittorio
prosegue poi sostenendo da una
parte il principio della libertà
sindacale (e quindi ammettendo l’esistenza di una pluralità di
sindacati) ma ritenendo dall’altra che non tutti i sindacati debbano avere il diritto di stipulare
il contratto di lavoro, un diritto
che spetta, secondo Di Vittorio,
solo a quello maggioritario con
rappresentanza proporzionale
dei sindacati di minoranza, così
da consentire a tutti i sindacati
riconosciuti dalla legge di stipulare i contratti collettivi;
■ il 17 ottobre 1946, nella seduta pomeridiana, la terza Sottocommissione prosegue la discussione sul diritto di associazione
e sull’ordinamento sindacale. Di
Vittorio presenta la sua proposta, che così come formulata,
andrà a costituire, con emendamenti, il primo, secondo e parte del quarto comma dell’art. 39
della Costituzione: “L’organizzazione sindacale è libera. All’organizzazione sindacale non può
essere imposto altro obbligo che
quello della registrazione presso
organi del lavoro, locali o centrali. Ai sindacati è attribuito il
compito di stipulare contratti collettivi di lavoro secondo quanto
è stabilito dalla legge”. Giuseppe Rapelli (Democrazia Cristia-
vi di lavoro, che dovranno avere
efficacia obbligatoria per tutti gli
interessati, la legge regolerà la
formazione delle rappresentanze
unitarie scelte nell’orbita dei rispettivi sindacati e detterà le norme relative”. Colitto poi formula
la sua proposta, chiarendo che tra
le associazioni professionali intende comprendere anche i sindacati:
“L’associazione professionale è libera. La legge ne preciserà i poteri. Il contratto collettivo di lavoro
ha valore di legge”.
A questo punto, al fine di
chiarire meglio il rapporto reciproco di più sindacati liberi che
concorrano alla stipulazione dei
contratti collettivi, Di Vittorio
propone, rettificando l’ultimo
comma precedentemente proposto, il seguente testo: “Le rappresentanze sindacali formate in
proporzione degli iscritti stipulano i contratti collettivi di lavoro
che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati”.
A suo avviso, la personalità giuridica del sindacato deve avere
un triplice scopo: dare facoltà ai
sindacati di stipulare i contratti collettivi, dare loro il diritto di
costituirsi in giudizio e dare la
facoltà di possedere dei beni, ed
è altresì sua opinione che debba
essere la legge ordinaria a stabilire i requisiti per il riconoscimento dei sindacati, per cui egli
così integra la sua proposta: “Ai
sindacati, quali organi di difesa e
di tutela dei diritti e degli interessi
economici professionali e morali
dei lavoratori, viene riconosciuta
la personalità giuridica. La legge
fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro”. Le due
ai tre scopi da lui stesso enunciati,
ovvero per avere la capacità giuridica di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutta la
categoria, per avere la possibilità
di costituirsi in giudizio, e infine
per avere la possibilità di acquistare e possedere beni. Togni, invece, sostiene che la facoltà di stipulare i contratti collettivi non vada
conferita al sindacato, ma ad un
ente costituito dalla rappresentanza di vari sindacati, ossia ad un altro ente, che Di Vittorio giudica un
vero e proprio apparato burocratico totalmente estraneo al sindacato. Infatti, secondo l’esponente del
Partito Comunista Italiano la rappresentanza deve essere semplicemente la sintesi dei vari sindacati, formata dai loro rappresentanti,
e non un ente diverso, che risulterebbe estraneo alla logica sindacale e alla rappresentanza dei lavoratori.
Interviene nel dibattito anche
Amintore Fanfani (Democrazia
Cristiana) il quale paventa la possibilità che in futuro possano formarsi sindacati fittizi promossi
dagli imprenditori al fine di danneggiare l’azione sindacale, rimarcando il concetto fondamentale
che il numero degli iscritti debba essere un dato fondamentale
al fine di eliminare dalla contrattazione sindacati fittizi, e propone
quindi il seguente testo: “Le rappresentanze sindacali unitarie di
categoria dei sindacati registrati,
formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi
di lavoro obbligatori per tutti gli
appartenenti al settore economico
cui si riferiscono”. Fanfani per la
verità chiarisce che con l’espressione “sindacati” intende sia le
associazioni composte da lavo-
collettivo e sociale, delle masse
popolari, mentre quello dei datori di lavoro difende esclusivamente gli interessi di una ristrettissima categoria, i cui interessi
privati sono spesso in contrasto
con quelli delle masse popolari,
ossia della quasi totalità della
popolazione.
Fanfani a questo punto propone una sua sintesi che non è dissimile da quella di Di Vittorio e
che sarà fondamentale per la redazione del definitivo testo del futuro articolo 39 della Costituzione,
ovvero: “L’organizzazione sindacale è libera. In essa si riconosce
un mezzo necessario per la tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei
lavoratori. Ai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica alle condizioni previste dalla
legge, ma senza imposizione di
altro obbligo all’infuori di quello
della registrazione. Le rappresentanze sindacali unitarie formate in
proporzione agli iscritti, stipulano
i contratti collettivi di lavoro che
devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati”. Infine
Francesco Maria Dominedò (Democrazia Cristiana) tenta una ulteriore sintesi tra le varie posizioni
e propone il seguente testo, che la
Sottocommissione alla fine approva all’unanimità sostituendolo ai
precedenti: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati dei
lavoratori, quali organi di difesa
e tutela dei loro diritti ed interessi
economici, professionali e morali,
è riconosciuta la personalità giuridica. La personalità giuridica è
ugualmente riconosciuta ai sindacati dei datori di lavoro. Non può
essere imposto ai sindacati altro
N. 11 - 17 marzo 2016
obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro locali e centrali. Le rappresentanze
sindacali unitarie, costituite dai
sindacati registrati in proporzione
dei loro iscritti, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria verso tutti gli appartenenti
alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Tale testo costituisce un ulteriore passo in avanti verso quello che diventerà poi
l’art. 39 della Costituzione;
■ il 26 ottobre 1946 il presidente della terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, Ghidini, comunica alla
Commissione per la Costituzione
che, a conclusione dei lavori della Sottocommissione e dopo avere
effettuato il coordinamento degli
articoli, ai quali sono stati apportate lievi modifiche formali, il testo di quello che viene provvisoriamente denominato art. 17 della
Costituzione è il seguente: “Art.
17. Sindacati. L’organizzazione
sindacale è libera. Ai sindacati dei
lavoratori, quali organi di difesa e
di tutela dei loro diritti ed interessi economici, professionali e morali è riconosciuta la personalità
giuridica. La personalità giuridica è ugualmente riconosciuta ai
sindacati dei datori di lavoro. Non
può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro
locali e centrali. Le rappresentanze sindacali unitarie, costituite dai
sindacati registrati in proporzione
dei loro iscritti, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria verso tutti gli appartenenti
alle categorie alle quali il contratto si riferisce”;
■ successivamente la Commissione per la Costituzione rielabora
il testo del provvisorio art. 17 pervenuto che diviene, nel testo definitivo di Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione,
l’art. 35 che recita: “L’organizzazione sindacale è libera. Non può
essere imposto ai sindacati altro
obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo
le norme di legge. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro
iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti
alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Il testo è identico
ai commi primo, secondo e quarto di quello che diventerà l’art. 39
della Costituzione. Manca ancora
nel testo il terzo comma che tratta
della democraticità interna richiesta ai sindacati come condizione
per il riconoscimento. Nella sua
relazione che accompagna il Progetto di Costituzione il presidente
della Commissione per la Costituzione, Meuccio Ruini (Gruppo
misto) disse a proposito di tale articolo: “Per l’organizzazione sindacale, tra i due estremi dell’assenza d’ogni norma - che ha reso
in più casi necessario l’intervento di una legge per rendere obbligatorio il contratto collettivo e l’opposto e pesante sistema di
regolazione minuta e pubblica, a
tipo fascista, si è adottato il criterio della libertà senza imposizione
di sindacato unico. Vi è il solo obbligo di registrazione a norma di
legge, per i sindacati che intendono partecipare alla stipulazione di
contratti collettivi; e questo avviene mediante rappresentanze miste
costituite a tal fine e proporzionali
per numero agli iscritti nei sindacati registrati”;
■ il 3 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l’Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo terzo della Parte
prima del progetto di Costituzione
intitolato “Rapporti economici”,
all’interno del quale vi è il proget-
N. 11 - 17 marzo 2016
tato art. 35. Francesco Maria Dominedò (Democrazia Cristiana)
commentando l’articolo tocca il
nodo del potere dei sindacati di
stipulare contratti collettivi con
valore vincolante anche per i non
iscritti: “Quali sono i problemi essenziali che occorre risolvere rispetto alla disciplina e allo svolgimento
di
un
moderno
sindacalismo? Pare a noi che il
primo problema da affrontare sia
quello della libertà dell’organizzazione sindacale. Il primo comma dell’articolo 35 si ispira, infatti, a questo concetto preliminare,
fissando un punto di partenza:
esso muove dalla base del riconoscimento della libera organizzazione sindacale. Ed anche l’emendamento da noi proposto
all’articolo 35 mantiene in ciò
l’identica formula del progetto,
intendendo così confermare l’incondizionata libertà di associazione per qualsiasi organizzazione
di carattere e scopo sindacale. Vi
è, tuttavia qualcosa da aggiungere
in relazione a questo primo momento dell’organizzazione del lavoro: la libertà di associazione
porta evidentemente alla possibilità di una pluralità sindacale.
Questa conseguenza si ricollega
alla necessità di considerare il
sindacato come un organismo liberamente costituito e, quindi,
all’esigenza di conferire piena
funzionalità a tutte le organizzazioni sindacali che noi vogliamo
indipendenti a tutela dei diritti del
lavoratore. Ora, tale riconoscimento è realizzabile, tenendo conto della possibilità che l’organizzazione sindacale acquisti la
personalità giuridica. Ecco così il
primo gradino della scala. Noi
dobbiamo cominciare a parlare
della personalità giuridica di diritto privato, cioè della titolarità
dei diritti da parte del sindacato,
non essendo ancora giunti al secondo gradino che toccheremo
solo quando daremo la possibilità
di dettar norme alla categoria:
solo in quel momento spetterà, infatti, al sindacato una potestà di
imperio, per cui la personalità
giuridica si trasferirà dal terreno
di diritto privato in quello del diritto pubblico. Per quanto riguarda, invece, la prima fase, noi consideriamo certamente la possibilità
di dettar norme agli iscritti al sindacato, ma non risolviamo ancora
il problema di vincolare tutti gli
appartenenti alla categoria, una
volta che senza potestà di imperio
non v’è possibilità di dettar norme
agli appartenenti alla categoria,
se non iscritti al sindacato.
Nell’ambito delle singole associazioni sindacali, il problema è, pertanto, risolto col conferimento
della personalità giuridica: conferimento che potrà essere accompagnato da un normale controllo
sugli statuti dell’associazione;
allo scopo di accertarne il carattere democratico, dal momento
che il progetto di Costituzione subordina l’acquisto delle personalità alla condizione che l’organizzazione
sindacale
sia
regolarmente registrata negli uffici centrali e locali. Ai sindacati
non è, quindi, imposto altro obbligo che la registrazione secondo le
norme di legge. A questo proposito dovrei dire che sarebbe preferibile una formulazione positiva invece di quella negativa adottata
dal progetto, perché quando si dichiara che la personalità giuridica si ottiene mediante la registrazione, si afferma implicitamente
che questa formalità rappresenta
il solo onere richiesto costituzionalmente allo scopo. Al secondo e
terzo comma del progetto sarebbe,
quindi, preferibile, secondo
l’emendamento proposto, un solo
comma in formula positiva, più
semplice appropriata. La possibilità di questa libera espansione
art. 39 costituzione e istituzionalizzazione sindacato / il bolscevico 9
tori, insomma il timore di Tega è
quello che il mondo operaio vada
così incontro ad una sorta di corporativismo mascherato all’interno della nuova Repubblica della
quale proprio in quel momento si
costruivano le fondamenta;
Arese (Milano). Picchetto e assemblea permanente all’ingresso dell’Alfa Romeo durante l’autunno caldo
delle associazioni professionali
costituisce un dato di fatto che fa
sorgere la seconda indagine, particolarmente
scottante
in
quest’ora, sia fra noi che fuori, nel
diritto interno e nel diritto comparato. Il secondo problema impone
di tutelare l’interesse del lavoratore, acciocché egli non appaia
frazionato davanti al datore di lavoro, onde, attraverso una rappresentanza unitaria delle associazioni professionali di lavoro, sia
possibile raggiungere il risultato
che la difesa del lavoro si affermi
compatta, senza incrinature capaci di indebolirne le possibilità di
affermazione. Se questa è l’esigenza economica e sociale, giuridicamente essa si traduce nella
necessità di far sì che le associazioni sottostanti - così le chiameremo dato che abbiamo parlato di
diversi gradini della scala - giungano ad organizzarsi nella loro
rappresentanza ultima e unitaria,
soltanto allora potendo parlarsi di
personalità giuridica di diritto
pubblico
nella
pienezza
dell’espressione. Perché questo
avvenga, si richiede un requisito
essenziale, s’impone cioè che sussista da parte della legge, il riconoscimento di siffatta potestà di
imperio, atta a dettar norme.
Come si può arrivare a tale riconoscimento? I metodi potrebbero
essere diversi. Nel seno della terza
Sottocommissione - e basti a ciò
spogliare i verbali dei nostri lavori - si è affacciata l’ipotesi di un
sindacato maggioritario, il quale,
per il solo fatto di poter rappresentare, ad un certo momento, il
51 per cento dei lavoratori o dei
datori di lavoro potrebbe essere
investito della potestà rappresentativa unitaria. Con la conseguenza di dettare le norme di categoria, cioè di stipulare contratti
collettivi di lavoro, valevoli nei
confronti di tutti gli appartenenti
alla categoria, oltre che degli
iscritti al solo sindacato maggioritario. Ovvero - seconda soluzione - occorrerebbe far sì che la
rappresentanza unitaria si costituisca legalmente, formandosi attraverso l’afflusso di tutte le libere
associazioni sindacali. Questa è
sembrata, per prevalente accordo
e dopo approfondito esame, la tesi
da doversi accogliere, come la più
rispondente alle esigenze dell’ordine democratico al quale miria-
mo, poiché solo in questo modo è
data la possibilità di rappresentare proporzionalmente, nell’ambito
dell’organismo unitario sovrastante, tutte le forze liberamente
associantisi nei sindacati ed esprimenti la reale consistenza delle
forze del lavoro. Un rilievo dovrei,
tuttavia, fare al progetto, laddove
si vorrebbe tradurre in formule il
concetto. A me pare che si incorra
in equivoco tecnico, vorrei dire di
logica giuridica, quando, nell’ultimo comma dell’articolo 35, si
aggiunge: ‘Possono (i sindacati)
rappresentanti unitariamente in
proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro
con efficacia obbligatoria per tutti
gli appartenenti alle categorie alle
quali il contratto si riferisce’. Il rilievo particolarmente giuridico,
che l’assemblea valuterà nel suo
giudizio politico, è questo: che nel
momento in cui si costituisce la
rappresentanza unitaria, a rigore
non sono più le associazioni sottostanti quelle che parlano, bensì il
sovrastante organo costituito a
norma di legge. Poiché nel giuoco
della rappresentanza non è il rappresentato, bensì il rappresentante quegli che esprime la dichiarazione di volontà, e cioè la
manifestazione attraverso cui promanano le norme di categoria, affermandosi così nel seno del contratto collettivo di lavoro la norma
valevole verso tutti gli appartenenti, oltre che gli iscritti. La fonte
della norma risale, infatti, all’organo unitario, al quale, come ad
un sindacato di secondo grado, le
libere associazioni sottostanti,
rappresentate democraticamente
e proporzionalmente, hanno deferito la propria capacità di fare
una manifestazione di volontà giuridicamente rilevante, idonea a
determinare una norma con efficacia vincolante, o ad intervenire
per eliminare pacificamente i conflitti di lavoro, prevenendoli o dirimendoli. La formula che io dovrei proporre tende, quindi, ad un
semplice spostamento di soggetti.
Invece di continuare a far capo ai
sindacati, si tratta di chiarire: ‘Le
rappresentanze unitarie delle associazioni registrate, costituite in
ragione proporzionale dei loro
iscritti, possono stipulare contratti
collettivi di lavoro vincolanti nei
confronti di tutti gli appartenenti
alla categoria’”.
L’intervento di Dominedò è assai illuminante, in quanto chiarisce in modo cristallino quale deve
essere, all’interno dell’ordinamento giuridico borghese il ruolo dei
sindacati, ossia delle organizzazioni a salvaguardia degli interessi
dei lavoratori, la cui lotta di classe
viene però fortemente depotenziata in quanto, nella visione costituzionale del relatore, il loro compito, lungi dall’essere antagonista al
sistema, deve al contrario essere
di supporto ad esso tramite quella
che egli definisce “rappresentanza unitaria”, una sorta di commissione i cui membri sono eletti dai
vari sindacati, e alla quale spetta il
ruolo di contrattazione collettiva;
■ il 6 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l’Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo terzo della
Parte prima del progetto di Costituzione, nel quale rientra anche il
progettato art. 35. A tal proposito esordisce Renato Tega (Partito
Socialista Italiano di Unità Proletaria) con un intervento assai critico nei confronti dell’articolo in
questione: “Però, mentre sono non
solamente solidale, ma addirittura
riconoscente ai legislatori di questa nostra Costituzione per tutto il
complesso delle rivendicazioni sociali che hanno voluto consacrare in questo terzo Titolo, non posso accettare, nell’attuale dizione,
l’articolo, 35 che a mio modo di
vedere è contraddittorio e oscuro
per non dire ambiguo e può fornire alla futura Assemblea legislativa argomento e pretesto per
eventuali amplificazioni che rendono completamente nulla la sua
affermazione di principio o compromettono la stessa funzione morale e sociale del sindacato operaio. L’articolo 35 infatti comincia
con la solenne dichiarazione che
‘L’organizzazione sindacale è libera’, ma nel secondo capoverso corregge questa affermazione
aggiungendo che ‘non può essere
imposto al sindacato altro obbligo
che la registrazione presso uffici
locali e centrali, secondo le norme di legge’ e continua con altre
specificazioni di personalità giuridica dei sindacati e dei contratti
collettivi con efficacia obbligatoria, ecc., il che in sostanza, seppure in forma confusa e reticente,
viene a consentire un intervento
permanente dello Stato, suscettibile di pericolosi sviluppi per
la stessa libertà così recisamente
proclamata nel primo capoverso.
Ora, in questa delicatissima materia, bisogna essere chiari e precisi. Che cosa significa quell’obbligo di registrazione dei sindacati
presso gli uffici governativi? Possiamo noi, per la stessa serietà
dello Stato, credere effettivamente
che, nel campo sindacale, la sua
opera si riduca al semplice meccanismo della registrazione? A
quale guazzabuglio prelude quella personalità giuridica che può
essere reclamata contemporaneamente dai sindacati operai e dagli organismi padronali e quali
rapporti si verrebbero a stabilire
tra gli enti giuridici dei lavoratori
statali e lo Stato stesso, che da un
lato è l’espressione di tutti gli interessi della collettività e dall’altro
è un datore di lavoro? Perché si
ha tanta premura di dare un riconoscimento governativo alle istituzioni operaie che sono - e non
possono essere altro - che associazioni di fatto? Io temo che dietro queste caute, prudenti formule,
che in sostanza non dicono nulla,
ma fanno prevedere qualche cosa
di non perfettamente democratico,
si nasconda il proposito di lasciare alla futura Assemblea legislativa uno spiraglio aperto per introdurre tutto il pericoloso bagaglio
del corporativismo, di cui in taluni
ceti è troppo vivo il ricordo e cocente la nostalgia”.
Quello dell’oratore socialista è
un intervento volto a salvaguardare l’indipendenza dei sindacati che
egli definisce, con felice espressione “associazioni di fatto”, memore che storicamente i sindacati
dei lavoratori sono sorti a partire
dalla prima metà dell’Ottocento
come organizzazioni nate solo ed
esclusivamente per portare avanti la lotta di classe in contrapposizione non soltanto verso i datori
di lavoro, ma anche verso l’ordinamento giuridico che, di fatto, tutela in modo conservatore gli interessi di questi ultimi. Tega dice
insomma senza giri di parole che
teme che con il pretesto della registrazione e del riconoscimento
giuridico i sindacati possano diventare una sorta di cinghia di trasmissione utilizzata dallo Stato per
controllare il mondo del lavoro, e
magari per tenere buoni i lavora-
■ il 7 maggio 1947, nella seduta pomeridiana dell’Assemblea
Costituente dedicata, tra l’altro,
anche alla discussione sul progettato art. 35 interviene Giuseppe
Di Vittorio (Partito Comunista
Italiano): “Ma quando noi, tenendo conto della tradizione che
si è stabilita nel nostro Paese, abbiamo voluto affermare che il riconoscimento giuridico dei sindacati non deve implicare una
dipendenza dei sindacati stessi
dallo Stato, non abbiamo voluto esprimere nessuna diffidenza verso lo Stato democratico repubblicano; tanto è ciò vero, che
nello statuto della Confederazione generale italiana del lavoro è
affermato nettamente il principio
che i sindacati, oltre a difendere
gli interessi economici dei lavoratori, si preoccupano anche della
difesa delle libertà democratiche
e della Repubblica. Perciò, nessun sospetto dei lavoratori verso
lo Stato democratico e repubblicano; ma noi crediamo che la esigenza dell’autonomia e dell’indipendenza completa dei sindacati
rispetto ai poteri dello Stato non
sia incompatibile col rispetto che
i lavoratori hanno verso lo Stato
democratico, ed anzi con la loro
volontà di impiegare tutti i mezzi
a loro disposizione per difendere
lo Stato democratico contro qualsiasi assalto o tentativo di assalto reazionario e monarchico. In
questo stesso articolo è affermato il principio della obbligatorietà
dei contratti di lavoro. Io desidero
per un momento attirare l’attenzione dei colleghi sulla necessità di questa obbligatorietà. I sindacati sono abbastanza forti per
tutelare efficacemente gl’interessi dei lavoratori, per ottenere la
stipulazione di contratti collettivi, che, nei limiti delle possibilità reali, soddisfino le loro esigenze. Però ci si trova molto spesso di
fronte a dei datori di lavoro tanto egoisti e tanto antisociali, da
non volere riconoscere nemmeno i contratti di lavoro, che sono
stipulati liberamente fra le organizzazioni dei datori di lavoro e
le organizzazioni dei lavoratori.
In questo caso, l’organizzazione dei lavoratori non ha che un
mezzo per far valere il proprio diritto: l’agitazione, lo sciopero, la
lotta contro quel datore di lavoro
egoista che si rifiuta di accogliere i giusti diritti dei lavoratori. E,
naturalmente, siccome il numero di questi datori di lavoro non
è così esiguo, come si potrebbe
pensare, ciò ci porterebbe a dover scatenare una serie di agitazioni e di lotte, che noi vogliamo
evitare al nostro Paese. Attualmente, il datore di lavoro che non
voglia rispettare i contratti (o che
non voglia più rispettarli, se ad
un certo momento li trova poco
convenienti o se, sotto la pressione della disoccupazione, viene
ad ottenere l’offerta di lavoratori affamati, a condizioni inferiori
a quelle stabilite nei contratti di
lavoro), dichiara che il contratto
stipulato fra le due organizzazioni non lo impegna personalmente - o perché non è socio o perché,
se lo era, si è dimesso -; quindi
egli non avrebbe nessun obbligo
di osservarlo. Questa disposizione, sancita nell’articolo 35 della
Costituzione e che verrà, naturalmente, come tutti i principî sanciti dalla Costituzione, regolata da
una legge, eviterà queste agitazioni, dando efficacia di legge ai
contratti di lavoro, e quindi obbligando anche quei datori di lavoro egoisti, antisociali, ai quali ho
10 il bolscevico / art. 39 costituzione e istituzionalizzazione sindacato
N. 11 - 17 marzo 2016
Roma, Circo Massimo, 23 marzo 2002. La grandiosa e storica manifestazione di tre milioni di lavoratori, pensionati, disoccupati, giovani e donne in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Sulla destra lo
striscione e la delegazione nazionale del PMLI diretta dal compagno Giovanni Scuderi, Segretario generale del PMLI (foto Il Bolscevico)
accennato, a rispettare i contratti
collettivi come le leggi sociali”.
Giuseppe Di Vittorio fa una
netta distinzione tra Stato fascista e Stato repubblicano, ma non
è certo improntata ad una concezione rivoluzionaria la sua adesione, come uomo politico e anche
come sindacalista, alle istituzioni
del nuovo Stato repubblicano che,
contemplando e tutelando - senza neanche frapporre limiti degni
di nota - la proprietà privata dei
mezzi di produzione, si contraddistingue chiaramente come Stato
borghese. Engels affermava chiaramente che non è il tipo di Stato
che determina quale classe sociale
sta al potere, ma è l’esatto contrario: “Lo Stato, poiché è nato dal
bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo
al conflitto di queste classi, è,
per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo
suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un
nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe
oppressa” (Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Piccola biblioteca
marxista-leninista, Firenze, 1994,
p. 160).
Pur con le dovute differenze
che Di Vittorio ovviamente mette in risalto, da un punto di vista
sociale l’ordinamento politico fascista e quello della neonata Repubblica sono due differenti sovrastrutture dello stesso, identico
sistema capitalista dove la stessa
borghesia che con il fascismo governava in un modo nella Repubblica continuerà a governare in
una modalità diversa, ma continuerà a governare, a meno che una
Rivoluzione socialista non spazzi
via la borghesia come classe, perché il proletariato può vivere senza borghesia, ma la borghesia non
può sopravvivere senza il proletariato che la alimenti. E Di Vittorio,
lo spiega benissimo, sostiene che
i lavoratori devono rispettare pienamente lo Stato democratico, al
massimo viene chiesto loro di mobilitarsi contro la reazione. Quella di Di Vittorio è una visione che,
più che marxista-leninista, sembra
riformista e legalitaria che a tutto pensa tranne che a costruire le
basi per la Rivoluzione socialista.
Nella visione politica, e soprattutto sindacale, di Giuseppe Di Vittorio la lotta di classe delle masse lavoratrici - essenziale in ogni
momento storico e imprescindibile nella società dominata dalla
borghesia, come era anche quella italiana dell’epoca - va depotenziata e alla fine imbrigliata e
resa inoffensiva, così da non costituire alcun pericolo per la borghesia. Nella visione di Di Vittorio lo stesso sciopero - elemento
fisiologico nella lotta di classe sin
dal XVIII secolo - viene invocato quasi come una misura eccezio-
nale contro “quei datori di lavoro egoisti, antisociali”, come se
l’egoismo e l’antisocialità fossero caratteristiche proprie di qualche sporadico capitalista e non del
sistema capitalista in quanto tale.
Insomma, con una siffatta concezione liberale del mondo dei sedicenti comunisti come Di Vittorio
la borghesia italiana ha potuto dormire sonni tranquilli.
■ Il 10 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l’Assemblea
Costituente, tra l’altro, esamina
gli emendamenti al progettato art.
35 della Costituzione. Costantino
Mortati (Democrazia Cristiana)
presenta il seguente emendamento con il quale sostituire il terzo
comma dell’art. 35: “I sindacati,
per poter partecipare a funzioni
di carattere pubblico, devono essere ordinati in modo democratico
ed ottenere la registrazione presso Uffici locali o centrali a norma
di legge”. Il deputato democristiano così argomenta il suo emendamento: “Quest’obbligo di una organizzazione interna democratica,
ed il corrispondente diritto dello
re il buon funzionamento dell’ente
sindacale, dall’altra, crea le condizioni per la consapevole partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato democratico. Dal punto
di vista della prima giustificazione, mi pare ovvio che il sindacato il quale sia chiamato a partecipare alla formazione della volontà
costitutiva dei contratti collettivi,
i quali hanno efficacia normativa nei confronti di tutti coloro che
sono compresi nella categoria, anche se non fanno parte del sindacato, operi attraverso l’intervento
libero e consapevole di tutti i suoi
appartenenti. Tanto più che costoro assumono la responsabilità
dell’adempimento delle disposizioni di cui al contratto collettivo,
e non sarebbe giusto addossare
loro obblighi che derivassero da
una volontà, che essi non hanno
contribuito a formare. Anche dal
punto di vista del buon funzionamento dello Stato democratico,
mi pare che sia necessario di pretendere questa organizzazione democratica dei sindacati. Infatti lo
Stato moderno, che chiama alla
vita politica masse ingenti di cit-
di quelle che sono le forme organizzative dell’associazione sindacale. Non è infatti possibile che la
registrazione avvenga se non siano depositati gli statuti e gli elenchi dei soci. Quindi, dato l’obbligo della registrazione, l’autorità
che deve effettuarla ha tutti gli
elementi per poter giudicare del
carattere democratico della organizzazione, senza uopo di altri
accertamenti. La vera garanzia
all’autonomia della organizzazione sta nella scelta dell’organo che
deve procedere a questo accertamento, e mi pare che giustamente il relatore della terza Sottocommissione abbia sostenuto che agli
stessi appartenenti alla organizzazione sindacale, attraverso la creazione di organi, che da essi derivano, come il Consiglio nazionale
del lavoro, debba competere l’accertamento dell’esistenza di queste condizioni di organizzazione
democratica. Si potrebbe anche
pensare ad un appello contro il
giudizio in sede di registrazione
da parte del Consiglio Nazionale del Lavoro, di fronte alla Corte delle garanzie costituzionali
rito nella Costituzione? Ha una rilevanza costituzionale? A me pare
che non debba esser dubbia la risposta affermativa. Infatti in uno
Stato moderno, come il nostro, che
voglia porsi dei compiti interventisti nel campo dell’economia, i sindacati assumono una funzione essenziale sul funzionamento dello
Stato, essendo elementi costitutivi
della struttura dello Stato stesso.
Ne consegue la rilevanza costituzionale di questi organismi e la
necessità di una inserzione nella
Costituzione dei principi fondamentali che servono a delineare
l’organizzazione di questi enti”.
È degno di nota l’intervento di
Costantino Mortati in quanto è assai sottile sia sotto il profilo giuridico (Mortati è uno dei maggiori giuristi democratici borghese
italiani del Novecento) sia sotto
quello politico: sotto il primo profilo, non vi è dubbio che l’introduzione del criterio della democraticità della vita interna ai fini della
valutazione dei sindacati risponde
all’esigenza di uno Stato democratico di non consentire alle organizzazioni sindacali - che sono
Mestre (Venezia), 1 agosto 1968. Gli operai del petrolchimico di Porto Marghera e delle aziende vicine, in sciopero, bloccano la stazione
Stato di pretendere che l’associazione assuma una siffatta forma di
struttura, è stato affermato dal relatore della terza Sottocommissione, onorevole Di Vittorio, il quale
ha espressamente detto che debba
richiedersi dai sindacati un ordinamento interno democratico, con
l’elezione mediante voto segreto
e diretto dei loro dirigenti e con
l’obbligo di sottoporre all’approvazione dell’assemblea dei soci i
bilanci preventivi e consuntivi. La
necessità prospettata trova una
duplice giustificazione in quanto,
da una parte, tende ad assicura-
tadini, ha bisogno di educare tali
masse alla esatta valutazione degli interessi collettivi, e quindi non
può non giovarsi dell’opera che in
tal senso possono svolgere gli organismi minori, di carattere pubblicistico. Potrebbe sorgere un
dubbio, che attraverso la richiesta
di un’organizzazione democratica
si consenta un intervento da parte
degli organi dello Stato nella vita
interna dell’organizzazione sindacale con l’effetto di limitarne l’autonomia. Ma io osservo che quando si esige la registrazione, questa
non può avvenire automaticamente, presupponendo l’accertamento
che potrebbe mettere al riparo da
possibili abusi. La conseguenza
dell’obbligo della organizzazione democratica sarebbe di creare
un diritto a favore degli associati, di pretendere il rispetto dell’organizzazione democratica; quindi
la possibilità anche di una azione
giudiziaria di difesa dell’interesse legittimo, di fronte agli organi
chiamati a tutelare questo interesse, contro possibili eliminazioni o
limitazioni dei principi che debbono essere consacrati negli statuti. L’ultimo punto che potrebbe
essere oggetto di dubbio è questo:
deve questo principio essere inse-
chiamate a stipulare contratti collettivi con valore obbligatorio e
quindi necessitano di garanzie di
operato democratico - di strutturarsi internamente secondo criteri difformi da quelli che guidano
la stessa Costituzione democratica borghese. Ma con tale sottile
argomentazione giuridica Mortati vuole di fatto sottoporre i sindacati ad un continuo esame da
parte dell’autorità governativa e
statale, obbligando di fatto i sindacati a integrarsi completamente nella sovrastruttura giuridica
e nella struttura economica dello
Stato borghese, rendendoli di fat-
to, dal punto di vista della lotta di
classe, inoffensivi. Non si possono interpretare in altro senso parole come “i sindacati assumono
una funzione essenziale sul funzionamento dello Stato, essendo
elementi costitutivi della struttura dello Stato stesso”: quello che
a prima vista sembra, da parte del
giurista democristiano, un entusiastico riconoscimento del ruolo sociale di tali organizzazioni, ad un
attento esame si rivela il tentativo,
poi riuscito per mano anche di altri, di irretire e imbrigliare nel sistema i sindacati al fine di svuotarli (e di conseguenza di svuotare
i lavoratori ad essi iscritti) di ogni
coscienza di classe e rivoluzionaria, e qui sta la sottigliezza politica
utilizzata da Mortati.
E la sua lezione fu ben recepita
da un gruppo trasversale di deputati che concordarono a loro volta
con lo stesso Mortati quell’emendamento che andò a costituire
quello che è attualmente il terzo
comma dell’art. 39 della Costituzione, ovvero “È condizione per
la registrazione che essi sanciscano nei loro statuti un ordinamento interno democratico”. Tali
deputati erano (oltre allo stesso
Mortati) Benvenuti, Carboni,
Moro, Taviani (Democrazia Cristiana), Bitossi, Di Vittorio, Laconi (Partito Comunista Italiano), Arata, Canevari, Francesco
Mariani (Partito Socialista Italiano) e Veroni (Democrazia del
lavoro). Il testo definitivo approvato pertanto fu il seguente: “L’organizzazione sindacale è libera.
Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso gli uffici locali e centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione
che essi sanciscano nei loro statuti
un ordinamento a carattere democratico. I sindacati registrati hanno personalità giuridica e possono, rappresentati unitariamente,
in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per
tutti gli appartenenti alle categorie alle quali i contratti si riferiscono”;
■ Infine, il 20 dicembre 1947
l’Assemblea Costituente vota
quello che sarebbe diventato, nella stesura definitiva della Costituzione, l’art. 39: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati
non può essere imposto altro obbligo se non la registrazione presso uffici locali o centrali, secondo
le norme di legge. È condizione
per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un
ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati
hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente
in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro
con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie
alle quali il contratto si riferisce”
N. 11 - 17 marzo 2016
art. 39 costituzione e istituzionalizzazione sindacato / il bolscevico 11
La Carta dei diritti universali del lavoro e il riconoscimento
giuridico dei sindacati dei lavoratori
Dopo l’entrata in vigore della
Costituzione, nonostante il dibattito circa il riconoscimento giuridico dei sindacati, l’art. 39 della
Costituzione non trovò applicazione in quanto nessun sindacato fino all’inizio del 2016 ha mai
dichiarato di volersi sottoporre a
una qualsivoglia registrazione, ai
sensi del secondo comma dell’art.
39, al fine di acquistare la personalità giuridica, condizione che il
quinto comma di tale norma ritiene indispensabile al fine di consentire ad essi di partecipare alla
stipula di contratti di lavoro collettivi obbligatori e vincolanti anche
per i lavoratori non iscritti ad alcun sindacato. I motivi della mancata attuazione del secondo comma dell’art. 39 della Costituzione
sono sia di carattere politico sia di
carattere tecnico.
Sul piano politico, le motivazioni sono sintetizzabili nell’avversione, da parte dei sindacati,
nei confronti dell’idea dell’attuazione costituzionale, a cominciare dalla CISL che - in quanto
sindacato fortemente minoritario
come numero di iscritti rispetto alla CGIL nel meccanismo di
rappresentanza unitaria costituita
proporzionalmente al numero degli iscritti (come dettato dal quarto comma dell’art. 39) - avrebbe
inevitabilmente finito per avere un
ruolo subalterno in posizione di
minoranza). La CISL inoltre elaborò sin dalla sua nascita la teoria
del cosiddetto pancontrattualismo,
volta a privilegiare, nella tutela
dei lavoratori, l’attività sindacale
rispetto all’intervento dello Stato.
A tale posizione, soprattutto dopo
la vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni politiche del
1948, si accodò anche la CGIL,
nonostante che il suo segretario
generale Giuseppe Di Vittorio fu
all’Assemblea Costituente uno
dei maggiori sostenitori di tale sistema, e quindi anche il maggior
sindacato italiano fece a sua volta
proprio l’atteggiamento di avversione nei confronti di una legge
attuativa dell’art. 39, per il timore
che da essa scaturissero forme di
ingerenza e di controllo dello Stato sull’attività sindacale.
Per comprendere meglio tale atteggiamento del sindacato bisogna
ricordare che, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione
e per tutti gli anni Cinquanta del
Novecento, vi fu un intenso dibattito su come l’art. 39 della Costituzione avrebbe dovuto essere
attuato, in quanto il suo secondo
comma, nel prescrivere l’obbligo
di registrazione, demandava la sua
regolamentazione a una legge ordinaria. Il dibattito, tecnico, politico e sindacale, riguardò i possibili
contenuti della legge sindacale che
avrebbe attuato il secondo comma
dell’art. 39 e in discussione furono numerose questioni: quali uffici dovessero provvedere alla
registrazione dei sindacati, se la
registrazione dovesse essere condizionata ad una consistenza numerica minima, se la personalità
del sindacato dovesse essere di diritto privato o di diritto pubblico
(con controlli sicuramente molto
più penetranti da parte dello Stato
qualora si fosse optato per la natura pubblicistica), e infine vi era
la questione dei criteri con i quali comporre gli eventuali contrasti all’interno della rappresentanza
unitaria richiesta dal quarto comma dell’art. 39. Evidentemente,
la mancata attuazione della citata disposizione scaturì dal timore dei sindacati che una legge di
attuazione potesse essere fortemente invasiva delle loro libertà ed autonomia interna ed esterna, anche se teoricamente sarebbe
stata possibile anche un’attuazione rispettosa di esse, ma il dibattito si inseriva in un periodo (gli
anni Cinquanta) contraddistinti da
un’accesa lotta di classe che spinse i dirigenti sindacali dell’epoca
in una posizione conflittuale nella
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zione burocratica e autoritaria di
tali conflitti tocca in misura più o
meno rilevante questa libertà.
Fu la magistratura, tramite una
giurisprudenza costante sin dai
primi anni Cinquanta, che attribuì senza eccezioni il valore erga
omnes ai contratti collettivi, superando così la mancata attuazione
dell’art. 39 della Costituzione.
Eppure, nonostante l’art. 39
non sia mai stato attuato, non è
del tutto privo di effetti giuridici,
in quanto esso impedisce al legislatore ordinario di attribuire efficacia obbligatoria (ossia, con
vocabolo tecnico erga omnes) ai
contratti collettivi di lavoro tramite la creazione di un un meccanismo giuridico diverso da quello
descritto.
Recentemente, come detto la
questione dell’attuazione dell’art.
39 della Costituzione è tornata alla
ribalta per via del documento della CGIL intitolato Carta dei diritti universali del lavoro e il cui Titolo II recita “Disciplina attuativa
degli articoli 39 e 46 della Costituzione”. All’interno di tale Titolo
l’intera Parte I (artt. 27-38) è intitolata “Registrazione dei sindacati, rappresentanze unitarie sindacali e contrattazione collettiva ad
efficacia generale”.
L’articolo 28 esordisce subito
con la previsione di una Commissione per la registrazione dei sindacati dei lavoratori e dei datori di
lavoro, la quale è chiamata a decidere sulla rappresentatività dei
sindacati (e quindi sulla loro legittimità a contribuire alla contrattazione collettiva obbligatoria) che
deve, nel progetto, essere composta da cinque membri nominati con decreto del Presidente della
Repubblica, di cui quattro dovranno essere professori universitari
di chiara fama, i quali a loro volta nomineranno il quinto componente.
Sintetizzando si potrebbe dire
che le vite di milioni di lavoratri-
ci e di lavoratori sono, nell’intenzione di sindacati sempre meno
rappresentativi e sempre più intrallazzati di fatto con la politica
borghese e le istituzioni dello Stato borghese, nelle mani di un pugno di burocrati riformisti che, a
fronte di perdita di autorevolezza
dei sindacati (a causa di una pluridecennale compromissione con
il capitalismo e lo Stato borghese
che ha fruttato poltrone in parlamento e pensioni d’oro per i dirigenti sindacali) gli daranno però
autorità in forza di una legge, ossia di un atto burocratico, come
accade per il misero poliziotto di
Engels, burocrate in divisa che
trae la sua autorità soltanto da un
atto legislativo. “In possesso della forza pubblica - scrive Engels - e del diritto di riscuotere
imposte, i funzionari appaiono
ora come organi della società al
di sopra della società. La libera,
volontaria stima che veniva tributata agli organi della costituzione gentilizia non basta loro,
anche se potessero riscuoterla; depositari di un potere che li
estrania dalla società, essi devono farsi rispettare con leggi eccezionali in forza delle quali godono di uno speciale carattere
sacro e inviolabile. Il più misero
poliziotto dello Stato dell’epoca
civile ha più ‘autorità’ di tutti
gli organi della società gentilizia
presi insieme, ma il principe più
potente, e il maggiore statista o
generale dell’età civile possono
invidiare all’ultimo capo gentilizio la stima spontanea e incontestata che gli viene tributata.
L’uno sta proprio in mezzo alla
società, l’altro è costretto a voler rappresentare qualcosa al di
fuori e al di sopra di essa” (Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato,
Piccola biblioteca marxista-leninista 1, Firenze, 1994, p. 160).
I sindacati italiani alla loro origine erano espressione in buona
misura degli interessi dei lavoratori e strumenti di lotta contro il capitale. Al contrario i sindacati del
2016 assomigliano a quell’oscuro
burocrate in divisa di cui parla Engels che ha autorità (in quanto ha
un potere pubblico di tipo coercitivo) ma non ha alcuna autorevolezza. Incapaci di comprendere le
ragioni profonde della crisi che sta
investendo in modo insanabile il
sistema capitalista, stanno tentando, istituzionalizzandosi e quindi
ricevendo dalla legge un’investitura ufficiale, di recuperare almeno l’autorità, in quanto l’autorevolezza l’hanno già perduta da un
bel pezzo. Così facendo la CGIL
tradisce lo scopo per cui i sindacati sono nati nell’Ottocento, allontanandosi definitivamente dalla lotta di classe per avvicinarsi al
modello corporativo simile a quello fascista, a braccetto ormai con
banchieri e industriali.
La istituzionalizzazione e burocratizzazione dei sindacati, a
cui si aggiunge, nel progetto della
Carta dei diritti universali del lavoro, la vera e propria truffa della
cogestione, in attuazione dell’art.
46 della Costituzione, un vero e
proprio fumo negli occhi per i lavoratori che hanno sì la capacità
di gestire le imprese, ma da soli e
dopo avere abbattuto il sistema capitalista tramite la Rivoluzione socialista.
La Cgil, con questo suo ultimo atto, ha concluso il suo ciclo
riformista e non è più recuperabile alla lotta di classe. Assieme alla Cisl e alla Uil alle quali si è omologata va posta nel
museo della storia. Il loro posto, come propone il PMLI, va
occupato con urgenza dal Sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei
pensionati fondato sulla democrazia diretta e sul potere sindacale e contrattuale delle Assemblee generali dei lavoratori
e dei pensionati.
SOTTOSCRIVI PER
LA CAMPAGNA PER IL
AL REFERENDUM CONTRO
LE TRIVELLAZIONI
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quale non vi era posto per un ruolo
istituzionale del sindacato nell’ordinamento italiano.
Vi erano poi problemi di carattere squisitamente giuridico che
rendevano il problema del riconoscimento di non facile soluzione,
come in primo luogo la verifica
del numero degli iscritti nel caso
di conflitto tra le organizzazioni
sindacali in merito alla reciproca
consistenza associativa, in quanto bisogna ricordare che, secondo
l’art. 39, le rappresentanze unitarie sono costituite in proporzione
al numero degli iscritti e, qualora
fosse sorto un contrasto tra i sindacati circa la loro reciproca consistenza associativa, sarebbe stato
necessario affidare ad una pubblica autorità, come arbitro imparziale, il difficile compito di verificare il numero degli iscritti. Altra
questione giuridica era quella della definizione della categoria di riferimento per la stipulazione dei
contratti collettivi, in quanto nel
periodo corporativo vi era una
predeterminazione per legge delle categorie, mentre il nuovo sistema di libertà sindacale implicava
anche la libertà, per i sindacati, di
determinare l’ambito di riferimento della propria attività, e la questione è gravida di conseguenze,
in quanto l’art. 39 contempla contratti collettivi aventi efficacia obbligatoria nei confronti di tutti gli
appartenenti alla categoria alla
quale il contratto si riferisce. Nel
caso di conflitto tra i sindacati circa i confini della categoria, bisognerebbe allora attribuire ad una
autorità pubblica il compito di definirli o, comunque, individuare
un meccanismo attraverso il quale
dirimere tale conflitto, ma questo è
uno dei punti più delicati del diritto sindacale, perché il principio di
libertà sindacale implica la libertà del sindacato di definire l’ambito di riferimento della sua attività
(ossia a identificare la categoria)
e qualsiasi meccanismo di risolu-
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del Po
Se non puoi partecipare personalmente alla campagna del PMLI per il Sì al referendum contro
le trivellazioni, ti invitiamo calorosamente a sottoscrivere per il Partito attraverso il conto corrente
postale n. 85842383 intestato a: PMLI - Via A. Del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE
Nella causale scrivere: donazione per il Sì al referendum.
Grazie di cuore.
12 il bolscevico / PMLI
Organizzata dal PMLI
a Riccione (Rimini)
Commemorazione di Marx
nel 133° Anniversario
della scomparsa
Domenica 13 marzo - ore 11,00
Di fronte al busto di Marx presso i giardini
della Biblioteca Comunale di Riccione
Via Lazio 10 - Centro della Pesa
N. 11 - 17 marzo 2016
INDICAZIONI PER LA CAMPAGNA DEL PMLI
PER IL SI AL REFERENDUM
CONTRO LE TRIVELLAZIONI
Qui di seguito pubblichiamo
alcune indicazioni per la campagna del PMLI per il Sì al referendum contro le trivellazioni che si
terrà domenica 17 aprile.
Rimaniamo a disposizione di
chi necessita di chiarimenti e approfondimenti. Basta telefonare
o faxare allo 055.5123164, inviare una mail a: commissioni@
pmli.it oppure scrivere a PMLI
via Antonio del Pollaiolo, 172a
50142 Firenze.
INIZIO DELLA CAMPAGNA
La campagna referendaria
inizia ufficialmente venerdì 18
marzo. Le votazioni si terranno
nel solo giorno di domenica 17
aprile.
I MANIFESTI
Riccione, 14 marzo 2014. Commemorazione di Marx, nel 131°
Anniversario della scomparsa del grande Maestro, organizzata
dalla Cellula “Stalin” di Rimini con la partecipazione di militanti
e simpatizzanti delle Organizzazioni di Ravenna e Gabicce Mare
(Pesaro Urbino). Al centro, il compagno Tino Bruni, Segretario
della Cellula “Stalin” mentre legge il discorso commemorativo
(foto Il Bolscevico)
Secondo la legge che disciplina la propaganda elettorale durante la campagna referendaria
dal 30° giorno prima della data
del referendum, cioè dal venerdì
18 marzo, non si possono affiggere manifesti referendari fuori
dagli spazi consentiti dal Comune. La legge di stabilità 2014,
comma 400 lettera h, ha abolito
i tabelloni elettorali per la propaganda indiretta di chi non partecipa direttamente al referendum,
quella dei cosiddetti “fiancheggiatori” di cui usufruiva anche il
PMLI. Pertanto DURANTE LA
CAMPAGNA REFERENDARIA
NON POSSONO ESSERE AFFISSI I MANIFESTI DEL PMLI,
neppure tramite le pubbliche affissioni.
I manifesti, il cui file potrà essere scaricato dal sito del Partito,
possono invece essere stampati
e esposti in occasione di banchini, diffusioni, manifestazioni e altre iniziative di propaganda.
quantità occorrente a livello locale i volantini del Partito, il cui
file sarà reso disponibile sul suo
sito.
I BANCHINI
La richiesta del permesso per
i banchini, con la specifica della
data e luogo, va fatta al sindaco presso l’ufficio elettorale preposto, indicando che si tratta di
banchini per la propaganda referendaria. In questo caso non c’è
nulla da pagare per l’occupazione di suolo pubblico e nemmeno per le marche da bollo relative alla domanda.
COMITATI NO TRIV
Si può aderire e partecipare
alle iniziative di tali Comitati
qualora vi siano nella propria
città, fermo restando lo
svolgimento
anche
della
propaganda di Partito, banchini
inclusi. In mancanza, qualora
ve ne siano le condizioni, si
può anche promuoverne la
creazione, in collaborazione
con altre forze politiche e
sociali, prendendo contatto col
Coordinamento nazionale No
Triv, [email protected], per gli
accordi del caso.
I VOLANTINI
I volantini possono essere diffusi, come in precedenza, senza
la necessità di alcun permesso
fino al 17 aprile incluso, giorno
delle votazioni, ma in tale data
solo a una distanza di 200 metri
dall’ingresso delle sezioni di voto
referendario. Per evitare provocazioni è meglio interrompere le
diffusioni il giorno precedente. Le
istanze del PMLI, e chi partecipa
alla sua campagna referendaria,
provvederanno a stampare nella
Stiamo
in cordata
stretti l’uno all’altro
sostenendoci reciprocamente
tenendo ben alta la bandiera
dell’antimperialismo, del Sì
al referendum contro le trivellazioni
e del socialismo
Con i Maestri e il PMLI
vinceremo!
I principi enunciati da
Scuderi ci aiutano a
comprendere la realtà
internazionale
L’opuscolo n. 10 di Giovanni Scuderi “Sviluppiamo
il lavoro di radicamento del
PMLI” è fondamentale per i
principi enunciati dal nostro
Segretario generale: “Dobbiamo fare delle analisi fondate sui fatti e sulla realtà concreta, non sui nostri desideri.
Sempre veritiere, non forzate,
accomodate e abbellite quando la realtà non corrisponde a
quello che avremmo sperato.
Qualunque sia la realtà - che
ci piaccia o no, che sia favorevole o sfavorevole al Partito
-, dobbiamo saperla interpretare correttamente sulla base
del materialismo storico e del
materialismo dialettico e della
linea del Partito”.
I paesi imperialisti diffondono notizie false sulla situazione odierna, e con il loro
comportamento tendono a
aggravare la situazione internazionale e a intensificare la
corsa agli armamenti. Una linea applicata, dietro una fitta cortina ideologica per nascondere alle larghe masse
la realtà della situazione internazionale.
Proprio per questo oggi a
Washington, Mosca e nelle
capitali della Ue si fanno sentire appelli per un’“offensiva
decisiva” contro lo Stato islamico (IS), mentre i leader occidentali e Putin fanno a gara
ad attribuire all’IS orrori su orrori.
Ora essi tendono – senza nasconderlo – a ideologizzare la propria diplomazia e
politica, facendo apertamente dipendere la soluzione dei
problemi della guerra e della pace da obiettivi di classe:
la conservazione del capitalismo, il consolidamento delle
sue posizioni internazionali.
Come allora la lotta ideologica si svolge nell’ambito delle
relazioni internazionali? Per
l’occidente e gli imperialisti la
lotta ideologica non si riduce
ad una contrapposizione di
idee. Gli imperialisti ricorrono
ad un intero sistema di mezzi
volti a minare chi aspira al socialismo e chi è contro i valori
“occidentali” (capitalistici). Gli
imperialisti e i loro accoliti lanciano sistematicamente campagne ostili nei confronti degli
anticapitalisti. Essi denigrano
e deformano tutto quanto avviene nei paesi non capitalisti
e antimperialisti. Per loro la
cosa principale è distogliere
i popoli dall’antimperialismo,
dall’anticapitalismo e dal socialismo.
Gli imperialisti continuano
a lottare contro l’IS nella sfera ideologica, perfezionando
forze e metodi di questa lotta e rafforzando la base materiale del “meccanismo informativo propagandistico”
statale.
Solo smettendo di bombardare l’IS si potrà arrivare ad una vera pace e a una
sconfitta del vero terrorismo,
si eviterà di mettere a repentaglio la vita di interi popoli
compreso il nostro.
Solo Il Bolscevico fa analisi fondate sui fatti e sulla realtà concreta, perché fa analisi
scientifiche di classe.
Coi Maestri e il PMLI vinceremo!
Da un rapporto interno
dell’Organizzazione di Civitavecchia (Roma) del PMLI
RICHIEDETE
Le richieste
vanno indirizzate a:
[email protected]
PMLI
via A. del Pollaiolo, 172/a
50142 Firenze
Tel. e fax 055 5123164
cronache locali / il bolscevico 13
N. 11 - 17 marzo 2016
Il sindaco PD
di Bologna taglia
le assemblee dei
dipendenti comunali
Astenersi alle prossime elezioni
amministrative
‡‡Dal nostro corrispondente
dell’Emilia-Romagna
L’attuale sindaco PD di Bologna Virginio Merola, ricandidatosi alle prossime elezioni
comunali di giugno, continua
ad usare il pugno di ferro per
imporre l’ordine borghese in
città.
Questa volta a farne le spese sono stati gli oltre 4.000 dipendenti del comune di Bologna, ai quali Merola ha tagliato
le assemblee retribuite disdicendo l’accordo integrativo
in vigore dal 1999 in base al
quale era previsto che a convocare un’assemblea potesse
essere anche un solo sindacato e senza la maggioranza
della Rsu, che ora invece sarà
l’unica, a maggioranza, a poterla richiedere, oppure una
delle sigle che firma il contratto nazionale degli enti pubblici, e cioè, ovviamente, Cgil,
Cisl e Uil.
Evidentemente si tratta
dell’ennesima norma contro
i “sindacati di base” che continuano a rappresentare una
spina nel fianco della giunta bolognese e che infatti denunciano che “con questa decisione
l’amministrazione
intende imporre solo la propria
visione del mondo e il silenzio
alle lavoratrici e ai lavoratori che aderiscono ai sindacati
di base”. La giunta comunale
“ha mostrato la sua avversione verso i sindacati di base e
crediamo che in questa deriva autoritaria e antidemocratica del comune di Bologna ci
siano tutte le motivazioni per
ravvisare l’ennesimo comportamento antisindacale”.
Un altro motivo per astenersi alle elezioni comunali di
giugno!
Documenti del Congresso della
Sezione ANPI “Oltrarno” di Firenze
Sul numero 10 de Il Bolscevico abbiamo pubblicato
un’ampia cronaca dei lavori
del Congresso della Sezione ANPI “Oltrarno” di Firenze svoltosi il 28 febbraio.
Di seguiti pubblichiamo
un Ordine del giorno (Odg)
e alcuni degli emendamenti al documento per il prossimo Congresso nazionale approvati dal Congresso
della “Oltrarno”, per mancanza di spazio, non trovarono spazio sullo scorso numero del nostro giornale.
Odg: Vietare la commemorazione dei caduti di Salò
l’11 agosto
Il congresso della Sezione “Oltrarno” dell’ANPI, riunito
a Firenze il 28 febbraio 2016
chiede che sia vietata la commemorazione dei caduti della
Repubblica Sociale Italiana,
compresi i cecchini che spararono sulla popolazione fiorentina inerme, che viene tenuta
provocatoriamente l’11 agosto
al cimitero di Trespiano, come
palese atto di apologia di fascismo. È pertanto necessario
che gli organi di pubblica sicu-
RICHIEDETE
Le richieste
vanno indirizzate a:
[email protected]
PMLI
via A. del Pollaiolo, 172/a
50142 Firenze
Tel. e fax 055 5123164
rezza si attivino per identificare e perseguire i partecipanti.
Questa richiesta è da inviare al Comune di Firenze, al
Prefetto e al Congresso provinciale dell’ANPI affinché la
faccia propria.
Emendamenti al documento per il 16° Congresso nazionale
Il congresso della Sezione
“Oltrarno” dell’ANPI, riunito a
Firenze il 28 febbraio 2016, In
coerenza con l’affermazione
del documento congressuale
che, nel quadro mondiale, rileva la solidarietà “come dato
veramente positivo, in un quadro impressionante e complesso”.
In coerenza con i principi
democratici che vietano agli
organi di polizia e alla magistratura di perseguire o discriminare una persona perché
si “presume” che possa commettere reato.
CHIEDE CHE SIA CANCELLATO IL CAPOVERSO 3°
NELLA PAG. 10 DEL TESTO
che recita: “Questo non significa, ovviamente, ‘accoglienza per tutti’; bisogna
anche selezionare, oltretutto disciplinando meglio e in
modo più adeguato la normativa sul diritto d’asilo. In questo modo una parte notevole
di quella folla di fuggiaschi può
trasformarsi perfino in una risorsa, respingendo invece chi
cerca avventure e operazioni
non lecite”.
Si può sostituire con:
“In coerenza con l’articolo
10 della Costituzione ‘Lo straniero, al quale sia impedito nel
suo paese l’effettivo esercizio
delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica’”.
CHIEDE CHE DOPO IL CAPOVERSO 3° NELLA PAG. 10
DEL TESTO IN OPUSCOLO,
EMENDATO SECONDO IL
NOSTRO 1° EMENDAMENTO, SIA AGGIUNTO:
In questo quadro chiediamo l’abolizione della legge
Bossi-Fini e del reato di clan-
destinità, la realizzazione di
corridoi umanitari per l’accoglienza e l’identificazione dei
profughi.
CHIEDE CHE DOPO IL CAPOVERSO 2° NELLA PAG. 8
DEL TESTO IN OPUSCOLO,
SIA AGGIUNTO:
L’ANPI si adoprerà con
ogni mezzo affinché il governo ritiri le truppe all’estero, in
particolare dall’Afghanistan,
e non si impegni in nessuna
azione di guerra, in particolare nel Medio Oriente e Nord
d’Africa. Vogliamo ricordare
che 25 anni di interventi militari, dalla prima guerra del
Golfo, hanno destabilizzato
gli Stati coinvolti e innestato
una spirale di barbarie ancora non finita.
CHIEDE CHE NEL CAPITOLETTO “LEGALITA’”, PA-
GINA 25 DEL TESTO IN OPUSCOLO, LA PRIMA FRASE
VENGA CAMBIATA COME
SEGUE:
Cancellare da “L’ANPI non
può che essere per il rispetto
della legge… impone a tutti il
rispetto della legge. Questo significa, prima di tutto” e sostituirlo con “E’ nostro”.
Questo perché consideriamo prioritaria la coscienza individuale e sociale rispetto alle
leggi, un principio sancito proprio dopo l’esperienza della
Seconda guerra mondiale e i
crimini di guerra nazisti e fascisti. Aver seguito gli ordini,
applicato (ad esempio) le leggi razziali e via di seguito non
sono state ritenute motivazioni
accettabili allo storico processo di Norimberga che ha posto le basi per un nuovo diritto.
CALENDARIO
DELLE MANIFESTAZIONI
E DEGLI SCIOPERI
MARZO
11
17
18
18
Cub, Si-Cobas, Usi-Ait - Sciopero generale di tutte le categorie
pubbiche e private per i diritti vitali e contro le guerre
18
Fitl-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Ugl-Ta - Trasporto Aereo,
sciopero personale British Airways Italia
Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom – Sciopero generale dei
lavoratori call canter e ditte appalto
CIPe - Confederazione Italiana Pediatri - Servizio Sanitario
Nazionale - Pediatri di Famiglia
Feder-A.T.A. - Ministero Istruzione Università Ricerca –
sciopero personale A.T.A.
MAGGIO
4-5-12
Cobas scuola – Sciopero lavoratori
scuola contro le prove Invalsi
UTILIZZATE
Invito agli operai, lavoratori, compresi i precari, disoccupati, pensionati, donne, giovani, studenti
il bolscevico mette a disposizione di tutti i suoi lettori non membri del
PMLI, senza alcuna discriminazione ideologica, religiosa, politica e organizzativa, fatta salva la pregiudiziale antifascista, alcune rubriche affinché possiate
esprimere liberamente il vostro pensiero e dare il vostro contributo personale
alla lotta contro la classe dominante borghese e il suo governo, le giunte locali e
regionali, le ingiustizie sociali, la disoccupazione, il neofascismo e i mali vecchi
e nuovi del capitalismo, per l’Italia unita, rossa e socialista.
Alla rubrica “LETTERE” vanno indirizzate le opinioni di sostegno al Bolscevico, al PMLI e ad ogni sua istanza anche di base, nonché le proposte e i
consigli tendenti a migliorare il nostro lavoro politico e giornalistico.
rare le 3.600 battute spazi inclusi.
Alla rubrica “CONTRIBUTI” vanno indirizzate le opinioni riguardanti l’attualità politica, sindacale, sociale e culturale in Italia e nel mondo.
Tali opinioni non necessariamente debbono coincidere in tutto con quelle
del PMLI, ma non devono nemmeno essere contrapposte alla linea del nostro Partito. In tal caso non si tratterebbe di un contributo alla discussione e
all’approfondimento dei temi sollevati dal PMLI e da “Il Bolscevico”, ma di un
intervento contraddittorio adatto tutt’al più alla rubrica “Dialogo con i lettori”.
sindacali, sociali e culturali, o che vogliono informare le lettrici e i lettori de “Il
Bolscevico” sulla situazione, sugli avvenimenti e sulle lotte della loro azienda
Alla rubrica “CORRISPONDENZA DELLE MASSE” vanno indirizzate le
denunce e le cronache di avvenimenti sociali, politici, sindacali che interessano la propria fabbrica, scuola e università e ambiente di vita, quartiere di
abitazione, città o regione.
Sbatti i signori del palazzo in 1ª pagina
Libere denunce dei lettori
Alla rubrica “SBATTI I SIGNORI DEL PALAZZO IN 1ª PAGINA” vanno
indirizzate le denunce delle ingiustizie, angherie, soprusi, malefatte e mascalzonate che commettono ministri, governatori, sindaci, assessori, funzionari
pubblici, insomma chiunque detenga del potere nelle istituzioni borghesi.
Alla rubrica “DIALOGO CON I LETTORI” vanno indirizzate le questioni
ideologiche e politiche che si intendono dibattere con “Il Bolscevico”, anche
Questa rubrica è a disposizione delle operaie e degli operai non membri
se sono in contraddizione con la linea del PMLI. Le lettere non devono supe- del PMLI che vogliono esprimere la loro opinione sugli avvenimenti politici,
Utilizzate a fondo queste rubriche per le vostre denunce, vi raccomandiamo solo di essere brevi, concisi, chiari... e coraggiosi. Usate la tastiera o la penna come spade per trafiggere i nemici del popolo, come un maglio
per abbattere il governo del Berlusconi democristiano Renzi, come scope per far pulizia delle idee errate e non proletarie che i revisionisti e i riformisti comunque mascherati inculcano al proletariato e alle masse lavoratrici,
giovanili, femminili e popolari, come un energetico per incoraggiare le compagne, i compagni e le masse ad andare fino in fondo nella lotta di classe contro il capitalismo, per il socialismo.
GLI ARTICOLI VANNO INVIATI A:
[email protected]
IL BOLSCEVICO - Via del Pollaiolo 172a - 50142 FIRENZE - Fax 055 5123164
La Redazione centrale de “Il Bolscevico”
14 il bolscevico / dialogo, contributi, lettere
N. 11 - 17 marzo 2016
Quali strategie indica il PMLI per sviluppare il Meridione?
Sono figlio di un calabrese ed
ho la casa di villeggiatura in Calabria, pertanto, conosco molto
bene tale realtà.
Sono persuaso del fatto che
il Meridione possieda innumerevoli potenzialità e che tanto potrebbe dare all’Italia.
Sono altresì pienamente convinto che in parte, la colpa dello
stato di depressione in cui versa
tale territorio sotto il profilo economico (fra l’altro l’apparenza
delle statistiche è di una depressione maggiore rispetto alla realtà) risieda anche nella mentalità del meridionale, più avvezzo
ad attendere gli aiuti statali che
all’iniziativa imprenditoriale e al
tentativo di costruire qualcosa
da sé.
Inoltre, a mio modesto avviso, un secondo errore nella direttrice di sviluppo del Sud,
risiede nella persuasione generatasi da più parti, che il Sud,
per svilupparsi, debba inseguire
il Nord, verso una progressiva
industrializzazione, senza tener
presente le innumerevoli potenzialità di sviluppo offerte dal territorio in ambito di turismo, agricoltura e via discorrendo.
A mio avviso, invece, questa dovrebbe costituire la direttrice di sviluppo naturale del nostro Meridione, uno sviluppo che
produrrebbe un aumento oggettivo del prodotto interno, aumentando la gamma dell’offerta e
così potenziando l’economia del
Paese, anziché frammentarie in
un territorio più ampio un’offerta
formativa già esistente e consolidata nel Nord del Paese.
Marcello Ranieri – Milano
Ti ringraziamo per le tue riflessioni a proposito del nostro
amato Meridione.
Senz’altro hai ragione nel sostenere che il Sud ha innumerevoli potenzialità di sviluppo,
anche nell’ambito del turismo e
dell’agricoltura.
Non siamo d’accordo quando
consideri una concausa dell’atavico sottosviluppo del Mezzogiorno la mentalità del meridio-
nale che consideri “più avvezzo
ad attendere gli aiuti statali che
all’iniziativa imprenditoriale e al
tentativo di costruire qualcosa
da sé”.
Per noi le masse non hanno
alcuna colpa della loro miseria, i
profitti della borghesia sono un
prodotto della classe operaia e
dei lavoratori ottenuto attraverso il meccanismo del plusvalore,
scoperto da Marx, ed è antistorico e antiscientifico sostenere che un popolo che produce
non abbia la forza di riscattarsi a
causa della sua ‘mentalità’.
Non è mai la mentalità di un
popolo che può determinarne
la miseria, ma anche la mentalità semmai non è altro che un
prodotto di ciò che quel popolo
produce, come lo fa e come lo
scambia.
In altri termini le idee sono
un riflesso della realtà materiale, non viceversa, ed è l’essere sociale che fa la coscienza:
“il lavoro crea l’uomo” (Engels). Più batte il passo la lotta
di classe, più appaiono arretrate
le idee e la mentalità del proletariato e dei lavoratori. E viceversa. Considera quanto l’“autunno
caldo” del ’69, e più in generale la Grande Rivolta del Sessantotto, aprì le menti e sviluppò la
coscienza di classe anche tra i
lavoratori meridionali, che pure
avevano maturato storicamente minori esperienze rispetto al
proletariato del triangolo industriale.
Sostenere l’opposto significa cadere nella concezione borghese del mondo e nell’idealismo storico.
Le masse meridionali sono
purtroppo sofferenti e sfiduciate
verso il loro futuro, non potrebbe
essere diversamente, e peraltro è così ormai in tutto il Paese,
vista la loro condizione e i tanti problemi che le affliggono. Sta
a noi marxisti-leninisti, generati
dalla lotta di classe per abbattere l’ordine sociale esistente, sottrarle all’influenza borghese e
guidarle nella lotta per il miglioramento delle condizioni di vita,
lavoro, salute e studio, nella lotta contro il capitalismo e per il
socialismo.
Lotta che non è altro che la
conseguenza della contraddizione principale della società
capitalista: quella tra il proletariato e la borghesia, determinata dal conflitto tra il capitale ed il
lavoro e quindi il riflesso sul piano politico e ideale dei rapporti
di forza e di produzione che costituiscono la struttura economica della società capitalista.
Non potremmo mai farcela in
questa titanica impresa se non
avessimo fiducia nel proletariato
e nelle masse e se non fossimo
al loro servizio.
Per noi, come disse Mao: “il
popolo e solo il popolo è la
forza motrice che crea la storia del mondo”.
La Questione meridionale,
che per noi è la prima questione
nazionale, è il prodotto dell’accordo, avvenuto con la nascita
dello Stato unitario sotto l’egida di Casa Savoia, tra la grande
borghesia del Nord e i ceti parassitari del Sud a cominciare
dai latifondisti, che ha impedito
lo sviluppo dei rapporti capitalistici nel meridione, a tutto vantaggio delle industrie del Nord,.
che lo hanno trasformato in una
enorme riserva di manodopera a basso costo e in un mercato pronto ad assorbire i prodotti lavorati nel settentrione (e
valanghe di rifiuti della peggior
specie), impedendo il pieno sviluppo capitalistico del Sud anche per paura dell’esplosione
della lotta di classe del proletariato industriale, mantenuta in
tutti i paesi capitalistici più avanzati nel secolo XIX, lasciando fra
l’altro mano libera alle organizzazioni criminali mafiose, oggi
vere holding internazionali del
crimine.
Le condizioni del Sud si sono
aggravate con l’avvento dell’imperialismo e dei monopoli (dovuto alla concentrazione della
produzione fondata sulla legge
del massimo profitto e alla fusione tra il capitale industriale e
quello bancario), dallo smantellamento della prima Repubblica
democratico-borghese, il conseguente avvento della seconda
repubblica neofascista e dall’ingresso dell’Italia nell’Ue imperialista.
La Questione meridionale
potrà essere risolta solo nel socialismo, lottando nell’immediato per migliorare le condizioni
delle masse, lottando per il lavoro, lo sviluppo e l’industrializzazione, per colmare per quanto
possibile nel capitalismo il divario con il Centro e il Nord del nostro Paese, respingendo ogni
forma di separatismo e di federalismo, che riporterebbero indietro il nostro popolo e farebbero solo il gioco delle borghesie
regionali.
Lottare per lo sviluppo del
Sud per noi non significa “copiare il Nord”, e neanche il Centro,
ma lottare perché il potere d’acquisto delle masse, i diritti e i
servizi siano almeno al livello di
quelli delle altre zone della Penisola, tenendo presenti le specificità ambientali e geografiche
del Sud, senza vendere illusioni riformiste ed economicistiche
circa un capitalismo “dal volto
umano” che non esiste e non
può esistere, specie nell’epoca
dell’imperialismo.
Per questo siamo impegnati
da sempre in un’ampia politica
di fronte unito, di lotta e di mobilitazione affinché anche le masse meridionali possano strappare sempre maggiori conquiste
e massicci investimenti pubblici
alle amministrazioni statali, sui
quali abbiano diritto di parola e
di gestione, per il lavoro, i servizi pubblici, il risanamento ambientale e la lotta alle mafie, per
la realizzazione di ogni bisogno
popolare e progressista, (la nostra piattaforma rivendicativa è
contenuta nel Programma d’Azione del PMLI che puoi trovare
facilmente nel nostro sito).
Nell’immediato non siamo
contrari al sostegno anche alla
piccola iniziativa privata, purché garantisca lavoro stabile, a
tempo pieno, a salario intero e
sindacalmente tutelato, tenendo presente che una piccola impresa nel mercato capitalistico
non può nulla contro lo strapotere dei monopoli e ha comunque
una serie enorme di problemi
da affrontare per sopravvivere,
specie nel Sud: l’accesso al credito, la domanda del mercato,
il potere d’acquisto delle masse, la burocrazia, la criminalità e
così via, tutte cose che frenano
o impediscono del tutto il “tentativo di costruire qualcosa da sé”.
Tentativo che, in ogni caso,
deriva dal fatto che lo Stato al
servizio della borghesia non garantisce la piena e sana occupazione, e che ha per presupposto
lo sfruttamento di manodopera
salariata e il mercato. Ecco perché nel socialismo, ovviamente,
dovrà sparire anche la piccola
produzione privata.
La nostra lotta e la linea di
massa del PMLI si basano sulla democrazia diretta contrapposta alle istituzioni e ai meccanismi decisionali borghesi fondati
su quella indiretta.
Strategico infatti per noi è l’obiettivo della realizzazione delle
istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo
basate sulla democrazia diretta e a carattere permanente: le
Assemblee popolari e i Comitati
popolari, che il PMLI rilancia con
forza anche in questa tornata
elettorale amministrativa.
Prioritario oggi è spazzare via
il governo del nuovo duce Ren-
zi, nemico giurato delle masse
meridionali e del nostro popolo,
servo della borghesia italiana e
dell’Ue imperialista, lottare per
cancellare le controriforme economiche, istituzionali, sanitarie
e scolastiche degli ultimi anni,
tenendo ben alta la bandiera del
socialismo e dell’antimperialismo, delegittimando le istituzioni nazionali e locali del regime
neofascista attraverso l’astensionismo marxista-leninista.
Solo seguendo questa strada la classe operaia, anche
meridionale, può acquisire coscienza di essere una classe per sé e marciare sulla via
dell’Ottobre per la conquista del
potere politico sotto la direzione del suo Partito, che è la madre di tutte le questioni e quindi
la chiave di volta per risolvere,
per sempre, anche la Questione
meridionale.
D’altra parte alla classe operaia il potere politico spetta di
diritto, producendo essa stessa l’intera ricchezza del Paese.
Inoltre, solo sotto la direzione
di questa classe e facendo affidamento su di essa si può liquidare il capitalismo e realizzare il
socialismo prima e il comunismo
poi, quando le classi si saranno
estinte.
La dittatura del proletariato
allora sarà superata (e con essa
i compiti e la funzione dello stesso PMLI) e il popolo italiano e
l’umanità intera passeranno dal
regno della necessità a quello
della libertà.
Buon 8 Marzo
Dobbiamo mantenere
alti gli ideali
marxisti-leninisti
Il ministro Pinotti in Israele rafforza il patto
con militari e industrie d’armi
di Antonio Mazzeo - Messina
Come risponde il governo
Renzi all’appello di 168 accademici italiani che invitano a boicottare le università israeliane
coinvolte nella ricerca e produzione di sistemi di guerra impiegati contro il popolo palestinese?
Inviando la ministra della difesa
Roberta Pinotti a rendere omaggio alle maggiori autorità israeliane e rafforzare la partnership
tra le forze armate e il complesso militare-industriale di Italia e
Israele.
Il 29 febbraio scorso è giunta
a Tel Aviv per un vertice con il ministro alla guerra israeliano Moshe Ya’alon. Pinotti ha espresso
la “piena disponibilità del governo italiano a consolidare la collaborazione in atto tra le forze
armate dei due Paesi al fine di
contribuire a migliorare il livello di
interoperabilità anche in relazione alla condivisione del medesimo scenario geo-strategico”. Ha
inoltre ricordato “la pluriennale e
radicata presenza militare italiana in Israele, con la partecipazione alle missioni UE, multinazionali e bilaterali, indirizzate sia a
monitorare la situazione della sicurezza, sia a favorire la formazione di reali capacità palestinesi
nei settori del controllo dei confini e, soprattutto, delle forze di
polizia (con la missione MIADIT
Palestina)”.
I due ministri si sono confrontati anche sugli attuali scenari di crisi in Siria, Libia, Libano e sull’impegno italiano nella
coalizione anti-Daesh. “Occorre impedire l’avanzata dell’Isis
in Libia ed evitare che si ripeta
quanto accaduto in Iraq e Siria”,
ha dichiarato la Pinotti. Molto
più gravi e minacciose le parole dell’omologo israeliano: “Siamo profondamente preoccupati
di una presenza iraniana più forte in Siria perché essa rafforzerebbe in modo negativo l’asse
sciita”, ha spiegato Moshe Ya’alon. “Ciò potrebbe incoraggiare
l’Iran a continuare ad attivare il
suo fronte terroristico contro di
noi dalle Alture del Golan. L’Iran
continuerà ad investire il denaro
che riceverà dall’abolizione delle sanzioni per sviluppare e acquistare nuovi sistemi d’arma,
rafforzare la presenza dei terroristi mandatari in Medio oriente,
Europa e America e diffondere il
terrorismo nel mondo intero. L’Iran non ha smesso di trasferire
armi alla Striscia di Gaza in vari
modi”.
Come riportato nel comunicato stampa emesso dallo Stato Maggiore della difesa italiano,
il ministro Ya’alon ha concluso il
suo colloquio con Roberta Pinotti “sottolineando l’uso da parte
dell’aviazione israeliana dell’aereo di addestramento (simulatore di volo) italiano M-346, non
escludendo una possibile estensione”. Espressione criptica e
assai ambigua quella della possibile estensione nell’uso dei 30
caccia M-346 “Master” acquista-
ti dall’italiana Alenia Aermacchi
(Finmeccanica) per formare i piloti dei cacciabombardieri dell’Aeronautica israeliana.
Per suggellare l’amicizia bellica italo-israeliana, la ministra
Pinotti si è incontrata pure con
alcuni esponenti della società
israeliana, docenti universitari e
imprenditori, e ha visitato a Tel
Aviv gli stabilimenti di IAI-Israeli Aerospace Industries, la principale holding industriale israeliana del settore aeronautico,
missilistico e spaziale. Con un
fatturato record nel 2014 di 3,8
miliardi di dollari, IAI ha progettato e prodotto i droni-killer “Heron”, molto simili ai famigerati “MQ-1 Predator” che gli Usa
hanno trasferito nella base siciliana di Sigonella; il sistema missilistico superfice-aria a lungo
raggio “Barak” e il sistema antimissili balistici “Arrow”, elaborato quest’ultimo congiuntamente ai gruppi statunitensi Boeing,
Lockheed Martin e Raytheon.
Auguri di buon 8 Marzo a tutte
le compagne del PMLI
Un’amica da Prato
D’accordo sulla
necessità ancor oggi
dell’8 Marzo
Care compagne e cari compagni,
assolutamente giusto quanto
scritto ne “Il Bolscevico” sulla necessità dell’8 Marzo: il ruolo della donna (“l’altra metà del cielo”,
per dirla con Mao), nella società
italiana è ancora un ruolo penalizzato, di sostanziale esclusione. La donna, subordinata anche
nell’esercito, sarà comunque
usata in funzione imperialista.
Eugen Galasso – Firenze
Onore e gloria al grande compagno Stalin che con l’Armata
Rossa è stato fondamentale artefice della Liberazione dell’Europa dal mostro nazifascista.
Ancora oggi i grandi capitalisti stanno affossando le masse
proletarie. Abbiamo in Italia un
governo di “sinistra” che si comporta come uno di destra e che
si prepara alla guerra in Libia
ubbidendo agli ordini imperialisti degli Usa. E il Medio oriente
è teatro di scontri creati sempre
dall’America e dai Paesi colonialisti europei come Germania,
Francia e Inghilterra.
Anche le nuove generazioni
non vengono valorizzate anzi,
quando tentano di far valere le
loro ragioni, contestando i promotori della guerra, vengono accusate di essere squadriste. Mi
riferisco all’episodio avvenuto
all’università di Bologna, protagonista il professor Panebianco,
un vero guerrafondaio.
Dobbiamo mantenere alti i
nostri ideali marxisti-leninisti!
Coi cinque Maestri e il PMLI
vinceremo!
Un abbraccio a tutti.
Lorenzo Santoro - provincia di Bergamo
esteri / il bolscevico 15
N. 11 - 17 marzo 2016
Profughi assaltano le barriere
tra
Grecia
e
Macedonia
Il governo francese rade al suolo la baraccopoli di Calais
La Macedonia si era accodata
alla decisione adottata dal vertice
del 18 febbraio scorso dei capi
della polizia di numerosi governi
balcanici, a cui la Grecia non era
stata invitata, di limitare a circa
580 il numero massimo giornaliero di migranti in entrata sul proprio territorio; un numero risibile
rispetto al flusso che seppur non
ai livelli dello scorso anno voleva
dire di fatto la virtuale chiusura
del varco di passaggio di frontiera
con la Grecia, quello poco sopra
la cittadina ellenica di Idomeni
sulla strada di collegamento tra
Salonicco e la capitale macedone Skopje. Il tutto in linea con la
disumana politica dei muri contro
i migranti decisa dall’Unione europea.
Il flusso dei migranti si strozzava nell’improvvisato campo
di Idomeni dove si accalcavano
in condizioni spesso disumane
quasi 10 mila persone. Il governo
macedone selezionava il passaggio dei profughi accettando solo
quelli siriani mentre respingeva
quelli di altre nazionalità o i cosiddetti migranti economici, come
se fosse diverso morire sotto le
bombe o di fame e povertà. La
notte del 28 febbraio decideva che anche questo sistema di
selezione non era sufficiente e
apriva i cancelli per permettere il
passaggio di circa 300 profughi e
richiudeva la frontiera.
La mattina del 29 febbraio
alcune centinaia di migranti iracheni e siriani armati di pali cercavano di abbattere il muro di
filo spinato steso sul confine per
protestare contro la chiusura della frontiera e la decisione del tetto
massimo all’afflusso giornaliero
dei rifugiati fissato dalle autorità
macedoni. Una protesta sedata
a colpi di lacrimogeni ma che se
non altro portava alla riapertura
della frontiera greco-macedone,
seppur con la capacità di passaggio di un contagocce. Tanto
che al 2 marzo i migranti accalcati in condizioni sempre più
precarie sul versante greco della
frontiera con la Macedonia in attesa di poter proseguire il viaggio
verso il nord dell’Europa secondo le organizzazioni umanitarie
hanno certamente superato le 10
mila unità, con i nuovi arrivi che
avevano riempito in pochi giorni
anche i tre nuovi campi da 2 mila
posti allestiti dai militari greci vici-
no alla città di Idomeni.
Per una tendopoli che cresce
lungo la via della disperazione di
profughi e migranti verso il centro e il centro-nord dell’Europa
ve ne è un’altra demolita dalle
ruspe, quella di Calais sulle coste
francesi della Manica dove sono
bloccati circa 1.000 i migranti, secondo il governo di Parigi ma che
sarebbero quasi 3.500 secondo
le associazioni umanitarie; si tratta soprattutto di siriani, afghani
e sudanesi bloccati dal muro di
Cameron che non ne vuole nemmeno uno in Gran Bretagna.
Il tribunale amministrativo di
Lille aveva decretato lo scorso
25 febbraio uno sgombero parziale del campo. Il governo Valls
assicurava che a tutti i migranti
cacciati dal campo sarebbe stata
offerta una diversa sistemazione
in container riscaldati e in centri
d’accoglienza; una proposta respinta dai migranti e valutata tra
l’altro come insufficiente dalle
stesse ong che operano sul posto dato che il migliaio di posti
letto offerti coprivano meno di
un terzo dei bisogni reali. Quindi
per la maggioranza dei migranti
avrebbe dovuto significare la fine
del viaggio.
La mattina del 29 febbraio migliaia di poliziotti in assetto antisommossa si sono presentati alla
tendopoli scortando due ruspe e
una ventina di operai che iniziavano a demolire decine di tende
e baracche nella parte sud del
campo. Proteste e attacchi dei
migranti che si scontravano con
gli agenti interrompevano momentaneamente le operazioni di
sgombero.
Grazie a un “dispositivo di sicurezza rafforzato” messo in piedi
dalla Prefettura, ovvero a un’ancora più massiccia presenza di polizia, le operazioni di demolizione
continuavano nei giorni successivi.
Un gruppo di migranti rimuove con forza e decisione le barriere tra la Macedonia e la Grecia
L’ha confermato la procura di Roma
Regeni torturato da professionisti
La procura di Giza: Regeni torturato per sette giorni. Il governo egiziano continua a non collaborare
L’Italia deve rompere i rapporti diplomatici con l’Egitto
Il ministero degli Esteri egiziano trasmetteva il 2 marzo all’ambasciata italiana al Cairo una parte dei documenti richiesti, reperti
cartacei in lingua araba, con nessun filmato, registrazione o foto,
una serie di atti parziali senza
un quadro di insieme; queste le
prime comunicazioni ufficiali che
sono state ricevute sul caso del
giovane dottorando italiano Giulio
Regeni, sequestrato il 25 gennaio
e il cui cadavere era stato ritrovato il 3 febbraio lungo una strada
della periferia del Cairo con segni
evidenti di torture. A un mese di
distanza dal ritrovamento del corpo e dalla promessa del regime
del generale Al Sisi di una stretta
collaborazione con i rappresentanti italiani, in primo luogo al
gruppo investigativo spedito da
Roma al Cairo, si registra dunque
un parziale primo scambio informativo neanche a livello investigativo diretto tra procure ma da
governo a governo. A sottolienare che per il Cairo la questione
più che di polizia è politica.
Il ministero degli Esteri italiano
giudicava l’invio dei documenti
“un primo passo utile” e il ministro
Paolo Gentiloni, smessi i consueti sfavillanti panni del crociato e
riindossati quelli grigi di quando
da esponente dell’opposizione
in Commissione di vigilanza Rai
avallava tutte le porcherie dei
governi Berlusconi, incassava il
pacco dimentico che neanche
tre giorni prima aveva spiegato ai
giornalisti che confidava di ricevere presto dal Cairo “elementi di
indagine seri in tempi rapidi”.
I documenti contenevano tra
le altre una parziale sintesi degli elementi emersi dall’autopsia
eseguita al Cairo il 4 febbraio
scorso che se non altro confermerebbero quanto fatto sapere
in forma ufficiosa da fonti della
procura di Giza sulle prove che
Giulio Regeni è stato torturato nei
sette giorni del suo sequestro, in
vari momenti e fino a poco prima
della morte ipotizzata attorno al
31 gennaio, dovuta alla frattura
delle vertebre cervicali.
L’1 marzo era l’agenzia Reuters a riportare le dichiarazioni di
fonti della procura egiziana sulla
testimonianza del direttore del
dipartimento di medicina legale del Cairo che aveva eseguito
l’autopsia e certificava le torture
e l’assassinio. Il ministero della
Giustizia egiziano smentiva le
notizie definendole “destituite di
qualsiasi fondamento” così come
il medico che aveva eseguito
l’autopsia. Il procuratore di Giza
e altre fonti del giornalista investigativo egiziano Ahmed Ragab
le confermavano. Ragab è il giornalista che già aveva denunciato
il capo della polizia investigativa
che si sta occupando del caso
come un noto torturatore, condannato nel 2003 dal Tribunale di
Alessandria.
Giulio Regeni è stato ucciso
da professionisti della tortura e
il movente sarebbe da ricercare
nell’ambito della sua attività di
studio in Egitto, riconoscevano
anche i pm della procura di Roma
che seguono la vicenda.
D’altra parte il saggio in lingua
inglese, Egypt’s Long Revolution
(La lunga rivoluzione dell’Egitto),
scritto da Regeni e pubblicato
nell’autunno del 2014, era il suo
punto di partenza della ricerca di
dottorato e contiene una denuncia delle costanti violazione dei
diritti umani, della tortura regolarmente utilizzata come metodo
di interrogatorio, della centralità
delle Forze armate e dei Servizi
segreti nella vita politica dell’Egitto, quelle praticate dalla dittatura
di Mubarak denunciate dalla rivoluzione di piazza Tahrir e ripristinate in pieno dal regime di Al
Sisi. A cui si è aggiunta quella del
subappalto del “lavoro sporco” a
gruppi di criminali comuni che in
cambio dell’impunità si mettono
al servizio della polizia e dei servizi segeti.
Una analisi quella di Regeni
che potrebbe aver tragicamente
svelato anzitempo la trama del
suo assassinio. E che spiegherebbe anche la mancata collaborazione del governo egiziano
col team italiano al lavoro al Cai-
ro e con le autorità italiane. Una
mancata collaborazione dovuta a
questa ricostruzione dei fatti ma
probabilamente anche a una modifica degli interessi egiziani non
più collimanti con quelli dell’imperialismo italiano, quantomeno
in Libia.
In Libia Al Sisi finora si è mosso in sintonia con l’Italia nel sostegno al governo unitario promosso dalle Nazioni Unite ma
che resta bloccato dall’opposi-
zione del Parlamento di Tobruk
e dal capo militare, il generale
Haftar, entrambi retti dal Cairo.
Le recenti notizie sulla presenza
di commando francesi al fianco
delle milizie di Haftar e quelle
su esercitazioni della portaerei
De Gaulle nelle acque egiziane
indicano un possibile cambio di
preferenze del Cairo, da Roma a
Parigi.
Questo non inficia ancora il
complesso dei rapporti tra l’Italia
e l’Egitto, legati anche da mega
affari come quello in capo all’Eni
che ha scoperto al largo di Alessandria il giacimento di gas naturale più ricco del Mediterraneo.
Intanto la Farnesina avalla le prese in giro sulle indagini del Cairo
sul caso Regeni e non la sfiora
minimamente neanche l’idea di
rispondere come dovrebbe, con
la rottura dei rapporti diplomatici
con l’Egitto.
Missili cinesi nelle isole contese
del Pacifico
Pechino ha dislocato batterie di missili nelle isole Paracel,
nell’arcipelago del Mar Cinese
meridionale sotto la sua giurisdizione dal 1974 rivendicato anche
da Taiwan e Vietnam. La notizia
è rimbalzata sui media dopo il
lancio da parte della rete televisiva americana Fox che aveva
mostrato le foto satellitari scattate sopra l’arcipelago. Nell’isola
di Yongxing Dao dove erano già
presenti una pista d’atterraggio e
un radar di scoperta erano state
dislocate due batterie con otto
lanciatori e il sistema radar di
guida di missili terra-aria HongQi
HQ-9, con un raggio d’azione di
200 chilometri.
Gli Stati Uniti protestavano
ricordando che il presidente cinese Xi Jinping durante la sua
visita nel settembre scorso aveva
assicurato che la Cina non aveva
intenzione di militarizzare il Mar
Cinese Meridionale.
La protesta guidata dall’imperialismo americano continuava
con le dichiarazioni del presiden-
te Barack Obama che dal vertice
dell’associazione dei paesi del sud
est asiatico (Asean), convocato in
California proprio sul tema principale della sicurezza del Mar Cinese Meridionale, sottolineava che
“abbiamo discusso la necessità
di passi tangibili nel Mar Cinese
Meridionale per abbassare le tensioni, includendo lo stop a ulteriori
rivendicazioni, nuove costruzioni e
militarizzazione delle aree contese”. Il documento finale del vertice
non menzionava la Cina ma era
evidente che gli Usa imputavano a
Pechino l’accelerazione dell militarizzazione dell’area, come se Washington non facesse altrettanto in
altre parti dell’Asia.
A partire dall’avvio delle trattative con Seul per dislocare in Corea del Sud il sistema antimissili
balistici THAAD, offerto dagli Usa
per fronteggiare gli arsenali balistici nordcoreani ma schierati di
fatto anche contro i vicini missili
balistici cinesi.
Il portavoce del ministero degli
Esteri cinese attraverso un comu-
Costruzioni cinesi per postazioni missilistiche su una delle isole
Spratly nel mar Cinese del Sud
nicato affermava che la Cina ha il
diritto di difendere il suo territorio
nel Mar Cinese Meridionale mentre il ministro degli Esteri Wang Yi,
senza smentire la presenza dei
missili, sosteneva che “solo per
limitata e necessaria autodifesa,
la Cina ha realizzato strutture su
isole e barriera corallina dove è
stato dislocato personale cinese,
in linea con autodifesa e autotutela che la Cina è autorizzata a
perseguire sotto le leggi internazionali”.
Lo schieramento dei HongQi
HQ-9 può essere certo una ri-
sposta anche alle “provocazioni”
americane, alle operazioni navali condotte dagli Stati Uniti il 26
ottobre e il 30 gennaio scorsi
quando le navi da guerra Lassen
e Curtis Wilbur si sono avvicinate
agli isolotti nell’arcipelago delle
Paracel, ben dentro le 12 miglia
nautiche del limite delle acque
territoriali.
La militarizzazione delle Paracel è comunque soprattutto il
naturale sviluppo della politica
espansionista della superpotenza socialimperialista cinese nella
regione.
Al referendum del 17 aprile
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