Chiara Alessi Design senza designer Laterza, 2016

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Transcript Chiara Alessi Design senza designer Laterza, 2016

Chiara Alessi
Design senza designer
Pages 152
Book Excerpt and Translation Sample
Design senza designer © 2016 Laterza
English Translation © Alex Valente
Foreign Rights
Agnese Gualdrini
[email protected]
Laterza, 2016
Il design «dopo gli anni Dieci», invece, probabilmente passerà alla
storia come il momento del design concepito al di là dei nomi dei
singoli designer, nonostante siano tantissimi, o forse proprio perché
sono così tanti. Io stessa nel mio volume precedente ne ho nominati
un centinaio e da allora almeno altrettanti si sono fatti giustamente
avanti per rivendicare la loro esistenza; senza contare tutti quei nuovi
professionisti che più o meno legittimamente oggi si definiscono tali.
Inoltre, con la sostituzione dei designer di massa con una gran quantità
di designer anonimi, stiamo assistendo a un livellamento della specificità del designer a favore dell’accessibilità, prima d’ora sconosciuta,
agli strumenti di progettazione e creazione. Viviamo nell’epoca del
design diffuso, del «Design, when everybody designs», come recita il
titolo di un recente libro di Ezio Manzini.
A questo si aggiunge poi il fenomeno per il quale pratiche sempre più
diffuse (anche se con qualche resistenza nel sistema del design italiano
tradizionale), come quella dell’open source – per cui dei semilavorati
(hardware o software) vengono scaricati, modificati e re-uploadati per
essere resi accessibili e ri-modificabili a tutti –, chiedono evidentemente
un radicale ripensamento dell’autorialità e dei suoi conseguenti diritti,
che difficilmente riescono ancora a rientrare nelle griglie canoniche e
che, anche sotto il profilo dei legittimi riordinamenti della distribuzione economica dei compensi, stanno portando a galla una inadeguatezza non più accettabile (mi riferisco al sistema delle royalties,
variamente calcolate, che fino a poco tempo fa erano lo strumento
più diffuso, giacché garantivano a quelli che tradizionalmente sono
considerati long sellers una buona tenuta economica, a volte anche per
generazioni, e che, oggi che ci sono sempre più prodotti che vendono
sempre meno e per periodi sempre più corti, richiedono un aggiornamento urgente). Ecco perché «tutti sono designer» è forse il luogo
comune per eccellenza – insieme agli altri che proveremo a trattare –
da cui inizia questo libro.
C’è stata un’epoca del design italiano in cui il designer era effettivamente una figura totale, un intellettuale che incontrava e sovrastava la
stessa cultura industriale, iniettandole una linfa mai conosciuta prima;
aveva un ruolo critico, autonomo, e il suo approccio era visionario,
artistico e artigianale al tempo stesso. Poi è venuta l’epoca storica delle
aziende del design italiano e dei loro illuminati imprenditori, che nel
tempo hanno creato e sostenuto con i propri mezzi e con l’indotto della
propria attività una vera e propria comunità di profes- sionisti, ponte
tra la missione creativa dei designer e un pubblico più consumista e
insieme più appassionato. Oggi, una delle conseguenze più notevoli
del periodo della crisi – non solo economica ma anche di ruolo – delle
aziende italiane è la divergenza di visioni, proposte e soddisfazioni
rispetto a quelle dei progettisti, che perciò si sentono chiamati a deviare
la precedente sinergia verso altri interlocutori, indirizzandola parallelamente, molto spesso, proprio verso se stessi (come in una nuova
autarchia). Mentre alcuni si adoperano come in un’improbabile fiction
pre-industriale, altri stringono nuove alleanze. Non intendo sostenere
che il gruppo prevalga sui singoli: là dove si formano dei sistemi di
designer che lavorano insieme intorno a un progetto, quasi sempre
si tratta di unioni agili, informali, motivate essenzialmente dalla
necessità, o dalla condivisione temporanea di un tema piuttosto che di
un manifesto professionale. E non intendo nemmeno dire che i nomi
non ci siano e che le cose si facciano da sé. Ci sono le firme, e su quelle
sta puntando un mercato non a caso sempre più in crisi nel comunicarne il valore aggiunto. E ci sono i nomi, perché il design continua (o
forse torna) a essere fatto di persone. Ma le storie e i nomi non sono più
solo quelli dei designer, o dei designer da soli.
Chiara Alessi
Design without designer
Translation by Alex Valente
Laterza, 2016
Design from ‘after the 10s’, on the other hand, will probably be
remembered as the moment when design is seen as something beyond
the name of individual designers – despite their vast number, or perhaps
even because of their number. In my previous book, even I mentioned at
least a hundred names, and the same amount has rightly come forward
to assert their existence since; and all this still does not include the
new specialists who, more or less legitimately, identify as designers, too.
Further, with the shift from mass designer to anonymous ones, we are
witnessing a levelling of the focus of a designer in favour of the accessibility to designing and creative tools, something unheard of until now.
We are living in an age of common design, of ‘Design, when everybody
designs’, as claimed by the title of one of Ezio Manzini’s recent books.
In addition, we also have the phenomenon of increased use of
practices such as open source (though with some resistance in the more
traditional fields of Italian design) – where a semi-finished product
(hardware or software) is downloaded, modified and re-uploaded
for ease of access and editable by anyone – which require a radical
rethinking of the concepts of authorship and its rights, already hard
to position within a canonical framework and which, even under
the guidelines of legitimate reshuffling of economic distribution of
payments, are bringing to the surface a no longer sustainable inadequacy (I am referring here to the royalties system, widely used via
various calculation methods until quite recently, as they allowed
so-called long sellers a good economic stability, even for a number of
generations, and which, as today sees an increase in short-life products
with lower sales, needs an urgent update). Thus, ‘everyone is a designer’
is the most rooted cliché – along with a number we will discuss – that
sets the tone of this book.
Italian design has seen an age in which the designer was a fully
rounded figure, an intellectual both encountering and dominating
the industrial culture, providing it with a new breath of life yet to be
seen; they held a critical role, autonomous, and their methods were
visionary, both art and craft. What followed was the age of Italian
design companies and their enlightened entrepreneurs, who helped
build and shape a community of professionals through their own
means and activity, a bridge between the creative mission of designers
and the passionate consumer audience.
Today, one of the most notable consequences of the crisis – not
only from an economic standpoint, but also for the profession – within
Italian companies is the divergence of visions, offers and satisfactions
compared to those of the designers themselves, who feel as though the
need to channel that previous synergy towards new audiences, resulting
most often than not, in addressing themselves (almost as a new form of
autocracy). While some appear to be operating in some anachronistic
pre-industrial setting, others form collaborations and alliances. I have
no intention to claim that the group dominates over the individual:
where designer systems are formed around a single project, they are
almost always flexible, agile, informal, effectively dictated by necessity,
or by a temporary convergence of themes rather than a manifesto. I
also do not intend to negate the fact that certain names are visible and
claim that products create themselves. Brands and labels exist, and the
market in its current state of crisis is attempting to capitalise on them.
And names exist, because the design world continues to (or perhaps
comes back to) be made up of people. But the stories and names are no
longer of the designers, or of the designers alone.