La sedia vuota - La Repubblica.it

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A SEDIA VUOTA È QUELLA del padre
di Ammouna, rimasto in Siria
mentre lei ha preso le figlie ed è
fuggita in autobus e a piedi, portandosi via ciò che avevano addosso. Oppure è quella del figlio di Mohammed,
cinquantacinque anni, in questa foto ritratto
con la sua famiglia: un missile colpì la loro casa, il ragazzo rimase ferito, nel caos tutti fuggirono e solo quando ormai era troppo tardi
capirono che uno di loro era rimasto indietro.
Di suo figlio Mohammed sa che vive in strada
e mangia quando qualcuno gli dà da mangiare: «Ho paura di chiedere sue notizie e di sen-
( * 6 4 & 1 1 &$ " 5 0 ; ; & - - "
tirmi dire che è morto».
A cinque anni dall’inizio di una rivolta pacifica che si sarebbe trasformata nella guerra
di oggi, la sedia vuota è la chiave che il fotografo Dario Mitidieri ha scelto per raccontare
la tragedia della Siria: un conflitto che dal 15
marzo 2011 ha ucciso o ferito 470mila persone, l’11,5 per cento della popolazione, facendo crollare l’aspettattiva di vita da settanta a
cinquantacinque anni e costringendo il 45
per cento dei siriani a fuggire dalle loro case
per cercare rifugio all’estero (5,5 milioni) o
in altre zone del paese (sei milioni).
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La speranza e la barbarie. La bellezza e l’inferno. “Esiste la bellezza ed esiste l’inferno degli
oppressi. Per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi”, diceva
Camus. È dentro questi due estremi, che non
possono che rimanere inseparati, che si gioca
il tempo in cui ci è dato di vivere. Siamo di
fronte a un fatto senza precedenti, che condensa speranza di cambiamento e violenza,
tutta la questione è volercene rendere conto
o meno. Si tratta di una scelta. Ciò che sta accadendo ha la schiacciante potenza che solEPOPEA E LA GUERRA.
tanto un fatto possiede. E questo fatto si può
spiegare in un modo semplice o in un modo
complesso. Quello semplice: 60 milioni di persone si stanno spostando, simultaneamente,
nel mondo. Mai era accaduto prima. E perché
intere popolazioni si spostano? Principalmente a causa di guerre e persecuzioni, nel resto
dei casi per povertà e carestie (ci stiamo spostando, e tanto, anche noi italiani; e sì, per povertà). Il modo complesso: questo esodo sta
influenzando tutto il mondo, non solo quello
di chi è in movimento, ma anche il mondo e la
coscienza di chi riceve gli spostamenti.
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N QUESTI ANNI I FOTOGRAFI DI TUTTO IL MONDO hanno narrato nei modi più diversi
il dramma della Siria: dalle immagini delle proteste pacifiche dei primi giorni a
quelle dei bombardamenti e delle città distrutte, fino a quelle dell’ondata di profughi che da mesi quotidianamente si riversa in Turchia e in Europa. In mezzo a
tante foto, quelle di Mitidieri colpiscono allo stomaco, nella loro semplicità e nella loro immediatezza. «Volevo raccontare come la guerra cambia la vita delle
persone», ci racconta il fotografo italiano da anni in Gran Bretagna che con questi scatti ha ottenuto il riconoscimento del World Press Photo 2016, il premio fotografico più famoso del mondo. «Quelle che ho ritratto sono famiglie come la
mia e la vostra. Con la differenza che nelle loro foto di gruppo manca qualcuno. E
manca per un’unica ragione: la guerra. Aver ottenuto il World Press Photo con
queste immagini per me è importante: spero che così il maggior numero possibile di persone si accorga del dramma che da cinque anni vivono migliaia di siriani».
Per scattare le immagini, che sono servite per una campagna dell’ong britannica Cafod in
collaborazione con M&C Saatchi, Mitidieri, cinquantasei anni e quattro figli, è andato in Libano, un paese oggi letteralmente travolto dall’ondata di profughi che arriva dalla Siria: un
milione e mezzo di persone per una nazione che in tempi normali conta quattro milioni di
abitanti. Il fotografo ha montato il suo set nei due
campi profughi della Valle della Bekaa e poi si è
messo a cercare volontari: «Non è stato facile trovarli — spiega — molte persone avevano paura di
farsi ritrarre. Soprattutto temevano che questo potesse danneggiare chi è rimasto indietro. Se alla fine hanno deciso di posare, è stato perché volevano
che il mondo sapesse come vivono: che hanno perso tutti i loro sogni, che non hanno più speranze».
Quelli ritratti nelle immagini che vedete in queste pagine sono infatti, se possibile, gli ultimi fra
gli ultimi nella crisi siriana: quelli che non hanno
abbastanza soldi per andare in Turchia e tentare una sempre più difficile traversata verso la
Grecia, quelli che non possono tornare indietro perché non hanno un posto dove tornare,
quelli da mesi intrappolati in un limbo. Quelli di cui, mentre l’attenzione internazionale si
concentra sulla battaglia per Aleppo e sulle città assediate, è più facile dimenticarsi, perché
apparentemente ormai in salvo, oltre il confine libanese. È solo andando a scavare dietro il
primo sguardo che si scopre che questa salvezza è fatta in realtà da anni di vita in tende troppo calde d’estate e troppo fredde d’inverno, con poco cibo, senza scuole per i bambini, senza
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prospettive per gli adulti. Con una compagna sempre presente, giorno e notte: l’angoscia per il destino dei familiari più cari.
Per provare a raccontare questo dolore
Mitidieri ha costruito il più classico dei set fotografici per i ritratti familiari: luci, un telo
nero e sedie per tutti. Poi ha riunito i suoi
soggetti e ha fatto un passo indietro: per dire anche quello che c’è alle spalle di queste
persone, lo spazio minimo che le separa dalle montagne che segnano il confine con la Si-
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ria e con la guerra.
Di solito i ritratti di famiglia sono un’occasione di festa: ma in queste foto non ci sono
sorrisi. Spesso, e il fotografo, come i suoi soggetti, ne è pienamente consapevole, la sedia
vuota non sarà riempita mai più, perché
quelli che mancano sono morti. Ma a colpire
nelle parole e negli sguardi di chi ha accettato di farsi fotografare, più che la morte è l’atroce sensazione di non sapere quello che è
accaduto a chi manca. Come Sahar, fuggita
in pochi minuti diciotto
mesi fa con i tre figli
che aveva con sé quando le bombe hanno iniziato a cadere sulla sua
casa: dei nove rimasti
indietro, perché vivevano altrove o perché non
erano con lei, non ha
più avuto notizie. O come Razir, quarant’anni, che in Siria ha lasciato le maggiori dei suoi
cinque figli, due ragazze di undici e quattordici anni: non aveva abbastanza soldi per portare
via tutti dopo che suo
marito era stato ammazzato da un gruppo
di uomini armati. Di loro non sa nulla da sette mesi: «Vorrei poter tornare indietro, riavere la mia vita: la mia casa, la mia famiglia,
un lavoro per sfamare tutti — ha detto al fotografo — se sono qui davanti alla sua macchina è solo perché il mondo sappia quello
che stiamo vivendo».
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OME STANNO CAMBIANDO il mondo e
la coscienza di chi riceve? Forse,
di nuovo, principalmente in due
modi. Uno, per così dire,
“passivo”: questo esodo ricorda a
ognuno che altro non è che il frutto di una
catena sterminata di migrazioni. Andando
indietro nel tempo, ricostruendo la propria
genealogia, ognuno sa che non proviene dal
luogo in cui vive. Da qui parte per chiedersi: «È
giusto accogliere, o non è giusto?». L’altro
modo, molto più profondo, e direttamente
collegato alla potenza dell’arte e delle fotografie
di Dario Mitidieri, è per così dire “attivo”, e
chiama in causa la propria responsabilità negli
spostamenti degli altri. Perché, infatti, quelle
immagini sono così potenti, quei vuoti ci
attirano tanto? Chi c’è, in verità, dentro quel
buco, chi siede su quelle sedie vacanti? Forse la
stessa persona che avevamo scorto dentro la
foto di Alan, il piccolo annegato sulla spiaggia
turca. E forse quella persona è la meno
immaginabile di tutte. Forse sono io stesso.
Ecco ciò che sta accadendo, ciò che sta
mettendo alla prova la tenuta dell’Europa, ciò
che conduce alla costruzione dei muri
dell’Ungheria, della Repubblica Ceca, della
Polonia e della Slovacchia e alla progressiva
chiusura dei paesi scandinavi e della Francia.
Sta accadendo ciò che le fotografie di Mitidieri,
celandolo nell’assenza, gridano. Ci stiamo
imbattendo, giorno dopo giorno, in ciò che
vogliamo dimenticare: la responsabilità
dell’Occidente in quelle guerre, in quelle
povertà e in quei conflitti che provocano l’esodo
verso lo stesso Occidente. Ecco allora che ogni
singolo rifugiato o migrante ci mette di fronte a
questa assenza, alla mancanza del nostro senso
di responsabilità, di presa di coscienza sugli
eventi del mondo. Ecco perché chi sarebbe più
bisognoso di cure e attenzioni diviene al
contrario fonte di fratture politiche e morali.
Sul fronte di guerre lontane che l’Occidente
alimenta si sta combattendo una guerra
intestina all’Occidente stesso: è su questo tema
che si gioca la tenuta politica dell’Europa.
Quelle sedie vuote sono grida per le nostre
coscienze. Ogni rifugiato è invece soltanto un
essere umano che non deve morire dopo essere
stato forzato a lasciare i suoi cari e la sua casa.
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NEW YORK
ONO CRESCIUTO GIOCANDO A SCACCHI. La
mia prima scacchiera
l’ho avuta da bambino, dono di un uomo che con i suoi racconti
e il suo volermi bene mi ha indirizzato la vita. Si chiama Vittorio Marguccio. Perché quando qualcuno ti inizia agli scacchi ti
sta regalando una nuova strada attraverso cui stare al mondo.
I pedoni scardati, le caselle scolorite, le rigature sul legno, la
sabbia o il terriccio testimoni dei luoghi in cui giocavo. Ricordo
tutto di quella mia prima scacchiera.
Il gioco degli scacchi è un gioco violento, forse il più violento
tra gli sport — anche se io non riesco a considerarlo uno sport
quanto piuttosto un modo di stare al mondo. Si può vivere con
gli scacchi e si può vivere senza gli scacchi: sono due distinte
categorie di persone, non ce n’è una terza.
Incontrare Garry Kasparov, quindi, è stata per me una sorta di epifania. Kasparov è un
giocatore geometrico, ma allo stesso tempo, e a differenza di molti altri, non inizia una
partita con una tattica prefissata. Per farsi un’idea della complessità di questo gioco basti
pensare che le mosse possibili in una partita si indicano con un 1 seguito da 120 zeri. È in
questo infinito che si misura la potenza di uno scacchista. Kasparov è un giocatore duttile,
sa essere solido nello schieramento del suo esercito riuscendo a ottenere attacchi fulminei e letali. Giocare con lui significa provare a perdere gustandosi il proprio macello scacchistico o — ma solo se lui vorrà — lasciarsi guidare nel gioco come una novizia viene iniziata al tango da un ballerino professionista. Non danzerà bene ma almeno si divertirà.
Disponiamo la fila dei pedoni, lui mi lascia i bianchi. Durante la partita non si parla,
quindi prima di iniziare gli dico che ho letto il suo libro, -JOWFSOPTUBBSSJWBOEP, un lavoro
tagliente che racconta con coraggio quello
che Putin sta facendo ma che soprattutto
farà. Ora, in base al sistema Elo (che valuta
gli scacchisti di ogni epoca attribuendo un
punteggio in base a vittorie, sconfitte e pareggi tenendo conto della forza degli avversari) Kasparov è in assoluto il più grande
giocatore della storia. E dunque senza riuscire a trattenermi gli chiedo perché il più
grande scacchista di sempre ha deciso di diventare il vero oppositore di Vladimir Putin. «Perché è giusto» mi risponde lui, «perché è... una vocazione», e sorride. Insisto.
Chiunque critichi il potere viene sommerso e divorato dal fango. In Russia si è maestri assoluti di delegittimazione e, in molti
casi, di eliminazione fisica del rivale. Non
mi viene niente di meglio che essere diretto: perché rovinarsi la vita? Kasparov mi
guarda come se avessi pronunciato la più
ingenua delle domande. Dice testuale: «Se
piove, apro l’ombrello». La pioggia di fango
gli scivola addosso. La cosa che veramente
lo inquieta è che il suo attivismo possa nuocere alla sua famiglia: mentre lui ormai vive a New York la madre è ancora a Mosca, e
poi ha una moglie, quattro figli. «Hanno ca-
pito che la mia vita è questa e in qualche
modo l’hanno scelta con me». Poi passa a
utilizzare gli scacchi per una metafora: «Gli
scacchi richiedono una strategia trasparente: io so quello che hai tu e tu sai quello che
ho io; non so quello che stai pensando, ma
almeno so quali sono le tue risorse. Putin,
come tutti i dittatori, odia la trasparenza.
Preferisce giocare a carte coperte perché
solo così, come nel poker, è possibile bluffare. I dittatori possono essere grandi giocatori di carte, ma non saranno mai abili scacchisti perché per vincere devono mentire e
intimorire l’avversario. Cosa che negli scacchi non è concessa».
È un amore sano quello che lo lega a questo gioco. «Gli scacchi occupano il trenta
per cento della mia vita». Ciò che adesso gli
sta più a cuore è la democrazia. Ed è sull’Europa che pone il suo sguardo. Ha una visione chirurgica quando parla di «una cultura
di compromesso che dal ’45 protegge l’Europa, garantendole una certa stabilità. Le
frontiere erano sicure, era un continente in
pace. A rompere questo equilibrio è stato
proprio Vladimir Putin». Per Kasparov non
comprendere questo è la più grande inge-
la Repubblica
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nuità che le democrazie del mondo libero
possano commettere. Mi spiega tutto questo come se mi stesse mostrando la più lapalissiana delle verità: «Putin costituisce per
l’Europa un pericolo maggiore dell’Is, minaccia l’esistenza stessa dell’Europa. Putin
ha fisiologicamente bisogno del crollo delle
sue istituzioni. La sua strategia è creare e
alimentare il caos. Per questo ha puntato
sulla guerra in Siria, un conflitto che ha
messo in moto un numero impressionante
di rifugiati che fanno pressione sui confini
dell’Europa mettendone a dura prova la tenuta e la stabilità». Angela Merkel è la sua
principale avversaria, Kasparov la considera invece «l’unico vero politico coraggioso
oggi in Europa». Inoltre, aggiunge, essendo nata e cresciuta nella Ddr, sa che cos’è la
mentalità comunista, sa come lavora il Kgb
e sa quali sono le modalità con cui vengono
gestiti gli oppositori politici.
Fisso la scacchiera e ora la vedo con occhi
nuovi. È vero che il potere non può giocare
a scacchi, perché in questo gioco non è possibile misurare e valutare ogni mossa e
ogni tattica dell’avversario. Napoleone
avrebbe voluto essere un grande giocatore
di scacchi ma non lo è diventato mai. Dagli
scacchi voleva far derivare nuove strategie
da applicare al campo militare e alla formazione dell’esercito, non rendendosi conto
che anche i trucchi, o le esche, negli scacchi
devono fondarsi sulla lealtà. «Putin», mi
sorprende Kasparov, «non si chiede perché
fare una cosa, ma piuttosto perché non farla». Ogni volta che viene concesso qualcosa
a quello che lui definisce senza mezzi termini «il dittatore», il suo potere cresce. Non rispetta le regole, non ha bisogno di trovare
una motivazione. Kasparov descrive il presidente russo come un uomo che non ha alcuna concezione del bene, del male, forse
nemmeno una strategia a lungo termine.
Semplicemente «fa tutto ciò che è utile a
rafforzare il proprio potere».
Nel suo libro ci sono pagine da cui non si
torna indietro. «La Russia», argomenta Kasparov, «sta avendo gravi problemi economici e finanziari, dati anche dal ribasso del
prezzo del petrolio, dunque la spesa pubblica vede tagli in tutti i settori. Tranne due».
Kasparov alza due dita della mano destra
ma non è il segno della vittoria: «Primo: la sicurezza. Secondo: la propaganda». Mi parla
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della madre che ha settantotto anni, che è
inferno. In Grecia c’era la guerra civile; in
nata sotto Stalin e che ha vissuto in prima
Inghilterra il cibo era razionato; la Germapersona la caduta dell’Unione sovietica. È
nia era in preda alla carestia; in Cina era
usando i suoi occhi che Kasparov mette a
scoppiato un massiccio conflitto interno; a
nudo la grande differenza tra le strategie
Calcutta erano all’ordine del giorno massadi comunicazione del passato e quelle di ogcri di musulmani e hindu. Kasparov mi pargi: «La macchina della propaganda sovietila di questo libro per farmi vedere come la
ca aveva sempre una visione del futuro,
situazione ci paia sempre disperata, anche
proiettava il popolo verso una speranza di
quando, come in questo momento, lo è mecrescita e di grandezza, era sempre presenno del passato. La forza del nostro mondo è
te uno scopo pronto a giustificare l’infinità
di pensare a lungo termine, dare vita a istidi sacrifici e sofferenze del presente, che
tuzioni e leggi che funzionino anche tra dieun giorno sarebbero stati premiati dalla fraci anni. Per questo ha fiducia nella parola
tellanza comunista. La
come arma.
propaganda di Putin,
Poi mi guarda e dice:
invece, parla di nemi«La cattiva notizia è
ci, di conflitti, di un
che non ci è dato sapemondo avverso alla
re quando cadrà un ditRussia contro il quale
tatore. La buona notiPutin si erge come unizia è che neanche lui lo
co baluardo. Parla
sa. Putin potrebbe riesclusivamente al premanere al potere a lunsente. Senza il Boss la
go come per molto poRussia non esisterebco: l’attuale situazione
be».
economica in Russia è
Da anni cerco di stua uno stadio talmente
diare il ruolo delle orgagrave che non è da
nizzazioni mafiose rusescludersi una caduta
se, la loro diffusione
improvvisa del reginel mondo, la conquime». Sa che l’eventuasta di New York e di
le caduta di Putin poLondra. Sono tra le metrebbe generare un
no studiate e raccontacaos illimitato per il
te. Nei pochissimi casi,
suo paese, ma sa anche
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ci si concentra sul meche più a lungo «il ditta&564"*26&--0$)&)0*0
ro aspetto gangsteristitore» continuerà a goco. L’analisi che Kaspa- /0/4026&--0"$6*45"*1&/4"/%0 vernare, maggiore sarov mi propone della .""-.&/04026"-*40/0-&56&
rà il prezzo da pagare
mafia russa è senza pa- 3*4034&-"453"5&(*"µ53"41"3&/5&
per la Russia e per l’Eu&$$01&3$)²165*/13&'&3*4$&
racadute: «La Russia di
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Putin si può in un certo (*0$"3&"10,&31&3$)²40-0"$"35&
La psicologia ha un
senso considerare il $01&35&µ1044*#*-&#-6''"3&
ruolo fondamentale nepaese più mafioso del 26&--*$0.&-6*1&37*/$&3&%&70/0
gli scacchi. Capablanmondo, perché tutto il .&/5*3&&*/5*.03*3&-"77&34"3*0
ca, ad esempio, perse
sistema si basa sulla fe- $04&$)&46--"4$"$$)*&3"
contro Alekhine nel
deltà: a Putin prima di /0/40/0$0/$&44&
1927 sebbene fosse
tutto, e poi in linea vermolto più forte di lui:
ticale verso il basso. Se
era talmente sicuro di
sei fedele al Boss sei fevincere che quando
dele al sistema, e quelperse la partita nella fala è l’unica cosa che
se iniziale si lasciò torconta. Non importa se
mentare dagli errori
ti macchi di qualche cricommessi al punto da
mine». Descrive la Rusnon riuscire più a essesia di Putin come un
re sufficientemente lugrandissimo
polipo
cido negli incontri sucche estende i suoi tencessivi.
tacoli anche fuori dai
Una piccola sconfitconfini, anzi: «La magta, non serve molto di
gior parte degli investipiù. Questa, dunque, la
menti del regime non
strategia che bisognesono sul suolo nazionarebbe adottare con Pule». Secondo Kasparov,
tin. Inaspettatamente
Putin ha costruito la
costringerlo a una capipiù sofisticata rete di
tolazione, anche piccoagenti nel mondo, un network basato sui
la, e questa sarà sufficiente a far crollare il
soldi e non sull’ideologia, che opera da Riga
suo impero.
e Londra, da New York a Miami. Essendo
Finalmente giochiamo. Decidiamo di
un ex agente del Kgb, poi, il presidente rusmuovere in pochi secondi. Ora Kasparov
so sa come costruire rapporti personali con
sta sacrificando un alfiere. So che è un’ei capi di Stato all’estero. Relazioni che si fonsca, l’ha fatto apposta, ma sono talmente
dano sostanzialmente su due meccanismi
pochi i centesimi di secondo in cui mi è dato
correlati tra loro. Il primo è mantenere all’eragionare che mangio l’alfiere, pensando
stero l’illusione di una Russia conforme alle
che — poiché avrei perso in ogni caso — alregole del gioco democratico; il secondo è
meno potrò raccontare di aver mangiato
permettere alla burocrazia russa, agli imuna pedina importante al campione di tutprenditori, ai miliardari, agli agenti, di poti i tempi. Poche mosse mi separano dall’itersi interfacciare alla politica e all’econonevitabile tracollo e dallo scacco matto.
*--*#30
mia del mondo libero senza regole.
Raccogliamo i pezzi, chiudiamo la scacchieKasparov è calmo mentre mi parla, con- i-*/7&3/0
ra e Kasparov, con un pennarello, me la detrollato, conosce l’argomento e lo espone 45""33*7"/%0w
dica.
da politico quale è, ossia da uomo che deve %*("33:,"41"307
Torno a casa sapendo che forse non si poconvincere ripetendo sempre i suoi concet'"/%"/(0 &630 trà mai vincere contro un avversario così
ti chiave. Ma come si può pensare di fron- 53"%7"-&/5*/"
grande, ma anche consapevole che il solo
teggiare tutto questo con un libro, con de- /*$0-¹ &4$&
tentativo di metterlo in scacco è un’opera
gli incontri, con delle lezioni? È una impre- *-."3;0
straordinaria. Capisco così perché proprio
sa ingenua ancor prima che titanica. La ri- *-"--&
uno scacchista ha deciso di fare il grande
sposta di Kasparov non è per nulla romanti- "--"6%*503*6.
oppositore di Putin. Uno scacchista non
ca. Cita un libro di Victor Sebestyen, giorna- 1"3$0%&--"
può che giocare d’intelligenza, di stratelista ungherese, intitolato . Leggendo- .64*$"%*30."
gia, di lealtà. Non ci sono scacchi se non c’è
lo si capisce che, a un anno dalla fine della "%3*"/040'3*
libertà.
Seconda guerra mondiale, il mondo era un */$0/53"-"6503&
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la Repubblica
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o i quadri non li tratto. È la mia regola. Ne ho già
viste fin troppe, di fregature. Stamattina viene
una. Comincia a frugare nella borsa della spesa dicendo che ha una cosa che mi potrebbe interessare, che stava in soffitta eccetera eccetera. La solita solfa. Credeva che non fosse niente di trascendentale, dice, finché non ha visto una cosa assai simile(e già
m’immaginavo il seguito) in quel programma in televisione sull’antiquariato, dove c’era uno di Christie’s
che... «Bottegai» le ho detto. E lei: «Scusi?».
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«Sotheby’s, Christie’s: bottegai. Parlano raffinato, tutti eleganti, col
manicure perfetto. Bottegai».
«Beh,» mi fa «comunque il tizio ha detto duemila sterline».
«Ah, ci credo. Quello mica deve alzarsi alle quattro del mattino e
farsi mezza Inghilterra su una Volvo scalcinata per star lì a gelare un
giorno intero sotto un tendone e venirsene via con due sottopentola
e un portaombrelli». Duemila sterline! Appena un gradino più su di
una vacca delle Highlands.
«È un dipinto a olio, di quelli veri. Guardi che lavoro ci hanno fatto».
«Signora, mi permetta: la posso mandare da Ambarabà? È qui,
sulla strada. In sostanza è un caffè, ma fanno anche i robivecchi, e in
più Yvonne tratta quadri...» — di solito il genere topini e micetti, ma
questo l’ho tralasciato.
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Ho fatto un salto qua di fronte per dirlo a Derek e Cyril. Avevano
appena avuto un cliente di Stoccolma che in pratica li ha svaligiati.
Ha preso soprattutto ceramiche dello Staffordshire, che sono il loro
forte. A me le ceramiche dello Staffordshire non dicono nulla, ma Derek e Cyril le adorano; presumo che rendano bene. In realtà non ho
una linea particolare. Cioè, prendo dei bei mobili dalle ville di campagna: olmo, ciliegio, tutto quel che è dipinto. E orologi, certo, quando
piano è bellissimo. È di olmo.
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La vecchia Miss Ventriss che passa a curiosare. Le ho preso due
piatti Crown Derby, giusto per farle un favore. Uno era anche scheggiato.
Mi sembra un po’ deperita. Tira avanti.
Niente male, quella spilla col cammeo.
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Son venuti due, proprio adesso. Parlano come se io neanche ci fossi. Hanno guardato la zuppiera coi fagiani. «Sessanta sterline!» fa
lei. «Io, la mia, l’ho pagata due e dieci». Sì, ma quando?, volevo chiederle, nel ’55?
Certi poi fanno cadere tutto per terra. Ora ho messo un cartello:
“Guardare è bello, toccare ancor di più, ma se lo rompi dovrai pagarlo tu”.
Ecco uno che guarda. È come stare nella boccia dei pesci rossi. No.
Puoi allungare il collo finché vuoi, ma il prezzo non riuscirai a vederlo. Così te lo sloghi e non vedi lo stesso, perché sono stata ben attenta a sistemare il cartellino in modo che per sapere il prezzo tu debba
entrare nel negozio. E tu te ne guardi bene.
E comunque non capirebbero lo stesso, perché l’ho scritto in codice.
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Potrei anche scendere a mille e tre per questo tavolo. Ce l’ho da un anno, è troppo. Lawrence me ne
direbbe di tutti i colori. «Bella, la merce va movimentata. Via, via, via». Lui sì che sapeva farlo, però voleva dire non guadagnarci molto. «È come
giocare a Scarabeo, bella. Se inizi a tenerti le lettere per formare la parola lunga, da sette, sei finita.
Usale, le lettere. Da una parte porti a casa cinque,
dall’altra dieci... Compri a un tot questa settimana, vendi a un tot la settimana dopo. È così che fai
i soldi». Il fratino starebbe bene in una sala riunioni. O in uno di quei loft ristrutturati. Potrei anche
prendere in considerazione millecentocinquanta.
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riesco a metterci le mani. Vasellame d’epoca, anche.
Certe cose proprio non le vendo. Gli orsacchiotti, per esempio. Gli
orsacchiotti sono un campo minato. A un’asta nel Suffolk ho visto un
orsacchiotto letteralmente squartato fra due offerenti. Uno era un
vicario.
Ormai tutti si buttano sull’alimentare. Arrotondano con le marmellate, coi vasetti di DIVUOFZ (un tipo di salsa orientale, OEU). L’altro giorno è entrata una. Mi ha chiesto se avevo del DIVUOFZ. «Signora,» le ho detto «quando Tesco avrà i tavoli intarsiati, io avrò il DIVU
OFZ».
Mi viene in mente Lawrence. «Dio santo, bella, non ho mica investito tutta la mia liquidazione in questo negozio per mettermi a vendere salsette del cazzo». Lui era un artificiere, per questo abbiamo
cominciato con gli orologi. Il fatto è che ai tempi, ovviamente, di orologi ce n’erano. C’era di tutto, ai tempi. Mobili. Ceramiche. Rifornire
il negozio era un gioco da ragazzi. E se uno aveva l’occhio, e io ce l’ho,
c’era solo da scegliere. Adesso no, bisogna arraffare quel che passa il
convento. Ed è solo questione di pecunia. Se ti piacciono le cose belle, che è il primo motivo per cui mi sono messa a fare questo mestiere, ti piange il cuore.
Oggi, poi, sono tutti intenditori; conoscono i trucchi del mestiere
a menadito. Vedi che gli cade l’occhio su una cosa, ma lì per lì non
chiedono; s’informano su qualcos’altro, fingono di non essere interessati. Poi ti fanno: «Ah... tanto per sapere, questo coso quanto viene?». È lo stratagemma più vecchio del mondo, ma se si aspettano
che ci caschi. Hanno imparato dalla tv, è chiaro.
Come mi piacerebbe dar via questo fratino. Era un affarone, quando l’ho preso, ma è qui da un anno e non se l’è mai filato nessuno. Il
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Continuavo a chiedermi che fine aveva fatto Miss
Ventriss. Siccome non la vedevo da un po’, mi è venuto
in mente di fare una capatina da lei, a controllare come
stava. È stato lì che mi ha offerto una scatola di minutaglia
presa dal cassetto della scrivania... Ero stata così gentile
con sua zia, ha detto, che voleva farmi un regalino. «La ringrazio molto», le ho detto, «ma non voglio nessun regalo». «Meno male» fa «perché gli avvocati sono così pignoli che probabilmente dovrò chiederle
un prezzo simbolico, in modo che sia tutto legale e regolare. Facciamo cinque sterline?». «Non vendo chincaglieria» le ho risposto. «Senta» ha insistito «se mi dà cinque sterline e poi ci guadagna di più può
donare il resto alla Oxfam». Le ho dato cinque sterline, ho preso la
scatola e me ne sono andata. Non ce l’ho fatta ad aprire la scatola.
Anzi, l’ho aperta soltanto adesso, ed è proprio come mi aspettavo.
Un paio di posacenere in vetro pressato: posso prenderci due o tre
sterline l’uno. Un portasigarette in bronzo e un portatovagliolo. Tutta roba che va dritta nella cesta delle occasioni. L’unica cosa abbastanza interessante è il disegno di un dito, un po’ imbrattato (credo
che sia un disegno; potrebbe essere una stampa). La cornice è molto
caratteristica. È piccola, ma con due porticine che si aprono, e quindi ricorda un po’ un altare. Probabile che sia dell’Ottocento.
Quando ho un minuto, levo il disegno e ci metto una cosa più classica: una stampa con dei fiori o roba così. La nobilito un po’. Magari ci
porto a casa una trentina di sterline, non si sa mai.
Ma tu pensa l’assurdità di mettere in cornice un dito.
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Mi sa che il fratino è andato. È venuto uno, stamattina. Giovane,
però. Coi capelli ricci. Non avrà avuto più di vent’anni. Gli ho chiesto
se stava cercando qualcosa in particolare. Ha detto che voleva fare
un regalo alla sua ragazza, ma poi aveva visto il tavolo ed era interessato. Non ha chiesto subito il prezzo, che è sempre un buon segno;
ha solo detto se glielo potevo misurare. Mentre sto frugando alla ri-
la Repubblica
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No, ho detto, non sono il tipo di persona che se la prende. Io ci avevo guadagnato, e loro anche. Vendere sempre e guadagnarci tutti: trattare antiquariato significa
questo.
Mi avevano piazzata davanti al negozio; c’era una ragazza, di fianco alla telecamera, e dovevo guardare lei e
non l’obiettivo.
Mi ha domandato se avrei chiesto un contributo. No,
ho risposto, non pensavo di chiederlo, ed ero sicura che loro non me l’avrebbero proposto. Certo: se lo facessero, sarebbe gentile. Io credo che al loro posto lo farei... viste le
circostanze.
Ormai non ci pensavo più, in realtà. Sono passati almeno sei mesi (pare che abbiano fatto un sacco di esami sulla
carta e non so cosa). Una mattina — non avevo ancora
aperto — viene Nancy a picchiare sulla vetrina. Sbandiera una copia del 5FMFHSBQI e mi indica una foto in prima
pagina. Sulla foto c’è quel ragazzo, e un primo piano del
dito. Dito che secondo tutti gli esperti (o comunque secondo alcuni) è un disegno di Michelangelo. È uno studio
(uno dei pochi, a quanto pare) per la mano di Dio sulla
volta della Cappella Sistina.
«E infatti mi pareva di averlo già visto,» fa Nancy «ma
è stata Fay ad accorgersene. Era incollata alla tv come al
solito, e ha detto che è come quello che fanno vedere
all’inizio del 4PVUI#BOL4IPX. Ma che peccato! Se guardavi la tv, magari lo riconoscevi».
La cosa che lo rende speciale, dicono, è l’anello. Dio
non porta l’anello al dito, sulla volta. Voglio dire, che
senso avrebbe... mentre sull’anello del mio... di quel dito... si vede lo stemma — leggerissimo — del papa che
l’ha commissionato... Giulio non so quale, ossia il mecenate di Michelangelo. Pare che sia stata una cosa molto
satirica, da parte di Michelangelo, anche se tutto quest’umorismo, io, non ce lo vedo.
Va da sé che così la stima lievita. Non è stato ancora venduto, ma potrebbe spuntare qualsiasi cifra... Cinque milioni, dieci... È unico.
Un dito. Grande così.
«Poverina» mi ha fatto Nancy. «Oh, son cose che capitano» le ho
fatto io. Quando se n’è andata, però, mi sono sentita male.
Salta fuori che il ragazzo che l’ha comprato — quello che mi sembrava un po’ di classe — è una nuova leva di Christie’s. Sul giornale
dice che l’ha trovato da un rigattiere. Un rigattiere.
Ho avuto molto da fare. Per lo più con gente che voleva soltanto
dare un’occhiata. A me, principalmente.
Ogni tanto, comunque, comprano qualcosa. Ieri ho venduto un
paio di bottiglie di limonata. Mi è rimasto poco, in negozio. Non ce la
faccio ancora ad andare alle aste. E ho sempre qui questo cazzo di fratino.
Sguazzo nei pomodori, per fare un po’ di DIVUOFZ. Copritappo decorato, etichetta scritta in corsivo. Novantacinque penny il vasetto.
Questo pomeriggio ne ho venduti tre.
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tipicamente
britanniche come
Alan Bennett. Forse la
regina, il summer
pudding, il fish &chips e Harrods
(no, Shakespeare è transnazionale).
E se non fosse uno che scrive — per i
suoi lettori, per il cinema, per la
televisione — potrebbe essere una
di quelle accese facce britanniche
che popolano il cinema di Mike
Leigh o di Ken Loach.
Per nostra delizia, invece, Alan
Bennett, dopo qualche fortunato
passaggio sulle scene teatrali,
scrive. E scrive mosso da un
paradossale senso della critica
sociale che traduce, per nostra
fortuna, in ironia e divertimento,
con un tocco di malinconia e di
partecipazione che rende il tutto,
anche il sarcasmo, umano,
affettuoso.
Solo uno scrittore di origine
proletaria come lui (è nato nel 1934,
a Armley, Leeds, da padre
macellaio, e ha studiato a Oxford,
l’Inghilterra è meritocratica) può
osservare e registrare con tanta
precisione i conflitti di classe, le
ambizioni, le umiliazioni, le
stravaganze della classe media
britannica. E con queste deliziarci.
Nella sua sterminata produzione
di racconti lunghi, di “novelle”, di
testi teatrali, di copioni televisivi di
cui fanno parte le “Talking Heads”
che Adelphi sta rilanciando, i
monologhi pungenti e
malinconicamente divertenti
passati in televisione con grande
successo, la puntata massima Alan
Bennett l’ha probabilmente
raggiunta con “La sovrana lettrice”,
uno “scherzo”, in senso musicale,
sulla passione per i libri e i rischi
della cultura. Capita infatti che la
regina, recentemente innamoratasi
dei libri, chieda al primo ministro
francese, durante una cena ufficiale,
se gli piaccia Jean Genet, con lo
scompiglio e le minirivoluzioni che
ne seguono... Una esilarante
radiografia della società britannica
di oggi è “La cerimonia del
massaggio”, che vede riuniti, a un
funerale, i clienti di un abile e
attraente massaggiatore. Tra risate
e compassione umana è “La signora
nel van”, dove si racconta di una
vecchia dama che ha chiesto
ospitalità a Bennett perché il suo van
potesse stare per qualche ora sul suo
vialetto di casa — dove invece
rimarrà per quindici anni: una storia
prontamente diventata un film con
la grande Maggie Smith. E poi la
spendida sceneggiatura di “La
pazzia di re Giorgio”, la commedia
giovanilistica “The History Boys”, su
una squadra di studentelli che
tentano di farsi ammettere a
Oxford.
Scampoli intelligenti e graffianti
di uno scrittore britannico come la
Union Jack. E grande come sono
piccoli i suoi testi.
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ma di andare, prende di nuovo in mano il disegno e fa: «Questo
cos’è?». Ho risposto: «Beh, è un dito, no?». «Sì» dice. «Non so se mi
piace, però la cornice è bella. Quanto viene?». Ho pensato: dài, ha
una voce fine, ci provo. «Non posso proprio scendere più di un tanto
sotto le cento sterline». L’ha posato, con una certa eleganza. «Già solo la cornice vale di più» gli ho spiegato. «Sì» mi fa «in realtà mi interessa la cornice». Ho pensato di guardare sul mio registro e poi gli ho
detto: «Beh, posso farle novanta, e se non le interessa il disegno glielo posso togliere». «No, non si preoccupi: lo tolgo io». Proprio allora è
entrato un altro e il ragazzo mi ha fatto un assegno, velocissimo. Ho
incartato il disegno e ho detto: «Mi fa sapere, per il tavolo?». «Come?». «Per il tavolo». «Oh, sì. La chiamo nel pomeriggio. Dovrebbe essere perfetto».
Sono appena passata dalla banca per versare l’assegno, e ora sto aspettando che mi chiami. Che ridere:
ero scesa a novanta, ma lui con tutta la fretta che aveva ha scritto lo stesso cento.
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cerca del metro, prende in mano un paio di cose. Avevo
messo lì il disegnino di Miss Ventriss: pensavo di dedicare il
pomeriggio a toglierlo dalla cornice, l’avevo lasciato un attimo sul tavolo. Lui l’ha sollevato, poi l’ha messo da una parte per
poter guardare meglio il piano. Dopo che ho misurato il tavolo, è andato a controllarlo bene da sotto; è un po’ tarlato, ma sarebbe strano
che un pezzo di quell’età non lo fosse, e comunque tutti e due abbiamo pensato che il tarlo è morto. Quindi ha voluto sapere qual era il
miglior prezzo che gli potevo fare. Siccome un anno fa l’avevo pagato millecento, gli ho detto: «Guardi, non posso scendere molto sotto
mille e sette. Diciamo milleseiecinquanta. È olmo». «Lo so» ha detto
lui. «Molto bello. Se le misure sono giuste, è proprio quello che stiamo cercando». Gli do il mio biglietto da visita, lui ci trascrive le misure, e rimaniamo che mi chiamerà questo pomeriggio. Un attimo pri-
I SONO POCHE COSE così
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BERLINO
EL SALOTTO DELL’HOTEL DE ROME Ethan Coen arriva per pri-
mo all’appuntamento. Chiede un caffè che allunga con acqua minerale. S’aggiunge poco dopo l’allampanato Joel, il
maggiore dei due fratelli, il più alto e il meno sorridente.
Guarda con desiderio le bustine di zucchero, poi si rassegna a un caffè amaro.
Abbiamo appena visto il loro "WF $FTBSF, da tre giorni
arrivato anche nelle sale italiane. È una lettera d’amore a
Hollywood ma scritta alla maniera dei fratelli meno romantici del cinema americano. Un affresco leggero, a tratti esilarante, dell’età d’oro degli Studios. Quei favolosi anni Cinquanta in cui l’industria dei sogni era gestita con mano ferrea dalle NBKPST, che reagivano alla concorrenza televisiva e al clima da Guerra fredda sfornando kolossal biblici, musical in technicolor, western all’ultimo sangue e raffinatissimi drammi da salotto. Il film si svolge in una giornata tipo negli studi hollywoodiani di
quell’epoca. Molti i set in corso. C’è il kolossal biblico in cui il divo George Clooney viene rapito da un misterioso gruppo chiamato “Futuro”. C’è il film acquatico con la sirena Scarlett Johansson in versione Esther Williams alle prese con una gravidanza indesiderata. E,
ancora, un musical con Channing Tatum in una versione sovversiva di Gene Kelly. Infine
un dramma da camera in cui un azzimato regista (Ralph Fiennes) si confronta con lo scarso talento di un cowboy-canterino (è Alden Ehrenreich). A far funzionare questa macchina così complessa è Josh Brolin (ovvero Eddie Mannix), il GJYFS degli Studios, quello che
deve risolvere le grane e tenere le star più capricciose fuori dagli scandali.
Se già in #BSUPO'JOL(1991) i due fratelli raccontavano la parabola degli scrittori ingaggiati con faraonici contratti e poi buttati via da produttori cinici (anche lì la NBKPS si chiamava Capital Pictures), stavolta Hollywood la prendono in giro ma senza troppa cattiveria.
Ora eccoceli tutti e due di fronte. Non sono una voce sola, semplicemente col tempo hanno imparato a infilarsi l’uno dentro il ritmo dell’altro.
Cominciamo da un piccolissimo dettaglio, diciamo così una curiosità: nel film avete
messo a capo del gruppo di sceneggiatori comunisti il filosofo del Sessantotto tedesco,
Herbert Marcuse. Che Clooney chiama “Herbie”. Come vi è saltato in mente?
Ethan: «Beh, ci siamo tolti una piccola soddisfazione. Non sono molti i film di Hollywood
in cui puoi citare Marcuse. Siamo certi che il nostro pubblico apprezzerà».
A proposito di Clooney. È il quarto film che fate con lui, ci sarà anche un quinto?
Joel: «Dovremmo proprio farlo, sì. Dopo
#VSO "GUFS 3FBEJOH (" QSPWB EJ TQJB,
2008) George ci aveva detto che quello sarebbe stato il suo “ultimo idiota”. Disse proprio così. Poi però lo abbiamo richiamato di3"-1)'*&//&4
cendogli di fare solo quest’altro ancora e
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poi basta. Non riesce a dirci di no. E per noi
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è davvero un piacere lavorare con lui. Devi
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essere intelligente per fare lo stupido. E
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non avere quella vanità tipica delle star:
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George ne è totalmente libero».
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Ethan: «E poi in generale noi tendiamo
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sempre, sia con gli attori che con la troupe,
a lavorare con le stesse persone quando ci
siamo trovati bene. Un altro è Ralph Fiennes: lo inseguivamo da tempo e ora speriamo di poterci lavorare ancora».
Da dove siete partiti per arrivare a una
cosa come “Ave, Cesare!”?
Ethan: «All’inizio l’idea era quella di fare
un film su Eddie Mannix, GJYFS della Metro
Goldwyn Mayer. Il suo lavoro era quello di
andare a recuperare in qualche malfamato
locale di San Diego la star di turno riparando ogni eventuale danno. Oppure convincere qualche attore segretamente gay a sposarsi. O sistemare una gravidanza indesiderata. Ma un personaggio così ambiguo ci offriva anche la possibilità di raccontare alcuni dei film con cui io e mio fratello siamo in
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qualche modo cresciuti. Tra i tanti, diciamo pure tra i peggiori, c’erano i QFQMVN. E lì ci siamo detti: chi meglio di Clooney?».
Gli anni Cinquanta sono anche la vostra era cinematografica preferita?
Ethan: «Diciamo più i Sessanta, se non altro perché le cose che vedi in tv quando sei ragazzino poi sono quelle che ti restano più impresse nella memoria. E poi tutti lì a magnificare i Settanta solo perché ci sono stati i grandi come Coppola o come Scorsese. Per noi sono stati più importanti i Sessanta».
Joel: «La sera ci guardavamo i film in tv e il giorno dopo ne facevamo il remake con la Super8 e un gruppetto di amici».
Ethan: «Già, proprio così: nessunissima ambizione, solo il nostro gioco più bello».
Il film è ricco di citazioni. Avete dovuto studiare molto?
Joel: «No, anche la Hollywood degli anni Cinquanta è un periodo che conosciamo molto
bene. Non abbiamo dovuto studiare un granché».
Ethan: «Ci siamo giusto rivisti alcuni numeri di Esther Williams e le stravaganze coreografie di Buzz Berkeley. E per il tip tap qualche balletto di Gene Kelly».
Joel: «La cosa che ci ha fatto divertire di più è che ogni settimana ci trovavamo a girare
un film diverso: una volta il biblico, poi il musical, il western, l’acquatico...».
Joel: «Ah, ovviamente ci siamo anche rivisti la battaglia di #FO)VS, soprattutto per capire come erano fatti gli esterni e per lavorare sul look. E ovviamente abbiamo usato nuove tecnologie per creare cose che allora si facevano in modo diverso. E soprattutto che oggi non si farebbero più: ma chi diavolo se lo guarderebbe un balletto acquatico?».
Il film era stato annunciato ben dieci anni fa: perché lo avete fatto solo ora?
Ethan: «Ci capita spesso che alcuni progetti si fermino. 'BSHP(1996, OES) ha aspettato
due anni dopo che l’avevamo buttato giù. #SPUIFS8IFSF"SU5IPV ('SBUFMMP EPWFTFJ?,
2000) invece lo facemmo subito. Perché avendo accennato dell’idea a George (Clooney,
OES) lui pensò bene di annunciarlo pubblicamente come il suo prossimo film! Quanto a
"WF $FTBSF se avessimo aspettato ancora un po’, tutti quelli che volevamo coinvolgere sarebbero stati troppo vecchi».
Esther Williams, George Cukor, Gene Kelly, Robert Taylor, Carmen Miranda, Eddie
Mannix. Molti personaggi del film sono ispirati ai veri protagonisti di
quel periodo.
Joel: «Sì, più o meno. I riferimenti sono quelli che qualsiasi cinefilo
riconoscerà subito».
È un’epoca che non esiste più.
Joel: «Gli TUVEJPT oggi operano in modo molto più diversificato,
poi col tempo sono entrate in gioco altre variabili, anche altre forme di finanziamento. E persino quando i
soldi vengono direttamente dagli TUVEJPT
ci sono comunque vari gradi di controllo:
non è che si può andare a dire a uno come
James Cameron cosa fare e cosa non fare».
E alle star?
Joel: «Anche loro oggi sono molto più in7&30/*$"0403*0
dipendenti di una volta. All’epoca erano so$"3.&/.*3"/%"
stanzialmente di proprietà delle NBKPST
"--"7&37&&"--"4*.1"5*"
che le creavano e ne disponevano. Anche fi%&--"553*$&#3"4*-*"/"
sicamente».
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A proposito di majors, finanziamenti e
$0.*$"*/5&313&5"5"
epoche che non esistono più: il vostro
%"7&30/*$"0403*0
film di esordio, “Sangue facile”, anno
1984, fu finanziato da un gruppo di commercialisti, parrucchieri e avvocati...
Ethan: «Beh sì, possiamo dire di essere
stati fortunati, eravamo completanente
fuori dal business. Ma va detto che quelli
erano tempi in cui era molto più facile lavorare in modo indipendente. Il mercato si
era aperto e il cinema veniva considerata
un’attività lucrativa».
Mai ricevuto pressioni?
Ethan: «No, i nostri film sono troppo piccoli per averne. Noi facciamo ciò che ci sentiamo di fare e ciò che possiamo fare. E anche da cineasti ci piace premiare opere che
*3&(*45*
consideriamo EJWFSTF. Voglio dire: a Can"-$&/530 nes abbiamo consegnato la Palma a un film
6/3*53"550%*+0&come %IFFQBO!».
&&5)"/$0&/
Una delle scene più divertenti di “Ave,
Cesare!” è quando Mannix convoca esponenti di tutte le religioni per discutere
degli aspetti teologici del kolossal biblico. Il rabbino chiude la discussione sulle
definizioni di Dio proposte dai cristiani
dicendo: “Dio è dio, e basta. Ed è sempre
incazzato”.
Ethan: «Siamo cresciuti in una comunità
ebraica ma abbiamo voluto che il nostro
"-%&/&)3&/3&*$)
personaggio principale fosse invece molto
5*.)0-5
cattolico. Mannix è come un padre per quei
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figli incoscienti che sono le star. Il grande
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cattivo della storia è invece il comunismo,
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che è una religione secolare».
453*;;"-0$$)*0
C’è stato mai un film che alla fine non sie26&450$08#0:
te riusciti a realizzare?
$"/5&3*/0
Ethan: «Certo che sì. 5PUIF8IJUF4FB, la
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storia di un aviatore americano abbattuto
durante il bombardamento di Tokyo. Avevamo anche trovato una vera star. Ma nessuno ha voluto produrre una storia in cui
Brad Pitt veniva decapitato dopo dieci minuti».
ª3*130%6;*0/&3*4&37"5"
la Repubblica
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GLI AUTORIPARATORI
.
OLTI GRANDI PROBLEMI DELL’UMANITÀ hanno una soluzione
Come gli organismi animali anche
gli aerei, i telefonini, i muri di cemento
e le pale eoliche saranno capaci di
ripararsi da soli. Una frattura potrà
essere sanata attraverso l’iniezione di
sostanze rinforzanti in micro capsule
nei materiali danneggiati
piccola piccola. Fatta di atomi assemblati in molecole, e
di molecole legate fra loro in forme completamente nuove. Alle quali la natura non ha mai pensato, o che proprio
alla natura sono ispirate per essere piegate ad applicazioni utili all’uomo. Il mondo dei nuovi materiali, quelli che
nel futuro saranno forse comuni come la plastica, ma che
oggi vivono solo nei laboratori, è uno zoo ricchissimo di
specie. Ma gli scopi per cui i ricercatori provano ad arricchire il mondo di nuovi esemplari molecolari sono sempre gli stessi, e rispondono alle domande di produrre e risparmiare energia, ripulire l’atmosfera dall’anidride carbonica, curare le malattie e, perché no, divertirci. Ma rispetto ai tempi di Thomas Edison, che
nel 1879 sperimentò oltre seimila materiali per trovare quello più adatto alla sua lampadina, i
metodi sono molto cambiati. Con le nanotecnologie si può controllare la materia a livelli inferiori al nanometro (miliardesimo di metro), la chimica supramolecolare sfrutta le leggi della
fisica, oltre a quelle della chimica, per assemblare molecole (o per farle assemblare da sole). E
la capacità di calcolo dei computer permette di creare, osservare, manipolare i nuovi materiali
in maniera virtuale prima ancora che siano realizzati veramente.
«Il secolo scorso è stato quello del la rivoluzione della plastica, il materiale che ha cambiato
la nostra vita quotidiana. Oggi stiamo preparando una nuova rivoluzione» spiega Vincenzo Palermo dell’Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività del Cnr, coordinatore del gruppo
sui materiali nanocompositi all’interno del progetto europeo sul grafene, soprannominato
“flagship” per la sua importanza e finanziato con un miliardo di euro dall’Ue. Se la plastica è
formata da lunghe catene di molecole e può dunque essere definito un materiale a una sola dimensione «la nuova frontiera è sviluppare materiali analoghi ma che si estendano in due dimensioni». Continua Palermo: «Non catene lineari ma fogli piatti, flessibili e robusti, come Palermo. «Ma per applicazioni più diffuse ci
il grafene, un materiale fatto di atomi di car- vorrà pazienza. Tra l’invenzione della lampabonio. Assemblando poi questi fogli uno dina a incandescenza e la sua diffusione da
sull’altro, come con le lasagne, si possono ot- parte di Edison passarono quarant’anni». Intenere proprietà mai viste prima in natura».
ventare materiali, sottolinea, è un po’ come
Per capire come questo materiale flessibi- giocare con il Lego. «Che infatti usiamo nel
le, trasparente, capace di condurre elettrici- nostro laboratorio. Ma l’ingrediente più imtà e calore, forte e sottile (spesso quanto il dia- portante per scoprire un nuovo materiale è la
metro di un atomo) potrà essere usato basta fantasia. Più strana è, più un’idea ha probabiusare la fantasia. Il gruppo del Cnr ha presen- lità di cambiare il mondo».
tato al Mobile World Congress di Barcellona
E di idee strane, negli ultimi anni, i manipodelle antenne flessibili da inserire in oggetti latori della materia ne hanno avute a bizzefo indumenti per interagire con i nostri telefo- fe. C’è chi, alla Cornell University, ha creato
ni. «Oggi non solo il carbonio, ma un altro cen- dei fogli sottilissimi strutturati come origatinaio di materiali possono essere prodotti mi: con minuscole pieghe capaci di chiudersi
con la stessa struttura del grafene» conferma o aprirsi a seconda di temperatura, pressio-
L’ANTINQUINAMENTO
INFOGRAFICA: STUDIO MISTAKER
I materiali usati solitamente dalle centrali
elettriche per catturare l'anidride
carbonica prodotta si rivelano poco
eicienti. Al contrario gli zeoliti, minerali
porosi naturali, possono essere riprodotti
artiicialmente modiicando la loro
dimensione e la disposizione dei pori
così da poter catturare più facilmente
le molecole di anidride carbonica
50%
Zolfo
ne, presenza di campi elettromagnetici o altre caratteristiche dell’ambiente. Potranno
essere usati per costruire robot capaci di muoversi da soli. Per ora hanno aiutato i pannelli
solari di alcuni satelliti a dispiegarsi senza
consumare troppa energia una volta raggiunta la loro posizione nello Spazio. Ispirandosi
alle foglie di loto, i ricercatori del Mit hanno
invece creato materiali completamente impermeabili, capaci di respingere qualunque
goccia di acqua, olio o altre sostanze. All’università norvegese di Linkoping, poi, hanno
immerso una rosa recisa in una sostanza capace di condurre elettricità che ha permeato
i tessuti del fiore attraverso il suo sistema vascolare e l’ha trasformato di fatto in un transistor. E sempre sul fronte della contaminazione fra natura e laboratorio, i ricercatori dell’Istituto avanzato coreano di scienza e tecnologia proprio in questi giorni hanno spinto dei
batteri — manipolandone il Dna — a secernere diverse sostanze plastiche che potranno essere usate come fili di sutura per la chirurgia
o protesi che non vengono rigettate dall’organismo. Perfino l’idea ripresa dalle favole di
creare un mantello dell’invisibilità è stata trasformata in realtà. Oggi questo “mantello”
esiste davvero, anche se solo sotto forma di
IL MANTELLO DELL’INVISIBILITÀ
I primi prototipi sono capaci di deflettere
e curvare la luce, anziché respingerla,
grazie alla precisione di “metamateriali”,
i cui componenti devono avere
dimensioni minori rispetto alla lunghezza
d’onda della radiazione che manipolano
50%
Suolo
Marziano
IL CEMENTO MARZIANO
Per costruire le case su Marte si dovrà usare
il “cemento marziano”, composto da zolfo
impastato con il suolo del pianeta rosso senza
aggiunta di acqua. Questo cemento due volte
più resistente rispetto al suo omologo terrestre
è capace di solidiicare in un’ora, potrebbe essere
usato anche sulla Terra, se non fosse per la sua
scarsa resistenza al calore
LA CYBER-ROSA
Ogni tessuto vivente può essere trasformato
in un circuito elettrico,
così una rosa immersa in un polimero
è diventata il primo transistor vivente
perfettamente funzionante. Il materiale,
che permea lo stelo attraverso i vasi linfatici,
è capace di trasmettere elettricità
la Repubblica
%0.&/*$" ."3;0 LE SUPERFICI SEMPRE ASCIUTTE
I materiali “super idrofobici”,
come le foglie di loto, attraverso
delle microscopiche sporgenze
sulla loro supericie sono capaci
di far rimbalzare le gocce d’acqua,
che grazie alla loro tensione
supericiale riescono a scivolare
via senza rompersi
LA SETA PIÙ FORTE DELL’ACCIAIO
prototipi sperimentali capaci di nascondere
un oggetto da lunghezze d’onda molto ristrette. Il segreto dell’invisibilità è la capacità che
alcuni materiali hanno di “giocare” con la luce, facendola deflettere e curvare attorno
all’oggetto da nascondere anziché respingerla verso gli occhi di chi osserva.
Molta di questa magia può essere realizzata grazie alla capacità di calcolo dei computer
che evitano i lunghi e noiosi test di Edison a fine Ottocento. «Possiamo studiare le proprietà dei materiali che esistono o simulare le proprietà di quelli che non esistono» spiega Elisa
Molinari, docente di fisica della materia all’università di Modena e Reggio Emilia e direttrice di una infrastruttura europea coordinata dal Cnr e lanciata appena pochi mesi fa: il
Max Center (Materials design at the eXascale). «Ci prepariamo a sfruttare le frontiere
del supercalcolo per simulare le proprietà dei materiali che dipendono dal
comportamento quantistico degli
elettroni». Con questa nuova “potenza
di fuoco” è possibile svolgere ricerche
utili alle industrie: a Modena, insieme al
consorzio Cineca e alla Scuola superiore di
studi avanzati di Trieste, si studiano materiali che riducono l’attrito o che potranno sostituire i coloranti delle aziende dolciarie. Ma anche sognare di risolvere il problema energetico dell’umanità. «Una delle applicazioni più
futuristiche — spiega la Molinari — è la possibilità di ispirarci ad alcuni processi della fotosintesi per raccogliere e trasferire l’energia
del Sole». Mentre i pannelli fotovoltaici riescono a trasformare in elettricità solo il 15-20
per cento dell’energia del Sole che ricevono,
nelle piante alcuni complessi fotosintetici riescono a trasferire energia con un’efficienza
vicina al cento per cento. Se pensiamo che
ogni ora il Sole irrora la Terra con un’energia
più che sufficiente a coprire i bisogni dell’umanità per un anno, abbiamo un’idea di
quanto sia alta la posta in gioco.
Nonostante il segreto della tela del ragno
non sia stato ancora svelato, vari scienziati
hanno dimostrato che è possibile
applicare le tecniche dell’ingegneria
genetica agli insetti, inducendoli
a produrre ibre ancora più resistenti:
dai tessuti a prova di proiettili, ai cavi
per la medicina, ai tendini artiiciali
13,8
miliardi di anni
la quantità
di informazioni
che può
immagazzinare
17-20% 25%
LA SUPER-ASSORBENTE
Perovskite
Come le foglie, i “materiali origami” sono
capaci di piegarsi o distendersi al variare
di temperatura, pressione, campi
elettromagnetici o di altre caratteristiche
dell’ambiente. Sfruttando le loro
proprietà è possibile creare piccoli robot
semoventi o distendere i pannelli solari
dei satelliti nello spazio
Attraverso un tipo di vetro con
una struttura scolpita al livello
dei 5 micrometri e un raggio laser,
può essere inciso come un normale disco
ma immagazzinare informazioni
per 13,8 miliardi di anni; praticamente
l’età dell’universo
Aumento dell’efficienza previsto
ª3*130%6;*0/&3*4&37"5"
GLI ORIGAMI CHE SI MUOVONO
IL DISCO UNIVERSALE
L'azione del silicio, elemento
fondamentale per i pannelli fotovoltaici,
può essere potenziata attraverso
l'aggiunta di nuovi materiali come
la perovskite, un cristallo capace
di assorbire una frazione
dello spettro della luce solare
che il silicio non copre
la Repubblica
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una città per
mangiare. Detto appena qualche
anno fa, si sarebbe rischiata la gogna. Difficile trovare in giro per il
mondo una cucina altrettanto basica e povera, non solo e non tanto
per il costo delle materie prime,
quanto per la pochezza gastronomica e l’esile tradizione culinaria.
La straordinaria storia commerciale dell’Olanda, le rotte del cibo inventate e praticate per secoli, l’importazione di molte delle materie prime più incredibili e sconosciute, perfino la loro prima, intuitiva trasformazione non sono
stati sufficienti a garantire un adeguato sviluppo dell’arte culinaria nei Paesi Bassi.
Spezie e cioccolato, fiori e tè: l’Olanda ha rifornito l’Europa di
ogni bendidio, legando la propria immagine a produzioni alimentari riconosciute nel mondo intero. Generazioni di bambini
sono cresciute arricchendo il latte del mattino con il cacao Van
Houten, hanno fatto merenda con i formaggini Gouda, confezionati come tante polpettine dall’involucro rosso acceso, si sono appassionati alle storie dei LPFLFNBOOFUKF, gli omini di pan
di zucchero profumati con zenzero e cannella. Il tutto, mentre i
loro genitori si regalavano robusti brividi alcolici con i cocktail a base di gin, il distillato inventato mezzo millennio fa
per alleviare i dolori articolari
dei malati di gotta grazie alle
virtù diuretiche del ginepro.
A difettare in modo deprimente, la declinazione gourmand, capace di trasformare
le melanzane in caponata, il
basilico in pesto o un pugno di
formaggio nell’impareggiabile cacio&pepe. Come se il cibo
fosse poco più che un male necessario, da ottemperare senza entusiasmo né ispirazioni,
tra patate bollite con bacon
fritto (TUBNQQPU) e salsiccia
affumicata col cavolo verde
(CPFSFOLPPM). L’unica declinazione davvero golosa della cucina olandese è stata legata ai
dolci, con bomboloni, bignè e
biscottini speziati in cima alla
lista dei desideri, a cui aggiungere l’eccezione esotica dei
piatti in arrivo dalle ex colonie. Una poca attenzione al
piacere del cibo che per molto
tempo si è specchiata nella produzione alimentare sempre più
serializzata, negli allevamenti come nelle pratiche agricole, dalle superproduzioni di latte alle colture idroponiche.
Per fortuna, piccoli cuochi crescono. Viaggiano, imparano, e
quando tornano in patria decidono di cambiare per sempre i comandamenti della cucina. Se in molte case ancora ci si accontenta di zuppe di carote e aringhe in agrodolce, ristoranti e fattorie hanno intrapreso un percorso diverso e originale, basato
su qualità, ecosostenibilità, cultura alimentare. I giovani cuochi hanno squadernato i menù, guadagnando le piccole imprese agricole alla buona causa della nuova cucina olandese: niente verdure gonfiate dalla chimica, animali nutriti con erba vera, ricette di pesce liberate dalle salse importate dalla gastronomia francese.
Reinventata a nuova capitale della gastronomia, Amsterdam vi stupirà con i piatti del ristorante-serra De Kas, dove
Gert Jan Hageman allestisce ogni giorno un menù figlio del raccolto del momento, o con la scelta di mercati contadini (Pure
Markt, NeighbourFood, Nieuwmarkt, Noordermarkt). In caso
di sete improvvisa, regalatevi un bicchiere di Trappe Puur, birra trappista biologica dell’abbazia di Onze Lieve Vrouw Van Koningshoeven e brindate all’appetitosa primavera olandese.
MSTERDAM, OVVERO
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MSTERDAM È UN punto
preciso sul planisfero
della mia lingua. Pur
non essendo appesa a
un muro ma raccolta
dentro la fortezza della dentatura,
pur non essendo consultabile se non
da me stesso, è lì che trova posto tutto
il mondo delle terre emerse. Le mie
papille gustative condividono la
stessa lingua, ma sono ugualmente
suddivise in stati nazionali e nei
cinque continenti. Sul planisfero della
mia lingua le bandiere non hanno
colori e non sventolano dai balconi
degli edifici di rappresentanza. Ogni
bandiera ha più gusti giustapposti,
l’edificio è sempre lo stesso e così
pure l’orizzonte: un palato e in fondo,
prima della curva, un’ugola
pendente.
Sul planisfero della mia lingua, ad
Amsterdam sventolano i vessilli
dell’aringa, dell’anguilla affumicata,
del formaggio, e della “bruine
bonensoep”, la zuppa di fagioli scuri.
Se sono sul suolo olandese,
notoriamente molto ventoso e per
questo celebre per i suoi mulini a
vento, le papille gustative sventolano
le loro bandiere come in una festa
nazionale. A guardarle bene, si
vedrebbe anche il gusto di patata, che
è un gusto invero semplice ma
difficile da trovare altrettanto dolce.
A dispetto di chi pensa che in Olanda
il palato si mortifichi, vorrei portare la
testimonianza delle mie papille
gustative, tutte in piedi al passaggio
del formaggio.
Da un po’ di tempo a questa parte,
sul planisfero della mia lingua si
aggira uno spettro che spaventa il
mio palato. Si muove come un
plotone, lo si vede da lontano: si leva
una nuvola di polvere e dei grandi
bandieroni che fanno razzia di tutto
quel che incontrano. Tolgono le
bandiere dai balconi, e obbligano le
papille gustative a sventolare i nuovi
vessilli, i cosiddetti vessilli del Gran
Gourmand. Ormai sventolano su
quasi tutto il planisfero della mia
lingua, perché, dicono, il Gran
Gourmand è il più buono ed è il più
bravo. Il mio palato sta soffrendo,
perché il Gran Chef sarà buono e sarà
bravo, ma c’è sempre e solo lui. Così io
ogni tanto sobillo le papille, le istigo a
tirare fuori le bandiere, a sventolare il
vessillo del coriandolo in Portogallo,
della “ciorba” in Romania, e della
zuppa di fagioli tra i canali di
Amsterdam.
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Il suo vero nome è Madeleine Wickham ma tutti la conoscono con
lo pseudonimo con il quale firma la saga di “I love shopping”. Un
marito, cinque figli, ventiquattro libri tradotti in quaranta paesi,
prima di darsi ai bestseller scriveva di finanza e pensioni. Poi decise di cambiare genere e identità: “Non mi aspettavo di avere così
tanto successo e in caso di fallimento avrei evitato di farmi schiacciare dalle critiche”. Ora che anche in Italia è arrivata l’ultima tappa del suo viaggio nei grandi madi comprare, comprare, comprare. Ha l’aspetto, piuttosto, di un’intellettuale, quale in effetti è, come conferma il suo curriculum: ottime
gazzini (Las Vegas) a chi la quello
scuole private femminili, quindi laurea a Oxford in Ppe, acronimo di Politics Philosophy Economy, il più sofisticato corso di studi dell’istruzione
inglese. A Oxford ha conosciuto il suo futuro sposo, che ha fatto
snobba risponde così: “Scrivo ro- superiore
per un paio di decenni il preside di una scuola (privata e d’élite anche
quella), prima di prepensionarsi e dedicarsi a fare per così dire il preside
cinque figli nati dalla coppia: lui si occupa dei bambini e fa il manager
betta per donne single? Di certo dei
della moglie, una azienda editoriale che funziona ormai come una fabbrica (di libri e di profitti).
Secondo capitolo: due identità. Sophie è il secondo nome di Madeleine
dev’essere meno noiosa di tanti Wickham,
Kinsella è il cognome da nubile di sua madre. Come Madeleine
Wickham, uscita da Oxford, ha fatto la giornalista finanziaria e ha pubblicato mezza dozzina di romanzi accolti molto bene da pubblico e critica. A
romanzi contemporanei”
quel punto, però, ha avuto l’idea di cambiare registro, si è inventata lo
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& / 3 * $ 0' 3 " / $ & 4 $ ) * / *
1
LONDRA
dai numeri: un marito,
due identità, cinque figli, ventiquattro libri, tradotti in quaranta nazioni, l’ultima delle quali è la Mongolia. Lo shopping
fa vendere copie anche a Ulan Bator? «Evidentemente sì, tutto il mondo è paese e l’animo umano si somiglia ovunque», risponde ridendo Sophie Kinsella, che dell’andare a fare compere, più o meno ossessivamente, è il cantore ufficiale. E non ha
neanche bisogno di cambiare titolo a seconda delle lingue. I
romanzi della serie *MPWFTIPQQJOH l’hanno proiettata in pochi anni sull’olimpo della narrativa inglese contemporanea
insieme a J.K. Rowling e Helen Fielding: tre donne, tre scrittrici che in fondo si somigliano, una ci ha svelato con Harry
Potter le fantasie dei nostri figli, l’altra ha sdoganato le
fantasie romantiche con Bridget Jones e a lei è toccato illuminare l’irrefrenabile desiderio di fare acquisti con la
sua alter ego Becky Bloomwood. Shopping a Londra,
all’inizio, poi la saga è proseguita con shopping a New
York, shopping a Hollywood, shopping con amiche, figli, consorte, fino al capitolo più recente, *MPWFTIPQQJOH
B-BT7FHBT (in Italia pubblicato per Mondadori e che sa-
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rà presentato dall’autrice stessa, domenica prossima, alle 16, a “Libri come”, all’Auditorium Parco della Musica
di Roma), a dimostrazione che nella città dei casinò si
possono spendere soldi non solo al tavolo della roulette,
del poker o del black jack.
Seduta a un tavolino un po’ meno d’azzardo, quello di un elegante caffè all’angolo di Pall Mall, la via dei club per gentiluomini, l’autrice, quarantasei anni, non ha l’aspetto di una TIPQBIP
MJD, come si dice in gergo, di chi cioè ha una dipendenza dallo
shopping. Niente abiti firmati, gioielli vistosi, borsette voluminose; né si presenta con quelle sporte colorate dei grandi magazzini alla moda che sono l’accessorio indispensabile delle USP
QIZXJWFT, le mogli-trofeo di banchieri e altri padroni dell’universo, il cui solo vero scopo o impegno nella vita sembra essere appunto
pseudonimo Sophie Kinsella e con quello è diventata ricca e famosa. Perché pubblicare con uno pseudonimo, se aveva già successo con il suo nome vero? «Forse perché sono pazza? Oppure perché mi piacciono le sfide.
Ma soprattutto per istinto, mi era venuta l’idea di un romanzo sullo shopping, volevo scrivere una commedia e credevo che avesse bisogno di un
autore differente. Adesso che ci penso lo pseudonimo era anche una forma di protezione, non mi aspettavo che il libro andasse bene e in caso di
fallimento avrei evitato di sentirmi schiacciata dalle critiche. Invece ha
funzionato e a quel punto sono andata avanti». Sullo shopping si può ridere, naturalmente, ma anche fare discorsi molto seri: siamo diventati una
società prigioniera del consumismo, che compra in continuazione cose di
cui non ha bisogno? «Oggi lo siamo un po’ meno di ieri, c’è più consapevolezza degli eccessi. Certo se la gente non consuma, dicono i politici, l’economia si ferma. D’altra parte lo shopping come dipendenza è una malattia, non meno nociva di altre dipendenze». A lei piace fare shopping?
«Ammetto di sì, ma non sono una TIPQBIPMJD. Lo ritengo un piacere normale per ogni donna, e parecchi uomini, se appunto rientra nei confini
della normalità, se non diventa un comportamento esagerato, compulsivo. Nel qual caso bisogna trattarlo con ironia e umorismo, l’arma migliore, secondo me, per affrontare i problemi della vita». Non per niente si dice “humour inglese”: è questo paese che ci ha insegnato a sorridere, del
prossimo e possibilmente di noi stessi. E tuttavia sorride o si sente offesa,
quando la sua pagina di Wikipedia la descrive come la regina della
DIJDLMJU, la narrativa femminile, un genere dal recinto stretto e generalmente non considerato molto prestigioso? «Cerco di reagire in modo positivo. Sono una persona pragmatica e tutto sommato quel termine riassume sinteticamente il tipo di libri che io scrivo: una narrativa contemporanea, con elementi comici e una protagonista femminile. Perché sentirsi
insultati? Fosse per me, certo, preferirei che i miei libri non venissero categorizzati in alcun modo. E questo vale per tutti i libri, non sarebbe me-
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glio lasciare che il lettore venga sorpreso, non sappia cosa aspettarsi e
poi decida da solo se è letteratura alta o bassa, leggera o pesante, femminile o maschile? Ma viviamo nell’era del marketing e i libri non possono sottrarsi, per cui serve metterci sopra l’etichetta. $IJDLMJU dite?
E sia». La sua letteratura preferita quale è stata? «Jane Austen, P.G.
Wodehouse e soprattutto Agatha Christie, per me la più grande scrittrice, o il più grande scrittore, di tutti i tempi». Una scrittrice, secondo
i critici, che non sapeva scrivere. «Una scrittrice il cui stile non crea
mai ostacoli alla storia da raccontare. Mentre oggi ci sono molti scrittori in cui la forma prevale sulla sostanza: scrivono benissimo, ma le
storie che raccontano sono di una noia mortale, non succede niente».
Fra tutti i libri che scrive, dove ha trovato il tempo (e le energie)
per fare cinque figli? «Credo nell’istituzione della famiglia», spiega
cercando di finire il generoso breakfast (uova e spinaci) che ha ordinato. «I primi tre figli li abbiamo fatti subito, altri due dopo una pausa
di sette anni. Adesso ne abbiamo di tutte le età, dai diciassette ai quattro anni, questa estate quando abbiamo fatto le vacanze in roulotte in
California sembravamo una scolaresca in gita, ma è stato divertente».
Un marito perfetto, una famiglia perfetta, un successo perfetto,
quale è il segreto di tanta perfezione? «Credo nell’organizzazione, anche troppo, sono un po’ maniacale. Ma come dimostrano le mie scelte
ciò non mi impedisce di rischiare, di cercare strade nuove. Da ragazza studiavo musica e poi mi sono laureata in politica, filosofia ed economia. Scrivevo di finanza, anzi di pensioni, e poi ho deciso di mettermi alla prova
con i romanzi. Ne ho pubblicati un po’ e poi ho deciso di cambiare nome e
stile». Dopo Las Vegas, quale sarà la prossima tappa di *MPWFTIPQQJOH?
«Ce l’ho già in mente, ma non voglio anticiparla». Promette di ambientare almeno uno dei suoi libri nella capitale mondiale dello shopping, l’Italia, magari fra via Condotti e via Montenapoleone? «Prometto». Tanto
un giorno potrà ambientarne uno anche a Ulan Bator.
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