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L O V I D I i racconti di Pasquale Cavalera

Anno 2016

Pasquale Cavalera

Lo vidi

Anno 2016 2

Titolo:

Lo vidi

Autore:

Pasquale Cavalera

I Edizione:

anno 2016 È vietata ogni forma di riproduzione dell’opera, sia essa parziale o integrale, senza autorizzazione da parte dell’Autore. preventiva L’Autore garantisce che nei racconti pubblicati in questo libro, nomi, personaggi e vicende sono frutto esclusivamente della sua fantasia. Nomi e personaggi non sono mai realmente esistiti, le vicende narrate non sono mai realmente accadute. 3

con Speranza, all’amore Misericordioso di Dio

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Note sull’Autore Prefazione Lo vidi Miracolo di Natale Non un passo indietro Pronto per fare cosa? Eterna felicità Paura oscura Social è bello George Vai e non voltarti Legalize

Indice

5 6 8 11 14 19 24 27 32 39 43 46 50

Note sull’Autore

Pasquale Cavalera nasce il giorno di Ferragosto del 1983, a Galatina, cittadina sita nel cuore del Salento. Si laurea con il titolo accademico di Dottore magistrale in Ingegneria meccanica nell’estate del 2009, conseguendo il massimo dei voti con lode. Ingegneria e Scrittura, uno straordinario binomio, entità complementari con le quali egli condivide la sua esistenza, il perfetto connubio vincente, armoniose facce di una stessa medaglia. L’esordio come scrittore avviene con la pubblicazione del suo primo lavoro “Lo vidi”, per mezzo del quale sancisce ufficialmente il suo ingresso nel mondo del Racconto Breve. 6

Bibliografia

2016, Lo vidi

Riferimenti

www.raccontobreve.it

Contatti

[email protected] 7

Prefazione

A cura dell’Autore

Nel corso dei mesi ho plasmato il mio primo libro “Lo vidi” immaginando di assumere le fattezze di un cantautore, modulando migliaia di seducenti frequenze, bilanciando dolcemente amore, vendetta, passione, odio, desiderio, rabbia, sentimenti questi in grado di viaggiare paralleli tra i tortuosi ed enigmatici meandri dell’animo umano. Dieci racconti come fossero canzoni, ognuno di essi lambito da una musicalità ben distinta, caratteristica, concepiti per essere assaporati, sorseggiati, condivisi, sui quali soffermarsi con introspettiva meditazione. Storie da cogliere al volo, ritagliate su misura per essere consumate nei momenti sempre più brevi, oramai divenuti fugaci istanti, in cui si è soliti 8

concedere alla mente il lusso di un meritato riposo ritemprante. Al mattino presto, durante una pausa pranzo, in coda in attesa del proprio turno, prima di andare a dormire, Signore e Signori, auguro a voi tutti una serena e pacifica lettura. Con sentimento di condivisione, Pasquale Cavalera 9

Inizio 10

Lo vidi

Lo trovarono morto, adagiato sul letto del fiume, con un grosso masso legato intorno alla caviglia destra. La gravità lo tirò giù, non permettendogli mai più di riemergere. Ancor prima lo vidi sui giornali cittadini, era stato insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro. Quale onore per il nostro piccolo paese, anche perché non avevo amico o parente che non lavorasse in una delle sue fabbriche. Ancor prima lo vidi scendere dalle gradinate della Cattedrale sottobraccio alla sua novella sposa, una donna vent’anni più giovane, meravigliosa, nel nostro quartiere la chiamavamo “la figlia del Re” per il suo superbo atteggiamento da oca. 11

Ancor prima, scortato dal fratello minore, lo vidi rientrare con un volo transoceanico, portava con sé un mucchio di denaro. “Investimenti dall’esito scontato” ripeteva. Non vi era motivo per non credergli. Nel frattempo i viaggi aumentarono, così come il suo conto, un fiume di banconote in piena. Fu in quel periodo che fondò la sua prima azienda. Ancor prima lo vidi per le vie del paese, con una scopa in mano a pulire la merda lasciata dai cani. Il giudice penalista aveva riscontrato un suo netto miglioramento nei rapporti interpersonali ed in accordo con due psichiatri, decise per l’assegnazione ai servizi sociali. Le ore di riposo, così come le festività, le trascorreva in compagnia dei monaci. Ancor prima lo vidi in televisione, sui telegiornali nazionali, cronaca nera, prima notizia. Ne parlarono un paio di giorni, poi l’interesse per il caso andò scemando e non si seppe più nulla. Lo vidi al processo, poi in carcere, infine ai domiciliari per buona condotta. Nel frattempo conobbe figure poco raccomandabili che frequentavano il suo appartamento in qualsiasi ora del giorno, nessuno vigilava. Ancor prima lo vidi entrare in casa mia. Afferrò mia figlia per i capelli. La fissò dritta negli occhi con sguardo rabbioso. Le urlò “schifosa puttana”. La 12

trascinò per strada come fosse una cagna, la fece inginocchiare sull’asfalto a testa china, sfilò dalla tasca una pistola. La freddò con un colpo secco alla nuca. Lo pedinai per vent’anni, a partire da quel giorno. Lo vidi andar giù lentamente, come inghiottito dal fiume. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. E fui anche l’ultimo a vederlo. Vivo. 13

Miracolo di Natale

Fui chiamato al telefono di mia moglie per un intervento in sala operatoria. Una bambina doveva essere operata d’urgenza ed unicamente la mia equipe di specialisti aveva l’esperienza pregressa per salvarle la vita. Distavo circa mezz’ora dalla struttura ospedaliera, diedi immediatamente la mia disponibilità ad intervenire e andai a vestirmi. Dopo cinque minuti ero già fuori casa, baciai mia moglie, le mie figlie, i parenti che erano a cena da noi e corsi via. Era la notte di Natale, il ventiquattro Dicembre duemilatre, esattamente le ore ventidue. Avevo da poco spento il cellulare privato, con la certezza che ogni reparto fosse degnamente coperto dai miei validi colleghi. Ma questo si presentava come un caso singolare, necessitava di un intervento invasivo su una piccola paziente di otto anni. Non me la sentii di delegare. Volevo essere responsabile in prima persona del successo dell’operazione. Successo, perché doveva 14

forzatamente andare tutto per il verso giusto, non contemplavo nessuna altra ipotesi. Parcheggiai accanto l’entrata del Pronto Soccorso, ad attendermi trovai la madre in lacrime. Mi supplicò di considerare la bambina come se fosse una delle mie figlie, mi urlò con le ultime forze che le restavano di salvarle la vita perché sua unica ragione di esistere. Feci un segno di approvazione col capo, mi precipitai negli spogliatoi, ero concentrato, non riuscì a spiccicare una sola parola di consolazione nei riguardi di quella donna. In sala operatoria ritrovai la mia squadra al completo, non mancava nessuno. La vita della piccola si dimostrò per noi più importante di ogni altra cosa. Cominciammo ad operare alle ventitre e trenta, terminammo la mattina di Natale alle ore otto in punto, ne uscimmo stremati. I colleghi del turno natalizio presero il mio posto, promisi di rientrare in reparto entro sera per la visita post operatoria. Tornai a casa per riposare. Feci subito una doccia ghiacciata, mia figlia preparò una camomilla doppia, mi addormentai sfinito. Il cellulare rimase acceso tutto il giorno, ma nessuno provò a rintracciarmi. Verso sera ritornai come promesso e come di dovere in ospedale, la prima persona che vidi fu la madre, questa volta non mi fece passare, ingabbiandomi in un abbraccio tanto caloroso quanto spontaneo. Accarezzò 15

i miei capelli, mi baciò la mano e con una preghiera quasi sussurrata raccomandò la mia anima al buon Gesù. Ad attendermi in stanza trovai Angelica, questo il nome della bambina. Sorrise di gusto nel vedermi entrare, lentamente affondò entrambe le mani nella mia folta barba, era la prima volta che contemplava il mio volto. Così come io non avevo mai avuto l’occasione di osservare i suoi profondi occhi azzurri. Provai a fantasticarne la forma, la vivacità, il colore, l’espressione, per tutta la durata dell’intervento. Solo per un istante ebbi il timore di non riuscire a vedere quanto per ore immaginato, il suo cuoricino fragile per un attimo cessò di pulsare sangue. Il più delle volte è la lucida freddezza, naturale conseguenza di un’esperienza trentennale, che permette di riconsegnare alla vita ciò che sembra perduto per sempre. La riprendemmo immediatamente, avvenne tutto in maniera così rapida da apparire alle nostre menti soltanto come un brutto sogno. Ora quegli occhioni mi stavano osservando, scrutavano con curiosità ogni angolo del mio faccione. Non ci separammo mai più, impossibile dimenticare ciò che in quella notte di Natale aveva legato le nostre anime in un abbraccio spiritualmente indissolubile. Angelica cominciò a frequentare la nostra casa, fin da subito le mie figlie la accolsero come parte integrante della famiglia. 16

Questa sera lei ed il suo ragazzo hanno cenato da noi. Avevo quasi terminato di scartare la torta, quando ho visto Angelica in procinto di consegnarmi un papiro color perla, dai bordi consumati. La partecipazione per il loro matrimonio. All’interno vi era un pezzettino di carta, tagliuzzato in malo modo, con su scritto “Per il Dottore Illustrissimo” in una calligrafia forse resa incerta dall’emozione. L’ho aperto delicatamente. Questa volta, come in poche altre occasioni nella mia vita, la mano ferma del chirurgo ha lasciato spazio al sentimento forte, cominciando, deliberatamente, a tremare. Mi esortavano a leggere a voce alta, ma l’emozione aveva preso possesso della mia mente, neppure una sola parola è stata pronunciata dalla mia bocca, non un suono, non sono più riuscito a dir nulla. In totale smarrimento ho mandato giù un calice di vino bianco, mi sono alzato in piedi e ho cercato la forza per leggere. Non l’ho trovata. Ho bevuto alla goccia un secondo calice di vino, tra i rimproveri di mia moglie. La stanza ha cominciato a girare, dapprima lentamente, poi sempre più in fretta. Avrei dovuto dire qualcosa prima di sbattere per terra. Dopo un profondo respiro, l’ennesimo, ho letto tutto d’un fiato ciò che era riportato sul papiro. “Cosa faresti se per un solo giorno io provassi a trasformarti nel Cavaliere dei miei sogni? Lo sopporteresti? Sai, non so tu, ma io avrei immenso piacere ad essere accompagnata da te in chiesa, ai 17

piedi dell’altare. Oppure chiedo troppo mio carissimo Dottore? Coraggio, comincia a dimagrire che voglio vederti in forma per quel giorno. Non ho avuto mai nella mia vita la possibilità di comprendere fino in fondo quale forma di amore si potesse provare al cospetto di un padre, ma in egual modo sono certa che ciò che nutro per te nel mio cuore va ben oltre il semplice affetto. Sei e per sempre sarai il mio angelo custode. Io, la tua piccola Angelica!”. 18

Non un passo indietro

A settant’anni suonati ho rimesso piede nelle mie campagne. Non mi mancava affatto l’odore acre di terra bagnata, ne ho respirata fin troppa nel corso della mia vita. Mio figlio ha insistito perché io ritornassi, per come si sono messe le cose non ha tutti i torti a volere me ancora una volta al suo fianco. Ho la mente lucida e le gambe reggono ancora tutta la mia implacabile spinta emotiva. Da quando ho deciso di ritirarmi dal mondo imprenditoriale è lui a dirigere l’azienda di famiglia. Apparteniamo però a due diverse generazioni, distanti in tutto, il nostro atteggiamento nel fare impresa non è affatto comune. È pur vero che i dipendenti che vivono quest’epoca tecnologicamente avanzata non sono più come quelli di una volta, ma non si può certo negare che risiede nell’atteggiamento che si assume nei loro confronti il segreto del successo o del fallimento di un’impresa. Ed io ero un vincente, mio 19

figlio invece si è rivelato a tutti gli effetti un patetico fallito. Nel decennio in cui, cominciando dagli anni ottanta, la mia azienda raggiunse il punto massimo del suo sviluppo produttivo, economico ed imprenditoriale, nelle mie campagne, i miei operai, pregavano ogni santo giorno che io morissi. Mi consideravano un pezzo di merda, dicevano che puzzavo di zolfo più di quanto si potesse percepire tra le calde fiamme dell’inferno. Questo perché non lasciavo spazio alle lamentele, non ricevevo privatamente nessun operaio che volesse parlare con me, licenziavo in tronco coloro che si assentavano dal posto di lavoro per più di due giorni consecutivi, mandavo a casa a bastonate chi disseminava zizzania e malcontento fra i miei operai. Concedevo ogni anno una settimana di ferie, da suddividere tra Ferragosto e Natale. L’orario di lavoro abbracciava un arco temporale di dieci ore, valido per tutta la settimana ad esclusione della Domenica, unico giorno di riposo consentito insieme alle festività comandate. La paga era la minima oraria stabilita dalla legge. In trent’anni di attività, un paio di sindacalisti provarono a farmi chiudere i battenti. Azzittii entrambi con una pallottola al polpaccio, quello destro. Provavo sollievo nel licenziare personalmente gli eroi che provavano ad iscriversi al sindacato e lo 20

facevo solo dopo aver strappato con le mie stesse mani le loro insignificanti tessere. Nessuno ha avuto il coraggio di intentare una causa nei miei confronti. In trent’anni di attività, mai un mio operaio è rimasto un solo giorno a casa senza stipendio e senza lavoro, mai un mio cliente si è visto recapitare la merce in ritardo, mai si sono verificati incidenti nelle mie campagne, mai un sensato reclamo. Dopo trent’anni di attività, i miei ex operai mi ringraziano ancora inchinandosi e baciandomi la mano, in quelle rare occasioni in cui esco per le vie della città a prendere una boccata d’ossigeno. Li ho traghettati verso la pensione, ognuno di loro è proprietario di un appartamento, un’auto ed un appezzamento di terreno. Grazie a stipendi ricevuti con estrema puntualità in tutti i mesi dell’anno, nessuno escluso, hanno avuto l’onore di iscrivere con dignità ed orgoglio i loro figli presso le migliori Università, ora sono medici, ingegneri, avvocati. Ad oggi, ragionando col senno di poi, rifarei tutto perfettamente nello stesso identico modo, senza alcun pentimento. Ho sempre costantemente focalizzato l’attenzione nel salvaguardare la mia azienda, la mia famiglia e quella dei miei operai. Mio figlio al contrario, purtroppo per lui, credeva nell’autodeterminazione 21

del lavoratore. Pensava nella sua onesta e leale mente di concedere diritti e raccogliere in cambio doveri. Povera anima, nonostante le mie dritte, non ha mai capito un cazzo. Ma ora finalmente se ne è reso conto, ecco perché mi ha richiamato in azienda. Lo spettacolo di questa mattina si è presentato alla mia vista come uno scempio oltraggioso. Dei sessanta operai in organico non vi era presente neppure la metà, i più mancavano all’appello a causa di ferie, malattie, infortuni, riunioni e permessi vari. Tre personaggi si trovavano inspiegabilmente seduti comodi ad altrettante scrivanie, all’ombra di un gazebo sorridenti e spensierati, felici di non muovere un dito. Solo dopo ho capito che erano i coordinatori delle squadre di lavoro, la nuova figura professionale creata ed introdotta da mio figlio, a suo dire l’arma giusta per aumentare l’efficienza ed ottimizzare l’organizzazione delle risorse. Sarà, ma erano comunque fermi a non fare un emerito cazzo. Nella terra, tra le piantagioni, due uomini in pantalone lungo e giacca, sudati fradici sotto un sole cocente, cercavano di convincere ogni singolo bracciante a lavorare con coscienza e senza futili distrazioni. Erano due Responsabili Commerciali, rappresentanti di una prestigiosa quanto storica Multinazionale, nei confronti della quale la nostra azienda ha ad oggi maturato tre settimane di ritardo nelle consegne. Il sindacalista di turno, intuendo 22

immediatamente il perché della mia presenza, mi è corso incontro a muso duro, invitandomi tra le bestemmie ad abbandonare la campagna. Mi sono immobilizzato osservandolo dritto negli occhi, non un passo indietro, ho raccolto tutto il muco che avevo in gola e con ritrovato disappunto ho sputato sul suo vomitevole volto ogni forma di disprezzo che albergava da anni nel mio animo. Ho poi chiamato mio figlio in disparte. Per la prima volta ha accettato un mio consiglio. Nei mesi a seguire apriremo la cassa integrazione straordinaria, poi i dipendenti entreranno in mobilità. Entro l’inizio del prossimo anno chiuderemo l’azienda e venderemo macchinari e terreni, ripianando la maggior parte dei nostri debiti. Era pur ora che il mio ragazzo si convincesse a mandare tutti a fanculo! “Figliolo non ti considerare un fallito, al contrario del sottoscritto, sei semplicemente una gran bella persona, fin troppo per bene. Il mondo imprenditoriale, per buona sorte, non fa per te. Sii sereno e non rinunciare mai ai valori che porti nel tuo cuore, per nessuna ragione al mondo. Fanno di te ciò che realmente sei. Ti voglio bene figlio mio”. Spero che riuscirà a leggere questo mio pensiero prima di andare a dormire. Ho adagiato il foglio nella tasca destra della sua giacca, non dovrebbe aver problemi nel trovarlo. 23

Pronto per fare cosa?

«Giada sei pronta?». «Dieci minuti ed ho finito. Trucco, capelli e lenti a contatto». Per ingannare l’attesa andai sul balconcino coperto che si affacciava su una delle arterie principali, la più caotica di tutta la città. Estrassi dal taschino l’ennesima sigaretta della giornata. Prima o poi avrei dovuto smettere. L’atmosfera era ferma, surreale. Con il caldo d’Agosto e l’afa soffocante della sera, restare in paese diventava sempre più un’impresa titanica. Molto meglio Gallipoli, tra luci, bancarelle, colori ed aria fresca. Ed era proprio là, nella suggestiva Gallipoli, che io e Giada eravamo diretti. Cena al volo in una delle pizzerie all’aperto sul corso principale, un paio di birre doppio malto nei pub del centro storico, passeggiata sul lungo mare rigorosamente accompagnata da un gustoso gelato nocciola e cioccolato. Il classico. 24

La sigaretta era quasi del tutto combusta, quando la mia attenzione fu casualmente rapita da una luce, dapprima soffusa, fino a divenire sempre più convincente. Proiettai nell’aria l’ultima boccata di fumo. La stanza si illuminò a giorno, nel palazzo di fronte al mio, dall’altro lato della strada, un paio di piani al di sotto della mia linea d’orizzonte. Scrutai una bimba correre come una matta in direzione di suo padre, un signore sulla trentina, di rientro forse da una faticosa giornata lavorativa, in costume grigio e cravatta nera, barba perfettamente rasata, fisico asciutto e ben curato. L’uomo si piegò lentamente sulle ginocchia, per meglio attutire il colpo che da li a poco avrebbe ricevuto come risultato dell’impatto fra i due corpi. Si strinsero in un unico grande abbraccio, per lunghi interminabili secondi. A rimorchio sopraggiunse scodinzolando un cagnolino nero, cominciò ad abbaiare roteando su se stesso come impazzito. Per ultima, con nobile naturalezza, comparve dalla fioca luce del corridoio un’elegante signora in pigiama, dai lunghi capelli rossi, un viso rotondo, spalle minute, dita lunghe ed affusolate. Si presentò alla mia vista con il palmo di entrambe le mani interamente posato sul ventre, come in segno di attesa. Padre e figlia si sollevarono da terra, la piccola accolse tra le sue braccia la palla di pelo, lui come in una metamorfosi ben collaudata assunse le sembianze di marito apprensivo e si mosse in direzione della 25

donna, abbracciandola. Lei gli spostò leggermente la folta chioma che ricopriva in parte il suo orecchio destro, gli sussurrò qualcosa. L’uomo decifrò istantaneamente il messaggio, non ci pensò su due volte e con un colpo di reni la strinse forte a se. La sollevò di peso dal pavimento, avvolgendola in un’appassionante spirale vorticosa. Poi la luce si spense e l’intera famiglia si trasferì in una delle stanze interne, irraggiungibili dal mio balcone, se non con fervida immaginazione. «Amore ho deciso, questa sera non mi trucco e lego anche i capelli, fa veramente troppo caldo e poi c’è un’umidità spaventosa. Avviamoci subito fuori perché comincio ad innervosirmi. Cosa ci fai ancora sul balcone? Sei pronto?». «Pronto per fare cosa?». «Come? In che senso? Pronto ad uscire, non dovevamo andare a Gallipoli per una passeggiata?». «Già, è vero, lo avevo dimenticato. Mi sa proprio di no, mi sa che ho cambiato idea. Avvia per favore il climatizzatore, impostalo magari a venti gradi centigradi e resta lì ferma. Io intanto spengo un attimo la luce. Tranquilla, rilassati, al buio cercherò di spiegarmi meglio…». 26

Eterna felicità

In ambito sociale con la parola Utopia si intende un qualcosa che nella realtà non esiste, ma che viene presentato come una via maestra da seguire, tanto ideale quanto illusoria. Ed è stata proprio l’Utopia ad impossessarsi di gran parte della mia vita. A differenza dei miei coetanei, il mio sogno predominante non è mai stato quello di lottare per la pace nel mondo oppure per una società libera fondata sull’ideologia comunista. Non ho mai immaginato di ricoprire il ruolo di Direttrice Generale in una qualsivoglia azienda con l’obiettivo di rendere giustizia a migliaia di operai sfruttati o ancora possedere enormi ricchezze con cui sfamare gli ultimi del pianeta. Niente di tutto ciò attirava il mio interesse. Non che fossero principi di secondo livello, ma nella mia mente il pensiero predominante era uno ed uno solo: l’uomo. Inteso non come creatura, ma come maschio, come figura di riferimento e conforto 27

nei momenti di malinconico bisogno. Questo il mio desiderio, aprire un giorno gli occhi e ritrovarmi accanto un nonno affettuoso, un padre tenero, un marito amorevole. Il massimo dell’Utopia appunto, fin dalla preistoria infatti non è mai esistita una creatura di sesso maschile con queste sublimi caratteristiche. Da piccola ho vissuto con i nonni, sola con mia nonna per l’esattezza. Il nonno era abbastanza occupato a gironzolare come un’ape impazzita, saltellando di fiore in fiore. E quando dopo un’intera giornata trascorsa in maniera misteriosa rientrava nel nostro focolare domestico, era così stanco ed ubriaco da precipitarsi istintivamente con foga verso mia nonna con il solo obiettivo di picchiarla selvaggiamente, poi minacciava me con la scopa intimandomi di non strillare e per ultimo concludeva la sua folle corsa in bagno con la testa annegata dentro al cesso a vomitare ogni genere di schifezza. Si addormentava sul divano ed il mattino seguente non ricordava più nulla. Tranne che fosse un’ape, usciva in un batter d’occhio da casa e correva alla ricerca di boccali da svuotare e nuovi fiori da impollinare. Vivevo con i miei vecchi perché mamma aveva da poco chiesto la separazione a papà, figura quest’ultima totalmente assente nella mia vita, da piccola lo intravidi solo una volta di sfuggita osservando dall’album di famiglia una vecchia foto scattata il giorno del mio primo compleanno. In mia presenza, la nonna cercava il modo più consono e pulito per 28

menzionare il nome di mio padre nei suoi discorsi, questo per non compromettere negativamente la mia esistenza ed i futuri potenziali legami che avrei potuto condividere con lui nel corso degli anni. Non sempre ci riusciva, immersa nella rabbia che le montava a vista d’occhio cominciava ad insultarlo con parole irripetibili. Ma forse per il sesto senso che solo noi donne possediamo o semplicemente per una strana astratta alchimia, mi è stato chiaro fin dal principio che egli fosse niente altro che un grandissimo pezzo di idiota. Successivamente ne ho avuto anche la conferma, come se tutto fosse già scritto da qualche parte. Ogni mio dubbio residuo si è così trasformato in certezza. Con l’avanzare dell’età, crescendo, ho avuto un bel po’ di storie con ogni tipo di uomo, di cui l’ultimo della lista è divenuto mio marito. Profondamente scottata dagli esseri immondi quali sono stati nonno e papà, ho indirizzato la mia scelta su un uomo con caratteristiche ben definite. Lo desideravo tranquillo, pacato, umile, genuino, a tratti ingenuo, che non avesse nulla da chiedere alla vita. E così è stato, l’ho azzeccato in pieno. La sua apatia era talmente fuori controllo da trasformare in pochi mesi il nostro matrimonio in banale amicizia, per lui era più che sufficiente avere a portata di mano un divano, un televisore sessanta pollici, un telecomando, una scorta di patatine fritte e tanto tanto calcio. Stop. Cosa chiedere altro? Nulla, tutto quello che gli occorreva 29

per essere felice e vivere un’esistenza serena si trovava proprio nel nostro soggiorno. Al termine di ogni appagante partita, causa la troppa rilassatezza sopraggiunta, si addormentava sul divano e lì ci restava per tutta la notte. E questo accadeva quasi ogni sera. Non fumava, non beveva, non mi lasciava mai sola se non per andare a lavorare. Una gran bella persona, anche se dopo tre anni mi sono arresa, ho fatto le valigie e durante la finale della sua Coppa preferita ho preso le chiavi della nostra auto e sono andata via. Senza scappare, assolutamente. Prima di uscire gli ho sussurrato in un orecchio «Tranquillo amore, non ti disturbo, io vado via di casa e non so se mai più ci farò ritorno. Dopo la partita, con calma, se non ti sei ancora addormentato, chiamami sullo smartphone e ti spiegherò tutti i perché riguardo la mia decisione, ok?». Mi ha risposto con un amabile sorriso «Va bene tesoro, domani mattina ti chiamo, gran partita, una delle finali più belle della mia vita». Dopo la separazione, dolorosa, l’Utopia ha cominciato a farsi da parte, liberando ampio spazio all’Entropia. Il livello di disordine in me aumentava di giorno in giorno in maniera esponenziale. Mi sentivo come un cubetto di ghiaccio che inesorabile andava sciogliendosi, perdendo per sempre la sua forma originaria geometricamente perfetta. Mi sono ritrovata a quarant’anni da sola, proiettata in una nuova e spaventosa realtà, muovendo in 30

brevissimo tempo dal sogno alla confusione, dalla speranza verso la rassegnazione più totale. Ma come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere, ed io aggiungerei “per fortuna”. Difatti dopo anni di ricerche e lotte intestine ho deciso finalmente di non lasciare più spazio a sentimenti come Utopia ed Entropia, anche se a dire il vero da entrambe, se pur fortemente delusa, sono riuscita ad estrapolare l’unica realtà positiva che si potesse scorgere in quel trambusto. Si tratta di lei, Pia. Io e Pia viviamo nello stesso appartamento e da poco più di un anno formiamo coppia fissa. Certo, non è stato semplice immaginarmi in questa nuova e fresca avventura, soprattutto dopo un’intera vita trascorsa a rincorrere uomini. Soltanto lei è in grado di comprendere ogni mio lato oscuro con affascinante naturalezza, riuscendo a donarmi ciò che ho sempre desiderato dagli uomini, senza però mai ottenerlo. Ora tutto questo è qui accanto a me, vivo, reale, forte. Grazie al suo fervore, per la prima volta nella vita, ho scoperto la mia vera e vibrante identità, ritrovando il perfetto equilibrio mentale ormai da troppo tempo smarrito. Ora sono più che mai certa della mia scelta, amerò Pia per sempre, sarà lei la mia personale sorgente di eterna felicità. 31

Paura oscura

Non capisco cosa mi stia succedendo in questi ultimi mesi. Non riesco più a comprendere cosa ho nella testa. Cosa provo nel mio cuore. Perché ho il timore di tutto ciò che mi fa stare bene? Perché ho il terrore di pensare cose belle? Perché ho l’ossessione di far male alle persone che più amo? Perché ho un costante stato d’ansia che fa scorrere in fretta le mie giornate, lasciando però bloccati i miei pensieri? Sono tutti orrendi e fanno veramente male. Ho tanta, troppa paura di tutto, mi sento come immerso in un pozzo profondo pieno di merda. Voglio che qualcuno mi aiuti perché da solo non ne uscirò mai da questa situazione. Ma perché proprio a me? Spero che il mio sfogo, questo grido di dolore nero su sfondo bianco, possa divenire con il tempo un lento riemergere dalle sabbie mobili della mia mente. Dovrà essere per forza così, perché non sono in grado di immaginare nessun’altra via d’uscita razionale. 32

Ogni santo giorno capita che, come una costante, comincio involontariamente con l’immaginare qualcosa di piacevole, un bell’avvenimento da condividere con persone che amo tantissimo, per esempio mia moglie. Ma senza accorgermene mi ritrovo in pochi istanti obbligato a discolparmi con il mio cervello da qualcosa che non so, non conosco e mai ho pensato. Perché i bei pensieri diventano ad un tratto mostri da cui vorrei scappare? E perché colpiscono violentemente tutto ciò che amo? Vengo rapito da un pensiero stupendo, la mia testa di cazzo lo manipola e lo trasforma in qualcosa di inquietante. Assurdo. Ho provato a far capire alla mia mente che niente di tutto ciò che mi genera tormento è vero, che quelle che sento vibrare nel cuore sono, nonostante tutto, emozioni positive colme d’amore nei confronti di ciò che desidero. Nel giustificare i miei brutti pensieri trascorro intere giornate a parlare da solo, spesso collassando per la fatica sul divano nella mia stanza, privo di sensi. Al risveglio trovo ad attendermi inesorabili le immagini tragiche che contro ogni ragionevole volontà sono riuscito a costruire nei miei monologhi autolesionistici. Allora mi ubriaco fino a collassare nuovamente. Ed il giorno dopo ho paura ad aprire gli occhi perché già so che ricadrò ancora una volta nel vortice della disperazione. Da qualche giorno provo a contrapporre il pulsare del cuore al ragionamento convulso del mio cervello. Ma non ci 33

riesco. Nei pensieri sono solo un mostro che fa cattive azioni. Per il mio cuore, al contrario, sono un’anima pia che non riesce a spiegarsi il perché di questa sofferenza. Cosa mi ha ridotto in questo stato? In quale istante ho smarrito le redini della mia ragione? Come si chiama quello che io provo? Chi ha mai dato un nome a questo supplizio? C’è qualcuno al mondo che ha provato almeno per una volta le mie stesse paure, angosce, emozioni, ossessioni? Non voglio andare da nessun medico, ho paura. Ma so anche che da solo non ce la potrei mai fare perché è la mia sofferenza a farmi paura. La mia vita da troppi anni ormai è solo paura. Vorrei ritornare a sorridere. Anche solo per un attimo. Ma è questa fottuta paura ad impedirmelo. Ho la depressione. Ora è certo. Lo ha confermato anche lo psichiatra consigliatomi dal medico curante. Questo pomeriggio ho cominciato con la prima seduta. Inizialmente è stato imbarazzante raccontare tutti i miei problemi ad uno sconosciuto, sdraiato su di una poltrona come si vede nei film, ma poi ho rilassato i nervi ed abbiamo anche fatto amicizia. A fine seduta ha prescritto dei farmaci, uno per l’ansia, uno come regolatore d’umore ed uno per il tremolio, poi mi ha consigliato di impegnare la mente con l’obiettivo di mantenere lontane le allucinazioni. Ne ho già avute un 34

paio, ma sono riuscito a bloccarle trascrivendole su di un foglio. Domani pomeriggio gliene parlo. Spero tanto che le medicine facciano effetto già da questa sera, non ce la faccio più, ho la testa che mi scoppia ed i brutti pensieri cominciano seriamente a spaventarmi. Ho snocciolato con il dottore due pensieri che da tempo mi perseguitano, il senso di inferiorità e l’assoluta mancanza di autostima. Mi sento una merda, uno straccio inutile, niente mi stimola, nulla mi intriga. Sono osservato e giudicato da chiunque, anche da chi non conosco. E sembrerà strano, ma da masochista mi impegno ad apparire come l’immagine della stupida persona che i miei colleghi, vicini di casa e parenti vorrebbero che io fossi. Lo psichiatra non è per niente d’accordo con la mia opinione, è certo che qualora i suddetti individui venissero a conoscenza del crudele disagio in cui sono sprofondato, farebbero di tutto per aiutarmi. Afferma che sono io a proiettare il mio pensiero negativo nelle loro menti. Devo dire la verità, la sua teoria per alcuni aspetti mi ha quasi convinto, ma ho necessità di rifletterci su ancora qualche giorno prima di decidere come comportarmi nei loro confronti. Non so se fidarmi realmente oppure continuare a rimanere isolato da tutti, rinchiuso al sicuro nella mia casa. Il mio dubbio ora è un altro. Vorrei capire cosa devo obbligatoriamente raccontare durante le sedute di analisi e cosa potrei nascondere senza aggravare ulteriormente la mia condizione. Mi vergogno come 35

un ladro a spiegare nei dettagli quello che il mio cervello instancabilmente produce. Il Dottore potrebbe imbarazzarsi o peggio ancora avvertire spavento. Ma questo è il suo mestiere e credo che non avrà problemi nel capire, guidandomi certamente verso la completa guarigione. Ad esempio, non saprei da dove cominciare nello spiegare che quando guardo la tv trascorro la maggior parte del tempo nascosto dietro al divano con il terrore che giornalisti, conduttori, attori, sparlino di me e dei miei problemi. Quando fissano la telecamera sento i loro occhi puntati addosso, le loro parole scavano la mia anima, smarrisco all’istante la facoltà di distinguere la realtà dalla finzione, quello che si trova dietro lo schermo da ciò che invece occupa il mio soggiorno. Mi sento di colpo come osservato e quindi giudicato in malo modo, per cui d’istinto sposto il divano al centro della stanza e mi ci butto dietro. Un altro serio problema che rende statiche le mie giornate, immobilizzandole, è delineato dai miei lunghi e fantasiosi monologhi. Non credo che domani riuscirò a parlare anche di questo. Tappo una bottiglia d’acqua, la stappo e ritappo almeno venti volte, anche per mezz’ora consecutiva. Ho paura che il liquido possa fuoriuscire dalla bottiglia, versarsi in frigo ed innescare un cortocircuito che farebbe bruciare l’intero appartamento. Stessa fissa con la bombola del gas, ieri sera ho provato a ruotare la valvola di chiusura trentasei volte, fino a non sentire più la forza 36

nel polso. Per ogni gesto che compio, la mente mi obbliga a ripeterlo tale e quale per un periodo di tempo illimitato. A chi mi osserva incuriosito rispondo con una frase confezionata ad hoc “La prima volta agisco, la seconda controllo, la terza mi assicuro di aver fatto tutto per bene”. E mi ritrovo ad accendere e spegnere lo schermo dello smartphone “Casomai è rimasta aperta la chiamata e qualcuno sente i miei discorsi”. E mi ritrovo a forzare il rubinetto del lavandino “Casomai la pressione dell’acqua lo apre e si allaga tutto”. E mi ritrovo a controllare una decina di volte la serratura di casa “Malauguratamente non ho girato bene la chiave e questa notte i ladri scassinano la porta ed uccidono i miei genitori”. E mi ritrovo a controllare se le tapparelle della mia stanza sono state chiuse bene, se lo scarico del water perde, il tappo sulla penna “Casomai cade a terra e qualche bambino lo raccoglie e si affoga ingoiandolo”. Ogni azione è un pensiero, ogni pensiero una paura, ogni paura si trasforma in tragedia, ogni tragedia diventa una soluzione, ed ogni soluzione si tramuta nella mia mente malata in ripetere ogni azione ore su ore fino allo sfinimento. Sono oramai esausto e logorato, ho trascorso gli ultimi due anni come se fossi rinchiuso all’inferno. Sorrido solo in una circostanza, nell’istante in cui provo enorme sollievo nell’immaginarmi penzolante da un lampadario, con una corda aggrovigliata attorno 37

al collo. Lo stesso pensiero, da lucido, mi fa rabbrividire. Con la seduta di domani cercherò la strada migliore per restituire alla mia vita la dignità ed il rispetto che realmente merita. Nonostante tutto, mi voglio ancora un mondo di bene. 38

Social è bello

«Amore, cosa mi racconti di bello? Qualche novità? Cosa hai fatto questa mattina?». «Niente di particolare, ho accompagnato il piccolino da Michela, ho pulito il soggiorno di casa e mi sono rilassata sulla sdraio in giardino. Ricordi per caso Adele?». «Certo, perché? Cosa le è accaduto?». «Ieri sera è andata ad un mega party in spiaggia ed è riuscita a fare una foto con il dj. Erano una ventina in comitiva. Non so cosa trova di bello in quella calca maleodorante, li immagino tutti sudati che ballano uno sopra l’altro. A questo punto preferisco Davide! Ieri era in barca con un suo amico, dalla foto mi è sembrato fossero a Leuca perché sullo sfondo si intravedeva un faro. Anche se con queste giornate incerte io non rischierei mai di inoltrarmi in mare aperto». «Mmmhhh… capisco». 39

«E ancora non ti ho detto di Barbara. Mamma mia che belle cosciazze si è fatta. Spiccano ancora di più con il perizoma nuovo. Si, nuovo, perché la settimana scorsa era diverso. Ha fatto un selfie mozzafiato, la ricordavo bella, ma non così tanto bella. Certo, fa una vita limitata, sempre in palestra, a pranzo una barretta dietetica e per cena una coppa di insalata. Ne vale la pena per un mesetto di selfie in spiaggia? Preferisco restare chiusa in casa e godermi undici mesi tra pranzi e cene abbondanti e tanto tanto vino. Farà la sua stessa fine Rosario. Proprio questa mattina ha pubblicato dieci nuove foto. Ma dico, perché non le tiene per sé. In una era in mare con l’acqua fin sopra le caviglie, fisico palestrato senza neppure un pelo, slip blu attillati e tatuaggi a non finire. In un’altra si pavoneggiava sottobraccio a due ragazze, ti risparmio cosa mi sono sembrate quelle cretine. D’altronde, solo quel genere di donne può frequentare un uomo così vergognoso». «Quindi amore, hai accompagnato il bambino da Michela in ludoteca, hai pulito qualche stanza e ti sei riposata. E dopo invece? Spero almeno che per qualche ora tu abbia accantonato lo smartphone». «Aspetta, abbi pazienza, il bello deve ancora venire, ti ho lasciato le chicche per la fine. Ricordi Noemi, la mia compagna di banco altezzosa, vanitosa e superba?». «Si la ricordo. Dai, se proprio lo devo sapere, dimmi, cosa ha fatto quest’altra…». 40

«Ha sposato un bruttone da paura, inguardabile. La data stampata sulle foto è quella della scorsa settimana, erano in crociera. Lui ha avuto un coraggio bestiale a farsi fotografare in boxer, non so dirti se fosse più spaventoso osservarlo frontalmente o di profilo. C’è più grasso sul suo addome che in una foca del Polo Nord. Quella donna può stare solo con un mostro». «Lascia perdere queste cazzate, ascoltami». «No no, l’ultima cosa, interessantissima lo giuro. È una riflessione. Paola secondo me ha fatto la scelta migliore. Ti garantisco che se fai un giro in tutto il suo profilo, ma anche in quello del compagno, non trovi una sola foto dei suoi due bambini. E fa benissimo perché in questo modo li protegge da pettegolezzi e maniaci». «Hai per caso detto pettegolezzi?». «Certo, hai capito bene, pettegolezzi. In questo mondo ci sono più guardoni che gente per bene. Prendi ad esempio Agata, è costretta a pubblicare bigliettini con su scritto “Lo so che guardi di nascosto la mia pagina” oppure “Da oggi grazie ad una nuova App conosco il nome di tutti gli ospiti indesiderati che spiano il mio profilo”. C’è chi ha necessità di proteggere la sua privacy. Non come quell’idiota di Sandro, spudoratissimo. Commenta qualsiasi stato, qualsiasi foto gli capiti a tiro, pur di far apparire il suo nome dappertutto. E poi chissà perché lo trovi solo dove ci sono belle donne mezze nude. È stato sempre 41

un arrivista, ma che fosse anche esibizionista, proprio no, non lo immaginavo». «Sai cosa penso di tutto questo amore mio?». «Che sono delle persone viscide, vero?». «No, o meglio, loro no. Facciamo così, adesso usciamo, prendiamo il piccolo dalla ludoteca e andiamo tutti assieme al mare, regaliamoci un pomeriggio intero in totale relax, credo proprio che in questi casi sia molto utile una bella nuotata rigenerante. Poi al rientro, di comune accordo, cancelliamo tutti i profili che hai creato sui duemila social network che solo tu conosci. Ok?». «Ok…». «Cominciamo con l’eliminare tutte le tue pagine, prima che queste cancellino la tua esistenza. E da domani, sempre insieme, ci impegneremo a guardare esclusivamente nelle nostre quattro mura domestiche. Condividi?». «Ogni singola parola. Anche perché così non riesco più ad andare avanti, non ne posso più». «Lo so, me ne sono reso conto». «Grazie amore. Aiutami». 42

George

Era visibilmente bagnato di piscio. Jeans chiari e chiazza scura. Del tutto improbabile che si fosse schizzato con dell’acqua nel mentre lavava le mani. Uscì dal bagno a testa china, concentrato nell’intento di sollevare la zip dei calzoni. Questo gli provocò un leggero movimento ondulatorio che lo fece barcollare dapprima in maniera impercettibile, poi sempre più vistosamente. Finì per terra, disteso tra i tavoli, con le scarpe imbrattate di terra rossa proiettate per aria. Ebbe una reazione istintiva, forse di vergogna, trasmetteva come l’impressione di non essere abituato ad assumere comportamenti di quel genere. Si sollevò in tutta fretta da terra, allargò le braccia mostrando ai tizi seduti ai tavolini il palmo di entrambe le mani e si giustificò seccato «Sto bene, sto bene, sto bene, grazie. Ho tracannato una birra gelida e ho avvertito un leggero sbalzo di pressione, non sono ubriaco. Tranquilli». Non era assolutamente vero, da dietro al 43

bancone il barista indicò con un movimento impercettibile del capo la sesta pinta ancora per metà nel boccale. Ed erano ancora le ventuno di un mercoledì sera anonimo. Scuro in volto, lunga barba incolta, testa calva, di certo non aveva più di quarant’anni, anche se ne dimostrava molti di più. Svuotò anche l’ultimo bicchiere, pagò in cassa, si scusò con il titolare per l’accaduto, puntò la porta e con passo lento ed incerto la raggiunse sulle sue gambe. Non riuscì però a trattenere l’impulso soffocante che prepotente risaliva ad intermittenza il suo esofago e prima di uscire per strada, rigurgitò sull’ampia vetrata posta all’ingresso del locale ogni eccesso di una serata cominciata male e finita ancor peggio. Si scusò nuovamente, poi sparì. Neppure un solo cliente diede l’impressione di nutrire fastidio per quello che era appena accaduto. Al contrario, si diffuse tra i tavoli un alone di amore fraterno e tutti, ad esclusione di nessuno, cominciarono a discutere con tono raccolto scambiandosi vicendevolmente informazioni su quell’individuo dalla disgustosa apparenza. Ci fu chi si scoprì amico, chi parente, chi compagno delle elementari, chi addirittura suo cliente. Non una parola fu spesa contro la sua persona. Questo perché il Signor Giovanni era uno stimato Architetto, oltre che un cittadino esemplare ed in città in tanti lo conoscevano per la sua tecnica infallibile. Quella sera si trovava di ritorno dalla campagna, quando decise di annegare la 44

sua malinconia in quel pub. Aveva da qualche ora seppellito George, un ictus lo aveva stroncato all’età di diciassette anni. Era il suo leale cagnolone, fonte inesauribile di serenità, la gioia pura con cui scacciava via ogni forma di malessere, il suo unico ed inseparabile compagno di una vita. 45

Vai e non voltarti

«L’ho sentito in televisione, ho riflettuto tutto il tempo necessario e per me è una grande verità. Peccato non averci pensato prima!». «Ma dici sul serio? Ma ti senti? Ma non ti vergogni neanche un po’?». «Ascoltami, ti prego. In questi anni scienziati, studiosi, ricercatori, programmi tv, insieme a migliaia di miei ragionamenti storici, spingono in un’unica direzione. E ti giuro, mese dopo mese sono sempre più certo di quello che vado affermando». «Per me, tu, sei pazzo. Da legare. Forte, fortissimo, mani e piedi. Ti cucirei anche la bocca. Mi andrebbe bene sentirti dire che sei ateo, ancora meglio sapere che professi una fede differente dalla mia. Ma sentirti dire che ci hanno creato gli alieni, non solo, che sarebbero loro a comandarci, mi sembra un concetto bassissimo, privo di ogni forma di saggia storia teologica». 46

«Fidati che è così, cazzo! Ci sorvegliano, ci obbligano a seguire i loro ordini manipolandoci. E quando attuiamo qualche forma di ribellione, è proprio allora che ci opprimono per mano di dittatori oppure manifestandosi sotto forma di icone sacre. Ma sono sempre loro, gli alieni, i nostri dominatori. Dio è una loro magistrale invenzione per distruggere la nostra autodeterminazione». «Vuoi un consiglio spassionato da amico sincero? Ogni tanto spegni quel maledetto televisore ed apri un libro. Fidati, è molto più ricreativo. Perlomeno non invadi la tua mente con stupide porcherie». Credeva negli alieni Antonio, per anni ha profetizzato con passione la sua dottrina a chiunque incontrasse per strada. Mio ex compagno di corso alla Facoltà di Giurisprudenza, ex collega in tribunale, ex cognato nella vita privata, mio invincibile avversario nel gioco degli scacchi. «Antonio, posso farti una domanda intima?». «Certo vecchio mio, non ti fare problemi, chiedi pure». «Credi ancora alla tua età nell’esistenza degli alieni, che dalle profondità degli abissi sono in grado di governare telepaticamente le nostre vite?». «Ovvio! Perché riprendi ancora questo discorso? Da quale cilindro della tua memoria è scappato fuori? Sai 47

benissimo che sono affezionato a queste mie convinzioni e non ho voglia di litigare proprio oggi, in questa meravigliosa giornata in cui l’unico mio pensiero è quello di festeggiare al meglio i tuoi settant’anni». «Non ci rimanere male Antonio, ma ho una questione in sospeso che vorrei affrontare con te da oltre un anno, scusami, ma è importante». «Ok ok, non ti agitare, va bene. Credo ancora e più che mai fermamente negli alieni come nostri creatori. Perché?». «Perché? Te lo spiego subito, ascoltami bene. Quando sei da solo in bagno, seduto alle sei del mattino sulla tazza, rilassato, con un’intera giornata di sole che si spalanca davanti ai tuoi occhi, a chi rivolgi la tua preghiera per chiedere la guarigione dal tumore che ti sta dilaniando il fegato?». Rimase in silenzio per lunghi interminabili minuti. Poi chinò il capo in avanti, sorreggendolo dolcemente con entrambe le mani. Le dita affondarono nei suoi grigi capelli morbidi come seta. Infine abbandonò il cranio sul palmo della mano sinistra e cominciò a guardarmi in obliquo, come se le mie parole lo avessero pugnalato alle spalle. I suoi occhi lentamente diventarono piccoli e lucidi, velati da una malcelata tristezza oramai chiaramente dichiarata. Si alzò con calma serafica, afferrò con gesto rabbioso il bastone e si avviò verso la cancellata del giardino. Non rispose 48

alla mia domanda, non si girò per salutarmi, non lo rividi mai più. Ed ora che sono in lacrime dinanzi alla sua tomba non riesco in nessun modo a bloccare questo mio esasperato flusso di coscienza. Spero che il crocifisso raffigurato sulla lapide lo abbia accolto fra le sue braccia con eterno amore. Tuttavia, mio malgrado, sono assalito dalla blasfema ossessione di sapere chi è stato l’ideatore di quel Cristo in croce scolpito nel marmo. Ma non lo chiederò a nessuno, mai oserò interrompere il lungo silenzio del mio vecchio compagno. Non voltarti proprio ora Antonio, sono certo che sul tuo cammino troverai tutto ciò in cui hai sempre creduto nell’intima profondità della tua anima. Non mi devi nessuna giustificazione amico mio. Ora più che mai. 49

Legalize

«Canna?». «Ale fai il bravo. Ricorda la tua promessa, è ancora valida. Mi hai giurato che avresti smesso, ma a quanto vedo non ne hai la minima intenzione». Nulla poteva giustificare la nostra lontananza, un distacco netto che si protraeva da ormai troppi anni. Non avevamo fatto altro che scegliere liberamente le nostre strade, fin da subito diametralmente opposte, così come era tuttavia prevedibile. Io famiglia, lui astratti interessi ambigui. Io lavoro, lui doverosi impegni sociali. Io cittadino italiano modello, lui esemplare da guerriglia urbana. Cosicché la nostra amicizia un tempo sana ed indissolubile, terminati gli esami di maturità, è venuta giù come un castello di sabbia investito dalle onde. Non ci siamo più cercati. Chissà cosa accadrà oggi. 50

Erano circa le due del pomeriggio e già da un pezzo avevamo oltrepassato i confini pugliesi, destinazione Napoli. Alessandro guidava ed io sedevo accanto. Nei giorni precedenti al viaggio sono stato assalito dalla fottutissima paura di non essere più in grado di guardarlo fisso negli occhi, desideravo assolutamente evitare qualsiasi reazione incontrollata di rabbia, imbarazzo, smarrimento. Fortunatamente la realtà ha superato ogni mia fervida immaginazione. Questa mattina Alessandro non mi ha concesso neppure il tempo di stringergli la mano che mi si è scagliato contro con tutto il suo peso e stringendomi forte tra le sue braccia mi ha sussurrato ad un orecchio “Brutto bastardo voglio che tu sia mio per qualche giorno, ti distruggo, partiamo! Andiamo lontano, soltanto io e te, in nome della nostra vecchia amicizia”. Era chiaro che i dieci anni di lontananza lo avevano segnato e riusciva a trasmettermi con adrenalinica passione la sua voglia matta di stare proprio con me e con nessun altro. Abbiamo fatto colazione dal Signor Franco, subito dopo ci siamo messi in viaggio. L’atmosfera che si respirava in auto è stata piacevole fin dal mattino. Per un paio di ore ha parlato solo lui, alternando discorsi di politica, finanza, cronaca nera. Ho preferito non intervenire con le mie riflessioni per non rischiare di incappare in discussioni o battibecchi che avrebbero potuto disturbarmi, annuivo e basta, muovendo lentamente il capo su e giù in segno di 51

approvazione. Alessandro si rendeva ben conto che il ghiaccio non si era ancora sciolto del tutto, per questo continuava a solleticare svariate corde del mio carattere, in attesa di intercettare quella che avrebbe suscitato in me qualche forma di reazione partecipativa. Nel tragitto verso Napoli sono rimasto per interi minuti senza fiato, così sorprendentemente meravigliato che non ho affatto memoria del luogo in cui eravamo. Ricordo solo decine di pale eoliche che imponenti spuntavano dal suolo, ruotando con così tanta leggiadria da modellare alla perfezione il profilo irregolare delle colline. Il sole illuminando con i suoi raggi, mi restituiva in tutto il suo splendore un prodigio della natura. Il vento. Capace ancora nonostante tutto di donare grazia alla genialità della mente umana. Niente fumi, niente metalli pesanti, niente zolfo, niente diossina, niente particolato. È assurdo il netto contrasto che vi è tra le menti geniali e quelle diaboliche. Quale economia muoverebbe l’energia pulita? Chi sarebbero i beneficiari? E le nuove classi imprenditoriali? Quanti miliardi di dollari si perderebbero eliminando il petrolio ed il carbone dal commercio mondiale? «Le grandi centrali elettriche bruciano combustibili fossili, rilasciando in atmosfera fumi cancerogeni, maledettamente letali per la salute umana. E noi respiriamo questa merda, ammalandoci. Saremo costretti a curarci per anni, gettando le nostre famiglie 52

nello sconforto più totale, alimentando con la nostra sofferenza la vendita di farmaci». Mi sono immediatamente scusato per il ragionamento a voce alta. Alessandro è rimasto in silenzio, impassibile, con lo sguardo fisso sulla strada, inutilmente perché la carreggiata era deserta. All’improvviso il suo pensiero si è trasformato in gestualità. Ha iniziato lentamente a roteare il capo di trecentosessanta gradi, appoggiando delicatamente la sua mano destra sul mio quadricipite femorale. Ha blaterato qualcosa sottovoce, poi il suo tono ha preso dinamicità e le sue parole hanno cominciato ad agguantare un senso compiuto. «La politica intrapresa negli ultimi cento anni ha sgretolato le nostre famiglie, rendendole schiave di un sistema corrotto, in cui il dominio sulle masse è da sempre l’unica cosa che importa realmente ai potenti del pianeta. Prima ci hanno rincoglionito, poi indebolito ed infine reso inoffensivi. Chi è contro questi padroni è inquadrato dai più come eversivo e viene abbattuto in pochi giorni dall’opinione pubblica, dal politicamente corretto e dall’ignoranza dei falsi moralisti che si bevono qualsiasi stronzata venga sbandierata dai mass media». Mi sono voltato verso di lui, avvolgendo la sua mano tra le mie. Siamo rimasti in silenzio. Finalmente un argomento che ci vedeva partecipi allo stesso modo. Non si è fatto sfuggire l’occasione, ha continuato «La vergogna più grande del nostro secolo si è verificata 53

quando questa razza bastarda ha messo alla gogna l’impiego industriale della canapa. Unica vera fonte mondiale di ricchezza e benessere». «Cosa c’entra adesso la marijuana?». Non riuscivo a spiegarmi il nesso logico. «Scusami se te lo dico, ma è da stupidi associare subito la canapa all’erba, è uno dei luoghi comuni più idioti e scontati che possa esistere. Il ragionamento reale è completamente opposto, vuoi sapere perché si è ritenuto necessario proibire la lavorazione di una pianta naturale, inesauribile, sostenibile, non inquinante? Perché dalla canapa ci si può estrarre carta pregiata, vernici ecologiche, tessuti, olio e semi alimentari, plastiche degradabili. Ma soprattutto medicinali e combustibili. Hai capito bene, medicinali e combustibili. La canapa è pulita e a costo zero, troppo scomoda per il nostro sistema economico». «Ale non so se tu abbia ragione o meno, ma sforzati ad entrare per un istante anche nei panni di quei genitori che vedono i propri figli sfondarsi di canne tutto il giorno. Compresi i tuoi che hanno dovuto subirti per anni, no so se ricordi, ma tua mamma la notte non chiudeva occhio con la preoccupazione che qualche sconosciuto del tuo stesso giro potesse farti del male». «Deficiente! Sei uguale alla massa, siete tutti delle fotocopie sbiadite con la bocca piena di preconcetti fondati sul nulla. Continui a sparare queste cazzate perché nella tua vita non sei mai stato in grado di 54

elaborare un pensiero tutto tuo. Sfido chiunque a trovare un morto a causa dell’erba, lo stesso però non si può dire per i consumatori di tabacco o superalcolici. Pura idiozia! Ignoranza! Incapacità mentale! Come la tua!». «A cosa associ la marijuana?» l’ho interrotto provando a schivare la scarica di insulti. «La associo a quello che è realmente, una pianta medicinale, anestetica, rilassante, meditativa, spirituale, nobile, curativa, per certi aspetti innovativa, alternativa, antica e allo stesso tempo futuristica, sacra. E tu a cosa la accomuni, gran maestro di questa cippa?». «Secondo il mio parere vi è uno stretto legame tra l’erba e le droghe. Senza alcun dubbio la parola Cannabis è sinonimo di dipendenza, sballo, eroina, incidenti stradali, morti, carenza di valori, solitudine, abbandono, totale assenza di affetto ed educazione familiare inesistente. D’altronde non è che tu sia venuto su proprio bene bene. Ragiona cazzo». «Lo sai? Credo che questo viaggio sia un errore. Mi vergogno da morire a ritrovarmi seduto accanto a te, sei solo un povero ignorante saccente». Da quel momento nessuno dei due ha più aperto bocca, l’impianto stereo pompava così forte che la musica ha istantaneamente invaso l’intero abitacolo rubando lo spazio alle nostre parole. Alla prima occasione utile Alessandro ha invertito il senso di marcia. Mi ha scaricato a due isolati da casa come se 55

fossi un verme, senza neppure voltarsi mi ha invitato con un gesto approssimativo della mano ad abbandonare il sedile sul quale ero sprofondato da ormai sette estenuanti ore. Quasi non ci credo, non è possibile che sia successo realmente, ci siamo comportati come due stupidi immaturi. Questa volta sono certo che mai più il nostro orgoglio ci concederà una seconda chance. 56

Fine 57

L O V I D I i racconti di Pasquale Cavalera

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