Untitled - Pansofia

Download Report

Transcript Untitled - Pansofia

LA NUOVA TALPA
GIORGIO CESARALE
FILOSOFIA E CAPITALISMO
Hegel, Marx e le teorie contemporanee
Collana La Nuova Talpa
Comitato scientifico
Roberto Finelli, Rino Genovese, Alfonso M. Iacono,
Massimo Ilardi, Stefano Petrucciani, Judith Revel
© 2012 manifestolibri -La Talpa srl
via della Torricella 46, Castel San Pietro, Roma
ISBN 978-88-7285-744-1
www.manifestolibri.it
Indice
Premessa
7
PARTE PRIMA. HEGEL
La “Prefazione” alla Filosofia del diritto
di Hegel: filosofia e Stato
Società civile e destorificazione. Un confronto
con Joachim Ritter
Teoria della riflessione e teoria della società:
una traccia hegeliana
13
33
49
PARTE SECONDA. MARX
Su Marx e Hegel. Contributi a una rilettura
di Roberto Fineschi
Come riappropriarsi criticamente del Capitale oggi?
Il Marx di David Harvey
61
85
95
PARTE TERZA. IL MARXISMO E OLTRE
Karl Korsch e la “dialettica” hegeliana
Spazio, Stato e capitalismo nell’ultimo Poulantzas
La teoria sistemica di Giovanni Arrighi e la storia
Crisi e immaginazione democratica.
Una discussione con Marcel Gauchet
109
119
129
137
Premessa
Nel marxismo “ortodosso” alcune delle indagini critiche presenti in questo libro sarebbero state probabilmente catalogate sotto
la rubrica delle “fonti” del pensiero maturo di Marx o del successivo
marxismo. Quale scopo potrebbe avere infatti, alla luce di una prospettiva per la quale la novità della critica marxiana dell’economia
politica non costituisce oggetto di ricerca, l’attività di chi si interroga
sullo statuto e la fecondità di quest’ultima, interrogandosi, allo stesso tempo, sulla concezione hegeliana della filosofia, delle “determinazioni della riflessione”, della società civile e dello Stato? La categoria di “fonte” consente di appianare i problemi sollevati da questa
domanda: qualcosa che è sgorgato da una “fonte” è continuamente
identico e continuamente diverso rispetto a ciò che era nella “fonte”
stessa. Hegel, in quanto “fonte”, può “contenere” quindi rispetto a
Marx e alla teoria critica novecentesca molto se non proprio tutto –
come hanno ritenuto quelli che hanno intravisto nel suo pensiero
persino la formulazione di una teoria del valore – oppure poco o
molto poco – come hanno ritenuto quelli che hanno rifiutato non
solo le forme della sua logicità, ma anche le fondamentali acquisizioni che si sprigionano dalla sua filosofia dello spirito oggettivo.
Il nostro punto di vista è diverso, o almeno abbiamo l’ambizione che sia tale: della filosofia di Hegel ciò che va valorizzato non è il
“metodo” astrattamente inteso, sulla cui reale configurazione peraltro ancora ferve il dibattito critico, e nemmeno il “sistema”, colto
nella molteplicità delle sue articolazioni, bensì alcuni essenziali
“momenti”, a cavallo fra logica e filosofia dello spirito, per esaminare in che modo essi abbiano poi “lavorato” all’interno di Marx e
della teoria critica novecentesca. In ciò crediamo di venire elaborando un programma di ricerca abbastanza vicino a quello proposto dallo stessa teoria critica novecentesca, complessivamente considerata. Per provarlo, si può far correre la mente a quelli che a
nostro avviso ne sono i due poli fondamentali, Adorno e Lukács.
7
Del primo è assai nota l’attenta opera di “filtraggio” critico della
“dialettica” hegeliana allo scopo di estrarne un nucleo di determinazioni funzionali allo smascheramento di una “apparenza socialmente organizzata”; ma anche di Lukács bisognerà dire lo stesso,
sebbene la vulgata tenda ad accentuare entro il “secondo” Lukács,
quello che segue alla “svolta” del 1930, i motivi teorici che lo allontanano da Hegel piuttosto che quelli che continuano ad avvicinarvelo. Se infatti si esamina la sua ultima fatica teorica, Ontologia dell’essere sociale, sarà agevole registrarne l’intento di portare alla luce
di Hegel ciò a cui una filosofia “marxista” non può assolutamente
rinunciare, pena la caduta o l’indebolimento delle sue potenzialità
critiche. Il lascito irrinunciabile di Hegel per questo Lukács è costituito dalle “determinazioni della riflessione”, la sua “più rilevante
scoperta metodica”1, e noi, come si potrà notare in special modo
dalla lettura dei primi quattro saggi che compongono questo libro,
coltiviamo una convinzione analoga, sebbene cerchiamo di dimostrarla per una via diversa.
In questo libro il lettore troverà tuttavia anche molto altro, non
direttamente riconducibile alla linea teorica appena disegnata.
Soprattutto nei saggi contenuti nella seconda e terza parte del libro
si affacceranno alcuni temi tradizionalmente “caldi” del dibattito
teorico – dalla configurazione della nostra forma-Stato, “rappresentativa” e “popolare-nazionale”, a quella del capitalismo e del sistema-mondo contemporaneo e alla spazialità e storicità tipicamente
moderne – riflessi nello specchio di autori del “marxismo” critico
novecentesco che hanno avuto la capacità di dischiudere nuove e
sollecitanti prospettive teoriche. Dissonante rispetto al resto dei
saggi è l’ultimo, il quale si occupa di un autore più fermamente attestato entro un quadro “liberaldemocratico”, Marcel Gauchet. Ma
anche il discorso di e su Gauchet svolge una funzione di occasione,
servendo a tematizzare i grandi problemi che si sono aperti non solo
nella teoria economica, ma anche in quella democratica in seguito
all’esplodere della crisi finanziaria nel 2007-2008. Avendo una più
immediata connessione con i problemi dell’“oggi” ci è sembrato il
saggio più adatto per chiudere questa collezione di studi.
8
NOTE
1
Cfr. G. LUKÁCS, Ontologia dell’essere sociale, trad. it. di A. Scarponi,
Editori Riuniti, Roma 1976, vol. I, p. 225.
9
Parte prima
HEGEL
La “Prefazione” alla Filosofia del diritto
di Hegel: filosofia e Stato
La “Prefazione” alla Filosofia del diritto è, come noto, uno dei
testi più controversi dell’intera produzione hegeliana. E così è stato fin
da subito, come dimostra bene la sua prima recensione, quella di
Paulus1. Mai come in questo testo si sarebbe assistito, secondo i critici,
a una così indigesta ibridazione di filosofia e impegno politico diretto.
La filosofia vi si vedrebbe costretta a contrarre un “matrimonio” pericoloso e contro natura con il potere.
Difficile è così risultata la comprensione della natura e della
destinazione del testo. La solenne affermazione della “equivalenza”
fra razionalità e realtà e le stilettate contro i “condottieri della
fatuità”2 hanno attirato, quasi in esclusiva, l’interesse dei lettori,
volgendolo così soprattutto verso la dimensione più “politica” del
testo. In una certa misura, visto il tono polemico del discorso hegeliano, era inevitabile che ciò accadesse; tuttavia ci pare che le questioni che complessivamente vi sono sollevate si collochino entro un
orizzonte problematico più complesso. Se è infatti indubitabile che
la “Prefazione” abbia al proprio centro il tema del rapporto fra filosofia e Stato3, più difficile è rintracciare in essa, a nostro avviso,
chiari segni di una volontà di Hegel di svestire i panni del filosofo
per indossare quelli dell’agitatore. Pur non mancando, infatti, come
detto, i rinvii ad alcuni “fatti del giorno”, il livello dell’argomentazione ci pare che rimanga sempre, essenzialmente, “filosofico”.
Anzi, si potrebbe persino dire che il punto di partenza del ragionamento hegeliano nella “Prefazione” è, precisamente, costituito dalla
accusa rivolta a coloro i quali si sforzano di ricondurre la considerazione filosofica alla scoperta di verità “inaudite” e il più possibile à
la page, corrispondenti ai bisogni della più urgente “attualità”.
Questo modo di concepire e “fare” filosofia è, per Hegel, intimamente autocontraddittorio: l’affannosa ricerca di “nuove” verità
si risolve, il più delle volte, nel “sempre ricuocer e servir da tutti i
lati il medesimo vecchio cavolo”4. Il tono di questi propagatori di
13
verità ostenta sicurezza, ma, in realtà, la “verità” da questi servita è,
in se stessa, un mixtum compositum di “diverse” verità, contraddittorie le une alle altre. Occorrerebbe rendere coerente questa “calca
di verità”5, superando la dicotomia fra vecchie e nuove verità, ma
per far questo sarebbe necessario affidarsi alla scienza, unico luogo
genuino della loro verifica. Tuttavia, una volta giunti alla esigenza
della scienza, non si sarebbe ancora concluso il lavoro. Rimarrebbe
ancora aperta, infatti, la domanda circa lo statuto di questa scienza.
Qui risiede, a nostro avviso, il momento chiave della
“Prefazione”. Nella lotta contro gli “zelanti propagatori di verità”6,
Hegel trova l’occasione per enunciare una delle sue tesi capitali: la
verità è unità di contenuto e forma. Ma, si badi, poiché il filosofo
non “costruisce” contenuti di verità, perché questi sono già espressi
dal mondo nella sua totale articolazione – o meglio, in termini più
hegeliani, dall’autoprodursi dello spirito – il compito della filosofia è
quello di collocarli in una “forma” a questi adeguata e immanente.
La verità è, così, essenzialmente, “forma”. Il concetto di “forma”,
tuttavia, non va – come è noto anche al più disattento dei lettori di
Hegel – interpretato in senso, ci si perdoni il gioco di parole, “formalistico”: posta, infatti, l’impossibilità teorica, soprattutto dalla
filosofia dello spirito oggettivo in poi, della Trennung fra contenuto
e forma, la “forma” è lo stesso contenuto, ma per come questo si
riflette entro se stesso. E cioè sono le stesse verità di contenuto che,
nel momento in cui si pongono, manifestano una intrinseca capacità
di trascorrere in “altro”, nella relazione ad altri contenuti di verità. Il
che vuol dire che anche la verità “sociale” e “politica” non va concepita come “evidenza” originaria, proposizione di contenuti che traggono giustificazione da se stessi, dalla loro pura e nuda ostensione.
La verità come “forma” significa, quindi, la rarefazione delle determinazioni di contenuto, nel senso di una loro strutturazione onde la
posizione di ciascuna di esse coincide eo ipso con la posizione delle
altre, e dunque della totalità delle determinazioni.
Orbene, totalità di determinazioni e loro intrinseca coalescenza equivalgono, in Hegel, a “forma”. È quanto Hegel esprime al
termine della Logica, parlando dell’idea assoluta, nella quale il contenuto è “soltanto questo, che la determinazione formale è la sua
propria compiuta totalità, il concetto puro. La determinatezza dell’idea e tutto quanto il corso di questa determinatezza ha ora costitui-
14
to l’oggetto della scienza logica, dal qual corso è sorta per sé l’assoluta idea stessa; per sé però essa si è mostrata come questo, che la
determinatezza non ha la figura di un contenuto, ma è assolutamente come forma e che per conseguenza l’idea è come l’idea assolutamente universale”7.
I “condottieri della fatuità” si comportano, invece, in altro e
contrapposto modo: si preoccupano di offrire al pubblico verità
che brillino solo per la potenza e l’evidenza del loro contenuto. Ma
affinché una verità abbia bisogno di essere riconosciuta per verità
di contenuto, i “condottieri della fatuità” sono costretti a compiere
il gesto teorico della “rottura”: devono separare il proprio campo di
determinazioni da quello comunemente riconosciuto e tenuto per
vero. Solo per differentiam è, infatti, possibile produrre una verità di
contenuto. Donde quell’affannosa ricerca di “nuove” e “inaudite”
verità che Hegel vede installarsi nell’orizzonte dei suoi avversari.
Tuttavia, una volta che il piano della verità di contenuto si sia
rotto, insorge il problema del giudizio circa quale delle diverse
verità dibattute possa pretendere maggiore e più sicura validità; si
vede che “quel che di tali verità vien servito da un lato, vengon soppiantate e portate via ad opera di verità simili dispensate da altri
lati”8. Tale giudizio, come si è detto, deve essere affidato alla scienza; sennonché questa, essendo organizzazione delle determinazioni
di contenuto, dunque loro riflessione, è, costitutivamente, “formale”, tessitura di nessi interni fra di loro. Tramonta la possibilità di
predisporre uno spazio di pensabilità per verità di contenuto che
facciano affidamento solo su se stesse onde garantirsi legittimità. Si
ricostituisce, con ciò, quel piano unitario della verità di contenuto
che i tentativi dei “condottieri della fatuità” avevano cercato di
smembrare9.
Ora, su ciò riposa il senso dello “spirito logico” cui Hegel,
poco prima, nel terzo capoverso della “Prefazione”, ha avuto modo
di rinviare10. Lo “spirito logico” non è solo ciò che consente di individuare uno scheletro costitutivo nel corpo sfaccettato e ricco di
accidentalità dello spirito oggettivo, in modo da poterne scrivere un
“compendio”, sua sintesi concentrata; ma è anche, essenzialmente,
ciò che permette alla esposizione filosofica di caratterizzarsi come
“forma”, e dunque “scienza”, e non come passerella di opinioni sul
diritto, l’eticità e lo Stato.
15
Nel capoverso seguente, il quarto, viene pronunciata una delle
affermazioni più “incriminate” della “Prefazione” – per esempio da
un importante interprete ed editore di testi hegeliani quale KarlHeinz Ilting –, più soggette al sospetto di collocarsi su un versante
di immediata compromissione con il potere prussiano11:
Del resto su diritto, eticità, stato la verità è altrettanto antica,
quanto apertamente esposta e nota nelle pubbliche leggi, nella
pubblica morale e religione. Di che cosa abbisogna ulteriormente
questa verità, in quanto lo spirito pensante non è pago di possederla così a portata di mano, se non anche di comprenderla, e di
conquistare al contenuto già in se stesso razionale anche la
forma razionale, affinché esso appaia giustificato per il pensiero
libero, il quale non sta fermo a ciò che è dato, sia esso sostenuto
dall’esterna autorità positiva dello stato o del consenso degli
uomini, o dell’autorità del sentimento interno e del cuore e dalla
testimonianza immediatamente consenziente dello spirito, bensì
prende l’avvio a partir da se stesso e appunto perciò esige di
sapersi unito nel suo più intimo essere con la verità?12
Hegel, secondo Ilting, cercherebbe, con ciò, di far sorgere
“l’impressione che l’obiettivo dello sviluppo storico – lo stato di
diritto – sia già raggiunto”13. Noi siamo di tutt’altro avviso: se è
vero che l’osservazione secondo cui la verità su diritto, eticità e
Stato è “antica” possa dare luogo a qualche contraddizione entro la
concezione sistematica hegeliana – stante l’assunzione che la verità
è concetto e, in quanto tale, Entwicklung, svolgimento continuo e
progressivo di sé – è, nondimeno, altrettanto vero che qui l’enunciazione del fatto che la verità sia “antica” si lega immediatamente
all’affermazione del suo necessario riconoscimento “pubblico”. La
“pubblicità”, qui, è nient’altro che il “venire all’apparenza” della
verità, come momento essenziale del suo esporsi e non va, pertanto,
confusa con un generico appello al suo esser valido in una data
comunità di parlanti e pensanti. Che la verità di diritto, eticità e
Stato sia pubblica deriva, quindi, dal coincidere in Hegel del concetto di verità come Entwicklung – suo passaggio dall’in-sé al persé, dall’immediatezza alla mediazione – con il suo farsi per-altro.
Allorché, infatti, sostiene Hegel, la verità è tutta concentrata in se
stessa, chiusa nel suo bozzolo, caratterizzata dalla sola qualità d’es-
16
sere della identità con se stessa, mancano a questa non solo differenza, tempo, mediazione ecc., ma anche separazione fra spirito
eterno e spirito finito, e, dunque, conoscibilità e condizioni di possibilità per l’istituzione di un rapporto riflessivo dei soggetti rispetto alla loro oggettività. Nel suo in sé, la verità è priva di soggetti che
la portino a manifestazione. Per questa ragione, la sua
Selbstdarstellung, il suo andare al di là della pura identità con se
stessa, si compie attraverso soggetti che testimoniano dell’avvenuta
uscita dal suo stato di indifferenza ad altro. Il processo è simultaneo: l’introdursi del momento della differenza nella verità implica il
suo farsi disponibile all’attivazione delle possibilità conoscitive dei
soggetti. Sul piano della filosofia dello spirito assoluto, questo processo corrisponde a ciò che Hegel chiama disgregazione “del
momento eterno della mediazione, dell’unico figlio”14 nel rapporto
fra uno spirito finito e l’eterno, vale a dire l’uscita dalla universalità
astratta del Padre, del Dio ebraico, con la conseguente conversione
della certezza dei fedeli in verità “per loro stessi”.
Tutto ciò implica, come è facile dedurre, la dimensione del
“tempo”15 o, nel linguaggio della filosofia dello spirito assoluto, la
necessità della Erscheinung, della “apparenza” o “fenomenicità”16.
Appartiene, del resto, alle determinazioni più generali dello hegelismo che sia impensabile una verità che si depositi tutta intera in
momenti germinali del suo “accadere”. Non è un caso, pertanto,
che Hegel sia stato un critico implacabile di tutte le mitologiche
nostalgie, spesso di sfondo aristocratico-conservatore, circa le “età
dell’oro”17. Ma alla connessione fra esser già da sempre disponibile
della verità nella storia e sua “pubblicità”, intesa come “venire
all’apparenza”, cospira, precisamente, il concetto di verità come
forma: trasformando, infatti, le determinazioni di contenuto in
determinazioni a sé congruenti, in determinazioni formali, la forma
rende possibile lo sguardo retrospettivo sulle stesse determinazioni
di contenuto, permettendo di riconoscerle come appartenenti a un
percorso che è a sé “proprio” e dotato di “senso”. Perciò, solo il
costituirsi della scienza come forma predispone le condizioni di
possibilità di una consecuzione concettuale nel “tempo” che sia,
però, non “temporale”, cioè non puramente costruita intorno al
“semplice” susseguirsi delle determinazioni in istanti separati l’uno
dall’altro.
17
La pubblicità in cui la verità deve, in ultimo, consistere, non è
tuttavia un puro venire all’apparenza privo di più determinate concrezioni sul terreno dello realtà sociale e politica. Che la verità sia
“pubblica”, o, anzi, che si debba fare tale, significa anche che essa
deve essere riconosciuta dalle istituzioni politiche vigenti. Se infatti
la verità conquista un profilo “istituzionale”, perché essa si è ormai
comunicata alla vita sociale e politica degli uomini ed è giunta a
permearla, allora le istituzioni politiche non possono che volgersi
alla sua promozione e alla sua protezione. La filosofia e i luoghi in
cui essa viene esercitata (le università, per esempio) devono perciò
cadere dentro la più ampia vita statale. La separazione fra filosofia e
vita pubblica, tipica di epoche, come quella greca, in cui lo spirito18
era ancora imbozzolato nel suo in sé, è perciò decaduta e ad essa è
succeduta una più feconda compenetrazione fra le due.
D’altro canto, il fondamento di tale compenetrazione è per
Hegel ancora più profondo di ciò e non consiste solo nella necessità
che la verità si faccia pubblica. Qui alludiamo a qualcosa che
diverrà più chiaro con il procedere del testo e in particolare con
l’affacciarsi delle determinazioni fondamentali dello Stato, nella
terza parte dell’eticità (in particolare nel § 270): lo Stato stesso, in
quanto forma di manifestazione dello spirito, cioè di ciò che è tale
in quanto è autorizzato razionalmente ad essere, deve possedere
una sua dottrina, delle forme di comprensione della propria essenza, anch’esse pubblicamente disponibili. Tali forme, sebbene in
certo grado diverse da quelle dello spirito assoluto, pure con queste
ultime devono in essenza coincidere, perché medesimo è il soggetto
delle une e delle altre, e cioè lo spirito stesso.
Tutto ciò instaura fra spirito oggettivo e spirito assoluto, o, per
stare più da presso al nostro tema, fra Stato e filosofia, una “unità
nella diversità”. Le ragioni che abitano la società e la politica
moderne sono in gran parte anche quelle che vengono riflesse nelle
forme dello spirito assoluto, e questo fornisce lo sfondo che fa da
legittimazione a molte affermazioni della “Prefazione” (dall’elogio
dell’“animo non prevenuto”19 che si attiene alla verità pubblicamente nota all’idea che, in fondo, tutti trovano appagato il loro
sapere e volere nella realtà dello Stato20); d’altro canto, solo nella
filosofia il pensiero è davvero libero, e ciò determina una inevitabile
tensione con qualcosa, lo Stato stesso, che per fondarsi non può
18
fare a meno di ricorrere anche all’infondabile, a “oggettività” prive
di “concetto”. La parte finale del quarto capoverso poc’anzi citato
esprime tutto ciò con grande nettezza, singolarmente sfuggita a tutti
i critici dell’appiattimento conservatore dello Hegel di questa
“Prefazione”; è bene perciò riprodurlo: il pensiero libero “non sta
fermo a ciò che è dato, sia esso sostenuto dall’esterna autorità positiva dello stato o del consenso degli uomini, o dell’autorità del sentimento interno e del cuore e dalla testimonianza immediatamente
consenziente dello spirito, bensì prende l’avvio a partir da se stesso
e appunto perciò esige di sapersi unito nel suo più intimo essere
con la verità”. La verità non può essere sancita perché valevole per
l’autorità positiva dello Stato.
Sennonché questo processo di autocostituzione del pensiero
può rendersi operabile solo a patto che si abbia avuto accesso a
quel concetto di verità come “forma” di cui finora abbiamo discorso e che contraddistingue, nella Logica, l’idea assoluta. È solo, infatti, quando le determinazioni di contenuto hanno subito una completa trasfigurazione in determinazioni formali che non risulta più
necessario il rinvio a un “dato” esterno al movimento di pensiero
come base da cui esso possa “partire”.
Se il pensiero è libero ne dovrà seguire che esso può esprimersi a piacimento su ogni aspetto della realtà sociale e politica, fino al
punto da revocarne la razionalità? No, contro questa possibilità
Hegel dichiara, qui e altrove, la sua avversione: se si ritiene che la
libertà di pensare “e dello spirito in genere” si dimostra solo quando il pensiero apre le sue ostilità verso lo Stato, si compie un grande
errore. La libertà, per parafrasare la Rosa Luxemburg critica del
bolscevismo al potere, non è la “libertà di pensarla diversamente”
dal mondo etico, giacché dissentire dalla razionalità è irrazionale, è
frutto di “fatuità”. Tuttavia, il paradosso del ragionamento di Hegel
è che solo collateralmente viene utilizzato in esso l’argomento della
razionalità dell’eticità per mettere fuori gioco la possibilità della critica “esterna”, non immanente, allo Stato. È in nome della stessa
libertà che Hegel invoca la necessità di non lasciare spazio a una
libertà di pensiero intesa come “libertà di pensarla diversamente”
dal mondo etico: “l’uomo pensa e nel pensiero cerca la sua libertà e
il fondamento dell’eticità. Questo diritto [di pensare liberamente],
per quanto alto, per quanto divino esso sia, viene però rovesciato in
19
torto, se soltanto questo passa per pensare e il pensare si sa libero,
soltanto allora che esso diverga da quel ch’è universalmente riconosciuto e valido e che esso abbia saputo inventarsi qualcosa di particolare”21. Ma di quale libertà Hegel sta parlando qui?
Per capirlo dobbiamo rivolgerci all’insieme della strategia argomentativa che Hegel è venuto dispiegando contro i “condottieri della
fatuità”. Il fatto che questi siano, costitutivamente, incapaci di riconoscere il nesso fra disponibilità della verità nella storia e sua necessaria traduzione in pubbliche manifestazioni deriva dal loro fissarsi
entro un orizzonte veritativo fondato solo sulla “leva” del contenuto.
Il contenuto, infatti, separato dalla forma è un contenuto inapparente, ancora incluso in un orizzonte logico per il quale il fondamento
del “mondo” non si è fatto piena Wirklichkeit, unità di essenza e esistenza. Ma poiché la Manifestation dello spirito implica, come suo
supremo stadio, il farsi oggetto a se stesso, dunque il suo sapersi, allora al contenuto cui non spetta forma adeguata non potrà spettare
neanche la “scienza”, intesa in senso speculativo. Ne consegue che la
verità di contenuto non può essere fornita ai “condottieri della
fatuità” dall’organizzarsi “formale” della scienza; vi sarà bisogno di
attingerla presso altre fonti: “esterna autorità positiva dello Stato o
del consenso degli uomini, o dall’autorità del sentimento interno e
del cuore e dalla testimonianza immediatamente consenziente dello
spirito”. La si dovrà, insomma, attingere da una datità esteriore al
processo di pensiero. Non è un caso, perciò, che nei capoversi
seguenti, e in particolare nell’ottavo, Hegel farà risuonare la sua consueta critica alla maggior parte della teologia protestante del suo
tempo che affida solo alla testimonianza interiore la Bewährung, la
garanzia della verità22. Ma se il pensiero non “prende avvio a partir
da se stesso”, allora non è libero. Con la conseguenza che gli alfieri
della libertà contro lo Stato si trovano, consapevolmente o no, a combattere, nella sua più alta forma di manifestazione, la stessa libertà.
Ricapitolando: il fraintendimento cui soggiacciono i “condottieri della fatuità” circa l’essenza della verità li conduce a travisare
la costituzione d’essere sia dello spirito oggettivo sia della filosofia.
Il primo perde la sua specifica densità, venendo reso artificiosamente disponibile agli interventi “manipolatori” di soggetti, i quali provano forzosamente a introdurvi contenuti non mediati e filtrati; la
seconda si riduce a ospitare arbitrarie e indimostrabili proposizioni
20
teoriche. È dentro questo ambito che va collocata l’ellittica allusione hegeliana alla necessità nella quale può trovarsi lo Stato di non
poter più tollerare al suo interno, pena il dissolversi della sua sussistenza, i negatori della sua intrinseca razionalità23.
Con tutto ciò Hegel sembra, in verità, insinuare anche qualcos’altro; sembra cioè che abbia interesse a incrinare la fama pubblica
di riformatori dello stato di cose esistente acquisita dai “propagatori”
di verità. Se, infatti, questi non possono fare a meno di fondare il loro
apparato categoriale su “sostanziose” verità di contenuto, su “dati”
esteriori al movimento di pensiero, il loro atteggiamento verso il
mondo dello spirito oggettivo non potrà essere che di due tipi: o rivoluzionaristico e attivistico o reazionario e conservativo. Hegel lo ha
espresso nel terzo capoverso: i “condottieri della fatuità” mettono
innanzi verità come se “il mondo avesse finora mancato soltanto di
questi zelanti propagatori di verità”24. Se la verità consiste, infatti,
nell’ostensione di determinazioni di contenuto, sarà allora inevitabile,
vista la mancanza del principio di connessione delle determinazioni –
la forma – lo scontro con altre e diverse determinazioni di contenuto.
In particolare, con quelle determinazioni di contenuto che parranno
sorreggere il mondo dello spirito oggettivo. Si attiverà, pertanto, un
comportamento di negazione radicale ed estremistica delle istituzioni
esistenti dello spirito oggettivo. D’altro canto, poiché il costituirsi
dello spirito oggettivo rende impensabile lo strutturarsi di verità di
contenuto del tutto estranee ad esso, si scoprirà che le “nuove” verità
di contenuto si risolvono nel “vecchio cavolo”. Ciò può dare adito a
un atteggiamento di quieta e reazionaria accettazione di ciò che lo
spirito oggettivo tramanda come patrimonio acquisito.
Come alternativa Hegel suggerisce un atteggiamento di accorto scandaglio del portato di razionalità che intesse la realtà e che è
venuto all’apparenza nelle istituzioni pubbliche dello spirito oggettivo. Si comincia a delineare, cioè, quel campo teorico entro il quale
diventerà concepibile il “famigerato” motto della razionalità della
realtà e della realtà della razionalità25. La consapevolezza, infatti,
della reciproca conversione fra realtà e razionalità non consiglia un
comportamento né attivistico né passivo di fronte al mondo dello
spirito fattosi oggettivo: non attivistico perché la razionalità è già
all’opera all’interno della realtà e non c’è bisogno, pertanto, di
introdurvela dal di fuori; non passivo perché siffatta razionalità,
21
non essendo immediatamente visibile e consaputa, non svolge
appieno le sue potenzialità e rimane, perciò, bisognosa di un intervento dei soggetti che la porti a realizzazione. È il programma di
intelligente, gradualistico e “istituzionalistico” “riformismo” liberale hegeliano cui in ultima istanza si può ricollegare “politicamente”
il senso della “Prefazione”. Sennonché tale “riformismo” liberale
non risulta solo sostenuto dalla consapevolezza della sua maggiore
adeguatezza al campo di forze prodottosi dopo la Rivoluzione francese e la caduta di Napoleone. Che vi sia anche questo è indubitabile e non importa perciò insistervi. Tutto ciò appartiene al cosiddetto, e talvolta guardato con una punta di fastidio, “realismo” hegeliano. E tuttavia il corso delle nostre considerazioni ha anche dimostrato altro, e cioè che questo programma di moderato “riformismo” liberale trova la sua fondazione nelle mature convinzioni logiche e filosofiche hegeliane, nelle sue acquisizioni circa l’unità di
contenuto e forma che, sempre, caratterizza l’“accadere” della
verità e modella il farsi razionale della realtà.
Che tutto ciò non rappresenti una torsione troppo audace del
mondo dei significati della “Prefazione” è, a nostro giudizio, provato in maniera incontestabile dall’epilogo del testo. Dopo aver, infatti, delucidato il senso della conciliazione fra ragione e realtà, Hegel
conclude che questo “è anche ciò che costituisce un senso più concreto di quel che sopra più astrattamente è stato designato come
unità della forma e del contenuto, poiché la forma nel suo più concreto significato è la ragione come conoscere concettuale, e il contenuto è la ragione intesa come l’essenza sostanziale della realtà etica,
al pari della realtà naturale; l’identità cosciente dell’una e dell’altro
è l’idea filosofica”26. Dunque, Hegel è dell’intendimento che il coincidere della ragione con la realtà costituisca nient’altro che una concretizzazione del ben più ostico rapporto fra contenuto e forma.
Chi non giunge a sciogliere questo nodo non possiede alcuna possibilità di cogliere il disporsi della “rosa nella croce”27.
Importante è anche sottolineare come questa conclusione hegeliana avvalori la nostra ricostruzione interpretativa circa il significato
preciso da assegnare al rapporto fra il concetto di “contenuto” e
quello di “forma”. Quando, infatti, Hegel sostiene che la forma,
considerata nella sua veste più concreta, sia il “conoscere concettuale” conferma le nostre ipotesi circa il fatto che egli identifica
22
“forma” e organizzazione della scienza secondo una prospettiva di
sintesi delle determinazioni; quando, poi, sostiene che il contenuto
sia la “essenza sostanziale della realtà etica” rinvia a quelle determinazioni di contenuto, vigenti all’interno di una comunità politica,
che costituiscono la base su cui la forma viene a esercitarsi.
Ma ritorniamo al quarto capoverso di questa “Prefazione”: nella
sua interpretazione, cui abbiamo precedentemente fatto cenno, Ilting
ne ha considerevolmente ridotto lo spessore filosofico, aggirando
tutte le difficili questioni teoretiche che esso ci sembra dischiudere.
Preferisce, piuttosto, concentrarsi sull’oscuramento, che, a suo giudizio, dominerebbe entro questo contesto teorico, di “una possibile
differenza fra i rapporti giuridici statali esistenti e le esigenze di un
‘diritto pubblico razionale’”28 e sul ruolo ancillare che ne deriverebbe
alla filosofia, “ridotta a provvedere ad una giustificazione ideologica
dell’esistente” 29 . Tutto il contrario di quanto espresso nella
“Prefazione” alle lezioni universitarie del 1818, continua Ilting, dove
Hegel si premurava, invece, di conferire alla filosofia una ben più
ampia e attiva funzione di procacciamento al razionale di una realtà
ad esso più adeguata30. Ma sono questi lo statuto e la finalità che
Hegel intende imprimere alla filosofia? È vero che Hegel ha dotato la
filosofia anche della facoltà di indicare cosa, della realtà, non corrisponde al concetto e come lo Stato prussiano del suo tempo avrebbe
dovuto essere qualora il suo concetto avesse avuto piena possibilità di
realizzarsi31? Il wishful thinking di Ilting è leggibile senza eccessive
difficoltà: si ritiene che i concetti hegeliani di “ragione” e di “filosofia” disponessero di tutte le risorse necessarie ad assumere una configurazione più “giacobina”, più radicale, di quanto poi effettivamente
accaduto. Le Decisioni di Karlsbad non interverrebbero, quindi, solo
a moderare il livello delle soluzioni politico-istituzionali, ma anche a
mutare l’assetto complessivo della proposta filosofica hegeliana32.
Non è naturalmente possibile, in questa sede, affrontare il problema sollevato da Ilting nell’insieme delle sue dimensioni storiche e
teoriche. Una ricognizione più generale, richiederebbe, peraltro, di
allargare molto il quadro tematico. Ma, dopo quanto abbiamo cercato di dire, è, certamente, possibile rispondere alla questione circa le
ragioni per le quali Hegel si è rifiutato, nella “Prefazione” del 1820,
di attribuire alla filosofia il compito di “dare insegnamenti su come
dev’essere il mondo”33. Di fronte a questo rifiuto, lo sforzo degli
23
interpreti, e dello stesso Ilting, è stato quello di garantire comunque
alla filosofia, all’interno del discorso hegeliano, la possibilità di essere
agente della trasformazione sociale e politica. Tuttavia, come si è cercato di dimostrare, la questione va posta in tutt’altri termini: il “dare
insegnamenti” su come debba essere fatto lo Stato piuttosto che
insegnare le modalità con le quali l’universo etico “deve venir conosciuto”34, trasgredisce a quel concetto di verità come unità di contenuto e forma intorno al quale Hegel intreccia la maggior parte delle
considerazioni teoriche e critiche di questa “Prefazione”. Se la filosofia, cioè, viene a impartire insegnamenti o indicazioni su come lo
Stato debba essere concretamente organizzato, giocoforza si risolve
in un “cantiere” di verità di contenuto, dismettendo il suo specifico
compito di strutturazione “formale” delle determinazioni dello spirito oggettivo. Il rapporto fra spirito oggettivo e spirito assoluto verrebbe così invertito rispetto a quello pensato da Hegel: il vertice
dello spirito assoluto, la filosofia, si troverebbe a promuovere determinazioni della stessa natura di quelle vigoreggianti entro lo spirito
oggettivo. Ma la filosofia non “costruisce” Stati, bensì vi riflette
sopra. C’è un unico, anche se nient’affatto trascurabile, modo per il
quale la filosofia può essere “utile” allo Stato ed è questo: il cittadino, armato da ragioni filosoficamente mediate, saprà sviluppare
meglio la cooperazione politica stabilita con gli altri cittadini.
Oltre a ciò si può, certo, vedere, senza temere troppo di essere
sottoposti a critica, nell’interdizione hegeliana a pensare lo Stato
“com’esso deve essere” un consapevole rigetto di ogni separazione
fra Sollen e Sein. E tuttavia si sarebbe detto, con questo, ancora
troppo poco e di poco ausilio onde individuare il nucleo della problematica teorica qui in campo. Questa problematica può essere
indagata meglio, a nostro giudizio, richiamando la netta opposizione hegeliana a che la filosofia si infanghi a trattare i “rapporti infinitamente molteplici”, che caratterizzano l’esteriorità qua talis, e
quindi anche quella dello spirito oggettivo. La “regolazione” di
questo “materiale infinito” non
è oggetto della filosofia. Essa s’immischierebbe in tal modo in
cose che non la riguardano; essa può risparmiarsi di dare buoni
consigli in proposito; Platone poteva tralasciare di raccomandare alle balie di non star mai ferme con i bambini, di dondolarli
24
sempre sulle braccia, similmente Fichte il perfezionamento
delle misura di polizia per i passaporti fino al punto, come si
disse, di giungere ad una costruzione in cui, degli individui
sospetti, debbano non soltanto venir posti nel passaporto i connotati, bensì in esso dipinto il ritratto. In simili dettagli d’esecuzione non è più da vedere alcuna traccia di filosofia, ed essa
può tanto più lasciare simile ultrasaggezza, in quanto essa sopra
questa infinita moltitudine di oggetti può per l’appunto
mostrarsi liberalissima35.
Il messaggio è chiaro, e anche qui non privo, crediamo, di
qualche punta polemica nei confronti dei “condottieri della
fatuità”, in particolare della dottrina etica di Fries, che si presentava
come dottrina della saggezza. La filosofia non è, infatti, in alcun
modo, per Hegel, saggezza, vale a dire deposito di buoni consigli
per i casi particolari dell’esteriorità. È, piuttosto, sforzo di “conoscere, nella parvenza di ciò che è temporale e transeunte, la sostanza che è immanente e l’eterno che è presente”36. Importa, in breve,
riconoscere, nella realtà, il razionale e non la “infinita ricchezza di
forme, fenomeni e configurazioni”37, della quale esso si riveste
necessariamente una volta che entri nell’esteriorità.
Ora, se la filosofia trasforma il suo ufficio e da conoscenza
comprendente del reale si muta in “fabbrica” di insegnamenti su
come lo Stato debba essere costruito, non solo tradisce la sua costitutiva unità di contenuto e forma, ma rischia anche di trovarsi
costretta a scendere nella empiria più “bruta” e a dover fornire le
raccomandazioni concrete più melense. Il che vuol dire che il filosofo sarà, ancora una volta, costretto a scendere sul terreno che è,
in fondo, proprio alle regioni più “basse” dello spirito e non alla
scienza.
Hegel sapeva molto bene che queste sue assunzioni su verità,
Stato e filosofia avrebbero potuto “tenere” solo in un quadro di eticità “razionale”. E il proseguimento della Filosofia del diritto è precisamente destinato a dimostrare che così è l’eticità moderna, e quindi
a rendere la polemica della “Prefazione” più coerente di quanto già
non sia. In un orizzonte “etico” indebolito e in via di decomposizione, in cui sia piuttosto l’irrazionalità a dominare, la filosofia si può
invece rivestire di compiti ben diversi, più simili a quelli “politici”:
25
essa può esprimere la crisi dell’epoca e anche dichiarare l’insostenibilità dei suoi assetti istituzionali. Ma, appunto, Hegel ha cercato di
dimostrare, e soprattutto voluto credere, che la modernità fosse
ormai al riparo dai bruschi sobbalzi di una crisi etica. La libertà di
pensiero è quindi ammessa e persino promossa, a patto che non
metta in discussione ciò su cui essa stessa poggia, l’esistenza di una
eticità dotata di solide ragioni, prodotto di un lavoro storico di lunga
lena. A guardarle dalla nostra collocazione storica, sembra inevitabile dichiarare anacronistiche tali assunzioni; tuttavia, anche i filosofi
contemporanei (si pensi al Rawls di Una teoria della giustizia), quando hanno dimostrato, per via “razionale”, la giustizia di una certa
“struttura di base” della società, devono poi ammettere che tutti i
suoi cittadini hanno il dovere naturale di sostenerla. In una costituzione giusta, sostiene Rawls, quando le istituzioni della libertà sono
in pericolo, anche le libertà degli intolleranti (e tali sono sembrati a
Hegel coloro che si erano raccolti sulla Wartburg a bruciare il codice napoleonico) devono essere limitate38.
Con ciò le cose non sono tuttavia affatto risolte: Rawls, a differenza dello Hegel di questa “Prefazione”, pensa che l’esercizio delle
libertà in una società bene ordinata, regolata dai due principi di
giustizia, sia capace di contrastare le tendenze dissolutive che possono derivare da un uso “sconveniente” degli stessi diritti di
libertà39. Se una società è giusta, è anche stabile, dice Rawls (o
almeno il Rawls di Una teoria della giustizia, perché con Liberalismo
politico è proprio questo nesso fra giustizia e stabilità che sembra
saltare). E, in fondo, anche Hegel coltiva un pensiero analogo
quando passa a indagare, nella sezione della Filosofia del diritto
dedicata all’“eticità”, lo Stato: se quest’ultimo è forte, cioè razionale, allora può anche tollerare l’esercizio di certi diritti non “etici”
(per esempio l’obiezione di coscienza dei quaccheri, che si rifiutano
di andare in guerra)40. Ma allora perché esso non può tollerare che
giovani studenti e professori universitari di filosofia e teologia
immaginino altri modi di organizzazione dell’eticità, fondati su
cuore, amicizia e sentimento? È già questo infatti che Hegel, per le
ragioni che sopra abbiamo tentato di delucidare, ritiene inaccettabile e non soltanto la trasformazione di quegli slogan filosofico-teologici in grida di battaglia per un’azione politica tesa a trasformare
radicalmente la eticità sussistente.
26
A nostro avviso, la radice della problematicità di tale posizione
non sta tanto nella concezione della filosofia presentata da Hegel
quanto nella sua concezione della “cittadinanza”. Che la filosofia, se
diventa affermazione di valori o guida per l’azione, diventi altro da
sé è, infatti, qualcosa su cui concorda anche quel pensiero posthegeliano che si è, sebbene in modi diversi, dichiarato insoddisfatto
di una filosofia che è tale perché si limita a “comprendere il reale”
nella sua essenza. Ma Hegel non si riduce a protestare perché i “condottieri della fatuità” usurpano il nome della filosofia. Egli ritiene
che ogni “agitarsi della riflessione” intorno alla eticità allo scopo di
sostituirne il fondamento di esistenza sia non filosofico e come tale
illegittimo e da contrastare. Il che implica che ogniqualvolta la cittadinanza ragiona intorno allo Stato debba farlo in modo filosofico, e
cioè secondo i dettami di quella unità fra contenuto e forma che
costituisce il sapere speculativo41. Ma è possibile evitare nelle condizioni di una modernità “matura” il conflitto fra “immagini dell’eticità”, che sono alternative, perché rimandano a interessi, valori e
idee antagonistici? È possibile evitare che contro la eticità sussistente, in qualche modo dotata di una sua ragion d’essere, non si vengano tuttavia elaborando diverse prospettive circa i suoi modi di
organizzazione? E che questo non solo accada, ma debba accadere,
vista la predominanza entro i tempi moderni di quel principio della
soggettività, che è tale nella misura in cui si affaccenda “riflessivamente” intorno alle sue condizioni di esistenza? Non è, in ultima
istanza, questo il vero punctum dolens della posizione hegeliana?
Lo “scandalo” di Hegel sta, quindi, nell’aver creduto possibile, peraltro contro le sue stesse precoci analisi (si pensi all’emergere
della “plebe”, uno strato sociale ritenuto incapace di “entrare”
nello Stato), che in una società come quella borghese, in cui il processo di totalizzazione “razionale” è sempre minacciato dall’erompere di posizioni di scopo antagonistiche, si potesse instaurare una
forma statale in cui ogni determinazione politica sia corredata da
un’autorizzazione razionale. In fondo, anche Hegel si è figurato con
la sua Filosofia del diritto una sorta di “uomo nuovo”, corrispondente alle esigenze dettate da una nuova forma di civiltà, inaugurata
dagli effetti delle tre rivoluzioni moderne (quella economica, quella
religiosa e quella politica), e perciò anche capace di ragionare e
agire in modo “intelligente” sul terreno statale. Ciò che Lukács ha
27
chiamato il periodo delle “eroiche illusioni”42 nella vita borghese
moderna ha dunque agito anche su Hegel, inducendolo a “filosoficizzare” le condizioni di esercizio della cittadinanza. Ma come
Platone, nella sua canonizzazione della vita etica greca, fa piuttosto
emergere, secondo la interpretazione hegeliana, il suo “negativo”, la
mancanza del principio della soggettività, così Hegel stesso nella
sua “filosoficizzazione” della cittadinanza ha fatto emergere l’incomprimibile fondo non razionalizzabile della individualità borghese moderna. Anche il grande “realismo” non può sostenersi senza
fare appello alla sua contropartita “utopica”.
NOTE
Cfr. Ilting, Band I, pp. 359-376.
GW, XIV, “Vorrede”, p. 9; trad. it., p. 8. Nella “Prefazione”, Hegel usa in
realtà questa espressione solo al singolare, nei riguardi di Fries. Tuttavia, “fatuità”
è la categoria entro la quale, in questa sede, Hegel inscrive tutti i suoi avversari, da
quelli che sviluppano una “sedicente” filosofia alla teologia soggettivistica del suo
tempo e agli odiatori della legge (compresa probabilmente la scuola storica del
diritto). È per questo che ci siamo presi la libertà di volgerla al plurale.
3
Una generale e analiticamente molto accurata discussione del tema per
come si pone all’interno della Filosofia del diritto si può trovare in H.F. FULDA, Das
Recht der Philosophie in Hegels Philosophie des Rechts, Vittorio Klostermann,
Frankfurt am Main 1968.
4
GW, XIV, “Vorrede”, p. 6; trad. it., p. 5.
5
Ivi, p. 7; trad. it., p. 5.
6
Ivi, p. 6; trad. it., p. 5. Livia Bignami attribuisce, commentando questi passi
della “Prefazione” alla Filosofia del diritto, anche al concetto di “filosofia” hegeliano il compito di “‘scoprire’, ‘dire’, ‘propagare’ verità” (cfr. L. BIGNAMI, Concetto e
compito della filosofia in Hegel, Verifiche, Trento 1990, p. 17). Che le cose stiano
altrimenti, tuttavia, non è solo la lettera del testo a documentarlo, bensì anche
alcune condizioni filosoficamente più dirimenti, che avremo modo di svolgere di
qui a poco.
7
GW, XII, pp. 231-232; trad. it., pp. 936-937.
8
GW, XIV, “Vorrede”, p. 7; trad. it., p. 5.
9
È pertanto poco condivisibile il giudizio di Adriaan Peperzak, secondo il quale
Hegel non avrebbe dimostrato nella “Prefazione” che la debolezza delle posizioni dei
“condottieri della fatuità” derivi dalla indebita separazione fra contenuto e forma (cfr.
A.T. PEPERZAK, Philosophy and Politics, A Commentary on the Preface to Hegel’s
1
2
28
Philosophy of Right, Martinus Nijhoff Publishers, Dordrecht/Boston/Lancaster 1987,
p. 51). Sebbene sia vero che le difficoltà che si incontrano nella chiarificazione interpretativa di questo nesso risiedono nel rinvio implicito alle categorie della Logica.
10
Senso che, al contrario, Peperzak ritiene poco intelligibile (ibidem).
11
K.-H. ILTING, Hegel diverso, ed. it. a cura di E. Tota, Laterza, Roma-Bari
1977, pp. 47-48.
12
GW, XIV, “Vorrede”, p. 7; trad. it., p. 5.
13
K.-H. ILTING, Hegel diverso, cit., p. 48.
14
Enz 3 § 568.
15
Come Hegel spiega molto chiaramente nell’“Introduzione” alle Lezioni di
storia della filosofia (cfr. Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie in JA,
XVII, pp. 77-80; trad. it. a cura di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia,
Firenze 1985, vol. I, pp. 59-61).
16
Enz 3 § 568.
17
Differentemente da Schelling, il quale enunciava questa tesi anche in uno
dei suoi testi più vicini a un orizzonte filosofico-politico, le Lezioni sul metodo
dello studio accademico (cfr. F.W.J. SCHELLING, Vorlesungen über die Methode des
akademischen Studiums, in Schellings Werke, hrsg. von M. Schröter, C.H. Beck
und R. Oldenbourg, München 1927, Hauptband III, pp. 246, 308-309; trad. it.
Lezioni sul metodo della studio accademico, a cura di C. Tatasciore, Guida, Napoli
1989, pp. 76, 136).
18
La condanna a morte di Socrate è l’emblema per Hegel di questo conflitto, incomponibile entro la vita greca, fra filosofia e Stato.
19
GW, XIV, “Vorrede”, p. 7; trad. it., p. 5.
20
Ivi, p. 8; trad. it., p. 7.
21
Ivi, pp. 7-8; trad. it., p. 6.
22
Cfr. il significativo rinvio di Hegel nel Manoscritto di filosofia della religione del 1821 all’omicidio, avvenuto il 23 marzo 1819, del drammaturgo tedesco
Kotzebue ad opera dello studente di teologia Sand come frutto di una teologia
che, disprezzando leggi e dottrina, fa del sentimento dell’amore la condizione di
possibilità di una apprensione autentica di Dio (Vorlesungen über die Philosophie
der Religion. Einleitung. Der Begriff der Religion, hrsg. von W. Jaeschke, Felix
Meiner, Hamburg 1983, Teil I, p. 152; trad. it. Lezioni di filosofia della religione.
Introduzione: il concetto di religione, a cura di S. Achella e R. Garaventa, Guida,
Napoli 2003, vol. I., pp. 200-201).
23
GW, XIV, “Vorrede”, pp. 11-12; trad. it., pp. 10-11.
24
Ivi, p. 6; trad. it., p. 5.
25
Da ciò si rivela come il testo della “Prefazione” sia molto meno caotico e
disorganico di quanto appare a prima vista e di quanto è apparso agli interpreti
più tesi a valorizzare il suo aspetto polemico. I fitti rimandi interni ci dicono di trovarci di fronte a un testo di estrema concentrazione, “pensato”, non frutto di una
estemporanea vampata polemica.
26
GW, XIV, “Vorrede”, p. 16; trad. it., p. 16.
27
Ibidem.
28
K.-H, ILTING, Hegel diverso, cit., p. 48.
29
Ibidem.
29
30
Ivi, pp. 48-50. Anche nell’analisi di questa “Prefazione” alle Vorlesungen
di filosofia del diritto del 1818-1819, Ilting provvede a rimuovere il denso sfondo
teoretico delle argomentazioni hegeliane. Nella sua lettura del testo, Ilting si è
infatti lasciato entusiasmare, peraltro giustamente, dal fresco richiamo che Hegel vi
fa – senza dubbio antitetico alle indicazioni teoriche che provenivano dall’ambito
della Restaurazione – allo sviluppo storico della libertà e alla necessità che la libertà
posseduta da un popolo pervenga a trovarsi pareggiata alle sue condizioni di realizzazione (Rph Ilting 1818-1819, p. 231). Ha poi valorizzato con grande energia
l’indicazione hegeliana degli ostacoli che, in quel momento, in Germania si frapponevano alla realizzazione del concetto di libertà: un diritto distante dal Gemüt del
popolo e il sistema feudale con i suoi riverberi negativi sul terreno della concezione del diritto pubblico. Ma si è poi guardato dal valorizzare anche le riflessioni
hegeliane sull’idea del diritto, parimenti presenti nel testo. Se lo avesse fatto non
avrebbe potuto non osservare come Hegel sottolinei che il necessario carattere storico della realizzazione del concetto di “libertà” non è sufficiente ad articolare una
sua completa esplicazione. Mancherebbe in tal caso, dice Hegel, uno studio del
concetto di libertà come concetto, e cioè del suo carattere “infinito”, non riducibile
ai rapporti giuridici di volta in volta predominanti. “La veduta storica”, dice
Hegel, “fu nei tempi moderni particolarmente raccomandata, in parte a causa della
necessità di giustificare lo stato giuridico sussistente, in parte a causa del debole
stato della filosofia, che era abbassata a un presagire, senza conoscere” (ivi, p. 232).
In poche righe, ci pare – e questo viene riconosciuto anche dallo stesso Ilting (cfr.
K.-H. ILTING, Hegel diverso, cit., pp. 46-47) –, Hegel riesce a scagliarsi sia contro la
scuola storica del diritto sia contro i “condottieri della fatuità”, in particolare contro Fries. È, infatti, la sua figura a essere mobilitata onde rendere visibile lo stato di
scadimento cui è giunta nel suo tempo, per Hegel, la intellezione filosofica. Alla
filosofia, Fries – rammenta Hegel rinviando alla sua opera del 1805 Wissen,
Glauben, Ahnung – prescrive il compito di lavorare sullo Ahnen, sul presagire, ma
non sul conoscere. In ciò coincidendo con l’opera della scuola storica del diritto,
cui non interessa portare alla luce la determinazione di concetto del diritto, bensì
solo le sue specifiche realizzazioni storiche. Ma così la filosofia del diritto, continua
Hegel, si attesta su un piano di astrazione, non consegue la concretezza della idea,
perché separa il momento del concetto da quello della sua incarnazione in istituti
giuridici oggettivi (Rph Ilting 1818-1819, p. 231).
Il momento qualificante dell’intera questione viene enunciato, con grande
semplicità, al termine di questo testo: si tratta di elevarsi allo Standpunkt del concetto allontanando da sé la Vorstellung del diritto (ivi, p. 233). E la scuola storica
del diritto e la filosofia friesiana devono essere annoverate, precisamente a causa
del loro sfuggire alle maglie della considerazione concettuale, fra le Vorstellungen
del diritto. Si potrà, dunque, certo concedere che questa “Prefazione” del 1818
brilla per la sua particolare capacità di mettere in rilievo l’essenza dinamica della
libertà e la nota imperiosa e inarrestabile del suo procedere. E si potrà pure
ammettere, sebbene su ciò sarebbe lecito continuare a coltivare più di una perplessità, che il rapporto fra ragione e realtà è qui così configurato in modo da far emergere, maggiormente che nella “Prefazione” del 1820, la loro identità diveniente più
che divenuta. Ma sarebbe frutto di una inspiegabile e ingiustificata cecità interpre-
30
tativa trascurare che il nerbo filosofico intorno a cui ruota la “Prefazione” del 1818
è, precisamente, il medesimo di quello della “Prefazione” del 1820, e cioè la netta
e inequivocabile separazione fra il modo del Begriff di articolare l’esposizione della
volontà libera e della sua realizzazione come Recht e quello della Vorstellung e
della doxa (sulla sostanziale concordanza della “Prefazione” del 1818 con quella
del 1820 siamo perciò d’accordo con E. MATASSI, Le Vorlesungen-Nachshriften
hegeliane di filosofia del diritto, Quaderni di “De Homine”, Roma 1977, pp. 6573). E come nella “Prefazione” del 1820 teologia soggettivistica e scuola storica del
diritto si scoprono sorprendentemente affratellate da un medesimo abbandono del
piano del Begriff, così accade anche nella “Prefazione” del 1818. Sarebbe illegittimo, quindi, inferirne che le conseguenze che Hegel ha tratto nella “Prefazione” del
1820 dalla dicotomia fra scienza e doxa – il diritto dello Stato di non ospitare entro
di sé i negatori della sua razionalità oggettiva – potrebbero essere ricavate anche
dalla “Prefazione” del 1818? E se così è, come allora affermare che Hegel si sia
fatto condizionare, nella sua ammissione della possibilità che lo Stato licenzi quei
funzionari che si affaccendano a negargli razionalità, dalle tristi vicende del caso
Sand e del conseguente licenziamento del teologo De Wette?
31
K.-H. ILTING, Hegel diverso, cit., pp. 49-50.
32
Dopo l’omicidio del drammaturgo tedesco Kotzebue ad opera di Sand, il
governo prussiano – sotto la spinta della sua corrente più reazionaria, capeggiata
dal principe Wittgenstein, il ministro della polizia – procedette, dagli inizi di luglio
del 1819, a una “bonifica” dell’università dagli elementi politicamente più inquieti.
Tale indirizzo ricevette rinnovato impulso dalla vittoria della linea Metternich
rispetto alla gestione degli affari universitari. L’incontro del primo agosto tra
Metternich e il cancelliere di Stato prussiano Hardenberg ebbe come esito la firma
del Progetto di trattato teplizzese, secondo il quale i professori coinvolti negli “intrighi” studenteschi sarebbero stati immediatamente allontanati dall’insegnamento,
senza poter essere riassunti dalle università di altri Stati tedeschi. Qualche giorno
dopo, alle “Conferenze di Karlsbad”, dal 6 al 31 agosto 1819, tale intento si concretò nelle cosiddette Decisioni di Karlsbad. Adottate dalla Confederazione degli
Stati tedeschi, la Bundesversammlung, il 20 settembre 1819, queste Decisioni entrarono pienamente in vigore in Prussia il 18 ottobre 1819. Esse toccarono, sostanzialmente, tre ambiti: l’università, la stampa, le modalità di indagine della polizia.
Riguardo all’università veniva disposto che un emissario del governo controllasse
l’andamento della ricerca e dell’insegnamento; che fosse allargata la discrezionalità
nelle decisioni circa il licenziamento dei professori non graditi politicamente; che
agli studenti espulsi per motivi politici non fosse concessa la possibilità di iscriversi
altrove e che venissero esclusi a vita dalla possibilità di divenire funzionari statali.
La legge sulla stampa istituì un nuovo regolamento di censura, escludendo le università dalla possibilità, precedentemente garantita, di fare a meno di ricorrere alla
approvazione della censura al fine di rendere autorizzata la pubblicazione di un’opera. Le legge sulla polizia centralizzò, invece, nella sede di Magonza le indagini
sulle attività “rivoluzionarie” ordite negli Stati della Confederazione tedesca.
33
GW, XIV, “Vorrede”, p. 16; trad. it., p. 17.
34
Ivi, p. 15; trad. it., p. 15.
35
Ivi, pp. 14-15; trad. it., pp. 14-15.
31
Ivi, p. 14; trad. it., p. 14.
Ibidem.
38
J. RAWLS, Una teoria della giustizia, trad. it. di S. Maffettone, Feltrinelli,
Milano 1982, pp. 188-191.
39
Ivi, p. 190.
40
Rph § 270 ann.
41
Quando Hegel, in Rph § 258, dice che lo “stato inteso come la realtà della
volontà sostanziale, realtà ch’esso ha nell’autocoscienza particolare innalzata alla
sua universalità, è il razionale in sé e per sé” sta disegnando la figura di un cittadino (l’autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità) capace di pensare, in
senso speculativo. Si potrebbe sostenere che con ciò Hegel resuscita, anche nella
sua maturità, il sogno della “bella eticità” greca. Ma si sbaglierebbe: qui a poter
godere della libertà del pensiero non sono “i pochi”, ma la totalità del corpo politico. Donde la centralità storica e filosofica di quanto seguito alla grecità, e cioè il
cristianesimo, una economia capace di diffondere il benessere materiale ecc.
42
G. LUKÁCS, Goethe e il suo tempo, trad. it. di E. Burich, La Nuova Italia,
Firenze 1974, p. 128.
36
37
32
Società civile e destorificazione. Un confronto
con Joachim Ritter
Il paradosso su cui Joachim Ritter, nella sua ormai celebre
interpretazione della filosofia politica hegeliana, ha lavorato con
grande acutezza tocca il nesso fra storia e società civile. La genesi
della società civile è, senza ombra di dubbio, il portato di un lungo
e complesso cammino storico-universale. E tuttavia, dice Ritter,
questa sfera sociale che tanto ha dovuto attendere per emergere,
affinché si producessero tutte le condizioni necessarie alla sua sussistenza, rimuove immediatamente i rapporti con il processo che ad
essa ha dato luogo. La società civile si emancipa dalla storia. In questo senso diventa una società “astratta”, impoverita delle dimensioni che l’hanno costituita. “Tale problema”, scrive Ritter,
consiste nel fatto che la società ha così necessariamente fuori di
sé tutti gli ordinamenti e le istituzioni etiche, religiose, spirituali,
non richieste dal rapporto con la natura; essa si costituisce emancipandosi da esse. Rendendo possibile il dominio razionale sulla
natura e creando così le condizioni per la libertà di tutti, la
società irrompe nel mondo storico come la “potenza della differenza e della scissione” (Rph § 182; § 33). Essa pone l’uomo in
una esistenza sociale per la quale tutto ciò che egli è in sé e per sé
in base alle sostanze del suo passato storico non ha alcun significato. Questa scissione spezza la continuità della storia1.
Il lavoro ha conferito all’uomo questo potere denaturalizzante,
questa capacità non solo di non dipendere più dalla natura, ma
anche di piegarla a sé. Ma il lavoro è, a sua volta, figura dell’imporsi
della libertà della soggettività; imporsi che, pur avendo considerevoli scaturigini religiose, solo nella Rivoluzione francese ha trovato
il terreno più fertile di realizzazione oggettiva2.
Questa soggettività che recide il rapporto con il passato ed è
tutta intenta, “narcisisticamente”, a svilupparsi, inghiotte nella sua
33
libera ed eslege attività anche il sapere su Dio. Si instaura l’epoca
della “secolarizzazione”. Hegel, afferma Ritter, avrebbe compreso
bene i pericoli immanenti allo scatenamento di questa soggettività
disciolta da ogni vincolo. In ciò risiederebbe il motivo ultimo della
sua critica alla figura kantiana della moralità. Ed è anche per questo
che egli sarebbe giunto a interpretare la società civile come sfera
della “scissione”. In questo modo, infatti, si sarebbe lasciato la
porta aperta al superamento dei danni che questa stessa soggettività
infligge ai nessi di socializzazione.
Ritter ci rammenta anche che Hegel è stato il primo a fondare il
concetto della “proprietà privata” sulla base dell’oggettivazione
della natura, della sua reificazione3. Tuttavia la “reificazione di tutti i
rapporti interpersonali è l’altra faccia della proprietà. Sul terreno
della società civile, la reificazione non rimane circoscritta al rapporto
con le cose naturali esterne. Qui essa implica che anche tutte le
capacità e attitudini della persona siano parimenti spersonalizzate e
assumano, in tutti i gradi delle loro possibilità, la forma di ‘cosa’, per
svolgere così la funzione sociale della ‘proprietà’”4. Dunque, la reificazione della natura reca con sé quella dell’uomo; in forza di essa,
diventa possibile reificare le stesse facoltà umane, renderle alienabili.
Qui si costeggia un tema che, da altre sponde teoriche, è stato reso
oggetto di attenzione anche da Adorno: il mondo di Hegel è quello
di un sistema radicalmente socializzato e “satanico”, imprigionato in
una weberiana gabbia di acciaio, fatta di razionalizzazione e naturalizzazione di un umano ormai reso pura materia di scambio mercantile5. Ed è caratteristico che sia Ritter sia Adorno insistano sul fatto
che la soluzione hegeliana all’insorgenza di questo mondo “satanico” sta nella costruzione di una sovrastruttura statuale in grado, se
non di risolvere, quanto meno di attenuare l’impatto delle contraddizioni interne alla complessiva struttura della società civile6. Con la
differenza, tuttavia, che, mentre Ritter si concentra sull’analisi del
supplemento di “storicizzazione” che lo Stato fornisce alla destorificata società civile, con ciò situandosi pertanto, pur con tutti i limiti
della sua lettura critica, su un piano di analisi funzionale del testo
hegeliano, ad Adorno interessa soprattutto ricostruire la genealogia
teorica della cosiddetta idolatria hegeliana dello Stato7.
L’intuizione felice di Ritter è il ritrovamento del collegamento
esistente in Hegel fra la cognitio speculativa entis qua entis e l’inda-
34
gine delle aporie della modernità8, dunque fra metafisica e politica.
E cioè: l’escamotage, per così dire, di cui ha fatto uso Hegel per
uscire dal paradosso aperto dagli effetti destorificanti della società
civile è la categorizzazione di questa come fase di “scissione” dell’idea all’interno dell’eticità. Scissione che richiede, precisamente,
l’intervento della emendatio dello Stato. Il quadro concettuale così
dispiegato ci pare, tuttavia, già da ora non pienamente soddisfacente: la mediazione statuale viene rappresentata come se giungesse
dall’esterno a ricucire gli strappi arrecati dalla struttura dei rapporti
della società civile alla riproduzione sociale complessiva. Ma, d’altro canto, non è possibile, a nostro avviso, uscire da questa rappresentazione limitante della natura della mediazione statuale, se non
si intende rettamente il senso della connessione stabilita da Hegel
fra società civile e Reflexion, fra società civile e ciò che nella Logica
è la dottrina dell’essenza. Perché è solo entrando nel concreto meccanismo presentato dalla mediazione “riflessiva” della società civile
che si può rendere intelligibile il passaggio hegeliano allo Stato9.
A dire il vero, Ritter si è avvicinato, in qualche modo, a questa
direzione di ricerca, allorché ha evidenziato che la “posizione” propria alla soggettività astratta, destorificata, libera, della società civile
è quella della “filosofia della riflessione”, delle filosofie di Kant, di
Fichte e di Jacobi10. Ritter ha ritrovato, peraltro correttamente, la
descrizione di tale figura nei primi scritti jenesi di Hegel, nella
Differenzschrift e in Fede e Sapere. Il soggetto che si astrae dalla
natura per dominarla è infatti un soggetto “riflessivo”, che ha bisogno della scissione dall’oggettività per potersi costituire. D’altro
canto, essendo prodotto dalla scissione, il soggetto “ricorda” la sua
unità con l’oggettività e aspira a riconquistarla.
Se Ritter, tuttavia, avesse provato a svolgere ulteriormente la
sua analisi su questo punto si sarebbe certamente accorto che, proprio nei citati scritti giovanili hegeliani, emerge distintamente una
concezione della riflessione come mediazione11; in particolare come
mediazione, sebbene ancora imperfetta, dell’assoluto. In lui ci pare,
invece, che domini la tipica e diffusa confusione del concetto hegeliano di “intelletto” con quello di “riflessione”. Concetti affini, invero, in Hegel, ma non per questo integralmente sovrapponentisi. È su
questa base che egli può però dire che la soggettività della società
civile, della società capitalistica moderna, “costruisce ‘i suoi templi e
35
i suoi altari nel cuore dell’individuo… perché c’è il pericolo che l’intelletto consideri l’intuìto come cosa ed il bosco sacro come
legna’”12. La soggettività della società capitalistica moderna da riflessiva diventa illuministica e reificante, secolarizzata e secolarizzante.
Al contrario, dicevamo, è chiaro a sufficienza proprio nella
Differenzschrift, che Hegel si adopera a differenziare l’intelletto non
solo dalla ragione, ma anche dalla riflessione. Perché se l’intelletto
si definisce attraverso la fissazione dei termini di un’opposizione, e
la ragione attraverso il superamento stesso dell’opposizione, la
riflessione si caratterizza invece per essere un procedimento di pensiero che, pur muovendo verso il superamento dell’opposizione,
ricade subito dopo nelle rigidità proprie all’intelletto. Più esattamente: la riflessione, a differenza dell’intelletto, fissa l’opposizione
avendo già presente, per così dire, la “realtà” dell’assoluto, il suo
essere fondamento e orizzonte di pensabilità dell’opposizione.
L’assoluto, dunque, è affisato, benché i suoi termini costitutivi non
siano superati nella loro opposizione13. O, con le stesse parole hegeliane, esso è costruito solo per essere tolto. Per di più, già in queste
prime prove filosofiche, Hegel lavora attorno a una trama di pensiero che è di estremo interesse ed essenzialità per il discorso che stiamo conducendo. Vale a dire: se la riflessione occupa da sola il
campo del pensiero, essa è costretta ad applicarsi, conseguentemente, anche a se stessa. Ma, proprio perciò, essa cade immediatamente
nella spirale della contraddizione: da un lato, perché, secondo un
“classico” canone dialettico, il farsi oggetto di una categoria a se
stessa è contemporaneamente il suo toglimento; dall’altro, e più
profondamente, perché la riflessione messa in opera dalle filosofie
soggettivistiche dell’idealismo tedesco, affinché si possa esercitare,
ha immancabilmente bisogno di qualcosa ad essa esteriore. La
riflessione è, infatti, tale solo allorché è riflessione su qualcosa; qualcosa che non è prodotto da lei. Essa è, infatti “il pensiero come attivo in relazione ad oggetti”14; per questo il pensiero come riflessione
è allo stesso tempo e “contraddittoriamente” autonomo e non autonomo. D’altro canto, pur nel suo essere necessariamente in relazione ad oggetti altri rispetto a se stessa, la riflessione ne coglie l’universale, l’interno. Il che significa, precisamente, che la soggettività
riesce a rispecchiarsi nell’oggettività, e che quindi l’identità soggetto-oggetto riceve, in questo modo, realizzazione. Ne esce conferma-
36
ta la tesi poc’anzi espressa: la riflessione è già nei pressi, per così
dire, dell’assoluto, se per “assoluto” si intende ciò su cui soprattutto il primo Hegel di Jena ha insistito: la piena e compiuta identità
fra soggetto e oggetto.
Attraverso la sottolineatura degli effetti autodistruttivi della
riflessione esercitantesi su se stessa, viene annunciata, in forma contratta, una tesi di una certa importanza: la riflessione, che costituisce la struttura della società civile, paga lo scotto dell’autodissolvimento se non costruisce i passaggi necessari a trascorrere in concetto, e dunque in Stato. D’altra parte, la configurazione della struttura riflessiva della società civile implica che i termini che la costituiscono – particolarità delle individualità economiche e universalità
del sistema della loro onnilaterale dipendenza reciproca –, non
siano legati come se fossero esteriormente opposti l’uno all’altro,
ma siano disposti in modo tale che la particolarità dell’individualità
economica ponga, in quanto determinazione della riflessione, la
necessità del termine a sé opposto, il sistema della onnilaterale
dipendenza reciproca, la “mano invisibile” del mercato.
Se, tuttavia, si giunge a reputare che la mediazione sia saldamente ancorata alla struttura interna della società civile viene
anche, in un certo senso, meno la “diagnosi epocale” di Ritter: il
mondo moderno, o almeno quell’ampia parte di esso costituito
dalla figura della soggettività libera e destorificata, non è, ci dice
Hegel, un mondo consegnato in modo non riscattabile alla polarizzazione fra nuda soggettività e oggettività naturale, e quindi alla
conseguente povertà di senso e di valori15. È invece un mondo che,
pur correndo certamente questi pericoli, custodisce in sé, garantite
dalla mediazione che vi si instaura, notevoli risorse di ricostruzione
di legami sociali. In questo modo, anche la figura dello Stato cambia: la sua Sinngebung storica non è fornita alla maniera di un deus
ex machina.
Nonostante ciò, Ritter coglie bene, ed è merito della sua interpretazione avervi insistito, la destorificazione interna al primo apparire della società civile. Anche qui, tuttavia, avremmo da aggiungere
alcune osservazioni a margine della sua tesi. E cioè: perché il primo
delinearsi della società civile non ha storia? Ritter è spinto a trarre
questa conclusione dalla sua convinzione che, nell’analisi della
società civile, l’operazione di Hegel consista in una trascrizione
37
“filosofica” dello schema teorico di Smith. Come Smith, per certi
versi, è costretto a rimuovere la storia perché legge la società mercantile moderna come una sorta di prolungamento “analitico” del
permanente impulso dell’uomo allo scambio16, così Hegel, quando
trasferisce l’economia moderna all’interno del suo sistema, è
costretto a sospendere la storia17.
È innegabile che l’immagine di una società di uomini naturaliter produttori-scambisti contragga la storia, non gli conceda possibilità di sviluppo. Né si può dimenticare che Smith, come è largamente noto, conosce solo due stadi di società: quello in cui il prodotto del lavoro viene ricondotto integralmente ai suoi produttori e
quello in cui questo stesso prodotto viene ripartito in tre parti, cioè
salario, profitto, rendita. Il che vuol dire che Smith conosce quale
unico “operatore” di storia la divisione in classi della società: nel
primo stadio, infatti, quello della riconduzione integrale del prodotto ai produttori, manca quella divisione del lavoro, che, sola, è in
grado di separare i lavoratori dalla proprietà dei mezzi di produzione – la quale garantisce il profitto – e dal possesso dalla terra – che
garantisce, invece, la rendita18. Ma se è solo la divisione del lavoro a
“fare” la storia, allora accade che tra una fase e l’altra dell’evoluzione della società non vi possa essere un “distacco” qualitativo, derivante dalla diversa configurazione dei rapporti sociali, ma solo una
differenza quantitativa, addebitabile alla minore o maggiore intensità di sviluppo della stessa divisione del lavoro. La storia, qui, è
quella dettata dalla scansione di un medesimo principio di socializzazione. La differenza, poiché è solo, per così dire, “quantitativa”,
si toglie non appena è posta. Ma se a stagliarsi è unicamente il profilo dell’identità, difficile diventa la stessa dicibilità della storia19.
L’ipotesi di Ritter circa una società civile destorificata per via
dell’influenza di Smith su Hegel ha dunque una sua credibilità. Ma
la società civile hegeliana è una pura cassa di risonanza teorica delle
novità apportate dalla economia moderna? O Hegel mira invece a
“correggere” quest’ultime dentro un complesso istituzionale e
forme di coscienza e azione più stratificati?20
Smith dunque da solo non può bastare per capire il rapporto
fra storia e società civile. La questione va posta da un altro versante:
Ritter individua nello Stato ciò che permette, in qualche modo, agli
uomini astratti della società civile di “recuperare” la storia. Si ram-
38
menterà, infatti, che uno dei capisaldi della filosofia della storia
hegeliana è che si dia storia nel mondo, sia nel senso di Historie (res
gestae) sia in quello di Geschichte (historia rerum gestarum), solo a
partire dall’ingresso nel mondo dello Stato. Prima di ciò, dice
Hegel, non vi è mai stata “storia” per gli uomini. La tesi assume
anche valenze caratteristiche: se è vero che la Cina, che costituisce
la prima tappa del cammino della storia universale, possiede uno
Stato, questo è, tuttavia, uno Stato patriarcale, fondato sul principio
familiare; al fondo, dunque, uno Stato che, non possedendo
coscienza di se stesso, il principale frutto della quale è la Verfassung
– la costituzione intesa come forma organizzativa della comunità
politica21 –, è ancora lontano dall’essere uno Stato vero e proprio.
Mentre dall’India alla Turchia, dice seccamente Hegel, non vi è, sic
et simpliciter, Stato22. Queste società, dunque, non hanno né Stato
né, conseguentemente, storia.
Là dove, invece, lo Stato ha fatto la sua apparizione, vi è essenzialmente un principio di organizzazione concettuale del tempo23. Il
tempo, infatti, come scorrere indeterminato e seriale di istanti, non
possiede, a giudizio di Hegel, il principio della storia, o meglio ne
rappresenta solo la base naturale. Al contrario la storia è in Hegel
divenire temporale sì, ma orientato da uno scopo ad esso immanente, il progresso nella coscienza della libertà. Possedendo questa
coscienza della libertà, lo Stato è, perciò, in grado di riorientare il
suo divenire temporale, di sottrarlo alla sua serialità “naturale”. Nel
mondo orientale – in cui non vi è lo Stato ad assicurarla – si colgono bene gli effetti della mancanza della coscienza della libertà. In
India, caso di estrema rilevanza sotto questo profilo, la storia manca
perché essa “esige intelletto, richiede la forza di lasciar libero l’oggetto per sé e di afferrarlo nel suo nesso intelligibile. Di storia, così
come di prosa in genere, sono capaci perciò solo i popoli che siano
arrivati a concepire gli individui come individui esistenti per sé,
dotati di coscienza di sé, e che muovano da questo punto di partenza”24. In India è assente, insomma, la stessa figura “fenomenologica” della coscienza, ciò che permette di fissare la differenza fra il sé
degli individui e il mondo oggettivo. E come non vi è coscienza,
così non vi è libertà, perché l’esistenza è immersa nella natura, è
incapace di guadagnare autonomia di contro ad essa. Ma se l’individuo non guadagna libertà dalla natura e dal mondo, allora anche il
39
concetto di un’oggettività autonoma dagli individui evapora. Anzi,
si può asserire che è proprio il difetto di oggettività, il quale fa sì
che ogni accaduto svanisca “in confusi sogni”25, a minare la possibilità per gli indiani di produrre storiografia. È
la storia a restituire al popolo la sua immagine in una condizione che per lui divenga in tal modo una condizione oggettiva.
Senza storia, l’esistenza temporale di un popolo è internamente
cieca, è soltanto un gioco ripetitivo dell’arbitrio nelle forme più
diverse. La storia fissa quest’accidentalità, la fa stare in piedi, le
conferisce la forma dell’universalità e stabilisce proprio in tal
modo il criterio di giudizio in senso favorevole o sfavorevole.
La storia è un mezzo essenziale nello sviluppo e nella determinazione della costituzione, vale a dire di una condizione razionale, politica. È la maniera empirica di portare alla luce il principio universale – la storia esibisce un contenuto durevole per
la rappresentazione26.
La storia implica, dunque, la genesi di ciò che potremmo chiamare “negatività del dato”, la trasformazione degli eventi che accidentalmente si susseguono l’uno all’altro in alcunché che costituisce
il cammino progressivo di presa di coscienza dello spirito. Sebbene
già il tempo “naturale” sia negatività di un dato, in particolare del
punto spaziale27, è nel tempo dello spirito che il concetto di “negatività del dato” si esplica appieno, sancendo la fine dell’egemonia
del factum brutum, dell’“evento”, singolo e puntuale, nella tessitura
della storia; la “filastrocca”, come ama dire Hegel, degli eventi
impedisce il levarsi di qualsivoglia forma di coscienza storica.
Questo processo di trasfigurazione dell’accidentalità degli
eventi corrisponde, per Hegel, a un processo di universalizzazione.
E questo può avvenire perché la coscienza, ormai liberatasi dalla
simbiosi che la legava al mondo oggettivo, può cominciare a “ricordare” gli eventi. L’Erinnerung, l’interiorizzazione dell’evento trascorso nella intellezione conoscitiva, il suo farsi memoria, è ingrediente essenziale al costituirsi della storiografia. Ma memoria equivale, precisamente, a fine della percezione dell’evento nella sua irriducibile concretezza empirica. E siccome il tramonto della singolarità, in Hegel, coincide sempre con l’affacciarsi dell’universalità, l’aver ucciso in sé, nella propria memoria, l’evento, l’averlo trasfigura-
40
to in oggetto intellettuale, sottraendogli quanto di empirico e sensibile aveva nel mondo dei fatti e delle azioni, equivale al prodursi
dell’universalità.
Lo Stato è fattore di storia, dunque, nella misura in cui organizza la sua esistenza secondo questa “negatività del dato”, allorché, cioè, passa dal principio di Crono, del tempo che divora tutte
le opere etiche, a quello di Zeus, del dio politico. Il quale consente
alla comunità di negare l’immediatezza della sua datità naturale,
fatta di egoismi e interessi privati, dotandola di istituti giuridici e
politici permanenti e universali.
Ma basta tener mente all’indole dinamico-progressiva della
struttura concreta dello Stato hegeliano per rendersi conto di quanto, in esso, incida il modulo dell’autonegatività. Lo Stato hegeliano,
infatti, è tale perché si divide e ripartisce in sfere, la famiglia e la
società civile, che in tanto lo costituiscono in quanto, allo stesso
tempo, sono poste e negate nella loro autonomia da esso. In questo
modo, lo Stato hegeliano, più che affrettarsi a dotare la società di
propri contenuti, concentra l’asse principale del proprio agire intorno al processo di elaborazione universalistica dei contenuti mediati
dalle prime sfere dell’eticità. La cosa si può vedere anche dalla prospettiva di sviluppo della volontà libera, filo conduttore della
Filosofia del diritto: questa comincia dalla figura della volontà naturale – che, a livello di eticità, corrisponde alla famiglia –, del tutto
penetrata da determinazioni, impulsi e inclinazioni, a lei offerte
come “date”; poi, percorre lo stadio della volontà riflettente –
espressa, a livello di eticità, dalla società civile –, in cui essa comincia a possedere la facoltà di scegliere il materiale cui di volta in
volta aderire; infine, sbocca nella autodeterminazione compiuta
della volontà, la volontà razionale – corrispondente, a livello di eticità, allo Stato –, in cui la volontà produce i suoi contenuti a muovere soltanto da sé. La natura della volontà razionale, e quindi dello
Stato, è dinamico-progressiva nella misura in cui il suo venire alla
luce è determinato dalla rielaborazione e risistemazione dei contenuti ad essa precedentemente assegnati.
La storia, d’altro canto, non è concepibile se non emerge la
categoria del “passato”. E il passato in Hegel è l’esser-tolto delle
determinatezze, la dissoluzione del loro Dasein. Poiché, inoltre,
questo movimento di toglimento delle determinatezze scalza la loro
41
originaria immediatezza inscrivendola in un giro di mediazione, per
cogliere il passato, suggerisce Hegel, è necessario attraversare il
movimento di passaggio dall’essere all’essenza:
L’essere è l’immediato. In quanto il sapere vuol conoscere il
vero, quello che l’essere è in sé e per sé, esso non rimane all’immediato e alle sue determinazioni, ma penetra attraverso quello, nella supposizione che dietro a quell’essere vi si ancora qualcos’altro che non l’essere stesso, e che questo fondo costituisca
la verità dell’essere. Questa conoscenza è un sapere mediato,
poiché non si trova immediatamente presso l’essenza e nell’essenza, ma comincia da un altro, dall’essere, e ha da percorrere
antecedentemente una via, la via dell’uscir fuori dell’essere o
piuttosto dell’entrarvi. Solo in quanto il sapere, movendo dall’immediato essere, s’interna, trova per via di questa mediazione l’essenza. - La lingua tedesca ha conservato l’essenza
(Wesen) nel tempo passato (gewesen) del verbo essere (Sein);
perocché l’essenza è l’essere che è passato, ma passato senza
tempo28.
Il costituirsi del passato implica, quindi, che sia maturata la
coscienza della transitorietà dell’immediato, e quindi dell’essere.
Sennonché, come abbiamo appena cercato di evidenziare, il procedere dell’immediato verso altro, dunque il suo mediarsi, comporta
che sia tramontata la sua singolarità e che, dunque, si sia fatta avanti
l’universalità. Il sapere s’interna, dice in questo passo appena citato
Hegel. Ma questo internarsi del sapere non è un movimento puramente soggettivo. Corrisponde, piuttosto, al ripiegarsi in se stesso
dell’essere, il quale, a questo punto, richiede che la disposizione del
sapere rispetto all’oggetto non si arresti alla registrazione della evidenza immediata, ma vada oltre, scopra quanto vi si nasconde dietro. Con ciò il sapere fa tuttavia l’amara scoperta che dietro l’essere
non vi è alcun fondo, nulla che non sia il movimento stesso di passaggio dall’essere all’essenza29. In ultima istanza – ma ciò dovrebbe
essere oggetto di altra e più ampia analisi –, il passaggio dalle più
primitive modalità di trattazione del “passato” – la storia originaria
– fino a quelle – la storia filosofica – concettualmente più raffinate,
non riproduce che questo sempre più accentuato sottrarsi della storia alla dominanza del “vissuto”.
42
Il quadro si è, di molto, complicato: la connessione fra lo Stato
e la storia, con il venir alla luce entro quest’ultima del “passato”
come categoria concettualmente significativa, apre, di nuovo, alla
tematizzazione della sfera dell’essenza30. Non è tutto ciò contraddittorio con quanto avevamo con Ritter già detto, e cioè che è la soggettività che si astrae “riflessivamente” dalla natura a determinare la
“sospensione” della storia? La “riflessione” è tanto il luogo della
perdita quanto quello del recupero della “storicità”?
La nostra risposta è affermativa e crediamo che sia lo stesso
decorso argomentativo della “società civile” nella Filosofia del diritto a dimostrarlo. Mentre, infatti, la situazione di partenza della
società civile è contrassegnata, indiscutibilmente, dalla mancanza di
“radicamento” storico dei produttori-scambisti, la linea di tendenza
che si sprigiona dal pieno sviluppo delle relazioni economiche è, in
ogni caso, volta al recupero di storicità concreta. Il passaggio dal
“sistema dei bisogni” alla “amministrazione della giustizia” e alla
“polizia e corporazione” coinvolge, infatti, progressivamente, delle
dimensioni che sembravano, all’ingresso della società civile, definitivamente sepolte. È sufficiente, qui, rammentare le proprietà possedute dal soggetto che vive le relazioni corporative: i suoi interessi
e il suo “destino” sono presi in carico dalla struttura associativa
nella quale si è collocati; si è, poi, giudicati secondo la propria abilità e rettitudine; si è sottoposti a un processo educativo31; si è, infine, riconosciuti come individualità concretamente ed empiricamente determinata32, privata della pura capacità astratta di possedere e
guadagnare. Anzi, proprio in virtù di queste sue nuove determinazioni, il soggetto corporativo deve evitare le esibizioni esterne del
suo tenore di vita33 e vede limitato il suo diritto naturale ad accumulare illimitatamente ricchezza e potere sul mercato34. Nella corporazione, insomma, l’individuo perde la sua Willkür, la sua capacità di
scegliere e fare ciò che si vuole35. E poiché in Hegel la Willkür, più
che essere vettore di individualizzazione, rende omogenei gli individui gli uni agli altri, immergendoli tutti nella astratta capacità di
scegliere, l’acquisto, nella corporazione, di una personalità concreta
si rivela essere potente fattore di costituzione e formazione della
volontà razionale.
Si fa luce, dunque, entro la corporazione quella volontà razionale che è condizione di possibilità dello Stato e, come abbiamo
43
visto finora, della storia. Ma se così è, allora viene meno quella rigida dicotomia, della quale si è fatta banditrice la lettura interpretativa di Ritter, fra lo Stato che produce storia e la società civile che la
“sospende”. Occorre, piuttosto, avere maggiore pazienza nel tener
dietro al dipanarsi, talvolta solo “molecolare”, tal altra più visibile,
delle mediazioni hegeliane.
NOTE
1
J. RITTER, Metafisica e politica. Studi su Aristotele e Hegel, ed. it. a cura di
G. Cunico, Marietti, Genova 19972, p. 132. Ma la stessa problematica viene anche
trattata in Hegel e la Rivoluzione francese, trad. it. di A. Carcagni, Guida, Napoli
1970, pp. 54-56.
2
J. RITTER, Metafisica e politica, cit., p. 137.
3
Ivi, p. 155.
4
Ibidem.
5
T.W. ADORNO, Tre studi su Hegel, trad. it. di F. Serra, il Mulino, Bologna
1971, p. 59.
6
Ivi, p. 60. Mentre per Ritter si cfr. J. RITTER, Hegel e la rivoluzione francese,
cit., p. 58.
7
Su questo punto, e cioè sul fatto che la statolatria in Hegel si leghi alla
impotenza della società civile a uscire da se stessa dalla contraddizione in cui è
avvolta, la posizione di Adorno è la medesima di quella di Marcuse. Di quest’ultimo si veda, per esempio, a tale riguardo, H. MARCUSE, Ragione e rivoluzione. Hegel
e il sorgere della “teoria sociale”, trad. it. di A. Izzo, il Mulino, Bologna 1966, p.
189.
8
Cfr. J. RITTER, Hegel e la Rivoluzione francese, cit., p. 22.
9
Su ciò cfr. il nostro La mediazione che sparisce. La società civile in Hegel,
Carocci, Roma 2009.
10
J. RITTER, Metafisica e politica, cit., p. 137.
11
È la stessa idea di “mediazione”, peraltro, che compare nella
Differenzschrift per la prima volta (cfr., su questo punto, H. NIEL, De la médiation
dans la philosophie de Hegel, Aubier, Paris 1945, pp. 70-71).
12
J. RITTER, Metafisica e politica, cit., p. 137.
13
Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie in
GW, IV, pp. 16-19; trad. it. Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di
Schelling, in Id., Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, pp.
18-21.
14
Enz 3 § 21.
15
Ha, pertanto, ragione Claudio Cesa (cfr. C. CESA, “Hegel e la rivoluzione
francese”, in Id., Hegel filosofo politico, Guida, Napoli 1976, pp. 62-66), quando
44
afferma che la lettura del nesso società civile-Stato offerta da Ritter rappresenta
una alternativa alle letture “progressiste” di Hegel. Alternativa tanto più credibile
in quanto fa propria una bandiera di tali letture, e cioè l’interpretazione di Hegel
come filosofo della Rivoluzione francese, o, più in generale, della modernità borghese. Stupisce, quindi, che molti interpreti marxisti di Hegel si siano appoggiati
alla lettura di Ritter senza metterne in luce l’intenzionalità profonda (cfr., per
esempio, B. DE GIOVANNI, Hegel, la rivoluzione francese e la società civile, in
“Critica Marxista”, 3 (1971), pp. 157-175).
16
Cfr. A. SMITH, The Works, In five volumes, Reprint of the edition 18111812, Otto Zeller, Aalen 1963, vol. II, p. 20; trad. it. Indagine sulla natura e le
cause della ricchezza delle nazioni, a cura di F. Bartoli, Isedi, Milano 1973, p. 17. Su
ciò si veda anche C. NAPOLEONI, Smith, Ricardo, Marx. Considerazioni sulla storia
del pensiero economico, Boringhieri, Torino 1970, pp. 62-68.
17
J. RITTER, Hegel e la Rivoluzione francese, cit., pp. 53-54.
18
A. SMITH, The Works, cit., vol. II, pp. 70-82; trad. it., pp. 49-55.
19
Con ciò ci collochiamo in una posizione, almeno in parte, diversa da quella
sostenuta da Dario Borso in Hegel politico dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1976,
pp. 133-134. Borso, giustamente, stabilisce il contatto di Hegel con Smith a muovere da una impostazione che rifiuta, programmaticamente, ogni atteggiamento
“empiristico”, e cioè un atteggiamento che connetta i due pensatori attraverso legami di superficie, e non attraverso le omologie fra filosofia “speculativa” ed economia politica classica. Borso ci rammenta, innanzitutto, che “Smith elabora una teoria del valore/lavoro contenuto che però è in grado di funzionare solo in assenza di
elementi perturbatori, primo tra tutti il profitto, che agisce nel senso della diseguaglianza e dello squilibrio […]. Questo stadio primitivo registra il dominio incontrastato dell’eguaglianza, dell’equilibrio, della non-contraddizione: ma esso è anche
regno della stasi. Al contrario, è solo con il capitale che si avvia la fase dell’accumulazione […]. Questo secondo stadio ha caratteristiche peculiari che lo contrappongono allo stadio primitivo. Esso è lo stadio dello sviluppo, e lo sviluppo si dà solo
nella lacerazione del tessuto omogeneo che legava i singoli produttori primitivi,
nello squilibrio e nella contraddizione: la percezione di questo fatto rende incompatibile la teoria del valore/contenuto con gli elementi nuovi della società capitalistica,
primo fra tutti la comparsa contraddittoria del sovrappiù. Il labour commanded è
chiamato appunto a ‘spiegare’ le novità del presente, non a occultarle; e proprio per
sottolineare la consapevolezza della novità esso si dà in contrapposizione alla teoria
‘obsoleta’ del valore/lavoro contenuto: reciprocamente, la polarizzazione tra le due
teorie mantiene buone le condizioni di visibilità della contraddizione. A ben vedere,
la percezione della contraddizione è garantita in Hegel da una omologa polarizzazione, che nelle Lezioni jenesi si stabilisce tra bella eticità greca e stato moderno.
Come per Smith lo stadio rozzo e primitivo, così al filosofo la polis vale oramai
come modello utopico di società non contraddittoria ma ineffettuale e perciò
improponibile. All’opposto lo stato moderno è animato dalla contraddizione, su
questa innesta i processi in atto della socializzazione e della sintesi: la polis è semplice referente negativo, esempio di come una società non può essere, pena la stasi e
l’arretratezza”. Se sulla funzione, allo stesso tempo, rivelante e occultante del labour
commanded in Smith, si può, senza esitazioni, consentire con Borso, maggiori dubbi
45
ci sollecita l’idea che la polarità stadio primitivo/stadio di sviluppo in Smith sia tout
court sovrapponibile a quella hegeliana bella eticità greca/Stato moderno. La contraddizione che per Hegel anima lo Stato moderno, quella scatenata dall’apparire
della soggettività, è una contraddizione che non si limita a esplicitare quanto già è
dato all’interno della eticità greca: essa sovverte e trasforma profondamente le
forme di organizzazione dell’etico. La modernità hegeliana non è perciò solo l’esito,
come in Smith, dell’aumento di intensità e efficacia di uno o più fattori di socializzazione; essa è una rivoluzione di forme, pratiche e teoriche.
20
La interpretazione di Ritter non sembra quindi fare giustizia alla complessità del rapporto che Hegel ha intrattenuto nei confronti di tutti i grandi fenomeni,
sociali e politici, della modernità. Su questo punto, con particolare riguardo alla
mancata calibrazione di critica e adesione nella concezione ritteriana del rapporto
di Hegel con la Rivoluzione francese, siamo d’accordo, pur partendo da postazioni
teoriche diverse, con le opinioni espresse da Giuseppe Bedeschi in Politica e storia
in Hegel, Laterza, Bari 1973, pp. 22-23, 173. Peraltro, i conti non tornano anche
da un altro versante: se Hegel è il rappresentante filosofico, puro e semplice, della
modernità, egli non avrebbe avuto bisogno, allora, di qualificare la società civile
come fase della “scissione” entro l’eticità.
21
Su questo punto ha insistito, giustamente, Norberto Bobbio (cfr. Hegel e il
diritto, in Id., Studi Hegeliani. Diritto società civile stato, Einaudi, Torino 1981, p.
63).
22
Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, Berlin 1822/1823,
hrsg. von K.-H. Ilting, K. Brehmer, H.N. Seelmann, Felix Meiner, Hamburg 1996,
p. 132; trad. it. Filosofia della storia universale, secondo il corso tenuto nel semestre
invernale 1822-23, a cura di S. Dellavalle, Einaudi, Torino 2001, pp. 131-132.
23
Su questi stessi temi cfr. l’acuto intervento di F. CHIEREGHIN, Assolutezza e
temporalità nella concezione hegeliana della storia, in “Verifiche”, 3-4, 1998, pp.
211-277 e G. BONACINA, Storia universale e filosofia del diritto. Commento a Hegel,
Guerini, Milano 1989, pp. 129-132.
24
Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte in JA, XI, p. 220; trad. it.
Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Bonacina e L. Sichirollo, Laterza,
Roma-Bari 2003, p. 139.
25
Ibidem.
26
Ibidem.
27
Enz 3 § 257.
28
GW, XI, p. 241; trad. it., p. 433.
29
Questo inizio hegeliano della dottrina dell’essenza fonda il “passato” e
non, come ritiene, incomprensibilmente, Vittorio Hösle, il “passatismo” hegeliano
(cfr. Hegels System. Der Idealismus der Subjektivität und das Problem der
Intersubjektivität, Bouvier, Hamburg 1987, vol. II, p. 429). Sulle dimensioni del
rapporto fra “passato” e “concetto” in Hegel si veda G. RAMETTA, Il concetto del
tempo. Eternità e “Darstellung” speculativa nel pensiero di Hegel, Franco Angeli,
Milano 1989, p. 97.
30
Nella dottrina dell’essenza della Logica, complessivamente considerata,
non si affermano tuttavia tutte quelle condizioni che sono da Hegel ritenute necessarie per pensare la storia. Se storia è, hegelianamente, divenire teleologicamente
46
determinato, è chiaro che nell’essenza manca non solo la categoria di “teleologia”,
ma anche quella di un movimento in cui il concetto si comunichi senza residui.
Nella dottrina dell’essenza non può essere ancora ospitata, cioè, la categoria di
Entwicklung, la quale, invece, appare grazie, in particolare, al primo capitolo, il
“concetto”, della prima sezione della dottrina del concetto (GW, XII, p. 34; trad.
it., p. 682). Solo il concetto, infatti, costituisce propriamente “l’anima del concreto,
nel quale risiede, non impedito ed eguale a se stesso nella moltiplicità e diversità di
quello. Non viene trascinato via nel divenire, ma si continua non turbato attraverso
ad esso ed ha la virtù di una immutabile, immortale conservazione” (ibidem).
Questa continuazione compiuta del concetto nelle sue determinatezze è ciò che
corrisponde alla nozione di “sviluppo”. In un certo senso, è una determinazione
concettuale, questa, che va altrettanto bene per il mondo naturale come per il
mondo spirituale. Sta di fatto, tuttavia, che essa è di particolare centralità nel
mondo spirituale e storico, là dove importa mettere in rilievo la continuità ininterrotta nel progresso della coscienza della libertà. Nella dottrina dell’essenza questa
nozione ancora non può, dunque, far capolino, giacché qui a dominare è la determinazione della riflessione. E la determinazione della riflessione pare nel suo altro,
ma non vi si continua. Il che vuol dire, certo, che la determinazione della riflessione si riferisce a muovere da se stessa al suo altro come a se stessa, ma non si toglie
completamente nel suo altro, cioè non vi si esaurisce. Permane con un nucleo di
irrelatività. Come Hegel dice compendiosamente: la determinazione della riflessione si “fa conoscere nel suo altro, ma non fa che apparire in quello, e l’apparire di
ciascuno nell’altro, ossia il loro reciproco determinarsi ha, col loro star per sé, la
forma di un’attività estrinseca” (ibidem). La determinazione della riflessione, vale a
dire, istituisce con il suo altro solo un rapporto teoretico, ma non un rapporto pratico, e cioè solo un vicendevole rapporto di rispecchiamento, ma non un rapporto
di concreta identificazione reciproca. Ma se così è, allora il quadro offerto dalla
dottrina dell’essenza non è in grado di presentare quella unità nella connessione
delle determinazioni, che, sola, garantisce della possibilità di pensare
l’Entwicklung storica. Ciononostante – ribadendo questo punto da un’altra prospettiva rispetto a quella adottata nel corpo del testo – la logica dell’essenza costituisce un momento decisivo entro il percorso di approntamento delle condizioni
necessarie a pensare lo sviluppo storico. Se, infatti, storia è, hegelianamente, corso
unitario di eventi dotato di senso, ciò presuppone che ogni singolo evento o determinatezza storica sia pensata come toglientesi perché immedesimata con la totalità
del processo di sviluppo. Ebbene questo è un risultato conseguito solo a partire
dall’essenza: solo entro questo orizzonte, infatti, comincia a realizzarsi il congiungimento fra determinatezza e movimento complessivo di mediazione. Il movimento
complessivo di mediazione comincia, cioè, a essere “libero”; “libero” di porre e
revocare le sue determinazioni, imprimendo a ciascuna di esse il suo marchio.
Precisamente come accade nella storia, nella quale lo scopo finale “dirige” gli
eventi poiché è ad essi immanente. Connettono il sorgere della storicità alla dottrina dell’essenza anche J. HYPPOLITE ,“Saggio sulla Logica di Hegel”, in Id., Saggi su
Marx e Hegel, trad. it. di S.T. Regazzola, Bompiani, Milano 1963, p. 221, e H.
MARCUSE, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, trad. it.
di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 233. Considera invece la dottrina
47
dell’essenza un momento di paralisi della storicità dischiusa dalla dottrina dell’essere G. LUKÁCS, Storia e coscienza di classe, trad. it. di G. Piana, SugarCo, Milano
1967, pp. 190 e sgg.
31
Rph § 252.
32
Rph § 253 ann.
33
Rph § 253.
34
Rph § 254.
35
Ibidem.
48
Teoria della riflessione e teoria della società:
una traccia hegeliana
Allorché si discute di che cosa sia la filosofia e di quale sia il
suo ruolo nel nostro mondo sociale, si ascolta spesso ripetere la
nota sentenza hegeliana: “la filosofia è il proprio tempo appreso in
pensieri”. La sentenza è di derivazione baconiana, ma non si può
negare che rifletta bene la concezione che Hegel aveva di ciò che la
filosofia deve fare rispetto al mondo in cui è collocata e da cui trae
alimento: il pensare, proprio perché anzitutto è, non può non essere
ancorato all’essere. D’altro canto, l’essere può, anche per Hegel,
darsi ed essere colto in molteplici modi: la specificità del pensare è
coglierlo come ragione, cioè sotto il profilo delle determinazioni
universali che lo fondano e costituiscono. Il pensare cioè depura
l’essere delle sue determinazioni accidentali e transitorie per
coglierlo nella sua più intima natura. Il che significa che tra pensare
ed essere non vi è immediata coalescenza. Il pensare è omogeneo
all’essere solo se lo condensa in una rete di pure essenzialità e
determinazioni astratte. Ciò vuol dire anche che il pensare si ricongiunge all’essere solo se l’essere si apre alla dimensione dell’essenza.
Ma non basta: per Hegel, il pensare è essere solo se viene abbandonato il terreno della coscienza finita, la quale trasforma, attraverso il
suo comportamento teoretico e pratico, ciò che è in ciò che essa
suppone essere. Finché vi è coscienza, dunque, l’essenza sarà sempre allineata all’essere per come questo anzitutto si manifesta.
Il luogo teoretico in cui per Hegel si apre un definitivo squarcio fra l’essere e la sua essenza è la logica, la quale consta di determinazioni concettuali il cui principio, per definizione, non riposa
sull’essere per come questo anzitutto si manifesta. Qui vi è la radice
– come ha ben detto un pensatore contemporaneo da cui pure, per
altri versi, siamo lontani, e cioè Jean-Luc Nancy – della reinterpretazione cui Hegel ha sottoposto la nozione antica di logos. Il logos
hegeliano non può, diversamente da quello greco-antico, dire l’identità fra essere e pensare che come differenza1. Ma se così è, ogni
49
determinazione concettuale sarà atto, un “farsi” del pensiero che,
per rendersi omogeneo e identico all’essere, dovrà anzitutto superare la sua differenza da esso. Determinare concettualmente il proprio
tempo è quindi, hegelianamente, una operazione ben diversa dal
semplice “rispecchiamento” dell’essente, dalla semplice trascrizione
di ciò che innanzitutto si manifesta. Nel momento in cui ciò accade,
il pensiero perde la sua “attualità”, e cioè la sua capacità di produrre
contenuti che, sebbene differenti dall’immediatezza dell’essente,
pure in ultima istanza mirano a ricollegarvisi.
Hegel riteneva – e in qualche misura si può dire che ne abbia
fatto il fondamento del suo sistema – che questo ricollegarsi del
pensiero all’essente si sarebbe realizzato più compiutamente là dove
l’essente è determinato dal medesimo ente che lo pensa, vale a dire
dallo spirito. In particolare, ciò accade in larga misura a muovere
dallo spirito oggettivo, e cioè in quella sfera in cui lo spirito, dopo
essersi reso libero nel corpo, è finalmente capace di proiettare questa libertà anche sul terreno delle relazioni sociali. Ma se così è – se,
cioè, fra pensiero e spirito oggettivo vi è una più intima connessione
che fra pensiero e natura e pensiero e spirito soggettivo – ne segue
che hegelianamente la filosofia, in quanto più alta attività del pensiero, esibirà una forma prossima a quella delle relazioni sociali.
Questa immanenza della filosofia, intesa come teoria della
inversione delle forme di organizzazione del fenomeno, alla costituzione delle relazioni sociali e alla teoria che le esprime si è a lungo
conservata nel pensiero post-hegeliano, facendo da lievito alla produzione teorica di Marx (con la sua teoria della forma di valore e
del feticismo, legate a loro volta alla “prassi rovesciante” del proletariato) e di buona parte del marxismo occidentale e della teoria
critica novecenteschi. Il marxismo occidentale articola il rapporto
fra filosofia e teoria sociale lavorando sull’identità soggetto-oggetto
(il Lukács di Storia e coscienza di classe, ma anche il Korsch di
Marxismo e filosofia) mentre la teoria critica lo fa lavorando sulle
contraddizioni insite nel rapporto fra natura e spirito. La grande
forza di questi tentativi è stata di pensare la storia della civilizzazione capitalistica come inscritta nella struttura di una identità originaria (il proletariato per Lukács o la pienezza di una natura finalmente riscattata per i teorici critici). D’altro canto, il presupporre una
identità sociale allo svolgimento della storia ha esposto questi tenta-
50
tivi al sospetto di una “ricaduta” nella “metafisica”, li ha fatti cadere in crisi. Di fronte a questa crisi, una parte cospicua della teoria
critica – e ci riferiamo con ciò ad Habermas – ha voluto riaffermare
il legame fra teoria della conoscenza e teoria della società “deflazionando” l’eredità hegeliana, naturalizzando, attraverso il concetto di
“interesse della conoscenza”, il legame fra teoria e prassi: poiché la
ragione è, fichtianamente, ragione pratica, e quindi sempre fusa con
le categorie dell’agire, le condizioni della possibile conoscenza
diventeranno dipendenti dalle connessioni pratico-vitali, e cioè
dagli interessi a realizzare non solo azioni strumentali efficaci e interazioni riuscite, ma anche i potenziali di sapere (tecnologico ed
ermeneutico) che sono implicati da questi due vettori di socializzazione. Peraltro anche quest’ultimi sono colorati naturalisticamente,
in quanto sono pensati come i momenti principali della formazione,
sempre dipendente dalla contingenza, del lato soggettivo (comunicazione) e oggettivo (lavoro) del genere umano2.
Altrove abbiamo cercato di argomentare come nel “laboratorio” hegeliano esista una diversa traccia, non suscettibile di essere
piegata né a esiti “metafisici” né a esiti naturalistici, per riarticolare
un discorso sul rapporto fra filosofia e teoria sociale3. Ci riferiamo
con ciò alla struttura della riflessione, da Hegel delineata, in primo
luogo, nella dottrina dell’essenza del secondo libro della Logica e,
poi, ripresa e rielaborata in diversi luoghi della sua filosofia reale
(filosofia della natura e filosofia dello spirito). Hegel ritiene – e lo
ha detto chiaramente , passando tuttavia quasi inosservato, nel cruciale paragrafo della Filosofia del diritto dedicato alla transizione
dalla famiglia alla società civile, il § 181 – che questa struttura della
riflessione sia il perno teoretico intorno al quale far ruotare la
descrizione della società civile, la sua immagine del capitalismo.
Prima però di riassumere il contributo che la struttura della
riflessione reca alla comprensione del capitalismo, occorre sottolineare che quando qui Hegel – ma anche nella filosofia della natura –
parla di “Reflexionsverhältnis”, di “rapporto di riflessione”, non si
riferisce affatto in prima battuta a ciò che “riflessione” ha significato
nella teoria della conoscenza moderna, di provenienza empiristica o
razionalistica. Per “riflessione” Hegel infatti intende una generale
struttura logico-ontologica, una certa modalità di disposizione reciproca dei contenuti categoriali, della quale solo un particolare seg-
51
mento (in particolare quella che egli chiama nella Logica la “riflessione esterna”) rimanda più in particolare alle operazioni compiute dal
soggetto conoscente. Di più: la “riflessione” hegeliana presuppone la
consumazione del paradigma soggettivistico della riflessione4. Provo
ad accennarvi di seguito il più brevemente possibile.
Questo paradigma è consegnato alla prima Dottrina della
scienza di Fichte, quella del 1794-1795. L’obiettivo di Fichte in questa opera è fornire un resoconto filosoficamente adeguato dell’unità
trascendentale dell’appercezione di Kant, una descrizione più
“forte” di quella autocoscienza che Kant nella Critica della ragion
pura ha individuato come punto archimedeo della sua teoria della
conoscenza. Conformemente a questo principio, non si può conoscere il mondo oggettivo secondo categorie se non vi è la coscienza
che il soggetto che compie queste esperienze conoscitive sia il
punto di riferimento unitario delle sue rappresentazioni. È possibile
unire differenti elementi di una rappresentazione o più rappresentazioni, le “sintesi del molteplice” kantiane, solo se il soggetto che
compie queste operazioni è uno. In caso contrario, potremmo pensare ai differenti elementi delle rappresentazioni come distribuiti su
diversi individui.
Ora, il problema dell’autocoscienza è che della sua unità si
può divenire coscienti solo dopo che essa abbia avuto modo di agire
come momento che accompagna tutte le rappresentazioni conoscitive. Ciò ha come conseguenza che se proviamo a tematizzare l’autocoscienza, a farla oggetto di indagine, dobbiamo presupporla
come già operante nell’atto che prova a conoscerla. La stessa circolarità si manifesta se riflettiamo sul fatto che l’autocoscienza è tale
solo in quanto sapere di sé. In questa veste, se provassimo a porla
come oggetto bisognerebbe subito presupporla come soggetto della
sua auto-comprensione. È una circolarità, di cui Fichte ha tentato
di dar conto attraverso i tre principi fondativi della sua prima dottrina della scienza. L’assolutezza dell’io (espressa dal primo principio: io=io) così come di ciò che ad esso originariamente si oppone
(il secondo principio: io=non io) è qualcosa che può essere colto
solo grazie a una astrazione dalla coscienza ordinaria, la quale è
necessariamente immersa nella finitezza (il terzo principio: l’io divisibile=non io divisibile). Ogni volta che la coscienza finita prova a
cogliere la purezza dell’atto dell’io così come la sua originaria oppo-
52
sizione con il non-io scivola in un circolo vizioso. Deve presupporsi
per conoscersi5.
Questo è un tipico circolo della riflessione: per porsi come tale,
l’autocoscienza deve sempre presupporsi come già operante. Si tratta di un problema di grande delicatezza, di fronte al quale si sono
posti criticamente sia Schelling, con la sua filosofia della natura e il
suo sistema dell’idealismo trascendentale, sia Hegel, con la sua
Fenomenologia e poi il suo sistema. Non è possibile, naturalmente,
ripercorrere in questa sede tutti i passaggi dell’evoluzione che questo problema ha subito all’interno della storia della filosofia classica
tedesca. L’unico punto che ci interessa mettere qui in rilievo è questo: dalle aporie dell’autocoscienza e dell’auto-riflessione del soggetto il primo Schelling – già peraltro a muovere da L’io come primo
principio della filosofia – prova a uscire consegnando la riflessione
della coscienza a un piano radicalmente differente da quello
dell’Assoluto (la perfetta unità fra soggettività e oggettività), e quindi affermando l’impossibilità di fondare teoreticamente la coscienza, come ancora sperava Fichte (in cui si pone la possibilità di giungere a una soluzione del conflitto fra io puro e io empirico perché
fra di essi si dà comunque rapporto, anche se conflittuale6), mentre
Hegel tenta di uscirne desoggettivando la riflessione, separando la
riflessione dal sapere di sé dell’autocoscienza e facendola divenire
parte di una struttura di tipo oggettivo. La riflessione avrà quindi a
che fare, in Hegel, con un certo modo in cui si relazionano le determinazioni logico-concettuali senza necessariamente supporre che
ad esse si accompagni il sapere di sé. In questo modo, la teoria della
riflessione diventa una teoria particolarmente congeniale alla comprensione di strutture sociali, come quella capitalistica, che si fondano sull’operare di forze anonime e impersonali.
È da qui che si può procedere nel tentativo di sintetizzare i
risultati cui Hegel perviene nell’analisi della società civile attraverso
il riferimento alla sua teoria della riflessione. La riflessione è, anzitutto, un rapporto fra due determinatezze. Nella società civile queste
due determinatezze sono il “sistema della onnilaterale dipendenza
reciproca”, vale a dire il mercato capitalistico, e l’individualità economica che deve divenire agente mercantile per soddisfare i suoi
bisogni. Ma questo rapporto, proprio perché riflessivo, è di tipo
particolare: l’individualità economica – che è il prodotto, entro l’e-
53
ticità, della disintegrazione dell’unità familiare – è, dice Hegel,
qualcosa di solo riflesso, una parvenza del “sistema della onnilaterale dipendenza reciproca”, il quale, precisamente perché “sistema”,
è una totalità di relazioni sociali.
Che cosa vuol dire che l’individualità economica è una “parvenza”? Per rispondere a questa domanda occorre tenere a mente l’argomentazione che sulla parvenza stessa Hegel svolge nella Logica. Essa
è infatti una determinatezza che è tale solo perché altro da ciò che le
si oppone, in questo caso il mercato capitalistico. Per Hegel quindi la
parvenza è una determinatezza che è identica a sé solo in quanto si
nega come qualcosa di autonomamente sussistente7. Ecco perché
appena la parvenza, in quanto individualità economica, si pone nella
sua auto-negatività, trapassa subito in altro, nel suo opposto, nel mercato capitalistico. Sul terreno economico-sociale, Hegel vuole con ciò
dirci che tutte le individualità economiche che abitano il mercato
capitalistico non hanno, almeno all’inizio dell’esposizione della
società civile, alcun criterio positivo di determinazione e sussistenza.
Ciò che esse sono è qui spiegato solo dal mercato capitalistico: mirano a riprodursi come agenti economici e a soddisfare i propri bisogni, ma in realtà, in questo modo, non fanno che promuovere il mercato stesso. Allo stesso tempo, anche il mercato capitalistico, è una
totalità “riflessa”, cioè auto-negativa, qualcosa che deve presupporre il
suo opposto per essere. Se gli individui non perseguissero, infatti, i
loro obiettivi economici, la totalità economico-sociale del mercato
non potrebbe riprodursi. Come è facile capire, attraverso l’uso di
questo elaborato apparato concettuale, Hegel sta provando a filtrare
filosoficamente il concetto smithiano della “mano invisibile”. Ma l’aspetto più interessante del discorso hegeliano è che quella che si
schizza con l’aiuto del concetto di “parvenza” è solo la prima ed
embrionale immagine del mercato capitalistico. Fino a questo punto,
infatti, gli individui possono essere determinati solo quali possessori
di bisogni e non possono perciò attingere un piano di individuazione
e concrezione che li faccia sfuggire al “triste” destino di “parvenze”.
Come tali, essi sono omologati, impossibilitati a distinguersi reciprocamente. Ma quando tra bisogno e consumo interviene il lavoro, le
cose per Hegel cambiano, sotto questo profilo, notevolmente. Infatti:
1) il concetto di “lavoro”, in quanto introduce il terreno delle
mediazioni oggettive (l’attività umana plasticamente capace di adat-
54
tarsi a diverse e molteplici occupazioni e gli strumenti utilizzabili in
diversi e molteplici modi), si converte direttamente in quello di
“divisione sociale del lavoro”;
2) il rapporto fra le molteplici attività lavorative è conservato
grazie al fatto che il lavoro è comandato dal mercato, e in questo
senso è astratto;
3) in quanto astratto, il lavoro si fa progressivamente lavoro
meccanico. Come tale, esso può essere sostituito dal macchinismo8.
Ora, se opera la divisione sociale del lavoro, questo implica
che nella società civile si vengano a consolidare “masse” economico-sociali che fra di loro si differenziano per il tipo di occupazione
prestata. In virtù di ciò, la società civile prende congedo dall’orizzonte di indeterminata astrazione naturalistica che contrassegnava il
suo primo stadio di apparizione. Gli individui sono ora realmente
concreti e diversi perché accanto ai bisogni, il possesso dei quali
contraddistingue tutti, essi sono ora anche caratterizzati dal possesso di un lavoro, che è diverso per ciascun ramo della divisione
sociale del lavoro in cui essi si trovino ad esser collocati. Peraltro, la
diversità del lavoro fa fiorire anche diverse rappresentazioni del
mondo e diversi “stili di vita”, spesso fra di loro anche contraddittori (il contadino legato alla natura, il borghese no ecc.).
Per Hegel tutto ciò altera profondamente il quadro teorico
della società civile: l’individualità che, all’inizio della società civile,
si poneva come parvenza della totalità del mercato capitalistico
comincia a diventare, in virtù delle determinazioni teoriche acquisite (lavoro, stili di vita ecc.), la sua apparenza, e cioè polo di espressione della sua determinazione opposta che, tuttavia, non si traduce
più immediatamente in quest’ultima, ma ha ormai conquistato un
alto grado autonomia e consistenza con sé. Ma all’irrobustimento
della individualità si accompagna anche quello del sistema della
onnilaterale dipendenza reciproca, il quale non coincide più solo
con l’armonia degli interessi divergenti, ma si è dotato di più potenti vettori di universalizzazione: lavoro astratto, patrimonio (il nostro
PIL) ecc.
Poiché i due poli tra i quali si muove la concettualizzazione
della società civile (l’universalità del sistema della onnilaterale dipendenza reciproca e la particolarità dell’individualità economica) si
sono irrobustiti, la mediazione che fra di loro si svolge può acquisire
55
ora il suo vero spessore: per Hegel infatti una vera mediazione si dà
solo quando fra i membri di essa sussiste una reale autonomia reciproca. Ogni trasformazione in un lato della mediazione induce
profonde modificazioni anche nell’altro. Il passaggio, per esempio,
dal patrimonio alla amministrazione della giustizia allarga enormemente le funzioni dell’universale. Ma l’universale deve essere “saputo
e voluto” dall’individuo; dunque bisogna presupporre che l’individuo maturi in sé una disposizione d’animo ad esso più adeguata. È
per questa ragione che Hegel introduce il tema della “fiducia” che
ogni agente mercantile deve nutrire verso l’universale giuridico.
Ora, Hegel sembra in grado di tenere in funzione questo meccanismo di mediazione fino all’altezza della polizia e della corporazione. La polizia si occupa dell’approntamento delle generali condizioni di riproduzione economico-sociali (infrastrutture, welfare
ecc.), mentre la corporazione incide soprattutto sulla trasformazione dell’habitus e della mentalità degli agenti economici. Quando
però si tratta di compiere il passaggio allo Stato, la mediazione, a
nostro avviso, si inceppa: l’idea hegeliana che il passaggio si possa
eseguire semplicemente riflettendo sul fatto che il principio dello
Stato, la conciliazione fra particolarità e universalità, è già depositato in ciascuna delle molteplici corporazioni della società civile suggerisce che fra corporazione e Stato vi sia un rapporto di carattere
puramente evolutivo. Ma fra corporazione e Stato non vi è solo evoluzione, bensì anche rottura. Lo Stato deve, infatti, realizzare la
conciliazione fra universalità e particolarità a un livello qualitativamente diverso rispetto a quello della corporazione, perché, mentre
questa’ultima rimane vincolata a interessi economico-sociali determinati, lo Stato deve occuparsi del bene di tutta la comunità politica. La corporazione è una istituzione parziale della società che si
occupa di un interesse altrettanto parziale; lo Stato è, invece, una
istituzione parziale della società che si deve occupare della totalità
delle relazioni che, entro una data società, si stabiliscono fra gli
individui. Affinché, dunque, la figura dello Stato venga enucleata
devono essere forgiati strumenti di totalizzazione più potenti di
quelli di cui Hegel, nel passaggio in questione, sembra disporre. In
assenza di questi strumenti, il passaggio dall’universale limitato e
finito della corporazione a quello infinito dello Stato si presenta
nelle forme di un salto indeducibile.
56
Ciononostante, la lezione teorica che Hegel ci consegna nella
società civile è, a nostro giudizio, di grande momento: è nel suo
pensiero filosofico-sociale, infatti, che troviamo per la prima volta
dispiegata l’idea che la totalità sociale capitalistica, in quanto
inscritta nelle categorie della teoria della riflessione, produce forme
fenomeniche che dissimulano la sua essenza. Le prime forme, e cioè
la circolazione mercantile segnata dalla “mano invisibile” ecc., in
cui la società civile si manifesta sono, come s’è detto, suscettibili di
essere interpretate solo tramite il concetto di “parvenza”, cioè attraverso qualcosa la cui più intima natura è di dileguare. Solo procedendo verso il lavoro, la divisione sociale del lavoro e il capitale
sociale generale, l’essenza della società civile troverà forme di manifestazione a sé più corrispondenti. È grazie a questo suo potere di
corrosione della “parvenza” sociale che si può dire che il pensiero
filosofico di Hegel abbia fatto da battistrada allo sviluppo della teoria critica della società.
NOTE
1
J.-L. NANCY, L’inquietudine del negativo, trad. it. di A. Moscati, Cronopio,
Napoli 1998, p. 33.
2
Lo snodo principale nella trasformazione “naturalistica” del programma
della teoria critica è in J. HABERMAS, Conoscenza e interesse, trad. it. di G.E.
Rusconi, Laterza, Roma-Bari 1970. Anche se successivamente Habermas ha dismesso il concetto di “interesse della conoscenza”, il naturalismo, sebbene in versione
“debole”, non è mai scemato dal suo discorso teoretico, come dimostra Verità e giustificazione, trad. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 27-35.
3
Nel nostro La mediazione che sparisce. La società civile in Hegel, cit.
4
Abbiamo già toccato la problematica del rapporto fra paradigma logicoontologico della “riflessione” e soggettività “riflettente” in Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, Mimesis, Milano
2011, p. 166.
5
Su questo si veda D. HENRICH, “L’io di Fichte”, in Id., Metafisica e modernità, trad. it. di A. Manolino, pp. 41-58.
6
Cfr. su ciò A. MASSOLO, Il primo Schelling, Sansoni, Firenze 1953, pp. 21-22.
7
GW, XI, pp. 246-249; trad. it., pp. 439-443.
8
Per una più ampia trattazione del concetto di lavoro in Hegel, rinviamo al
nostro La mediazione che sparisce. La società civile in Hegel, cit.
57
Parte seconda
MARX
Su Marx e Hegel. Contributi a una rilettura
di Roberto Fineschi
1. Forma e figure del modo di produzione capitalistico
Non v’è tema nel dibattito intorno a Marx, come è noto a chi
si sia, anche solo per un attimo, addentrato in esso, più frequentato
di quello del rapporto fra il pensiero del teorico del Capitale e la
filosofia di Hegel. Problema, per certi versi, “drammatico”, perché
coinvolgente non solo il senso complessivo e le articolazioni determinate della prospettiva teorica dischiusa da Marx, ma anche perché intrecciato a doppio filo con gli indirizzi politici concreti presi
dal movimento operaio lungo la sua intera storia. Tale nesso fra una
certa strategia del movimento operaio e una certa lettura di Hegel è
già visibile in Engels; ma non è stato meno visibile e meno stringente negli ultimi grand récits del marxismo, da Althusser a Colletti. A
molti tale connubio fra la cultura filosofica del movimento operaio
e la sua politica è apparso così incestuoso da dover richiedere energici esorcismi teorici. Sarebbe tuttavia inopportuno, da parte
nostra, inquisire, in questa sede, la natura della questione e giudicare la legittimità delle reazioni suscitate. Sennonché, come che si
valuti il legame storicamente stabilitosi fra filosofia e politica all’interno del movimento operaio, si dovrà riconoscere come non sempre il tentativo di politicizzare immediatamente la questione delle
radici filosofiche del pensiero marxiano e del marxismo abbia condotto a risultati teoricamente significativi.
Anche Fineschi condivide questo moto di reazione verso la
politicizzazione immediata della teoria di Marx e delle sue ascendenze filosofiche. Appartenendo alla più giovane leva degli studi
marxisti italiani, quella cresciuta dopo il collasso del PCI e delle
organizzazioni dell’estrema sinistra, Fineschi non ha avvertito affatto, come spesso accaduto in passato in Italia, la necessità di ancorare immediatamente il livello della sua ricerca teorica a determinate
opzioni politiche e strategiche. Questo è molto evidente in partico-
61
lare nel suo primo, importante e ampio volume, Ripartire da Marx.
Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”1. Qui,
anche sulla scorta della lezione di uno dei suoi maestri, il teorico
marxista Alessandro Mazzone, Fineschi insiste lungamente sul
carattere “astratto” della riproduzione sociale capitalistica indagata
da Marx nel Capitale e sulla impossibilità, per questo motivo, di
poterla ricostruire alla luce degli strumentari analitici forniti dalla
storia e dalla sociologia.
La netta separazione posta da Fineschi fra il modello teorico
dispiegato da Marx nel Capitale e la storia e la sociologia provvede
a collocare decisamente la sua interpretazione dal lato delle letture
“logiciste” del Capitale. In questo modo, Fineschi rafforza la compagnia italiana degli interpreti “logicisti” del Capitale, la quale,
come è noto, non è mai stata molto folta. In un ambiente intellettuale, come quello del marxismo italiano postbellico, in buona
parte dominato da una rilettura in chiave storicista del pensiero di
Gramsci, il lavoro degli interpreti “logicisti”, fra i quali possiamo
annoverare Cesare Luporini2, Gian Mario Cazzaniga3 e lo stesso
Alessandro Mazzone4, ha avuto non poche difficoltà a farsi largo.
Ma oggi, in un’atmosfera teorica che sembra aver definitivamente
consumato le ultime scorie dell’esperienza storicista, lavori come
quello di Fineschi possono ricevere ben altra udienza.
In questo Marx e Hegel, il suo secondo libro di esegesi marxiana, Fineschi ribadisce con energia, fin dalle note introduttive, la
necessità di separare la teoria marxiana del modo di produzione
capitalistico dalla politica del movimento operaio. Stavolta tuttavia
tale presa di posizione è fatta riposare soprattutto su una interessante distinzione fra il concetto di “forma” e quello di “figura”.
Marx, con i suoi manoscritti economici, avrebbe indagato la
“forma” del modo di produzione capitalistico, e cioè quello che
potremmo definire il suo principio di movimento, ma avrebbe
lasciato indedotto il campo della “figura”, o meglio delle “figure”,
vale a dire il campo dei soggetti che, entro una determinata arcata
di sviluppo della “forma”, ne rappresentano il principio di movimento. La permanenza della “forma” si combina, così, con il succedere di diverse “figure”. Fineschi fa l’esempio della figura
dell’“operaio massa”, la cui apparizione non contraddirebbe affatto
la “forma” del modo di produzione capitalistico, ma ne articolereb-
62
be storicamente solo la vigenza. Da ciò risulterebbe salvaguardata
tanto la validità della teoria marxiana della “forma” capitalistica
quanto la natura storicamente proteiforme di quest’ultima.
Ora, sebbene Fineschi non vi faccia esplicitamente riferimento
in questo luogo del suo lavoro, ci pare evidente qui il debito da lui
contratto con la distinzione hegeliana fra Begriff e Vorstellung, fra
“concetto” e “rappresentazione”5, fra il telaio di determinazioni
logiche che innerva, secondo Hegel, ogni esposizione scientifica e le
figure (le Gestaltungen, le figurazioni, sono precisamente, come
avverte Hegel nella Filosofia del diritto, i prodotti della rappresentazione6) che, in quanto presenti nel pensiero comune o nelle scienze
empiriche, ne danno realtà, presenza storicamente determinata. Il
fatto è, tuttavia, che Hegel possiede una specifica teoria del rapporto fra concetto e rappresentazione, nella quale, fra l’altro, è elemento indiscutibile la non-scientificità del momento rappresentativo.
Lo si vede, entro di essa, nel caso principale di rapporto fra concetto e rappresentazione, quello fra filosofia e religione. La religione
contiene bensì il contenuto logico, ma in modi e forme lontani da
quelli del “concetto”, della filosofia. Fineschi qui non ci dice, tuttavia, in quale modo occorra considerare le “figure”; se occorra considerarle come elementi scientifici o puramente storico-sociologici.
La questione si pone già a proposito dell’esempio impiegato da
Fineschi, cioè la “figura” dell’“operaio massa”. Fineschi la ritiene
legittima teoricamente. Ma quale tipo di legittimità essa detiene? Si
tratta di una pura rilevazione empirica o di qualcosa che può
accampare maggiori pretese concettuali? La storia dell’operaismo
nostrano dimostra, secondo noi, l’inderogabilità di una risposta a
questa domanda, pena la caduta in un sociologismo empiristico
affannosamente teso a inseguire le sempre nuove “figure” lavorative
su cui la “forma” capitalistica eserciterebbe il suo comando.
Si deve, peraltro, osservare che la questione del rapporto fra
concetto e rappresentazione o, in altri termini, fra logica ed empiria, fra logica e storia, fa da filo conduttore a molti degli argomenti
del libro. Si tratta, in un certo senso, di una questione tradizionale
del dibattito critico sul rapporto fra Hegel e Marx. E tuttavia il
modo in cui Fineschi la affronta e tenta di risolverla – ricorrendo
alla differenziazione hegeliana fra Begriff e Vorstellung – non è affatto tradizionale, ed è per questo che il suo libro va preso in seria e
63
attenta considerazione. Fineschi, in particolare, fa interagire la coppia concettuale hegeliana Begriff-Vorstellung con la relazione fra
logica e empiria nella terza, e secondo noi più importante, parte del
suo libro, quella dedicata al “rapporto Marx-Hegel oltre la comprensione di Marx”. Poiché, inoltre, è intorno a questa terza parte
che si addensano le nostre perplessità, sarà su di essa che ci soffermeremo di più, non prima, tuttavia, di aver indicato a grandi linee
la struttura e i meriti dell’argomentazione che Fineschi avanza, nelle
prime due parti del libro, a proposito dell’evoluzione subita dal
pensiero di Marx rispetto a Hegel.
2. Le due fasi nell’evoluzione del rapporto di Marx con Hegel
Va, anzitutto, sottolineato, che questo libro di Fineschi è il
primo in Italia a esaminare l’intera dinamica evolutiva del rapporto
fra Marx e Hegel a muovere da una base testuale scientificamente
affidabile – quella offerta dalla MEGA 2 . Questo consente a
Fineschi di compiere una dettagliata periodizzazione delle fasi nelle
quali si scandisce la riflessione marxiana sul magistero hegeliano. E
con ciò non ci riferiamo soltanto alla precisa individuazione dei
passaggi che la lettura marxiana di Hegel attraversa dalla sua fase
giovanile a quella matura, ma soprattutto all’analisi delle movenze
assunte da Marx nei confronti di Hegel all’interno della tortuosa e
complessa elaborazione teorica matura, all’interno, cioè, di quella
fase che inizia con i manoscritti economici del 1857, i cosiddetti
Grundrisse. In questo modo, Fineschi fa fare al dibattito italiano su
Marx un deciso passo in avanti agguagliandolo al livello raggiunto
negli ultimi anni dalla più aggiornata ricerca internazionale.
La tesi cardinale di Fineschi ci sembra essere quella secondo la
quale ci sarebbero due letture marxiane di Hegel, tra di loro non agevolmente armonizzabili. La “prima”, coltivata soprattutto nel periodo
giovanile, e mai dismessa neanche nella maturità, fa di Hegel il filosofo di una autocoscienza che, in quanto pensante, “crea” la realtà
oggettiva, la deduce interamente da sé. Si tratterebbe dello stesso
Hegel contro il quale anche il Marx maturo, quello del Poscritto al
Capitale, dirà che occorre operarne un rovesciamento; un rovesciamento che riporti il rapporto fra ideale e reale alla sua corretta dimen-
64
sione, onde la costruzione ideale della realtà non “crea” la realtà stessa, ma ne è bensì un derivato. Fineschi mette bene in luce come questa concezione marxiana di Hegel sia strettamente apparentata all’interpretazione che i giovani hegeliani (Bruno Bauer, Ludwig
Feuerbach ecc.) erano venuti conducendo del pensatore della
Fenomenologia dello spirito. Anche Fineschi, analogamente a quanto
sostenuto da Roberto Finelli in un recente studio sui rapporti fra il
giovane Marx e Hegel7 – sui risultati del quale la globale indagine di
Fineschi conviene, ci pare, grandemente –, ritiene questa lettura giovane-hegeliana di Hegel troppo “fichtiana”, attardata a ripristinare fra
pensiero e realtà quel divario che Hegel considerava, invece, elemento distintivo delle “filosofie della coscienza” e della posizione fenomenologica in genere. Questa trasformazione giovane-hegeliana del pensiero hegeliano è la matrice, dice giustamente Fineschi, della ripresa
marxiana del concetto di “alienazione”; ripresa che appare colpevole
ai suoi occhi – che su questo terreno si pone soprattutto sulla scia del
fondamentale studio di Marcella D’Abbiero, “Alienazione” in Hegel.
Usi e significati di “Entäusserung”, “Entfremdung”, “Veräusserung” –
per almeno tre motivi: perché, in primo luogo, annulla la differenza,
presente invece in Hegel, fra Entäusserung (alienazione) e
Entfremdung (estraneazione); perché impoverisce la polisemia
dell’Entäusserung hegeliana, costretta a recitare solo le parti del “farsi
cosa” dell’autocoscienza; perché, infine, sovrappone il movimento
della Entäusserung a quello della dialettica tout court, non vedendo la
limitata funzionalità concettuale della Entäusserung, circoscritta solo a
determinate zone della Fenomenologia dello spirito. Ne risulta che
dinanzi all’autocoscienza hegeliana l’oggettività, venendone a costituire una pura proiezione, non può più rivendicare positività, autonomia
di esistenza reale. In breve, oggettività e alienazione sono, per le operazioni della autocoscienza hegeliana, identiche. Il giovane Marx ha
maturato, tuttavia, alla scuola di Feuerbach la distanza da ogni riduzione della oggettività sensibile ad appendice del processo di pensiero
autocosciente. Tra pensiero e oggettività, dunque, il rapporto, rispetto
alla configurazione che Marx vede operante in Hegel, si inverte: il primum diventa l’oggettività sensibile. L’astratto, anziché generarlo,
discende dal concreto.
Sennonché, e qui varchiamo la soglia della sua maturità, il Marx
che mette in cantiere il programma di critica dell’economia politica, si
65
accorge, rendendolo noto a partire dalla Introduzione del ’57, della
necessità di approntare una specifica forma di passaggio dall’astratto
al concreto. Si tratta di quel passaggio da una totalità astratta di concetto a una più concreta che caratterizza ogni esposizione scientifica
impostata in termini dialettici. Il misticismo idealistico hegeliano viene
a consistere, perciò, non nel tentativo di riprodurre concettualmente
la realtà nella forma del passaggio dall’astratto al concreto, bensì nell’eliminazione del momento che necessariamente deve precedere tale
esposizione scientifica della realtà, e cioè il momento di passaggio dal
concreto della materialità sensibile all’astratto delle forme logiche.
Tale passaggio dal concreto all’astratto corrisponde a ciò che il Marx
maturo chiama, differenziandolo dal “modo di esposizione” di una
scienza, il “modo di ricerca”, e cioè il momento di appropriazione
della molteplicità di elementi, forme di sviluppo e modalità del loro
concatenamento che pertiene a un determinato campo epistemico.
L’errore di Hegel starebbe, dunque, nell’accogliere in modo dimidiato
il circolo concreto-astratto-concreto, nell’espungerne la prima metà.
La “seconda” lettura marxiana di Hegel non è interessata, pertanto, alle movenze della dialettica della autocoscienza, ma piuttosto
allo sforzo hegeliano di mettere capo a una scienza con modalità di
consecuzione concettuale alternative a quelle vigoreggianti presso le
scienze empiriche, presso quelle scienze che Hegel stesso avrebbe
chiamato dell’“intelletto”. Su ciò le nostre opinioni non divergono
affatto da quelle di Fineschi: ciò che muove Marx – come testimoniano le sue attente letture della Logica hegeliana intorno agli anni di
fondazione del progetto del Capitale – a riscoprire un intenso e ravvicinato rapporto con Hegel è il fascino esercitato su di lui dalla
Darstellung hegeliana, dalle forme di movimento che governano il
decorso della sua logicità. E ciò accade, aggiunge Fineschi, nonostante la comprensione della propria attività scientifica resti in Marx
prigioniera dei vecchi moduli, assimilati dai giovani hegeliani, del
“rovesciamento materialistico”. All’intendimento, dunque, del
“metodo” marxiano, conclude Fineschi in polemica con buona
parte della tradizione marxista, arriderà successo solo nella misura in
cui ci si liberi dal modo in cui Marx stesso ha concepito il senso
della sua relazione con Hegel.
La conclusione di Fineschi è, quindi, a suo modo radicale, un
invito a non “fidarsi” della comprensione avuta da Marx del suo
66
rapporto filosofico con Hegel. In questo senso, si può ben dire che
Fineschi non soggiaccia, diversamente da altri interpreti, al timore
di cadere preda del peccato di “lesa maestà”. D’altro canto, non ci
pare che l’operazione messa in atto da Fineschi giunga del tutto
nuova nel panorama degli studi su Marx. Se non si vuole volgere lo
sguardo troppo addietro, si potrà constatare quanto già la lettura
althusseriana del Capitale tanto più acquisisce originalità quanto
più manda a pieno regime quell’ambiguo criterio di lettura del testo
marxiano, chiamato “lettura sintomale” dal filosofo francese, secondo il quale la lettera del Capitale deve essere attentamente discriminata dal meccanismo epistemologico in essa attivo. Anche
Althusser, cioè, invita a diffidare dell’involucro filosofico con il
quale Marx ha esplicitamente inquadrato il contenuto della sua
intrapresa scientifica. Una coscienza filosofica anteriore grava su
tale involucro, dice Althusser, rendendolo inadeguato a esprimere il
novum dispiegato dalla scienza del capitale.
Fineschi, quindi, condivide la strada di Althusser, sebbene
solo per un tratto. Ad allontanarlo da lui sopravviene il diverso
atteggiamento verso la dialettica: mentre per Althusser essa appartiene a quel ciarpame della coscienza filosofica anteriore che Marx
reca con sé anche lungo l’iter di costruzione del Capitale, per
Fineschi essa costituisce il positivo lascito di Hegel, la chiave per
impostare in modi concettualmente rigorosi la questione della
organizzazione della esposizione scientifica. Ma è, d’altra parte, l’intera strategia interpretativa di Fineschi della dinamica evolutiva
marxiana rispetto a Hegel che ci pare non suscettibile di esser presentata sotto le vesti dell’innovazione radicale. Le tesi che potremmo chiamare “discontinuiste”, affermatrici di una diversità di assetto teorico del Marx maturo rispetto a quello giovanile, hanno sempre goduto di ampio favore presso gli studiosi. La tesi althusseriana
della coupure intervenuta a ridosso della Ideologia tedesca fra il giovane Marx e quello della maturità rappresenta di ciò, in fondo, solo
una particolare estremizzazione che, peraltro, Fineschi fa bene a
rifiutare. D’altro canto, Fineschi stesso non respinge, anzi approva
la sostanza della proposta althusseriana, e cioè la decisività della
Ideologia tedesca entro il percorso marxiano di fuoriuscita dall’antropologismo essenzialistico. Il che conferma ancor di più l’attestarsi di Fineschi entro un quadro di consolidamento, più che di radi-
67
cale sovvertimento, delle più accreditate prospettive interpretative
su Marx.
Lucido e affidabile, il disegno di Fineschi è, tuttavia, anche un
po’ ristretto. Ci chiediamo, per esser chiari, se sia possibile racchiudere tutto il senso del rapporto fra Marx e Hegel solo sotto il suo
riguardo, per così dire, logico ed epistemologico. Del manoscritto
del ’43, la cosiddetta Critica del diritto statuale hegeliano, Fineschi,
per esempio, prende in considerazione solo la questione della critica marxiana all’illecito mascheramento hegeliano di grezzi elementi
empirici sotto forme logico-filosofiche. Eppure, ci pare difficile non
intravedere la centralità, entro questo primissimo scritto marxiano,
della resa dei conti con Hegel riguardo al tema della democrazia.
Questo Marx, seppure su una base filosofica discutibile, quella del
“genere” feurbachiano, coglie l’intrinsecità della democrazia al proletariato, e quindi può garantirsi una via d’uscita dalle strettoie in
cui si caccia lo Stato delineato dalla Filosofia del diritto hegeliana, il
quale, sebbene abbia le sue radici nella concreta vita delle masse
economiche e sociali, rifugge il modo democratico di fondazione e
legittimazione di se stesso. Peraltro, la tenuta di questo discorso
marxiano sulla democrazia anche nella fase matura, in cui si intreccia alla riflessione sul socialismo e sul comunismo, dovrebbe avvertire della rilevanza che tale polemica con Hegel detiene nel complesso dell’evoluzione del pensiero marxiano.
3. La questione dell’alienazione
La seconda parte del libro è, come dicevamo, dedicata alla
problematica dell’alienazione in Marx e in alcuni dei più ragguardevoli esponenti del marxismo (Lukács, Colletti, Althusser, Della
Volpe). Anche in questo caso ciò che guida l’analisi di Fineschi è
l’attenzione alla permanenza o meno di alcuni blocchi tematici
lungo l’intera produzione intellettuale marxiana. Fineschi si chiede,
perciò, se sia legittimo parlare di una permanenza della problematica marxiana giovanile dell’alienazione anche entro i diversi manoscritti economici della maturità. La sua posizione è, rispetto ai poli
del dibattito, intermedia: respinge, certamente, la tesi di coloro i
quali avvertono una sparizione dell’alienazione dall’orizzonte degli
68
scritti della maturità; ma non approva neanche la tesi di coloro i
quali vedono l’alienazione operare nel Capitale e dintorni in maniera immutata rispetto ai Manoscritti del ’44. È in due zone della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico che Fineschi
vede riaffiorare le orme dell’alienazione: nella problematica del feticismo della merce e nel processo di sussunzione del lavoro sotto il
capitale. Ora, come è noto, secondo la concezione che Marx ne ha
sbozzato soprattutto nella sua fase giovanile, vi è alienazione nella
misura in cui l’essenza dell’uomo, dell’ente generico umano, venga,
in virtù di determinate condizioni storiche e sociali, profondamente
distorta e alterata. Vi è, quindi, alienazione solo se possediamo una
qualche nozione circa quale essenza l’uomo abbia. Ma, ed è qui che
vengono in primo piano le difficoltà, il Marx che con l’Ideologia
tedesca collega la determinazione dell’essenza umana alla dialettica
fra forze produttive e rapporti di produzione non può non liquidare la presupposizione della stessa essenza umana allo stadio della
sua alterazione. È la storia dei modi di produzione che viene a decidere ogni volta dell’essenza umana.
Fineschi individua nel concetto di “processo lavorativo naturale” ciò in cui si trasferisce nel Capitale la critica dell’antropologismo
essenzialistico. Le analisi che Fineschi svolge del concetto di “processo lavorativo naturale” sono fra le più fini del libro, forse la sua
maggiore acquisizione teorica, e giova perciò riportarne la parte più
chiarificatrice:
Essere un momento del processo lavorativo è ciò che caratterizza l’attività umana rispetto agli altri esseri viventi; non solo al
livello dell’attività, ma anche in relazione alla posizione, alla
conformità alla direzione a scopo. Tuttavia, con questo concetto, Marx non fa altro che dirci quali elementi fanno parte di
qualsiasi forma del produrre e così facendo non ci parla di alcuna forma specifica della produzione. Poi: per produrre ci vogliono degli uomini, al plurale, e il processo lavorativo in generale
non ci dice neppure come questa molteplicità si rapporti al suo
interno. La naturalità di cui parla Marx indica quindi la qualità
propria della interazione specifica dell’animale-uomo con la
natura, ma ci dice anche che essa come tale non esiste mai, perché non ci sono forme naturali di interrelazione, né verticali fra
gli elementi del processo né orizzontali fra i molteplici attori di
69
esso nella produzione – non si può quindi neppure parlare di
priorità naturale dell’un elemento sugli altri. Per vedere un
uomo al lavoro è necessario che ci sia una forma sociale di produzione in cui la sua attività di singolo si collochi in relazione
mediata con cose e individui. Per esplicita dichiarazione di
Marx, dal modo in cui questi elementi vengono a interagire si
determinano i rapporti di produzione. Quindi questo astratto
lavoro in generale, come l’astratta produzione in generale, non
descrive la natura o l’essenza dell’uomo, se non in parte, ossia
in relazione alle astratte costanti che però come tali non esistono mai, e dunque neppure il lavoro; esse potranno esistere sempre e solo nelle forme specifiche concrete (di cui il modo di
produzione capitalistico è un esempio) ed essere fissate “in
generale” solo per astrazione di esse (pp. 99-100).
Dunque, il risultato dell’Ideologia tedesca non è revocato: è
solo grazie al determinarsi e susseguirsi di modi di produzione specifici che si può ricavare l’immagine dell’essenza umana, la sua
generale e naturale relazione con il mondo oggettivo e intersoggettivo. Epperò, argomenta Fineschi, la dissoluzione dell’essenza umana
quale termine di riferimento dell’alienazione non significa affatto
che non sia presente nel Capitale un altro termine di riferimento
rispetto al quale osservare l’irrompere dell’alienazione. Fineschi
pensa che l’inversione vada riferita allo stadio immediatamente precedente allo strutturarsi della forma capitalistica di produzione, a
quello stadio in cui è ancora il lavoro individuale a imporre sia la
posizione di scopo che le modalità della sua realizzazione. Il modo
di produzione capitalistico inverte questa specifica forma di produzione perché vi sostituisce, a tutti i livelli della sua articolazione, il
carattere della socialità. Sociali sono, infatti, nel modo di produzione capitalistico tanto la posizione di scopo, l’accumulazione di capitale, quanto le modalità di realizzazione, il sistema di ciò che Marx
chiama “grande industria”. Se, sostiene Fineschi, si leggesse il processo lavorativo naturale come il contenuto dell’essenza dell’uomo,
accadrebbe allora che il superamento dell’alienazione capitalistica
comporterebbe il ripristino della forma individuale del lavoro. Ma
Marx, conclude Fineschi, non la pensa affatto così, poiché ritiene
che la socialità innestata dal capitalismo nella forma di produzione
sia acquisizione progressiva e irreversibile. Non bisogna vagheggia-
70
re l’inversione dell’inversione, ma solo dare compiuta realizzazione
a questa socialità trasformando “il comando esterno in comando
proprio e, attraverso la scienza, […] le condizioni per cui il lavoro
meramente meccanico sia completamente automatizzato e all’uomo
restino il lavoro universale della scienza e il libero sviluppo delle
potenzialità personali” (p. 102).
Fineschi, opportunamente, non giudica pienamente risolutrice
questa proposta. E, del resto, anche a noi essa non sembra tale: se la
struttura dell’inversione non viene superata nel comunismo, allora è
evidente che anche in esso perdurerà il dominio dell’oggettività
sulla soggettività. Del resto lo stesso Marx, allorché nel Capitale
descrive il passaggio al comunismo come passaggio dal regno della
necessità al regno della libertà, sembra avanzare un’altra nozione di
comunismo rispetto a quella che lo definisce come superamento
dell’inversione fra soggettività e oggettività. Fineschi qui indica
però anche un altro problema presente in questa nozione di comunismo come superamento della inversione fra soggettività e oggettività: se nel comunismo viene messa a frutto una delle acquisizioni
fondamentali del modo di produzione capitalistico, l’instaurazione
del macchinismo, allora in esso sarà ancora operante quella divisione del lavoro che al macchinismo è necessariamente legata. Ma alla
divisione del lavoro si associa altrettanto necessariamente l’alienazione. Anche il comunismo verrebbe, così, ad essere “marchiato”
dall’alienazione.
È sorprendente come Fineschi sembri non avvedersi di quanto
la lezione hegeliana operi nella concezione marxiana del “processo
lavorativo naturale”. Perché, dicendo che il “processo lavorativo
naturale” designa alcunché di mai esistito e di sempre incastonato
nelle forme specifiche e concrete di produzione, si dice, allora, che
l’universale come tale non esiste. Ebbene, quest’ultima è una delle
tesi capitali di Hegel circa la natura dell’universale. Per Hegel, cioè,
l’universale non ha la capacità di tradursi nella realtà se non realizzandosi nella particolarità, se non corredandosi di una molteplicità
di determinazioni particolari. Allorché, quindi, Fineschi evidenzia
quanto la critica marxiana all’essenzialismo e all’antropologismo
dipenda dalla enucleazione di questa categoria di “processo lavorativo naturale”, si lascia sfuggire un dato fondamentale, e cioè che la
fuoriuscita dall’essenzialismo e dall’antropologismo avviene in
71
Marx anche grazie al recupero di una decisiva movenza teorica
hegeliana. Peraltro, se si fosse portato alla luce questo aspetto, la
tesi centrale del libro, vale a dire che l’operazione scientifica del
Marx maturo sia nutrita da un rapporto teorico profondo con
Hegel, ne sarebbe riuscita notevolmente rafforzata.
4. Il “rovesciamento materialistico” della dialettica hegeliana
Gradualmente ci siamo avvicinati alla parte del libro, la terza,
che, a nostro parere, si presenta come la più sollecitante e problematica. Fineschi comincia dalla rilevazione in Marx di una sorta di
opposizione, di chiara derivazione hegeliana, fra un conoscere di
tipo intellettuale e uno di tipo razionale. Il conoscere intellettuale
sarebbe quello rappresentato dal “modo di ricerca”; quello razionale
dalla Darstellung delle categorie, dallo sviluppo della dialettica
intrinseca alla “cosa” concettuale. In particolare, nel “modo di ricerca” marxiano vivrebbe la stessa tensione colta da Hegel fra metodo
analitico e metodo sintetico. Così come nel conoscere finito hegeliano il metodo analitico è distinto dal metodo sintetico perché sul suo
fondamento l’individuazione di elementi astratti è separata dalla loro
connessione sintetica, altrettanto nel “modo di ricerca” marxiano
l’analisi di un concreto presupposto è scissa dal processo in cui si
passa dalle più sottili astrazioni alla sintesi di molte determinazioni.
Nella scienza, tuttavia, non vi deve essere questa scissione, poiché in
essa il contenuto deve svilupparsi in modo tale da sviluppare, al contempo, la forma. Se il concetto di “capitale” rispetta questa immanenza del contenuto alla forma, allora si potrà concludere che il
capitale corrisponde ai requisiti del “concetto” hegeliano.
Se lo scopo del “modo di ricerca” è di giungere alla posizione
del punto di partenza dello svolgimento del Capitale, il suo cuore
consiste nella indicazione delle contraddizioni e delle incoerenze in
cui si avvolgono i predecessori di Marx nell’uso delle categorie di
valore, divisione del lavoro, lavoro. Emblematicamente, è la questione della eternità delle categorie economiche presso gli economisti classici ad essere fonte di contraddizioni e incoerenze interne.
Da buoni discepoli hegeliani, Marx ed Engels rigettano questa premessa articolando una teoria della successione dei modi di produ-
72
zione. A Fineschi pare che, con ciò, Marx argomenti della storicità,
e quindi della congetturalità, del punto di partenza del Capitale. Ma
a noi, così, non pare: il fatto, sia per Hegel che per Marx, che un
determinato elemento sia stato reso possibile dalla storia non significa che, sul piano concettuale, se ne debba asserire la congetturalità. Ciò che Fineschi afferma del cominciamento del Capitale, ossia
che “è possibile solo nella storia, basandosi su un determinato sviluppo di fatti e di ragionamenti su di essi” (p. 138) potrebbe valere
anche per il cominciamento della Logica hegeliana, la categoria di
“essere”; ma non per questo Hegel, una volta che si sia collocato sul
terreno logico, ha bisogno di affermarne il carattere congetturale.
In ogni caso, e su questo siamo d’accordo con Fineschi, il
punto di partenza deve essere in grado “di sviluppare geneticamente tutto il sistema del modo di produzione capitalistico” (p. 130).
Non solo: deve essere un universale, e in particolare un universale
concreto, capace di circoscrivere il perimetro di un determinato
modo di produzione, quello capitalistico. Questo punto di partenza, la cellula economica originaria del Capitale, è la merce. Ma
attraverso quale meccanismo la merce dà luogo al sistema del
Capitale? Attraverso l’opposizione fra valore d’uso e valore di scambio, i due poli che compongono l’unità della merce.
Hegelianamente, l’inizio deve essere, tuttavia, anche il/la fine.
Il presupposto della esposizione, la merce, deve, cioè, essere riprodotto dalla stessa esposizione come risultato. È con il concetto di
“accumulazione”, scrive giustamente Fineschi, che la merce cessa di
essere una mera presupposizione per configurarsi, al contrario,
come un alcunché di posto. Nell’accumulazione, infatti, il capitale
“si muove definitivamente sulle proprie gambe” (p. 140), ponendo
il suo presupposto come “immane raccolta di merci”8. Il prosieguo
dello sviluppo categoriale fino al terzo libro articolerà questa universalità del capitale nelle ulteriori fasi della particolarità – là dove
il capitale si scoprirà essere, in verità, molti capitali in concorrenza
reciproca – e della singolarità – là dove il capitale scoprirà, come
credito e capitale fittizio, che in quanto capitale particolare esistente agisce come universale.
È qui che comincia a trovare risposta la questione circa il
senso del “rovesciamento materialistico” della dialettica hegeliana
promosso da Marx nel Poscritto al Capitale. Lo spauracchio è costi-
73
tuito da uno sviluppo concettuale svolto interamente a priori.
L’esposizione concettuale non deve, scrive Fineschi,
coincidere con lo sviluppo storico-reale della produzione capitalistica. Solo perché questo sviluppo reale preesiste è possibile
farne una teoria. La teoria si costruisce secondo la dialettica di
concetti, ma la dialettica non è dei concetti puri, bensì di concetti determinati in base ad una cellula che è fissata per via
empirico-intellettuale e che quindi presuppone un mondo dato
e storicamente determinato da cui ricavarla (p. 143).
In breve, i parametri di riferimento del “rovesciamento materialistico” sarebbero due: il cominciamento logico-empirico e la
limitazione delle pretese di validità dello sviluppo concettuale. Del
primo abbiamo poc’anzi già, criticamente, parlato. Ma qui la sua
discussione diventa ancora più complicata. La dialettica hegeliana
sarebbe, in ragione della diversità del punto di avvio, una dialettica
dei “concetti puri”, mentre quella marxiana dei “concetti determinati”. Ora, il fatto è che Hegel, ed è difficile che Marx questo non
l’abbia percepito, struttura – non solo, peraltro, nella Logica ma
anche nel sistema – una dialettica i cui concetti possiedono una
determinazione di contenuto che li rende incompatibili con “concetti puri”, desumibili per via di astrazione dal materiale empirico.
Hegel fonda, infatti, con la Logica, un orizzonte concettuale che fa
deliberatamente a meno della polarità a priori/a posteriori9.
Ma v’è, a tal riguardo, un ulteriore argomento che ci preme
avanzare: posto, con Fineschi, che dalla merce si debba necessariamente “sviluppare geneticamente tutto il sistema del modo di produzione capitalistico”, allora le determinazioni teoriche che affettano il cominciamento si dovranno estendere anche alla totalità delle
determinazioni del rapporto di capitale. Se, pertanto, il cominciamento è logico-empirico, logica-empirica dovrà essere tutta la catena di mediazioni concettuali che conduce alla fondazione del rapporto di capitale. Ne consegue che non solo ogni determinazione
concettuale, ma anche ogni passaggio dovrà avere, oltre che un
segno logico, anche uno empirico. Ebbene, tale segno empirico
garantisce della necessità che, ci pare indubbio, Marx voleva assegnare alla sua sequenza concettuale10?
74
Anche il secondo parametro indicato da Fineschi ci sembra
non in grado di rovesciare materialisticamente Hegel. Hegel ha,
infatti, sempre sostenuto, pur con accenti e sensibilità diversi, che
senza il verificarsi di un determinato corso di avvenimenti la sua filosofia non avrebbe avuto la possibilità di esplicarsi. Anche per Hegel,
cioè, il reale preesiste al pensiero. Si ricordino, a mo’ di esempio, le
sue parole, nelle lezioni conclusive del corso sulla fenomenologia
dell’autunno del 1806, circa il “nuovo avvento dello spirito”11 che
rende possibile la “filosofia speculativa” o l’ancora più famoso
cenno alla “nuova èra”12 che ha determinato l’apparizione della
Fenomenologia dello spirito. Peraltro, Hegel, nella “Prefazione” alla
Filosofia del diritto, ha, come è noto, esplicitamente teorizzato, servendosi della metafora della “nottola di Minerva”13, la necessità per
la filosofia di sorgere solo dopo che la realtà abbia portato a pieno
compimento il “suo processo di formazione”14. Anche chi, come
Lukács, ha voluto vedere fra Fenomenologia e Filosofia del diritto un
certo mutamento di tono nella trattazione di questa problematica,
non ha mancato di individuare nel richiamo hegeliano alla priorità,
in ordine genetico, del tempo storico sulla filosofia uno dei più chiari e permanenti elementi “realistici” della sua filosofia15. Non è finita: Hegel ha professato con energia tanto la tesi della natura “vespertina” della filosofia, quanto la tesi secondo la quale le modalità di
riesposizione filosofica del reale sono del tutto diverse da quelle con
le quali il reale stesso si è dapprima manifestato.
Ai due limiti della dialettica hegeliana finora indicati (produzione e non solo riproduzione ideale del reale e assenza del passaggio dal concreto all’astratto come momento anteriore alla discesa
dall’astratto al concreto) Marx, dice Fineschi, aggiunge un terzo
limite, che, invero, è diretta conseguenza dei primi due: l’uso di un
medesimo principio filosofico onde spiegare il passaggio da una
epoca storica all’altra, nonché la struttura di ogni singola epoca. Si
tratta, in altre parole, della critica marxiana alla filosofia della storia
hegeliana. L’apriorismo della filosofia della storia hegeliana impedirebbe, cioè, di cogliere tanto il manifestarsi, ogni volta storicamente
determinato, di ciascun specifico e qualitativamente diverso modo di
produzione quanto le modalità particolari di passaggio da un modo
di produzione all’altro. Anche qui, tuttavia, lo sguardo di Fineschi
sembra troppo “selettivo”, poiché l’analisi dei problemi sollevati dal
75
rapporto fra la teoria marxiana della successione dei modi di produzione e la filosofia della storia hegeliana intercetta altre dimensioni
teoriche oltre quella puramente logico-epistemologica.
Da tutto ciò emerge, comunque, il profilo di un Marx intento a
eseguire un coerente programma di “riduzione della dialettica”16. La
dialettica viene adottata soprattutto come metodo di esposizione concettuale, ma si invita a farne a meno qualora l’obiettivo sia quello di
appropriarsi del materiale concreto, di cominciare a prenderne le
misure. In fondo, questa è la riedizione di una vecchia critica alla dialettica, secondo la quale quest’ultima, le cui prestazioni sul piano dell’organizzazione concettuale sarebbero di tutto rispetto, risulterebbe,
tuttavia, inutilizzabile come – per usare una espressione della contemporanea filosofia della scienza – “logica della scoperta”, come
inventio e prima sistemazione del materiale empirico e concreto.
5. Logica dialettica e logica del capitale
Poco sopra dicevamo che è dall’opposizione fra valore d’uso e
valore di scambio che Marx fa scaturire il rapporto di capitale. Con
ciò, naturalmente, si è ancora detto molto poco, perché occorre
specificare contenuto e modo di funzionamento di questa “opposizione”. Fineschi, trovandoci del tutto d’accordo, sostiene che sia la
dottrina dell’essenza della Logica hegeliana, con l’intero spettro
delle sue “determinazioni della riflessione” (identità, differenza,
diversità, opposizione, contraddizione), a comandare il decorso
concettuale dalla merce al capitale. In ciò egli sfrutta con profitto le
ricerche già compiute da una folta schiera di studiosi, in specie
tedeschi (Backhaus17, Reichelt18, Hecker19 ecc.). Sennonché, qui
sorge una questione di non poco conto: se Marx costruisce il passaggio dalla merce al capitale con le categorie della dottrina dell’essenza della Logica hegeliana che cosa ne è, allora, della stessa esigenza marxiana di articolare una “logica specifica dell’oggetto specifico”? Non è la logica ut sic a risucchiare completamente entro di
sé la logica della merce e del capitale?
Fineschi risolve la questione facendo valere anche qui quella
oscillazione fra logico e empirico che, a suo giudizio, connota lo sviluppo concettuale marxiano fin dal suo sorgere. A distanziare il
76
movimento concettuale marxiano dal puro automovimento logico
hegeliano interverrebbe, perciò, la presupposizione di alcuni elementi non “dedotti” teoricamente, quali la circolazione semplice, il
lavoratore libero e l’accumulazione originaria. In tal modo, scrive
Fineschi, la logica del capitale starebbe alla logica ut sic come la
scienza fisica sta alla matematica pura o come le “filosofie reali”
hegeliane (filosofia della natura e dello spirito) stanno alla Logica.
Prendendo, precisamente, ispirazione dal modo attraverso cui
Angelica Nuzzo, in un libro importante20, ha interpretato il rapporto in Hegel fra logica e “filosofia reale”, Fineschi individua una
scala di livelli logici differenziati all’interno del Capitale. Al primo
livello si collocherebbe il contenuto logico più astratto, denominato
Logica I, nel quale il rapporto fra i presupposti e i risultati dell’esposizione sarebbe di natura puramente ideale. Questo livello conterrebbe, a sua volta, delle sottofasi con una propria dinamica di
sviluppo (p. es. il passaggio dalla sussunzione formale a quella reale
del lavoro sotto il capitale, la trasformazione della cooperazione
semplice in “grande industria” ecc.). Il secondo livello, denominato
Logica II, mostra invece il processo di adeguazione di determinati
presupposti al capitale in alcunché di posto dalla Logica I (p. es. la
trasformazione del processo lavorativo nel processo di valorizzazione). Si tratterebbe di una fase che dischiude già una dimensione
“storica”, sebbene del tutto comandata dalle esigenze del primo
livello.
Giunto a questo punto, Fineschi deve chiarire la natura di
questi “presupposti” che subiscono il processo di adeguazione al
sistema del capitale. Da una parte, i presupposti vengono ricavati
per via puramente logica: dato il rapporto di circolazione semplice,
non si potrebbe fare a meno di osservare che il suo pieno dispiegamento in rapporto di produzione capitalistico è condizionato dalla
presenza della separazione della forza-lavoro dai mezzi di produzione; dall’altra, tuttavia, continua Fineschi, questi presupposti
mostrano anche un versante storico: senza l’effettiva separazione
della forza-lavoro dai mezzi di produzione il modo di produzione
capitalistico non sarebbe mai cominciato. La separazione fra forzalavoro e mezzi di produzione, conclude Fineschi, appartiene a “una
configurazione che precede quella capitalistica e che non è conoscibile con le categorie analitiche del modo di produzione capitalisti-
77
co” (p. 158). Il presupposto sarebbe tale, dunque, perché ereditato
da un modo di produzione precedente.
Questa conclusione è, a nostro giudizio, inaccettabile, e per
diverse ragioni. Innanzitutto Fineschi qui prescinde dalla considerazione del fatto – che peraltro gli è ben conosciuto – che nei
Grundrisse, in un piano espositivo dell’opera, Marx ha operato analogamente a lui stesso, esaminando la possibilità di anteporre alla
trattazione del valore di scambio e della merce un capitolo concernente le determinazioni della produzione in generale, appartenenti a
tutti i modi di produzione21, e che ha in seguito rifiutato questa possibilità. Il capitolo sul processo lavorativo naturale è, infatti, nel
Capitale collocato oltre la trasformazione del denaro in capitale. Il
rifiuto di dare corso nel Capitale a questa possibilità espositiva è
munito di motivazioni molto forti. Se il rapporto fra il presupposto e
il posto deve essere dialettico, infatti, il posto non può porre un presupposto non congruente a sé. Nel capitolo sull’idea della Logica
Hegel è, su ciò, inequivocabile: a muovere da ciò che è interamente
posto, l’idea o il metodo, il cominciamento presupposto, e cioè l’essere, non è concepibile che come universalità astratta, dunque come
alcunché che rappresenta del posto una parziale configurazione:
Il cominciamento non ha pertanto per il metodo nessun’altra
determinatezza che quella di essere il semplice e l’universale;
questa appunto è la determinatezza per cui esso è manchevole.
L’universalità è il puro, semplice concetto, e il metodo, come
coscienza del concetto, sa che l’universalità è soltanto un
momento e che in essa il concetto non è ancora determinato in
sé. Ma con questa coscienza, che vorrebbe portar avanti il
cominciamento solo a cagione del metodo, questo sarebbe un
che di formale, posto nella riflessione esterna. Ora invece siccome il metodo è la forma oggettiva, immanente, l’immediato del
cominciamento dev’essere in lui stesso il manchevole, ed esser
fornito dell’impulso a portarsi avanti. Nel metodo assoluto l’universale ha valore non già di semplice astratto, ma di universale
oggettivo, vale a dire tale che è in sé la totalità concreta, ma che
non è ancora posto, non è ancora per sé cotesta totalità22.
Dopo aver affermato che “per il metodo” il cominciamento è
l’universale astratto, Hegel si premura di non dare l’impressione
78
che nella Logica sia il “punto di vista” del metodo a determinare
l’andamento espositivo. In questo caso, lo sviluppo categoriale
sarebbe guidato da una riflessione esterna. Affinché, invece, tal sviluppo sia considerabile come immanente, il cominciamento deve
essere, dice Hegel, an ihm selbst, in lui stesso, imperfetto, bisognoso di completamento. D’altro canto, il cominciamento è, nonché
astratto, anche dotato di un suo contenuto oggettivo preciso, poiché è una totalità concreta in sé, laddove la totalità concreta per sé è
quella della idea. Essere e idea, perciò, se osservati dalla “posizione” dell’idea e non da qualsiasi altro punto della esposizione logica,
non sono categorie che coprono due spazi teorici eterogenei.
Ritornando a Marx: se il sistema del capitale, il posto, avesse determinato come presupposto ciò che appartiene anche ad altri modi di
produzione, esso avrebbe posto un presupposto a sé non congruente, alcunché di non inscrivibile all’interno dello spazio teorico del
sistema del capitale stesso. Donde la giusta decisione di non iniziare
il Capitale con le determinazioni della produzione in generale.
Fineschi tuttavia ci pare, come s’è detto, che faccia un errore analogo a quello del Marx dei Grundrisse: immagina come presupposti
degli elementi che appartengono come loro esito a modi di produzione antecedenti quello capitalistico. Naturalmente, sostenere che,
sul piano storico, un modo di produzione articola in forme nuove
degli elementi che gli sono stati consegnati dal modo di produzione
precedente non suscita alcuna obiezione. Ma il punto è che la teoria
del modo di produzione capitalistico deve rispondere ad altri commitments concettuali rispetto a quelli implicati da un’analisi storica.
V’è poi almeno un’altra ragione per non assumere questa ipotesi: se la logica che governa il passaggio al capitale è quella dell’essenza, allora non si dovrebbe dimenticare che una delle caratteristiche
principali di quest’ultima è quella secondo la quale il rapporto fra il
meccanismo riflessivo e le sue determinatezze è un rapporto, per
così dire, di pieno possesso. Fin dai primi passi, infatti, della dottrina dell’essenza della Logica, entro l’“Essenza come riflessione in lei
stessa”, si vede bene come la riflessione non esiti a dichiarare come
suo lo Schein (la parvenza), la prima vera determinatezza dell’essenza: “La parvenza è l’essenza stessa nella determinatezza dell’essere.
Quello, per cui l’essenza ha una parvenza, è che l’essenza è determinata in se stessa epperò è diversa dalla sua assoluta unità”23. Si badi
79
bene: l’essenza ha la parvenza, intrattiene con essa ciò che altrove,
nell’Enciclopedia, Hegel chiama “relazione dell’avere”24. In virtù di
questa, il rapporto nella dottrina dell’essenza fra ogni categoria e le
sue determinatezze non è di immediata identità, come era, al contrario, nella dottrina dell’essere. Allorché, infatti, una determinatezza
della dottrina dell’essenza tramonta, la categoria che ne fa da sostegno non sparisce. Hegel, in particolare, esplicita questo punto trattando del rapporto fra la cosa e le sue proprietà, là dove la cosa continua a sussistere pur se perde una proprietà25. Ciò non accade, invece, nella dottrina dell’essere, là dove, per esempio, il qualcosa cessa
di essere qualora la sua qualità scompaia. Il senso di tutto ciò è che
nella dottrina dell’essere il processo di mediazione – ciò che nella
dottrina dell’essenza prende il nome di “riflessione” –, proprio perché è immediatamente uno con le sue determinatezze, non ha su di
loro ciò che potremmo chiamare un “potere di disposizione”, e perciò non ha alcun diritto di dichiararle sue. Si dà, vale a dire, uno
scorrere di determinatezze di cui non appare la connessione con il
processo di mediazione soggiacente. In realtà, quindi, l’immediata
identità fra piano della mediazione e quello delle immediatezze è
segno, nella dottrina dell’essere, dell’assenza di un rapporto organico e produttivo fra di loro. Qui opera ancora, cioè, una spaccatura
profonda fra il piano della mediazione e quello delle immediatezze.
Per converso, l’autonomizzarsi, nella dottrina dell’essenza, del processo di mediazione dal piano delle determinatezze non è indice di
avvenuta scissione fra di loro, ma di una situazione nella quale, per
la prima volta, il processo di mediazione pone come conformi a sé le
stesse determinatezze. Questo vuol dire che nella dottrina dell’essenza, a differenza che nella dottrina dell’essere, ciò che è posto pone i
presupposti come suoi. Ebbene, trasferendoci entro il Capitale, se
Fineschi avesse ragione, allora il sistema del capitale, sebbene sia il
risultato di un processo logico riflessivo, dovrebbe dare luogo a un
presupposto che non è suo.
Nelle restanti battute del libro, Fineschi si occupa di altre due
coppie concettuali di marca hegeliana che Marx utilizza (capitale
diveniente/capitale divenuto ed essenza/fenomeno) e, in una appendice, della singolare fortuna nel marxismo del concetto di “umwälzende Praxis”, di “rovesciamento della prassi”. Opportunamente,
Fineschi nota l’origine non-marxiana di questa espressione e mette
80
in guardia dal collegare la questione del “rovesciamento materialistico” di Hegel a quella della prassi trasformatrice. Per Marx, vale a
dire, la prassi trasformatrice non ha come precipuo compito l’inversione della filosofia speculativa, bensì l’inversione di quelle strutture
sociali che danno vita alla filosofia speculativa stessa.
Poco prima di concludere il libro, tuttavia, Fineschi fa un bilancio della sua posizione rispetto alla problematica del rapporto fra il
logico e ciò che logico non è, lo storico e l’empirico. Secondo
Fineschi, l’originalità della soluzione marxiana a paragone di quella
hegeliana consiste nel diverso modo in cui l’empirico viene incastonato nella trama del logico. In Hegel, e qui Fineschi continua a tenere
per valida la posizione espressa da Angelica Nuzzo, l’empirico verrebbe accolto da una particolare logica, quella della Vorstellung, della
rappresentazione, la quale, pur non coincidendo con quella del concetto, ad essa sarebbe, tuttavia, complementare. In Marx, invece,
l’empirico svolgerebbe le sue funzioni soprattutto nella scelta del
cominciamento, individuando come cellula economica del sistema
capitalistico alcunché che possa presentarsi sia come presupposto
logico sia come presupposto storico-empirico. Al fondo, quindi, la critica che il Marx maturo muove a Hegel sarebbe ancora quella contenuta nel manoscritto del ’43 sul diritto statuale hegeliano. Hegel non
sarebbe in grado di svolgere una “logica specifica dell’oggetto specifico” e proprio perciò sarebbe costretto a introdurre surrettiziamente
l’empirico entro una logica speculativa anticipatamente costruita.
La peculiarità dell’approccio di Fineschi quindi è che la questione del rapporto in Marx fra logico e storico/empirico viene
risolta configurando in un certo modo il cominciamento del
Capitale. Ma, per le ragioni che abbiamo cercato di indicare in precedenza, questa strategia argomentativa ci sembra poco convincente. Altre vie e altre soluzioni avrebbero potuto essere esplorate a
questo riguardo. A nostro giudizio, per esempio, sarebbe più produttivo lavorare sul cominciamento come totalità indeterminata del
rapporto di capitale26. In tal modo, il passaggio dalla sfera della circolazione a quella del rapporto di capitale potrebbe essere indagato
come passaggio “dialettico” da una totalità indeterminata a una,
invece, determinata. Ma di tutto ciò, naturalmente, se ne potrà parlare solo in altra e più adeguata sede.
81
NOTE
Pubblicato per Città del Sole, Napoli 2001.
Cfr. C. LUPORINI, Dialettica e materialismo, Editori Riuniti, Roma 1974.
3
Cfr. G.M. CAZZANIGA, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria
marxiana dello sviluppo, Liguori, Napoli 1981.
4
Cfr. A. MAZZONE, “La temporalità specifica del modo di produzione capitalistico”, in G. CAZZANIGA, D. LOSURDO, L. SICHIROLLO (a cura di), Marx e i suoi
critici, Quattroventi, Urbino 1987.
5
Come diremo subito appresso, Fineschi si avvale invece copiosamente di
questa distinzione in altri momenti del suo lavoro.
6
Rph § 32.
7
Cfr. R. FINELLI, Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati
Boringhieri, Torino 2004.
8
K. MARX, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Erster Band, in K.
MARX, F. ENGELS, Gesamtausgabe (MEGA), Zweite Abteilung, ‘Das Kapital’ und
Vorarbeiten, Dietz, Berlin 1991, Band X, p. 37; trad. it. Il Capitale. Critica dell’economia politica, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1994, vol. I, p.
67.
9
Hanno colto bene questo punto, a proposito del dibattito Hegel-Marx, S.
SAYERS, “Dualism, Materialism and Dialectic”, in R. NORMAN, S. SAYERS, Hegel,
Marx and Dialectic: A Debate, Gregg, Brookfield 1994 (1980), pp. 68-72 e T.
SMITH, The Relevance of Systematic Dialectics to Marxian Thought: A Reply to
Rosenthal, in “Historical Materialism”, 1 (1999), pp. 220-221.
10
La necessità che governa le concatenazioni concettuali marxiane è stata
trattata anzitutto da T. SMITH, The Logic of Marx’s ‘Capital’: Replies to Hegelian
Criticism, SUNY, Albany 1990, p. 37. Ma su tale questione è intervenuto recentemente anche CH. ARTHUR, The New Dialectic and Marx’s Capital, Brill, Leiden
2002, pp. 71-74. Arthur si sofferma soprattutto sulla necessità, di tipo appunto
concettuale e non storico-empirico, che conduce dalle merci al denaro e poi alla
posizione del lavoro libero.
11
G.W.F. H EGEL , Dokumente zu Hegels Entwicklung, hrsg. von J.
Hoffmeister, Frommans, Stuttgart 1936, p. 352.
12
GW, IX, p. 14; trad. it. Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri,
La Nuova Italia Editrice, Firenze 1996, p. 6.
13
GW, XIV, “Vorrede”, p. 16; trad. it., p. 17.
14
Ibidem.
15
G. LUKÁCS, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, ed. it. a
cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1960, p. 633.
16
Qui usiamo l’espressione di “riduzione della dialettica” in modo diverso
da come la adopera il teorico che l’ha promossa in ambito marxista, e cioè G.
GÖHLER, Die Reduktion der Dialektik durch Marx: Strukturveränderung der dialektischen Entwicklung in der Kritik der politischen Ökonomie, Klett-Cotta, Stuttgart
1980, p. 24. Mentre Göhler pensa che la dialettica sia stata da Marx progressivamente “ridotta” nei manoscritti economici della maturità sul piano del “modo di
1
2
82
esposizione”, qui vogliamo soltanto dire che per il Marx interpretato da Fineschi
essa risulterebbe del tutto inservibile sul piano del “modo di ricerca”.
17
Cfr. H.-G. BACKHAUS, Dialettica della forma di valore. Elementi critici per
la ricostruzione della teoria marxiana del valore, ed. it. a cura di R. Bellofiore e T.
Redolfi Riva, Editori Riuniti, Roma 2009.
18
Cfr. H. REICHELT, La struttura logica del concetto di capitale in Marx, trad.
it. di F. Coppellotti, De Donato, Bari 1973.
19
Cfr. R. HECKER, “Einige Problemen der Entwicklung der Werttheorie”, in
W. JAHN, M. MÜLLER (hrsg. von), Der Zweite Entwurf des ‘Kapitals’. Analysen,
Aspekte, Argumente, Dietz, Berlin 1983.
20
Cfr. A. NUZZO, Rappresentazione e concetto nella logica della Filosofia del
diritto di Hegel, Guida, Napoli 1990.
21
K. MARX, Ökonomische Manuskripte 1857/1858. Text-Teil 1, in K. MARX,
F. E NGELS , Gesamtausgabe (MEGA), Zweite Abteilung, ‘Das Kapital’ und
Vorarbeiten, Dietz, Berlin 1976, Band I, pp. 218-219, 237; trad. it. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, a cura di E. Grillo, La Nuova Italia
Editrice, Firenze 1968, vol. I, pp. 283, 311-312.
22
GW, XII, p. 240; trad. it., pp. 940-941.
23
GW, XI, p. 248; trad. it., p. 442.
24
Enz 3 § 125 ann.
25
Oltre che nel rapporto fra essenza e parvenza e cosa e proprietà si stabilisce una “relazione dell’avere” anche fra esistente e fondamento (GW, XI, p. 342;
trad. it., p. 561), intero e parti (ivi, p. 355; trad. it., p. 576), sostanza e accidenti
(ivi, p. 397; trad. it., p. 630), causa e effetti (ivi, p. 398; trad. it., p. 632). Su tutta la
questione cfr. K.J. SCHMIDT, Georg W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik – Die
Lehre vom Wesen: ein einführender Kommentar, Ferdinand Schöningh, Paderborn
1997, p. 28.
26
Cenni di articolazione del cominciamento hegeliano e marxiano in termini
di totalità indeterminata si trovano per esempio in J. KINCAID, A Critique of ValueForm Marxism, in “Historical Materialism”, 2 (2005), pp. 88-89.
83
Come riappropriarsi criticamente del Capitale oggi?
Considerazioni a partire dal libro di Jacques Bidet L’Etat-monde.
Liberalisme, socialisme et communisme à l’echelle globale
Con la scelta di un titolo di questo tipo la partita, per chi si
occupa di cose filosofiche, sembra piuttosto “facile”, soprattutto
dopo la svolta trascendentale occorsa nel pensiero moderno, la
quale invita a pensare un oggetto a partire dalle sue condizioni, le
questioni a muovere dal loro principio. Domandarsi, infatti, in che
modo riappropriarsi criticamente del Capitale è qualcosa di teoricamente esigente, che combina in sé diversi e, in qualche modo, non
facilmente integrabili momenti: l’istanza della riappropriazione dei
contenuti del Capitale, largamente diffusa oggi non solo presso gli
studiosi ma anche presso attivisti e militanti politici, implica infatti
una rilettura del Capitale capace di riacquisirne le più intime e
sostanziali verità; tuttavia, per varie ragioni su cui fra poco proverò
a soffermarmi, non solo nel titolo ma anche in tutte quelle operazioni volte a rilanciare le verità del Capitale si allude alla necessità
che questa riappropriazione avvenga criticamente, e cioè interponendo di nuovo fra noi e questo testo quella distanza ermeneutica
che il momento della pura e semplice riappropriazione non sembra
ospitare dentro di sé. Del resto, a impedire che la riappropriazione
si risolva in una mera reiterazione del già noto sembra essere lo
stesso filtro del tempo, il cadere della nostra riflessione sul Capitale
in una costellazione teorica e politica profondamente mutata rispetto alle precedenti. Per togliere allusività a quanto stiamo dicendo:
una lettura del Capitale come quella di David Harvey, particolarmente concentrata sul II e III libro, e cioè sui libri del Capitale
meno frequentati dalla storia del marxismo, e tutta intenta a ricostruire i nessi fra capitale finanziario e rendita immobiliare, non
sarebbe potuta sorgere se, per usare il linguaggio degli istituzionalisti francesi, il regime capitalistico di accumulazione non fosse divenuto a dominante finanziaria. Ma il tempo agisce anche in un altro
85
senso, e precisamente nella direzione della qualità della nostra possibile riappropriazione critica del Capitale. Come disporci oggi
verso il dettato testuale del Capitale, se già una intera generazione
di lettori, interpreti e studiosi occidentali, quella in sostanza degli
anni ’60 e ’70, ha provato a compiere quanto noi stessi oggi ci
ripromettiamo di compiere? Per prendere in considerazione le due
nazioni europee filosoficamente più significative del dopoguerra,
vale a dire Francia e Germania, non sono stati l’althusserismo e la
Neue Marx-Lektüre di Hans-Georg Backhaus, Helmut Reichelt e
Hans Jürgen Krahl espressione della volontà di rompere con la lettura “ortodossa” e “storicista” del Capitale, canonizzata non da
Lenin, bensì dall’irrigidimento teorico della Terza Internazionale? I
problemi dunque si raddoppiano: per un verso l’urgenza della
mondializzazione capitalistica e delle sue crisi ci spingerebbe a precipitarci nelle stanze del Capitale per ritrovarvi la chiave della
nostra condizione storico-sociale data; per altro verso, tutto ciò non
è sic et simpliciter eseguibile: troppo lavoro critico è stato già effettuato sul Capitale per pensare di poterne prescindere.
Di tutto ciò anche Jacques Bidet è perfettamente consapevole:
colpisce infatti come anche nell’ultimo libro, L’Etat-monde.
Liberalisme, socialisme et communisme à l’echelle globale (PUF,
Paris 2011), il suo progetto di rifondazione del marxismo riposi su
una rilettura del Capitale che si manifesta fin da subito come ripercorrimento delle due tradizioni del marxismo critico cui sopra ho
accennato, quella francese dell’althusserismo e quella tedesca della
Neue Marx-Lektüre alimentata alle fonti della scuola di Francoforte.
Bidet, per ragioni che hanno a che fare con la generale posizione
teorica che è venuto maturando in questi ultimi vent’anni, privilegia
la strada althusseriana, dischiusa con Lire le Capital, a quella “tedesca”, francofortese, che, sebbene responsabile di notevoli avanzamenti (la valorizzazione dell’astratto nel discorso marxiano di critica dell’economia politica), gli appare comunque troppo segnata
dall’esperienza dello hegelismo e dalle tortuosità della “dialettica”1.
A noi pare tuttavia che qui il giudizio debba farsi più aperto e sfumato: oltre che per l’opposizione alla lettura “ortodossa” del
Capitale, queste due tradizioni si congiungono anche per la volontà
di leggere Marx contro Marx, di studiare il Capitale fuori dalla
comprensione teorica del proprio lavoro scientifico detenuta dal
86
suo autore. La “lettura sintomale” di Althusser esprime certo tutto
ciò con molta più radicalità di quanto abbiano fatto i francofortesi,
ma se si esamina il modo in cui Hans-Georg Backhaus rivisita i fondamenti della teoria del valore (la teoria della merce e del denaro),
balza subito agli occhi come il suo tentativo sia di rendere più rigorosa questa teoria proprio lavorando sulle incertezze teoriche di
Marx, sulle sue oscillazioni epistemologiche (per esempio quelle fra
modo storico e modo logico di articolazione della teoria). Non è un
caso che nel corso degli anni ’70 Backhaus abbia sempre elogiato
l’impianto ermeneutico althusseriano, contrapponendolo alla morta
gora delle letture “ortodosse”2.
Lo stesso Bidet non potrebbe negare che, se la generale ispirazione critica gli proviene da Althusser (perché come lui pensa che
Marx “découvre finalement autre chose que ce qu’il cherche”3), l’idea, ribadita con forza anche in L’Etat-monde, di riconfigurare le
categorie del Capitale a muovere dal suo cominciamento è una idea
tipicamente “tedesca”, hegeliana. Senza scomodare il “con che si
deve incominciare la scienza” dello Hegel della Scienza della logica,
ci si può riferire direttamente ancora a Backhaus, il quale non sembra aver mai voluto davvero muovere un passo oltre il I capitolo del
Capitale, come se intorno al cominciamento marxiano si giocasse
l’intero destino dell’opera. Non saremo certo noi, che in generale
lavoriamo dentro l’alveo di pensiero scavato da Hegel, a dire che
questa concentrazione sul problema del cominciamento risulta
inopportuna; ma è pur vero che dalla Scienza della logica hegeliana
dovremmo apprendere non solo la centralità della questione del
cominciamento, ma anche quella del circolo presupposto-posto, sul
fondamento del quale, come è noto, non solo il presupposto pone
per contraddizione il posto, ma anche il posto pone il presupposto.
Su terreno marxiano a noi pare, ma questa è stata sempre anche
una delle più importanti lezioni di Roberto Finelli, che questo significhi che, dopo aver percorso la sequenza dalla merce al plusvalore
e al capitale, bisogna anche andare à rebours, e determinare il valore
come alcunché di posto dal plusvalore4. Uno dei due padri fondatori del “marxismo occidentale” e della teoria critica novecentesca,
Karl Korsch, questo l’aveva già perfettamente compreso: nella sua
bella, e purtroppo dimenticata, introduzione al Capitale del 1935,
egli raccomanda al lettore appunto di iniziare la sua esplorazione
87
del Capitale dal capitolo 5, dal processo di valorizzazione, per poi
andare a ritroso5. Se si procede in questo modo non solo si concepisce il cominciamento del Capitale come già immanente al modo di
produzione capitalistico, ma si capisce anche che il lavoro astratto
del II paragrafo del I capitolo non è qualcosa che viene estratto
dalla sfera della circolazione delle merci, ma qualcosa che viene
interamente posto dal processo di produzione capitalistico.
La questione potrà apparire oziosa, ma così non è: l’operaismo
italiano ha potuto ritenere, anche nei suoi migliori esponenti (penso
qui al Paolo Virno di Convenzione e materialismo), esaurita la problematica del lavoro astratto in virtù del fatto che quest’ultimo
sarebbe in Marx legato alla sfera della circolazione delle merci e in
particolare al rapporto salariale, laddove nel processo di produzione si manifesterebbe progressivamente la potenza del general intellect6. Ma l’errore di vincolare in Marx il lavoro astratto alla sfera
della circolazione è già di Böhm Bawerk, il quale assume la concretezza delle merci come data, e data precisamente sulla base della
circolazione, e pensa l’astrazione che su questa base può essere
compiuta come aperta ai più diversi esiti; aperta al valore quindi,
ma anche all’utilità. Ora il fatto è che la concretezza delle merci che
abitano la sfera circolazione è il prodotto di un processo di produzione che in tanto è capitalisticamente orientato in quanto in esso è
il processo di valorizzazione a comandare su ciò che Marx chiama
“processo lavorativo naturale”, e cioè sul lavoro concreto. Nel
cosiddetto Capitolo VI inedito, Marx è su questo punto chiarissimo:
una volta giunti al plusvalore bisogna ripensare lo statuto della
merce del I capitolo, determinandola come prodotto del capitale7.
Il circolo presupposto-posto è dunque essenziale per comprendere
adeguatamente il senso delle categorie del Capitale, oltre che la sua
generale strategia argomentativa.
Se finora abbiamo parlato delle difficoltà che si pongono
dinanzi al compito della riappropriazione del Capitale, quasi nulla
abbiamo detto a proposito della qualità della “critica” che dovrebbe accompagnarla. Qui le difficoltà sono acuite dalla circostanza
per la quale Marx non appare affatto sprovvisto di una forte consapevolezza circa che cosa debba costituire il nerbo e il senso della
“critica”. Come ci ha spiegato bene anche Emmanuel Renault, tutto
il suo itinerario teorico appare contraddistinto dal proposito di
88
svolgere una critica, ora della religione e della politica ora dell’economia politica8. Il problema con cui abbiamo a che fare è quindi
capire se esistono fondate ragioni per respingere il modello di critica proposto da Marx oppure se ve ne sono ancora di buone per
accoglierlo o per accoglierlo sì, ma in forme rivedute e corrette. Per
perseguire questo obiettivo dobbiamo confidare solo sulle nostre
forze: la migliore filosofia contemporanea (pensiamo qui anche a
quell’Habermas che almeno per un periodo non sembrava, sotto
questo profilo, molto distante da Marx) così come la migliore sociologia contemporanea (qui pensiamo invece a Le nouvel esprit du
capitalisme di Boltanski e Chiapello) sembrano ormai aver emesso il
loro verdetto, esplicitamente o implicitamente negativo verso il
modello marxiano.
Ma in che cosa consiste questo modello? Mettendo da canto il
modello di critica che il giovane Marx ha in mente e concentrandoci solo su ciò a cui il Marx della maturità, il Marx del Capitale, allude quando parla di “critica”, si deve dire che in questo contesto
“critica” per Marx significa essenzialmente unità di esposizione e
trasformazione di un certo e determinato oggetto epistemico. Nella
lettera a Lassalle del 22 febbraio 1858, Marx illustra bene tutto ciò
spiegando il significato della espressione “critica dell’economia
politica”: essa consiste nell’unità di esposizione e critica dell’economia politica stessa9. Ma mettere in un sol fascio Darstellung (esposizione) e Kritik (critica) non appare, in prima battuta, una contraddizione? Esporre qualcosa infatti vuol dire enuclearne il contenuto
in forma sequenziale. Un’attività che sembra doversi limitare a
rispecchiare il contenuto dato piuttosto che criticarlo, giudicarlo.
Ma Marx, preceduto in ciò dal Fichte della Dottrina della scienza
del 1794-95 e dallo Hegel della Fenomenologia dello spirito e del
sistema, non la pensa così: esposizione è rivelazione della non-verità
dei presupposti, degli assunti di base della scienza. L’esposizione,
dunque, dice la verità del suo oggetto criticando, al contempo, la
non-verità del modo in cui esso si presenta immediatamente.
L’esposizione attinge il piano della verità negando ciò che è in sé
autonegantesi, ciò che immediatamente appare del modo di produzione capitalistico.
La critica marxiana è quindi molto diversa da quella kantiana,
perché non consiste nella produzione di un adeguato oggetto cono-
89
scitivo per il tramite di un riorientamento della disposizione soggettiva verso il mondo. È piuttosto critica immanente dei presupposti
di sviluppo dell’oggetto dell’economia politica borghese. In questo
senso essa non è neanche – come pure Emmanuel Renault con
qualche accento pragmatistico ha voluto, in Marx e l’idea di critica,
pensare – una “semplice” risoluzione dei problemi lasciati aperti
dall’economia politica classica10. Risolvere problemi non implica
necessariamente adoperare un diverso assetto teorico. I problemi
possono essere risolti anche adoperando meglio lo stesso assetto
teorico (come hanno, in fondo, sempre pensato gli economisti sraffiani: basta rigorizzare Ricardo per risolvere i problemi della teoria
del valore). Ma Marx, come detto, non ritiene che l’economia politica classica abbia semplicemente incontrato problemi o abbia fatto
errori; pensa piuttosto che sia feticizzata, e cioè che prenda per proprietà naturale delle cose ciò che non è che una loro proprietà sociale. La legge del valore per esempio non è una legge generale dell’economia, è una legge di movimento propria di una economia monetaria a dominante capitalistica, che dà vita alla lotta di classe ecc.
Dunque la critica non può essere effettuata senza dischiudere
un diverso orizzonte di elaborazione delle categorie e delle determinatezze materiali. Il che vuol dire anche che esercitare la critica
significa allo stesso tempo per Marx indicare un altro modo, rispetto a quello tradizionale, per esercitare la funzione dell’astrazione.
L’astrazione degli economisti classici è per Marx – che consciamente o no ci pare a questo riguardo riprendere le direttive fondamentali della critica hegeliana all’empirismo esemplarmente contenute
nello scritto sul Diritto naturale del 1802-1803 – la tipica forma di
astrazione dell’empirismo, che da un “pieno” di determinazioni ne
isola una, elevandola a principio di determinazione della totalità
concreta. In questa prospettiva, l’astratto, ciò che dovrebbe spiegare il concreto capitalistico, diventa un costrutto scientifico irreale.
In modo invertito, come ribadito con energia anche da Jacques
Bidet in L’Etat monde, si presenta l’astrazione marxiana: il pensiero
assume a suo punto di partenza ciò che di una totalità concreta rappresenta la forma elementare, il semplice, il povero di determinazioni, l’unilaterale, appunto l’astratto. Tale astratto è in sé deficitario e perciò va superato articolandolo in più complessi organismi di
pensiero. Ciò peraltro vale non solo per la cellula germinale della
90
critica dell’economia politica, ma anche per i livelli concettuali successivi, più ricchi e concreti (capaci cioè di esibire molteplici determinazioni). Le impossibilità logiche che investono ciascun livello
spingono il teorico ad andare alla ricerca di soluzioni che risultino
veramente soddisfacenti. Ma per trovarle, Marx non lesina i cambiamenti di scena, gli slittamenti, i salti mortali. Paradigmatico è in
questo senso il passaggio dalla sfera della circolazione delle merci
alla sfera della produzione: un problema che è, in ultima analisi, irrisolvibile entro un certo ordine concettuale (come far sorgere l’eccedenza di valore sul capitale originario anticipato in un contesto in
cui vige lo scambio di equivalenti) ottiene risposta non appena ci si
trasferisce altrove, in un diverso “luogo” del paesaggio sociale. La
totalità concettuale marxiana riposa quindi su una sequenza di
impossibilità, per risolvere le quali bisogna ogni volta arricchire di
nuove dimensioni i concetti-cardine: la merce non riesce a consistere con sé, per esempio, se non articolandosi come denaro, plusvalore, capitale costante e variabile, ecc. Marx ricorre spesso a queste
“rotture di ordini”, fin dentro il III libro (si veda per esempio il
passaggio dal valore di mercato al tasso di profitto).
Ma ciò che è ancora più peculiare in Marx è l’idea che queste
“rotture di ordini” sono cruciali perché fanno apparire nuovi rapporti sociali: il problema del plusvalore è risolto nel passaggio dalla
sfera della circolazione a quella produzione perché appare, accanto
a quello che stringe reciprocamente gli agenti dello scambio mercantile, un altro rapporto sociale, il rapporto salariale (nel III libro,
invece, nel passaggio dal valore di mercato al tasso di profitto
appaiono i capitalisti in concorrenza).
L’economia politica borghese non si segnala, tuttavia, solo per
la mancanza della vera astrazione. Isolando una determinazione da
una totalità di determinazioni concrete, l’astrazione empirista contrappone, in fondo, concretezza a concretezza, la determinazione
elevata a principio di spiegazione della totalità concreta alla totalità
concreta stessa. L’astrazione empiristica, insomma, non riesce a
pensare determinatezze che si risolvono in rapporti, ma solo rapporti che si risolvono in determinatezze. È per questo che per Marx
l’economia politica borghese, esclusivamente addestrata all’uso
della astrazione empiristica, si caratterizza per un’assenza di senso
teorico per le differenze di forma dei rapporti economici.
91
L’economia politica borghese tende cioè a fermarsi al contenuto
materiale. Laddove quindi Marx insiste sul concetto di “valore”,
l’economia politica borghese si sofferma, invece, sul valore d’uso. E
laddove Marx insiste sul carattere formalmente specifico del processo di produzione capitalistico, l’economia politica borghese
tende ad attestarsi solo sul piano delle determinazioni generali della
produzione, sulle condizioni eterne e storicamente universali dell’attività lavorativa umana. Dunque se critica dell’economia politica
deve esservi, questa deve mirare a sostituire all’analisi del contenuto
materiale dei dispositivi economici quella della forma.
Complessivamente, Marx nel Capitale sembra quindi ragionare così: tutte le cose economiche hanno due aspetti, una forma e un
contenuto materiale. La prima è più essenziale del secondo perché,
essendo istitutiva di un tessuto di relazioni, è ciò attraverso cui i
rapporti sociali si esprimono, è ciò che materializza i rapporti sociali. D’altro canto, per poter essere, la forma apre necessariamente
alla molteplicità delle determinatezze. In particolare, in Marx, come
ha ben visto Tran Hai Hac, la forma implica la concettualizzazione
della opposizione fra due elementi A e B, ciascuno dei quali assume
una funzione specifica: B è la materializzazione di A, ma ne è anche
indipendente11. In una relazione formale, quindi, A rivendica a sé il
momento della totalità e B il momento della realizzazione concreta
di questa totalità.
Per venire a una conclusione: a livello filosofico, volersi misurare criticamente con il Capitale significa anzitutto, secondo noi,
portare alla luce gli attrezzi più essenziali della stessa “critica”
marxiana (e cioè il circolo presupposto-posto, l’unità fra esposizione e giudizio, l’astrazione “dialettica”, la distinzione fra materia e
forma), mettere in evidenza insomma ciò che la caratterizza rispetto
ad altre forme di critica della scienza e della oggettività fenomenica.
Sennonché, nel far ciò si va senz’altro oltre l’autocomprensione teorica posseduta da Marx, si devono esplicitare le strutture di pensiero che egli ha adoperato senza essere pienamente capace di darne
conto. La teoria critica novecentesca, a cominciare da Lukács, ha
enormemente valorizzato la proposizione marxiana, ospitata dal
capitolo sul feticismo, secondo cui gli uomini scambiando merci
fanno ciò che fanno senza sapere ciò che fanno. In un certo senso,
questa proposizione può essere indirizzata a Marx stesso: ha fatto
92
ciò che ha fatto, una straordinaria e originale esperienza di critica di
una disciplina scientifica e del suo oggetto, senza ricostruire le condizioni per riprodurla. È a noi che spetta il faticoso, ma ineludibile,
compito di riarticolarle.
NOTE
1
L’Etat-monde. Liberalisme, socialisme et communisme à l’echelle globale cit.,
pp. 26-31.
2
H.-G. BACKHAUS, Dialettica della forma di valore. Elementi critici per la ricostruzione della teoria marxiana del valore, cit., p. 213. La lettura dei saggi introduttivi che i curatori hanno preposto alla traduzione italiana del testo è di notevole
aiuto per comprendere il significato del percorso teorico di Backhaus.
3
L’Etat-monde. Liberalisme, socialisme et communisme à l’echelle globale, cit,
p. 38.
4
Cfr. Abstraction versus Contradiction: Observations on Chris Arthur’s The
New Dialectic and Marx’s ‘Capital’, in “Historical Materialism”, 2 (2007), p. 71.
5
K. KORSCH, Introduzione al Capitale, in Id., Dialettica e scienza nel marxismo, ed. it. a cura di G. E. Rusconi, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 55-56.
6
Cfr. la nota 77 dell’edizione Derive Approdi, Roma 2012, pp. 147-148.
7
K. MARX, Ökonomische Manuskripte 1863-1867. Teil 1, Das Kapital, Erster
Band, Kapitel 6, “Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses”, in K. MARX,
F. E NGELS , Gesamtausgabe (MEGA), Zweite Abteilung, ‘Das Kapital’ und
Vorarbeiten, Dietz, Berlin 1988, Band IV, p. 442; trad. it. Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, ed it. a cura di B. Maffi, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 103.
8
E. RENAULT, Marx e l’idea di critica, manifestolibri, trad. it. di M. T. Ricci,
Roma 1999, p. 123.
9
K. MARX, F. ENGELS, Briefwechsel Januar 1858 bis August 1859, in K.
M ARX , F. E NGELS ,, Gesamtausgabe (MEGA), Dritte Abteilung, Briefwechsel,
Akademie, Berlin 2003, Band IX, p. 72; trad. it. Lettere sul Capitale, a cura di G.
Bedeschi, Laterza, Bari 1971, p. 20.
10
E. RENAULT, Marx e l’idea di critica., cit., pp. 157-158.
11
TRAN HAI HAC, Relire “Le Capital”. Marx, critique de l’économie politique
et objet de la critique de l’économie politique, Page deux, Lausanne 2003, tome I,
capp. 2 e 3.
93
Il Marx di David Harvey
1. Urbanesimo e capitalismo
Della ampia e stratificata opera di David Harvey, singolare
figura che si colloca a metà fra urbanistica e teoria sociale, si conosce ormai molto, vista la larga circolazione ottenuta da libri come
La crisi della modernità1, La guerra perpetua2 e Breve storia del neoliberismo3. Meno conosciuta, tuttavia, è la sua attenta e proficua
ricerca sul Capitale marxiano; ricerca che è, peraltro, alla base delle
tesi sostenute nelle opere appena menzionate. Ciò che in prima battuta ci proponiamo in questo articolo è di esporre le linee fondamentali di questa ricerca, valutandone meriti e specificità. In conclusione, cercheremo di indicare in quale direzione la rilettura del
Capitale compiuta da Harvey ha influenzato il corso delle sue più
recenti indagini teoriche.
Della ermeneutica marxiana di Harvey si può dire che è peculiare anzitutto l’ispirazione generale: nessun autore, fra coloro i
quali hanno recentemente provato a riattivare il contenuto problematico della critica marxiana dell’economia politica, è stato più
fermo di lui nel rivendicare l’esigenza che sia sul terreno della analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba
essere verificata la validità teorica di tale critica. Si tratta di un
approccio che, pur comportando una certa riduzione della molteplicità di temi e “aperture” problematiche che Marx è venuto promuovendo nella sua matura critica dell’economia politica, non
determina una incongrua dogmatizzazione del dettato testuale
marxiano: il Capitale è anzi considerato come una sorta di cantiere
a cielo aperto, come un testo pieno di “empty boxes”, che occorre
riempire di significati e contenuti. Una operazione di questo tipo
non è peraltro rara nell’ambito del pensiero marxista contemporaneo: anche il filosofo francese Jacques Bidet, per esempio in
Explication et reconstruction du Capital (PUF, Paris 2007), muove
95
dall’ obiettivo di ripensare il Capitale a muovere dai “vuoti” del
Capitale stesso. Tuttavia, mentre Bidet prova a riformulare il passaggio dalla sfera della circolazione a quella della produzione, quindi opera quasi esclusivamente all’interno del I libro del Capitale,
Harvey lavora soprattutto sul raccordo fra I, II e III libro della stessa opera. La questione centrale è cioè quella della ricostruzione del
nesso fra l’analisi del processo di produzione, contenuta nel I libro,
e quelle del processo di circolazione (II libro) e di distribuzione del
plusvalore fra le diverse classi sociali (III libro). Se si vuole ricollegare Marx con il paesaggio sociale e politico novecentesco e postnovecentesco – questo il proposito di Harvey – il contenuto del I
libro non è sufficiente, ed ha anzi esiti fuorvianti.
Non è, in linea generale, una posizione di poco conto all’interno della storia del pensiero marxista. Già Rosa Luxemburg si era
levata contro la tendenza di larga parte del pensiero marxista a concentrarsi sui contenuti del I libro del Capitale – che sembrava contenere tutto quanto fosse necessario a fondare l’azione delle organizzazioni del movimento operaio – trascurando il resto dell’opera4. Per
Luxemburg questa rimozione, soprattutto del II libro, aveva recato
notevole nocumento al marxismo: il fenomeno del colonialismo, e
cioè la ricerca di una domanda estera supplementare, era comprensibile solo alla luce del venir meno di una clausola restrittiva assunta
da Marx nel I libro, e cioè la perfetta trasformazione, all’interno del
ciclo di capitale, del valore della merce in capitale-denaro. Poiché
nel capitalismo “reale”, non in quello ritratto nel I libro, la trasformazione del valore delle merci in denaro non è, per varie ragioni,
affatto assicurata, continuare a lavorare con l’impianto analitico del I
libro avrebbe significato condannarsi all’impotenza.
Sebbene di taglio più “accademico”, la critica – inaugurata dal
padre degli economisti “austriaci”, Eugen Böhm Bawerk, e poi lungamente dibattuta in tutto il corso del Novecento – alla cosiddetta
trasformazione marxiana dei “valori” del I libro nei “prezzi” del III
libro, ha focalizzato al fondo il medesimo problema, l’impossibilità
di superare le tensioni teoriche esistenti fra i diversi libri del
Capitale. Sono tensioni, come appare sempre più in virtù della
nuova edizione storico-critica delle opere di Marx, la MEGA2, ineliminabili, anche perché legate all’incompiutezza del Capitale, a
quella circostanza per cui la maggior parte dei manoscritti rifluiti
96
nel II e nel III libro sono stati redatti prima ancora che Marx pubblicasse nel 1867 la prima edizione del I libro.
Ma come è arrivato Harvey alla comprensione della centralità
del II e del III libro del Capitale per la più piena valorizzazione
della critica marxiana della economia politica? Harvey, intanto, si
avvicina al Capitale, e più in generale al marxismo sul finire degli
anni ’60, grazie a una esperienza tipica del mondo anglo-americano,
quella dei Capital Reading Group. La lettura del Capitale e le lezioni
universitarie che su di esso Harvey inizia a tenere con regolarità lo
inducono a riconsiderare la sua originaria impostazione teorica, che
era piuttosto segnata dall’epistemologia popperiana: il frutto di
questo cambiamento di rotta è Social Justice and City (Johns
Hopkins University Press, Baltimore 1973), intelligente confronto
fra il paradigma liberale e quello socialista rispetto alla natura dei
problemi urbanistici, che si conclude con un tentativo di operare
una sintesi dell’uno e dell’altro. Ma Social Justice and City appare
quasi subito ad Harvey non pienamente soddisfacente: gli urban
issues affrontati nel libro sono trattati senza aver previamente studiato a un più alto grado di generalità teorica le categorie di “capitale fisso”, “capitale finanziario” (fondamentale per comprendere il
mercato immobiliare) e “rendita fondiaria”; categorie che in Marx
sono collocate nel II e nel III libro del Capitale.
Dunque è per comprendere i problemi dell’urbanizzazione,
uno dei fenomeni più decisivi della vita moderna, che Harvey si
trova costretto ad affrontare direttamente i libri del Capitale meno
frequentati nella storia del marxismo. La scelta è teoricamente onerosa e ha, in qualche modo, implicato una profonda ritessitura della
trama concettuale del Capitale, i cui risultati vedranno la luce molti
anni più tardi, nel 1982, con la pubblicazione dell’imponente The
Limits to Capital. È a questo libro, il meno letto ma anche il più
importante di Harvey, che faremo di seguito riferimento per spiegare la natura della sua riappropriazione di Marx. Su Marx, in verità,
Harvey è tornato successivamente molte volte, da ultimo con un
accurato commentario del I libro del Capitale, pubblicato per Verso
nel 2010. Ma i risultati conseguiti da Limits non sono mai revocati
in dubbio, semmai solo diversamente articolati.
97
2. Il “punto di vista” della circolazione di capitale
Limits comincia con una rapida rassegna – più rapida delle
ricostruzioni standard – delle categorie fondamentali del I libro del
Capitale (valore d’uso, valore, plusvalore ecc.). Se, tuttavia, la ricchezza in forma di valore è prodotta nel processo di produzione, la
sua distribuzione è dettata dalla regola della competizione intercapitalistica. Tale competizione porterà a un prezzo medio di produzione, che dovrà tenere conto non solo della diversa grandezza dei singoli capitali investiti, ma dei differenti tempi di rotazione del capitale. Qui vi è la prima innovazione di Limits: mentre Marx aveva
nel III libro calcolato il prezzo di produzione tenendo conto solo
della diversa grandezza del capitale investito, con il capitale più
grande a sottrarre ricchezza in forma di valore al capitale più piccolo, in Harvey la competizione che conduce alla fissazione del prezzo
medio di produzione è anche quella fra capitali con differenti tempi
di rotazione5. Nei settori in cui il capitale riaffluisce più lentamente
nelle mani dei suoi iniziali possessori, il volume dei profitti sarà, in
una data unità temporale, minore. Per questa ragione, fino a quando non si formerà un prezzo medio di produzione6, i capitali tenderanno ad addensarsi nei settori in cui si verifica un tempo di rotazione più veloce.
Se tuttavia, come indicato dal II libro del Capitale, il capitale
con il più alto tasso di redditività è il capitale che ha un tasso più alto
di “ritorni” in una data unità temporale, allora sarà fondamentale:
1) assicurarsi la realizzazione del valore della merce, e cioè la
sua vendita effettiva7;
2) abbattere i costi e i tempi di circolazione (i costi e i tempi di
trasporto, di transazione, di marketing ecc.)8.
Il punto 1) ci immette direttamente nella questione delle condizioni di realizzazione del valore della merce, e cioè dell’esistenza
di una domanda effettiva. Nel I libro non solo Marx non si preoccupa di determinare le condizioni di domanda, ma dischiude uno
scenario teorico, caratterizzato dall’immiserimento relativo progressivo del proletariato e dalla crescita delle disuguaglianze di classe,
che impedisce propriamente che quelle condizioni siano soddisfatte: come sperare di convertire merce in denaro (la vendita), se una
fonte essenziale di domanda, quella costituita dai redditi della clas-
98
se lavoratrice, viene, a causa del procedere del meccanismo accumulativo, progressivamente inaridita? Sennonché, e su ciò Harvey
insiste lungamente in Limits, il diagramma dello sviluppo capitalistico schizzato soprattutto alla fine del I libro è subito smentito dal
II libro, e in particolare dai suoi famosi “schemi di riproduzione”:
questi presuppongono, infatti, una economia capitalistica divisa in
due settori (beni di consumo e mezzi di produzione), fra i quali si
stabilisce, pur in mezzo a molte tensioni e scosse di assestamento,
un certo grado di equilibrio. E questo equilibrio comporta anche
che le condizioni di domanda siano se non proporzionate almeno
non disallineate dalla forma di movimento del processo di accumulazione. Il che significa che se ci si trasferisce sul terreno della circolazione capitalistica complessiva, dell’equilibrio fra i due settori
principali della vita economica, le conseguenze (immiserimento e
disuguaglianze), analizzate nel I libro, della spasmodica ricerca di
plusvalore effettuata da ogni singolo capitalista attraverso i metodi
del plusvalore relativo e assoluto, devono essere temperate. Il consumo della classe lavoratrice, insomma, dovrà crescere anch’esso9.
Per Harvey nel II libro sono, quindi, poste le condizioni della
“stabilizzazione automatica” del capitalismo cui abbiamo assistito,
attraverso fordismo e keynesismo, nel Novecento. Con la giornata
di lavoro di 8 ore pagata 5 dollari decisa da Henry Ford nel 1914 e i
deficit spending keynesiani, ciò che viene seppellito è il capitalismo
manchesteriano del I libro del Capitale. D’altro canto, ed è un
punto su cui Harvey si è intrattenuto soprattutto nei suoi ultimi
libri10, la fase economica e sociale che si è aperta negli anni ’70 sembra aver ripristinato un modello di sviluppo capitalistico esemplato
sullo schema teorico del I libro: il neoliberismo si caratterizza, infatti, a giudizio di Harvey, per aver smantellato del “patto socialdemocratico” del secondo dopoguerra tanto i meccanismi di “sostegno
alla domanda” quanto le regolazioni istituzionali (economiche e
politiche) della competizione intercapitalistica. Sono la debolezza
della domanda e l’intensificazione della concorrenza a rendere oggi
la circolazione capitalistica complessiva sempre meno equilibrata e
soggetta a sbalzi e rotture.
Naturalmente, Harvey sa bene che la crescita dei consumi
finali della classe lavoratrice o dei consumi collettivi non basta a
risolvere il problema della “realizzazione”, della conversione della
99
merce in denaro. Devono intervenire altri fattori: il consumo dei
beni di lusso, da parte dei detentori di grandi ricchezze, e, soprattutto, l’acquisto di mezzi di produzione da parte di altri capitalisti
per l’allargamento della propria base produttiva11. Affinché tale
acquisto sia eseguito, però, il capitalista deve anticipare un capitale
o farselo anticipare: per diverse ragioni (perché strumento di centralizzazione dei capitali, di lubrificazione della circolazione ecc.)
nel capitalismo questa operazione è, ed è stata, mediata dal sistema
del credito. Il sistema del credito crea cioè moneta, la moneta di
credito, prestandola al capitalista industriale per consentirgli di
acquistare quel pacchetto aggiuntivo di mezzi di produzione funzionali all’allargamento del processo produttivo. Citando Marx,
Harvey ricorda che questa creazione di moneta è un atto di fede
“protestante”: se si tratta di un buon prestito, coronato dal pagamento dei dovuti interessi, si vedrà solo al termine del processo
produttivo, quando si verificherà sul mercato se le nuove merci
prodotte si sono trasformate in denaro oppure no12.
Ma al di là della funzione giocata dal sistema del credito nella
riproduzione sociale capitalistica, su cui a breve si ritornerà, questo
ragionamento è decisivo anche sotto il profilo della “realizzazione”:
se per il conseguimento di un qualche equilibrio fra offerta aggregata di beni e domanda aggregata risulta determinante l’acquisto di
un nuovo contingente di mezzi di produzione, questo significherà
che, in ultima analisi, la stabilizzazione del capitalismo è ottenibile
soltanto attraverso il progresso dell’accumulazione. Solo l’accumulazione può stabilizzare l’accumulazione13. Da un altro versante, ci
viene riconsegnata l’immagine di un capitalismo che o è pura dinamicità o non è. Tutto ciò, peraltro – e qui crediamo che sia difficile
non consentire con Harvey –, è in linea con l’esperienza storica: l’epoca di più forte stabilità del capitalismo, la meno punteggiata da
crisi, crack ecc., è stata quella in cui il capitalismo è cresciuto di più,
la cosiddetta golden age (1945-1975)14.
La centralizzazione creditizia e la mediazione dello Stato sono
fondamentali anche in ordine alla realizzazione di quanto indicato
nel punto 2), e cioè la necessità, per accelerare il tempo di rotazione
del capitale, di abbattere i costi e i tempi di circolazione. Le grandi
rivoluzioni nei mezzi di trasporto e di comunicazione, che rendono
ciò possibile, sono indisgiungibili – dice qui Harvey ricollegandosi
100
alle analoghe osservazioni di Marx intorno alle ferrovie nel capitolo
XXIII del I libro del Capitale – dalla capacità del sistema del credito e dei pubblici poteri di radunare a questo scopo una ingente
massa di capitale15.
A livello teorico, le grandi rivoluzioni nei sistemi di trasporto e
comunicazione sono richieste, per Harvey, da una necessità intrinseca al capitale stesso, il quale, per dirla con il Marx dei Grundrisse,
“tende per sua natura a superare ogni limite nello spazio. La creazione delle condizioni fisiche dello scambio – ossia mezzi di comunicazione e di trasporto – per esso diventa necessaria in tutt’altra
misura – diventa l’annullamento dello spazio mediante il tempo”16.
Lo spazio, la sussistenza autonoma dei momenti dell’essere, è un
ostacolo da rimuovere per qualcosa, come il capitale, la cui più intima natura è di essere processo, pura temporalità ascensiva. In quanto tale, il capitale non “circola” soltanto quando, ultimato il processo di produzione, occorre scambiare la merce con altre merci. Esso
è, per essenza, circolazione, fluida unità di momenti, ciascuno dei
quali non può sospendere la sua continuazione nell’altro. Che cosa
vuol dire questo, scendendo sul terreno economico-sociale? Vuol
dire – dice Harvey in Limits17 ma anche, e con particolare energia,
in L’enigma del capitale18 – che il capitale non può tollerare di giacere più del dovuto in ciascuna delle sue stazioni di sviluppo. Se ciò
accade, e per esempio il capitale rimane “ozioso” nelle mani dei
finanzieri, oppure dà vita a un processo produttivo più lungo della
media, oppure si incorpora in merci che tardano a convertirsi in
denaro, allora la conseguenza è la svalorizzazione del capitale stesso: è la crisi.
Finora abbiamo detto qualcosa sul resoconto che Harvey fornisce della prima e della terza delle stazioni di sviluppo del ciclo di
capitale, lasciando da parte la seconda, quella propriamente produttiva. Sebbene quello di Harvey sia, a differenza di buona parte
del marxismo novecentesco, più un marxismo della “circolazione”
che della “produzione”, ciò non vuol dire che la sua attenzione per
l’analisi del processo produttivo sia ridotta. Il punto focale della sua
impostazione riguarda, tuttavia, di nuovo il “tempo”, in questo caso
del processo produttivo. L’idea è che non sia vero che l’organizzazione del processo produttivo debba tendere immancabilmente
verso l’integrazione verticale, verso la costituzione di unità di
101
impresa di carattere monopolistico. È certamente conveniente, dice
Harvey, fondere diverse unità di capitale sì da utilizzare, a parità di
prodotto, una quota minore di capitale costante (di macchinari
ecc.) rispetto al capitale variabile, al lavoro vivo. Al contrario, più
imprese vi sono e più linee di produzione, con i mezzi di produzione ad esse collegati, vi saranno, rendendo impossibile le economie
di scala. Ma il fatto è che la concentrazione monopolistica allunga il
tempo di rotazione del capitale, perché i processi produttivi saranno necessariamente più complessi e rigidi. Il capitale di una grande
impresa ritorna, maggiorato, al punto di partenza, dopo aver attraversato la fase della produzione e della circolazione, con più fatica
rispetto al capitale di una impresa più piccola, la quale, facendo
“circolare” più velocemente lo stesso, otterrà, sotto questo riguardo, una percentuale di profitti sul capitale anticipato più alta19.
Il mix tecnologico-organizzativo che si installa all’interno di un
processo produttivo sarà quindi l’esito di un “compromesso” fra la
tendenza alla integrazione verticale e quella alla scomposizione
orizzontale20. Con ciò, Harvey batte in breccia uno dei topoi della
cultura marxista novecentesca: la inevitabilità della concentrazione
monopolistica. Di più: in Limits vi è la precisa consapevolezza che il
grado di integrazione verticale raggiunto dalle imprese nel secondo
dopoguerra fosse divenuto un freno per la ripresa del processo
accumulativo e che perciò il capitale avrebbe dovuto selezionare un
mix tecnologico-organizzativo più aperto alle spinte verso la scomposizione orizzontale (crescita del subappalto, delle subforniture
etc.)21. Il libro è del 1982, e non si può dire che manchi di un suo
carattere “profetico”: la discussione sulla cosiddetta “specializzazione flessibile” divamperà di lì a poco (con il libro di Piore e
Sabel, The Second Industrial Divide, che è del 1984, i lavori di
Zeitlin, Porter ecc.).
3. Assorbimento del surplus e postmodernismo
L’attenzione verso il piano della circolazione capitalistica complessiva comanda, tuttavia, anche un ulteriore passaggio d’analisi,
che ci conduce alla novità più rilevante di Limits rispetto al punto
di partenza marxiano. La novità è la seguente: la competizione
102
intercapitalistica per la distribuzione del surplus, cui abbiamo già
accennato, determina un aumento del capitale costante, ma anche,
e progressivamente, un aumento della massa di surplus disponibile
(è la dinamica che Marx inscrive sotto la categoria di “plusvalore
relativo”); ma se così è, si porrà con sempre più urgenza la necessità
di trovare per questo surplus crescente sbocchi adeguati e remunerativi. Se ciò non accade, il destino sarà quello della svalorizzazione
del capitale, e cioè, di nuovo, la crisi. Riecheggiando, ci pare, i
Baran e Sweezy di Capitale monopolistico, Harvey definisce tale
questione come quella dell’“assorbimento del surplus”22. Harvey
ritiene che siano stati tre, essenzialmente, i modi che il capitalismo
ha adottato per rispondere a questa sfida:
1) investimenti in capitale fisso sociale (infrastrutture, porti,
autostrade, ecc.)23;
2) sviluppo delle attività finanziarie24 (che comprende anche la
trasformazione della rendita immobiliare in titolo finanziario)25;
3) sviluppo della divisione geografica del lavoro oltre che di
quella tecnica e sociale26.
Se, empiricamente, i modi sono essenzialmente tre, concettualmente sono due: si tratta infatti di una ridislocazione spaziale (punto
1 e 3) e temporale (punto 2) della massa di surplus crescente.
Lo spazio, che il capitale vuole, in linea di principio, annullare,
torna quindi a giocare un ruolo di una certa rilevanza allorché si
tratta di impiegare in modo redditizio il surplus. Capire di ciò le
ragioni, dice Harvey, non è difficile: gli investimenti in capitale fisso
sociale o nel ridisegno degli assetti urbanistici e geografici27 (dalla
gentrification allo sviluppo improvviso di nuove città, da ultimo
quelle cinesi come Shenzen ecc.) comportano, per definizione, la
mobilitazione di un ampio quantitativo di risorse. Ma lo stesso
accade alle attività finanziarie: la scommessa sul valore futuro (ecco
la ridislocazione temporale) dei titoli accende una corsa ai rendimenti più alti che attrae a sé un gran volume di risorse monetarie28.
Non sono queste, tuttavia, “soluzioni”, in ultima battuta, pacificatrici. Si apre, anzi, un nuovo campo di tensioni, complesso e
arduo da governare. La crescita delle attività finanziarie offrirà
certo un sollievo agli investitori, visti gli alti tassi di redditività che
usualmente vi si connettono, ma avrà pure la conseguenza di acuire
la gravità delle crisi economiche29 (attraverso lo scoppio delle bolle,
103
e quindi la necessità di riallineare i valori pretesi con quelli reali
delle attività economiche). E gli investimenti in capitale fisso sociale
offriranno, certo, all’abbondante surplus uno spatial fix vasto e
ramificato, ma avranno pure la spiacevole conseguenza di estendere
i tempi di rotazione del capitale, considerata la lunghezza dei processi produttivi che ne stanno alla base30. Un’analoga contraddizione investe i processi di urbanizzazione o il city management: per un
verso, la valorizzazione della città, attraverso lo sfruttamento di tutti
i possibili vantaggi competitivi che essa può garantire, implica il
benefico impiego di quote crescenti di surplus; per altro verso, la
specifica vischiosità degli investimenti urbani – la necessità di attendere molto tempo prima che i loro costi siano “ammortizzati” –
impedisce di mettere in atto una politica urbana spregiudicata e più
“volatile”31.
L’integrazione dello “spazio”, degli aspetti geografici e urbani,
nell’analisi del processo accumulativo rappresenta il merito principale del disegno di Harvey32. Prima di lui, solo Henri Lefebvre e, in
modo minore, Gerald Cohen avevano provato a ritagliare nel pensiero marxista una finestra dedicata ai problemi posti dallo “spazio”. Questa sensibilità – e del resto Harvey non ha mai smesso di
essere anzitutto un geografo e un urbanista – gli ha permesso poi di
scrivere La crisi della modernità, una delle più celebri ricostruzioni
della condizione postmoderna, di quella condizione, cioè, il cui
concetto nasce, come è largamente noto, proprio nel contesto del
dibattito e della pratica architettonica. Sennonché ciò che qui è
importante sottolineare è che la tesi portante de La crisi della
modernità – e cioè che il postmodernismo rappresenti soltanto un
prolungamento del modernismo e non una sua smentita, risolvendosi in una alterazione dell’equilibrio faticosamente stabilitosi nel
modernismo fra valori “eterni” e “universali” e valori legati alla
“contingenza”, a tutto vantaggio di quest’ultimi33 – non sarebbe
mai venuta alla luce senza la preliminare ripresa della lettura di
Marx avvenuta in Limits. Senza i nuovi attrezzi concettuali forgiati
in Limits a contatto con il Marx del II e del III libro del Capitale, e
senza in particolare la valorizzazione del concetto di “tempo di
rotazione del capitale”, sarebbe infatti risultato più difficile ad
Harvey osservare la trasformazione economica, politica e culturale
realizzatasi nel corpo dei paesi occidentali a muovere dai primi anni
104
’70. Una trasformazione avvenuta nel segno della “compressione
spazio-temporale”, della rinnovata sottomissione all’inquieto principio di determinazione del tempo delle compatte forme di mediazione sociali e culturali “moderniste”34.
NOTE
1
The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural
Change, Blackwell, Cambridge (MA) 1991; trad. it. di M. Viezzi, Net, Milano
2002.
2
The New Imperialism, Oxford University Press, Oxford 2003; trad. it. di
G. Barile, il Saggiatore, Milano 2006.
3
A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, Oxford 2005;
trad. it. di P. Meneghelli, il Saggiatore, Milano 2007.
4
R. LUXEMBURG, Stillstand und Fortschritt im Marxismus, Vorwarts, (14
marzo 1903), 62; trad. it. Ristagno e progresso nel marxismo, in Id., Scritti scelti, a
cura di L. Amodio, Einaudi, Torino 1975, pp. 227-228.
5
Il tempo di rotazione del capitale è l’unità del tempo di produzione e del
tempo di circolazione (il tempo che intercorre fra produzione e vendita effettiva
della merce).
6
The Limits to Capital, Verso 2006 (1982), p. 63.
7
Ivi, pp. 88-90. Qui identifichiamo “realizzazione” e “vendita” come si fa di
solito anche nella più accreditata letteratura economica. In realtà, i problemi di
“realizzazione” sono più generali di quelli relativi alla vendita della merce, perché
investono ciascuna tappa del processo di circolazione del capitale (per esempio
anche la conversione di denaro in fattori di produzione).
8
Ivi, p. 87.
9
Ivi, pp. 175-176.
10
Cfr. per esempio A Companion to Marx’s Capital, Verso 2010, p. 14.
11
The Limits to Capital, cit., pp. 91-95.
12
Ivi, p. 249.
13
Ivi, p. 96.
14
The Enigma of Capital: And the Crisis of Capitalism, Profile Books,
London 2010; trad. it. L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, a
cura di A. Oliveri, Feltrinelli, Milano 2001, p. 19.
15
The Limits to Capital, cit., pp. 225-228.
16
K. MARX, Ökonomische Manuskripte 1857/1858. Text-Teil 2, in K. MARX,
F. E NGELS , Gesamtausgabe (MEGA), Zweite Abteilung, ‘Das Kapital’ und
Vorarbeiten, cit., Band I, p. 424; trad. it. Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (“Grundrisse”), cit., p. 510.
17
The Limits to Capital, cit., pp. 85-86.
105
18
In esso Harvey si dedica soprattutto alla ricostruzione eziologica dell’ultima crisi finanziaria. Il libro ha ottenuto nel mondo anglo-americano un notevole
successo ed è stato giudicato dal Financial Times in termini elogiativi.
19
The Limits to Capital, cit., pp. 133-136.
20
Ivi, p. 136.
21
Ibidem. Qui va riconosciuto uno dei primi debiti di Harvey verso il classico libro di P. BARAN e P. SWEEZY, Monopoly Capital, Monthly Review Press, New
York 1966; trad. it. Il capitale monopolistico, a cura di L. Occhionero, Einaudi,
Torino 1968. Come loro, infatti, Harvey ritiene che la concentrazione monopolistica sia a un certo punto divenuta una gabbia per lo sviluppo capitalistico, e più in
particolare per il capitalismo americano. E tuttavia, diversamente da loro, Harvey
ritiene, per le ragioni che spieghiamo nel corpo del testo, che l’esito monopolistico
non fosse divenuto qualcosa di irrevocabile.
22
The Limits to Capital, cit., p. XXIV.
23
Ivi, pp. 227-228.
24
Ivi, pp. 272-282.
25
Ivi, pp. 367-372.
26
Ivi, pp. 373-376.
27
Su ciò si veda in particolare The Urban Experience, Johns Hopkins
University Press, Baltimore 1989; trad. it. L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, a cura di G. Ballarino, il Saggiatore, Milano 1998.
28
L’abnorme espansione del mercato finanziario dopo il 1973 è dovuta precisamente, secondo Harvey, ai problemi incontrati dal capitalismo nell’assorbire il
crescente surplus generato sul terreno produttivo (cfr., per esempio, L’enigma del
capitale, cit., p. 26).
29
The Limits to Capital, cit., p. 288.
30
Ivi, pp. 220-221.
31
Ivi, pp. 425-429.
32
Su ciò siamo d’accordo con A. CALLINICOS, David Harvey and Marxism, in
N. CASTREE, D. GREGORY (ed. by), David Harvey: A Critical Reader, Blackwell,
London 2006, p. 49.
33
La crisi della modernità, cit., p. 63.
34
Ivi, pp. 185-186.
106
Parte terza
IL MARXISMO E OLTRE
Karl Korsch e la “dialettica” hegeliana
A differenza di quanto si afferma abitualmente non è a MerleauPonty che spetta il merito di aver coniato l’espressione “marxismo
occidentale” per individuare il proprium filosofico di pensatori come
Korsch o Lukács. La contrapposizione fra “marxismo occidentale” e
“marxismo russo” o “orientale” si trova, infatti, già in Korsch stesso,
per esempio nella lunga “Introduzione” del 1930 alla seconda edizione di Marxismo e filosofia (“Lo stato attuale del problema ‘marxismo
e filosofia’ (anticritica)”1). Si tratta, in un certo senso, di una contrapposizione frontale: mentre il marxismo occidentale rifiuta la teoria
del rispecchiamento, concepisce la totalità sociale come il frutto di
una vivente interazione fra coscienza e realtà oggettiva e pone un particolare accento sulla determinazione “pratica” del soggetto, il marxismo russo o orientale (la dottrina ufficiale dello Stato sovietico, il
“marxismo-leninismo”) promuove la teoria del rispecchiamento,
separa il campo della teoria da quello della prassi e scorpora il piano
della coscienza da quello della totalità dell’accadere storico.
Sennonché, questi non sono per Korsch gli unici criteri di riferimento che occorre utilizzare per spiegare il divorzio fra marxismo
occidentale e orientale. A determinare il loro distinto profilo filosofico è intervenuto anche un diverso rapporto con la dialettica hegeliana. Il marxismo orientale, sulla scia delle indicazioni di
Plekhanov e del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, riduce
notevolmente lo spettro di incidenza della trasformazione materialistica della dialettica hegeliana, perché di quest’ultima si limita a
rimuovere il primum movens, lo spirito o l’assoluto, sostituendolo
con un altro, la materia. Ma, così operando, continua Korsch, il
marxismo orientale è di nuovo caduto preda di quella rigida antitesi
fra spirito e materia che Hegel stesso aveva contribuito a superare
prima, entro la Fenomenologia dello spirito, con la critica alla
“materia pura” dei materialisti francesi del XVIII secolo e poi,
109
entro la Logica, con il processo di costruzione dell’“idea”, di alcunché, cioè, che si pone come unità di concetto ed esistenza. Per
Korsch, quindi, il mancato approfondimento del carattere proprio
della dialettica hegeliana aveva avuto sul marxismo orientale effetti
teoricamente deleteri, facendolo ricadere su posizioni già superate
dallo stesso idealismo tedesco.
In particolare, ciò in cui, a causa della scissione fra spirito e
materia, si risolvono in ultima istanza le tesi dei “marxisti-leninisti”
è, secondo Korsch, una rinnovata affermazione del dualismo “kantiano” fra le condizioni soggettive di comprensione dell’oggettività
e l’oggettività stessa. La battaglia ideologica intrapresa da Lenin,
soprattutto in Materialismo ed empiriocriticismo, contro le prospettive epistemologiche di ispirazione “neokantiana”, prima fra tutte il
fenomenismo “machista”, aveva subito quindi il suo contrappasso:
invece di essere combattuto, il kantismo ne era uscito rafforzato.
Con ciò, quasi inavvertitamente, siamo entrati in uno dei
nuclei teorici più decisivi dell’opera senza dubbio più importante di
Korsch, la già menzionata Marxismo e filosofia (pubblicata nel
1923). Qui appare, infatti, chiaramente come alla dialettica hegeliana venga attribuita particolare preminenza teorica proprio in virtù
della sua capacità di distruggere le cristallizzate opposizioni concettuali in cui Kant aveva fatto culminare l’elaborazione filosofica della
modernità. Economia ed etica, teoria e prassi e pensiero e realtà
potevano, alla luce della dialettica hegeliana, sciogliersi in una
nuova e più profonda unità teorica. Il marxismo, inteso come comprensione e trasformazione rivoluzionaria della realtà storico-sociale,
e non come opportunistico accomodamento al meccanismo della
riproduzione sociale capitalistica, doveva perciò ricollegarsi alla
dialettica hegeliana, bruciando tutte le scorie “kantiane” che in esso
si erano venute progressivamente deponendo2.
In questa presa di posizione di Korsch è possibile rintracciare
sia un tratto autobiografico sia un meditato giudizio storico: il tratto autobiografico corrisponde ai primi passi della sua formazione
teorico-politica, compiuta, come è noto, all’interno di un socialismo
fabiano di stampo “neokantiano”; il giudizio storico è, invece, quello relativo al destino della Seconda Internazionale. Il fallimento di
quest’ultima avrebbe per Korsch – così come per il Lukács di Storia
e coscienza di classe – le sue origini nella rimozione delle profonde
110
radici dialettiche del marxismo. Senza dialettica, sostiene infatti
Korsch, il marxismo diventa o un paneconomicismo oggettivistico e
fatalistico o un volontarismo etico. In entrambi i casi, ciò che si
perde è la possibilità di intervenire nella realtà storico-sociale allo
scopo di rivoluzionarla.
Sebbene Marxismo e filosofia sia stata un’opera storicamente
assai significativa, poiché ha contribuito a risvegliare l’ispirazione
dialettica del marxismo, noi siamo dell’opinione che da essa si
possa ricavare solo una cornice molto generale di un possibile
discorso teorico sulla dialettica hegeliana. Se ci limitiamo ai risultati
di Marxismo e filosofia, cioè, la discussione intorno alla dialettica
hegeliana rischia di essere improduttiva, non incontrando mai i
determinati problemi che essa solleva dinanzi al lettore. Sotto questo riguardo, non è ingiustificata la tendenza degli studiosi a preferirle Storia e coscienza di classe: in quest’ultima opera tutte le specifiche insufficienze della dialettica hegeliana sono portate alla luce
mettendo alla prova la sua capacità di risolvere il problema fondamentale del razionalismo moderno, vale a dire il rapporto fra la
totalità sistematica prodotta dal “concetto” e la accidentale datità
del mondo.
E tuttavia il corso della riflessione di Korsch sulla dialettica
hegeliana non si ferma a Marxismo e filosofia. Di una certa rilevanza
a riguardo ci paiono, oltre alla già indicata “Introduzione” alla
seconda edizione di Marxismo e filosofia, anche il breve scritto del
1924 “Sulla dialettica marxista” e soprattutto il dattiloscritto, inedito fino a non molti anni fa, di una conferenza del 1931 tenuta presso la Società per la filosofia empirica di Berlino, dal titolo
L’empirismo nella filosofia di Hegel. Questo testo rappresenta, a
nostro giudizio, il punto più alto della indagine korschiana intorno
alla dialettica hegeliana ed è ad esso perciò che conviene rivolgersi
con maggiore attenzione.
Korsch inizia la sua esposizione schierandosi contro il diffuso
pregiudizio di uno Hegel nemico dell’empiria, dei fatti ecc. In
realtà, è facilmente dimostrabile come Hegel sia stato uno dei più
“forti empirici”3. Nelle sue opere, infatti, molti “fatti” sono individuati con acutezza e precisione, soprattutto nel campo storicosociale: la “scoperta” della società civile o la prefigurazione della
trasformazione capitalistica dell’agricoltura sono solo due fra i
111
molti casi in cui Hegel ha dato prova di possedere una robusta sensibilità “empirista”. È vero che altrove, in particolare nella filosofia
della natura, questa capacità di penetrazione nel mondo empirico
sembra essersi un po’ appannata, ma anche qui Hegel non manca di
esibire buone “intuizioni” (le polarità in fisica ecc.)4.
Hegel, peraltro, ha riconosciuto, in linea con i presupposti epistemologici della scienza moderna, l’importanza di garantire a ciascuna scienza uno statuto metodologico autonomo5. Le sue critiche
all’ipotesi di costruire una “matematica filosofica” sono, sotto questo profilo, esemplari: la matematica è una scienza dell’intelletto,
che lavora su determinazioni finite di grandezza, e volerla trasformare in una branca della filosofia significherebbe solo farle perdere
“il vantaggio che ha di fronte alle altre scienze della medesima
sorta”6. In modo analogo, Hegel argomenta a favore dell’autonomia
metodologica della scienza storica, delle scienze naturali etc.
Ma se così è, se Hegel si trova su punti fondamentali d’accordo con la scienza empirica moderna, perché allora quest’ultima gli
ha riservato un trattamento così ostile? Perché, cioè, essa lo ha eletto a simbolo di una filosofia ignara e sprezzante dei fatti? Korsch
ritiene, in modo storicamente giustificato, che ciò che è risultato
indigesto alla scienza moderna è stata la pretesa hegeliana di ricondurre tutte le sfere della realtà all’automovimento di un’unica
sostanza spirituale. In questo modo, anche l’autonomia metodologica della scienze verrebbe in ultima battuta revocata, sacrificata a
favore dello sviluppo della scienza filosofica della “ragione”7.
Dunque, è il sospetto verso l’“assoluto” che ha condotto la
scienza empirica moderna lontano dall’insegnamento hegeliano.
Korsch è della convinzione che a tale riguardo la scienza moderna
si sia mossa lungo la medesima direttrice teorica dei padri fondatori
del materialismo storico, Marx ed Engels. Anche questi avrebbero
infatti contestato alla filosofia hegeliana la sua pretesa di elevare l’idea a principio di spiegazione di tutto il mondo naturale e storicosociale, di selezionare un principio di natura filosofica per individuare le forze immanenti a ciascun ambito di realtà.
Ma il contrasto fra la filosofia hegeliana e la scienza moderna
non finisce qui. Vi è fra di loro anche una divaricazione di carattere
“metodologico”. È la dialettica stessa che la scienza moderna rigetta, e per due motivi:
112
1) perché muove dal concetto e non dalla esperienza;
2) perché manca delle condizioni della propria verificabilità
empirica: la falsificazione di una proposizione teorica è in essa assicurata dalla negazione logica e non dal riscontro empirico8.
Ora, mentre Korsch concorda senz’altro con la critica della
scienza moderna alla pretesa assolutezza della filosofia hegeliana, in
questo contesto il suo favore torna a indirizzarsi verso Hegel.
Korsch non è affatto sicuro infatti che queste due obiezioni non possano essere rivolte anche agli ultimi sviluppi della stessa scienza. Per
quanto riguarda la prima obiezione: non si organizza la scienza
moderna sempre più secondo il procedimento assiomatico? Non
comincia essa perciò con il “concetto”, ossia con alcuni concetti fondamentali o assiomi, invece che con l’esperienza immediata o con
una esperienza “globale”? La dialettica hegeliana per Korsch non fa
altrimenti: pone, più o meno arbitrariamente, alcuni presupposti e
da essi fa derivare l’intera catena delle conseguenze concettuali9. Del
resto, operare in questo modo è inevitabile: l’idea, – dice Korsch nel
saggio, appena precedente a Marxismo e filosofia, vale a dire “La
concezione materialistica della storia” – di una scienza senza presupposti è un puro sogno della cultura borghese ottocentesca10.
Il fatto è, inoltre, che occorre intendersi bene sul significato di
“esperienza”. Il punto di partenza reale per ogni lavoro scientifico è
certamente l’esperienza immediata, ma accanto a questa si accumulano progressivamente anche i risultati
di volta in volta prodotti dall’elaborazione scientifica del
campo specifico che la riguarda in modo del tutto simile a
quello del moderno metodo assiomatico nelle scienze naturali,
che abitualmente non costruisce più sull’esperienza diretta,
sulle sue proprie osservazioni ed esperimenti […], ma piuttosto
sui risultati che nel corso di un lungo sviluppo sono stati ottenuti finora dalla ricerca nel campo delle scienze naturali11.
La tesi hegeliana della natura costitutivamente mediata dell’esperienza esce, pertanto, del tutto confermata dall’evoluzione del
pensiero scientifico moderno.
Korsch, per chiudere l’argomento relativo al rapporto fra concetto ed esperienza, insiste anche sulla decisività della dialettica
113
hegeliana fra Begriff (concetto) e Vorstellung (rappresentazione)12.
Per Hegel, infatti, qualsiasi determinazione concettuale che venga
dedotta dialetticamente deve corrispondere anche a un elemento
appartenente al campo di ciò che egli ha, appunto, chiamato “rappresentazione” (un fenomeno empirico, un fatto storico, una credenza largamente condivisa ecc.). Korsch non si dedica molto, in
verità, all’indagine di questa dialettica, ma a suo merito occorre dire
che è stato uno dei primi filosofi ad essersi accorto della sua centralità. È solo nel secondo dopoguerra, infatti, che la letteratura scientifica su Hegel ha cominciato a occuparsi seriamente di essa (con
Fulda13, Nuzzo14 ecc.).
Malgrado l’argomentazione di Korsch intorno al rapporto
nella dialettica fra concetto ed esperienza non sia priva di forti
momenti di verità, non molto convincente riesce la sua idea di
appaiare la dialettica alla assiomatica moderna. Hegel, per esempio
nella “Prefazione” alla Fenomenologia dello spirito e nel capitolo
della Logica “L’idea del conoscere”, ha sempre avversato il procedimento assiomatico-deduttivo e per almeno due ragioni:
1) impedisce che il fondamento, la premessa, del ragionamento sia anche qualcosa che viene fondato dal processo argomentativo
stesso; il fondamento, nella deduzione, non viene fondato;
2) impedisce che fra fondamento e fondato il rapporto sia di
intrinseca necessità. Dall’assioma, infatti, possono scaturire molteplici determinazioni, che spesso sono fra di loro anche alternative.
La scelta di dedurne una determinazione piuttosto che un’altra è
quindi dipendente dall’arbitrio soggettivo di colui che conduce la
dimostrazione15.
Ma veniamo ora alla seconda obiezione mossa dalla scienza
moderna alla dialettica hegeliana, quella relativa alla sua costitutiva
non falsificabilità. Poiché le condizioni di produzione e certificazione della verità sono nella dialettica collocate nella stessa articolazione delle determinazioni concettuali, e cioè nel modo in cui vengono
sviluppate inferenze l’una dall’altra, non ha senso, entro questo
orizzonte teorico, verificare empiricamente se una singola proposizione sia dotata di statuto oggettivo oppure no. L’Aufhebung – la
negazione determinata di un concetto che allo stesso tempo lo conserva e porta a un livello superiore – rende, cioè, inutile l’opera di
assicurazione empirica della verità. Non solo: siccome, secondo
114
questa prospettiva, ogni singola determinazione concettuale è tale
solo se viene integrata in una sequenza di determinazioni che sviluppi tutte le sue implicazioni, allora la dialettica ha come proprio
campo di esercizio non una singola determinazione concettuale,
bensì la loro totalità. Ma come fa una totalità, una qualsiasi forma
di totalità concettuale, a essere verificabile empiricamente?
Dinanzi a questo problema Korsch confessa il proprio imbarazzo: se manca un qualche metodo di conferma empirica di concetti prodotti per altra via, allora anche la validità di quei concetti e
delle implicazioni cui danno origine è in pericolo. Ma se la dialettica è attraversata da questo problema, neanche la scienza moderna
può dirsene immune: organizzandosi in modo assiomatico è evidente che la sua conferma empirica potrà ancorarsi solo all’insieme
delle connessioni, che in essa si stabiliscono, fra premesse e conseguenze e non alla singola asserzione teorica. Di questo, peraltro,
sono ormai consapevoli, conclude Korsch, gli stessi filosofi, come
Dubislav ecc., che si sono posti l’obiettivo di rivelare lo scheletro
formale della teoria assiomatica16.
Ora, Korsch sa bene che, in realtà, il problema della verifica
empirica della correttezza di una sequenza concettuale esiste
soprattutto per chi ritenga che questo sia l’unico modo per assicurare validità oggettiva a una proposizione o a un insieme di proposizioni. Per un hegeliano, infatti, la verità di un complesso teorico è
data dall’operare della negazione della negazione, dallo svolgersi e
dalla risoluzione delle contraddizioni. Per questo, egli è in qualche
modo costretto, in questo saggio, a prendere anche in esame la
struttura interna del concetto hegeliano di “contraddizione”.
A differenza di quanto sostenuto, in un famoso saggio17, da
Lucio Colletti, il quale ha negato ad essa ogni valenza teorico-interpretativa, l’analisi korschiana del concetto di “contraddizione” ci
pare tutt’altro che irrilevante. Il punto di partenza della sua argomentazione è la giusta affermazione della differenza del concetto
hegeliano di “negazione” da quello della logica tradizionale: in quest’ultima “dalla negazione di un concetto […] non nasce niente di
più concreto e più completo, ma soltanto ancora una volta in forma
negativa lo stesso contenuto dell’asserzione. Qui non si muove nulla
e non si sviluppa nulla […]”18. Ma se è diversa dalla negazione della
logica tradizionale, a che cosa può essere associata la negazione dia-
115
lettica? Korsch ritiene, e non senza ragione a nostro avviso, che la
sua prima radice stia nel concetto kantiano di “Realrepugnanz”, di
opposizione reale. La negazione dialettica di A non corrisponde,
come nella logica tradizionale, a “tutto ciò che non è A”, ma a un
altro opposto, dotato di identità con sé19. L’analisi della opposizione, nella Logica, è infatti non a caso preceduta da quella della
“diversità”, di quelle determinatezze concettuali che sono diverse
l’una dall’altra proprio perché assolutamente identiche a se stesse.
Korsch quindi coglie un punto essenziale del discorso hegeliano sulla “contraddizione”. I concetti che si oppongono sono nella
dialettica analoghi a degli “oggetti”, cioè a qualcosa che non è soltanto formalmente opposto all’altro, ma che contiene anche una specifica determinazione di contenuto. A dimostrarlo potrebbe bastare
del resto il riferimento al fatto che in Hegel anche le categorie logiche più astratte sono determinate come unità di forma e contenuto.
Con l’ausilio di diversi esempi, su cui, per ragioni di spazio,
non è possibile soffermarsi, Korsch mostra poi come dall’opposizione fra questi “oggetti” teorici scaturiscano nuovi concetti, dotati
di ulteriori determinazioni. Tutto, dunque, sembrerebbe andare per
il verso giusto e in modo neanche troppo problematico. La negazione dialettica sembrerebbe poter legittimamente rivendicare a sé una
specifica capacità di generare contenuti concettuali nuovi. E tuttavia, le cose non sono così semplici: l’idea di Korsch è che, scontrandosi, questi opposti producono contenuti nuovi, ma nessuna contraddizione logica20, come invece, a nostro giudizio, pensava Hegel.
Hegel, infatti, nei paragrafi della Logica dedicati alla opposizione e
alla contraddizione, mostra come gli opposti negando l’altro neghino anche se stessi e quindi si contraddicano. È precisamente questo
che li fa precipitare nel “fondamento”, e cioè in quella unità concettuale che fa da base a una nuova serie di concetti.
Korsch quindi è allo stesso tempo:
1) un assertore delle radici “kantiane” della negazione dialettica;
2) un critico del passaggio dalla opposizione reale alla contraddizione logica.
Perché Korsch non accede al piano della contraddizione logica? La nostra tesi è che ciò non accada perché nella sua ricostruzione del concetto di “contraddizione” se è molto forte, e giusta, l’affermazione del carattere concreto degli opposti hegeliani, è invece
116
del tutto assente il tema della loro intrinseca “relazionalità”. Questa
è infatti la differenza degli opposti hegeliani da quelli kantiani: i
primi si presentano, nonché come auto-riferiti, anche come individuati nel loro auto-riferimento dalla relazione con l’altro.
Ma se così è, se la contraddizione logica non fa parte di ciò che
Korsch intende per “negazione dialettica”, allora qual è il terreno di
legittimazione del movimento dialettico? Korsch sembra esser finito in una impasse: la dialettica non potrà essere verificata né, per le
ragioni poc’anzi richiamate, sul piano empirico né su quello logico.
Rimarrà, di fatto, non trasparente a se stessa, qualcosa – come, non
a caso, vien detto alla fine del saggio – che si può solo esperire ma
non provare.
Al fondo, anche nel suo rifiuto della contraddizione logica, ciò
che si manifesta è la profonda diffidenza di Korsch verso la tesi
della verità come qualcosa che possa attingersi attraverso una pura
operazione di ordine concettuale. Il pensiero, insomma – come si
desume anche dalla sua polemica con August Thalheimer in “Sulla
dialettica marxista” 21 –, non è, per lui, spontaneamente produttivo.
Qualcuno dirà che il marxismo, se vuole essere una corrente filosofica “materialistica”, deve necessariamente allinearsi a una posizione di questo tipo. E tuttavia rimane il problema che assumere una
posizione come quella di Korsch significa entrare ipso facto in contrasto con le profonde convinzioni epistemologiche di Marx, il
quale riteneva che “il modo di esposizione” di un determinato complesso categoriale – come per esempio quello del Capitale - debba
essere sorretto da una meccanica profondamente diversa da quella
che dirige ciò che egli stesso chiama il “modo di ricerca” (raccolta e
ordinamento dati, scoperte ecc.). Il primo è animato da una dialettica la cui garanzia di validità è essenzialmente logica, mentre il
secondo no. È di ciò che Korsch, che pure è stato un fine lettore e
interprete del Capitale, pare non essere mai stato consapevole.
NOTE
1
7-36.
In Marxismo e filosofia, trad. it. di G. Backhaus, SugarCo, Milano 1966, pp.
117
“Marxismo e filosofia”, in Id., Marxismo e filosofia, cit., pp. 73-83.
L’empirismo nella filosofia di Hegel, in Id., Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di G. E. Rusconi, Laterza, Bari 1974, p. 12.
4
Ivi, pp. 13-14.
5
Ivi, p. 19.
6
Enz 3 § 259 ann.
7
L’empirismo nella filosofia di Hegel, cit., p. 19.
8
Ivi, p. 21.
9
Ivi, p. 22.
10
In Marxismo e filosofia, cit., p. 89.
11
L’empirismo nella filosofia di Hegel, cit., p. 24.
12
Ibidem.
13
Cfr. H.F. FULDA, Zum Theorietypus der Hegelschen Rechtsphilosophie, in
D. HENRICH, R.-P. HORSTMANN (hrsg. von), Hegels Philosophie des Rechts. Die
Theorie der Rechtsformen und ihre Logik, Klett-Cotta, Stuttgart 1982, pp. 393-427.
14
Cfr. A. NUZZO, Rappresentazione e concetto nella ‘logica’ della filosofia del
diritto di Hegel, cit.
15
Si cfr. GW, XII, pp. 202-208; trad. it., pp. 915-928
16
L’empirismo nella filosofia di Hegel, cit., p. 28.
17
L. COLLETTI, Marxismo e dialettica, in appendice a Intervista politico-filosofica, Laterza, Bari 1974, p. 78.
18
L’empirismo nella filosofia di Hegel, cit., pp. 30-31.
19
Ivi, p. 31.
20
Ivi, pp. 34-36.
21
In Marxismo e filosofia, cit., p. 121.
2
3
118
Spazio, Stato e capitalismo nell’ultimo Poulantzas
Uno degli aspetti più controversi dell’opera di Nicos
Poulantzas riguarda, come è noto, il rapporto che sussiste fra la
prima fase della sua riflessione intorno ai problemi della teoria
marxista dello Stato, quella che culmina in Potere politico e classi
sociali, e l’ultima, quella che parte da Classi sociali e capitalismo oggi
e giunge fino a Il potere nella società contemporanea. Come per ogni
pensatore di un certo rilievo la cui opera non sia del tutto omogenea a se stessa, anche in relazione a Poulantzas si sono consolidate
una visione “continuista” e una “discontinuista”: la prima, ben rappresentata da Clyde Barrow, insiste sulla sostanziale conformità dei
risultati delle ricerche contenute in Il potere nella società contemporanea rispetto alla piattaforma teorica elaborata in Potere politico e
classi sociali1, mentre la seconda, esemplarmente rappresentata da
Bob Jessop, si sofferma sulle rotture e le innovazioni che caratterizzerebbero l’ultimo stadio della ricerca di Poulantzas2.
Per ragioni che qui non possiamo compiutamente articolare,
noi saremmo inclini ad appoggiare, sebbene in una forma alquanto
soft, la tesi dei “discontinuisti”, giacché ci pare che nell’ultimo
Poulantzas risultino alla fine molto indeboliti due dei pilastri fondamentali della sua precedente indagine, e cioè l’adesione, sotto il
profilo teorico, al modello strutturalistico althusseriano e la fiducia,
sotto il profilo politico, nel leninismo quale più corretta strategia
per la conquista del potere dello Stato e il rivoluzionamento dei
rapporti capitalistici di produzione. Con ciò non si vuole dire, tuttavia, che la strada per la risoluzione di tale querelle sia già spianata:
la questione è così delicata e complessa da meritare ulteriori e più
fini sondaggi critici. In ogni caso, anche un convinto “continuista”
non può negare che nell’ultimo Poulantzas emergano alcuni temi
che nell’originario impianto teorico erano assenti: qui ci riferiamo,
in particolare, al tema della “nazione” moderna indagata alla luce
della matrice spazio-temporale che presiede alla sua costituzione. In
119
Potere politico e classi sociali era, certo, già emersa e aveva guadagnato il centro della scena teorica la questione della necessità per lo
Stato capitalistico di costituirsi intorno alla figura di un popolonazione che unifichi gli altrimenti dispersi e atomizzati agenti economico-sociali3. Ma niente veniva detto intorno alla specificità dello
spazio e del tempo della nazione moderna. Alla maturazione di
questa problematica concorrono, oltre che la maggiore attenzione
per quelle correnti del movimento operaio che hanno avvertito la
necessità di conferire alla questione della nazione un più specifico
statuto (dagli austromarxisti fino al maoismo), anche il procedere
degli studi della scuola delle Annales sulla configurazione dello spazio e del tempo nelle società antiche e medievali e il tentativo di
Deleuze e Guattari, compiuto nell’Anti-Edipo, di comprendere la
logica del capitalismo moderno a muovere dalla dicotomia territorializzazione-deterritorializzazione.
Proprio il confronto con la scuola delle Annales può fungere
da punto di partenza per seguire più nel dettaglio il ragionamento
che a riguardo dello spazio e del tempo moderni Poulantzas svolge
nel primo capitolo (“La materialità istituzionale dello Stato”) di Il
potere nella società contemporanea. Il primo merito degli storici
delle Annales è, a giudizio di Poulantzas, quello di legare strettamente la configurazione dello spazio e del tempo alla specificità di
ciascuna epoca storica, sgomberando così il campo dall’idea che
esistano due concezioni di spazio e tempo, una che li trasforma in
originari e immutabili diagrammi in grado di attraversare qualsiasi
struttura economica e politica, e l’altra che invece tende a immergerli più profondamente nella storia, investendoli di determinazioni
particolari. Il secondo merito degli Annalistes è invece quello di
avere in qualche modo correlato spazio e tempo alle strutture materiali di riproduzione della società, sebbene le loro analisi si inscrivano complessivamente nell’ambito della cosiddetta storia della mentalità. Sennonché è proprio qui, nel punto di massimo avvicinamento al lavoro di questa scuola, che si cominciano a manifestare i
primi dissensi. Poulantzas ritiene infatti che le strutture di riproduzione materiale della società scelte dagli Annalistes per determinare
storicamente la configurazione dello spazio e del tempo, e cioè mercato, tecnologia e demografia, non siano quelle appropriate. Al loro
posto occorre insediare il riferimento ai rapporti di produzione e
120
alla divisione sociale del lavoro. È qui che va ritrovato il fondamento del carattere ogni volta determinato del tempo e dello spazio
sociali e politici4.
Per dare corpo a questo diverso orientamento scientifico,
Poulantzas ricorre subito, nella prima parte del capitolo, all’esempio dei rapporti di produzione capitalistici. Il processo lavorativo
corrispondente a questi rapporti dà luogo a un quadro materiale
primario che consiste
nell’organizzazione dello spazio-tempo continuo, omogeneo e
insieme parcellizzato, frammentato, che sta alla base del taylorismo. Uno spazio incasellato, segmentato e cellulare ove ogni
particella (individuo) ha il suo posto, ove ogni posizione corrisponde a una particella (individuo), ma che, contemporaneamente, deve presentarsi omogeneo e uniforme. Un tempo lineare, seriale, ripetitivo e cumulativo, nel quale i diversi momenti
sono integrati gli uni agli altri, e che si orienta verso un prodotto finito: spazio-tempo per eccellenza materializzato nella catena produttiva5.
Dunque l’individualizzazione, che è un tratto qualificante della
modernità, deve essere anzitutto ancorata non alla monadica figura
dell’agente “scambista” presupposta dal mercato o a quella ideologia giuridico-politica, a sua volta tipica della modernità, che si
appella, riposandovi sopra, all’individuo come soggetto di diritti.
L’individuo – dice qui Poulantzas con accento molto critico, ci
pare, verso il concetto althusseriano di “interpellation” – si produce
dentro processi materiali molto determinati. Ma parlare di processi
materiali entro cui l’individuo si produrrebbe significa per
Poulantzas parlare di spazio, tempo, e della loro combinazione, di
ciò che egli chiama matrice spazio-temporale.
Poulantzas tiene programmaticamente fuori dall’ambito del
suo discorso sulla matrice spazio-temporale interna ai rapporti
sociali di produzione ogni più diretto riferimento alla concezioni
filosofiche dello spazio e del tempo che si sono avvicendate nella
storia del pensiero occidentale. Il suo obiettivo è, infatti, quello di
puntare lo sguardo esclusivamente sulle pratiche materiali di costituzione dello spazio e del tempo. E tuttavia, nell’assumere lo spazio
e il tempo come componenti fondamentali di queste pratiche mate-
121
riali, a noi sembra che Poulantzas si sia affidato, senza metterlo adeguatamente a tema, a una concezione peculiarmente moderna, e
dunque storicamente determinata, di che cosa sia la “materia”. Da
Cartesio a Hegel, passando per il tentativo kantiano di costruire la
materia attraverso la forza repulsiva (un prolungamento del tempo)
e la forza attrattiva (un prolungamento dello spazio), è stato, infatti,
il pensiero moderno ad aver provato a dedurre la materia dalla congiunzione di spazio e tempo. Nel pensiero antico – si pensi a questo
proposito ad Aristotele – la materia è concepita, più che come risultato di una congiunzione di forme astratte quali lo spazio e il
tempo, come l’originaria possibilità di tutte le cose, come l’indeterminato grembo delle realtà del mondo.
Dunque, una esclusione così rigorosa del momento “ideale”
dal contesto dell’indagine sulla matrice spazio-temporale dei rapporti sociali di produzione non può essere mantenuta. Del resto –
anticipando un po’ il corso della nostra esposizione – questo diventa ancora più chiaro se si guarda a ciò che per Poulantzas fa da concreto vettore della temporalità entro il processo di formazione dello
Stato-nazione, e cioè la tradizione. Affinché la tradizione sia, è
necessario che un certo deposito di idee e concezioni filosofiche
(per esempio la credenza nel progresso della storia) sia stato adeguatamente valorizzato e messo all’opera.
Ma ritorniamo al centro del nostro discorso. Finora abbiamo
solo spiegato perché per Poulantzas una certa matrice spazio-temporale è sempre implicata nella struttura dei rapporti sociali di produzione. Manca ancora il passaggio al piano propriamente politico.
Tuttavia – ed è un punto su cui Poulantzas insiste molto in Il potere
nella società contemporanea – non si può parlare di passaggio vero e
proprio: i rapporti politici
non sono qualcosa che va ad aggiungersi puramente e semplicemente a dei rapporti di produzione precostituiti, né agiscono
su questi con una semplice azione di ritorno secondo una relazione di esteriorità essenziale, o in un ritmo cronologico di enti
a posteriori. Sono essi stessi presenti, nella forma specifica relativa a ogni modo di produzione, nella costituzione dei rapporti
di produzione. I rapporti politici (e ideologici) quindi non
intervengono semplicemente nella riproduzione dei rapporti di
produzione, secondo un’accezione attuale e corrente del termi-
122
ne riproduzione, dove la riproduzione occulta la costituzione
dei rapporti di produzione, permettendo di introdurre per vie
traverse i rapporti politico-ideologici e di mantenere al tempo
stesso i rapporti di produzione nella loro originale purezza
autogenerante6.
Anche quando, con il modo di produzione capitalistico, la
sfera politico-giuridica si separa dai rapporti di produzione – la
famosa tesi, espressa già in Potere politico e classi sociali, circa la
autonomia relativa dello Stato –, ciò accade perché sono gli stessi
rapporti di produzione a richiederlo. Nel capitalismo, infatti, la
separazione del lavoratore tanto dalle relazioni di proprietà quanto
dalle relazioni di possesso (il lavoratore non è cioè né proprietario
dei mezzi di produzione né signore del processo lavorativo che ne
consegue) rende il processo di appropriazione del pluslavoro un
fatto puramente economico, che non avviene, come nei modi di produzione precedenti, in grazia di prerogative giuridiche e politiche7.
Ma se così è, qual è allora nel capitalismo la funzione dei rapporti
politici e della istituzione che li incarna, lo Stato? Lo Stato, in una
delle più dense definizioni di Il potere nella società contemporanea,
è il fattore “che concentra, condensa, materializza e incarna i rapporti politico-ideologici”8 in una forma specifica ai rapporti di produzione e alla loro riproduzione. Lo Stato è, dunque, nel capitalismo concentrazione dei rapporti di potere già presenti nei rapporti
di produzione. Ma vi è anche un altro punto in questa definizione
su cui bisogna fermare l’attenzione: lo Stato fissa materialmente i
rapporti di potere omogenei ai rapporti di produzione, e cioè
costruisce infrastrutture, apparati e istituzioni che rappresentano
questi rapporti di potere. Alla materialità implicata nei rapporti di
produzione si sovrappone perciò un’altra materialità, quella che fa
capo alla figura dello Stato relativamente separato da essi.
La nazione, insieme alla legge, alla divisione fra lavoro intellettuale e manuale e ai processi di individualizzazione, costituisce per
Poulantzas uno dei mezzi materiali attraverso cui lo Stato capitalistico è giunto a fondarsi riflettendo allo stesso tempo la configurazione dei rapporti di produzione9. Da qui in avanti, tuttavia, le cose
si fanno più complicate e il discorso di Poulantzas meno perspicuo:
in che senso la nazione moderna condenserebbe e incarnerebbe i
123
rapporti di produzione capitalistici? L’idea di Poulantzas è che nella
nazione verrebbe trasposta a un livello più generale la stessa dialettica fra individualizzazione e socializzazione che investe la struttura
di questi rapporti di produzione. Si tratta di un punto cui, in parte,
abbiamo già fatto cenno: per Poulantzas l’individuo non è né un
prodotto della sfera della circolazione mercantile né un artefatto
giuridico, ma il risultato di un vasto e profondo processo di parcellizzazione del lavoro; parcellizzazione che è, allo stesso tempo, il
presupposto della socializzazione del lavoro tipicamente capitalistica, basata sullo sviluppo del macchinismo e di ciò che Marx chiama
“grande industria”. Dentro questa dialettica, nel processo lavorativo, fra individualizzazione e socializzazione mediata dal macchinismo, non vi è posto per le classi; lo stesso accade alla nazione, la
quale fa bensì dell’individuo giuridico separato la base del suo processo di omogeneizzazione, ma esclude da sé le classi, in quanto
caratteristico elemento di rottura dell’unità del popolo-nazione10.
Dicevamo che la nazione è una materializzazione dell’autonomia relativa dello Stato capitalistico. Due sono, nella prospettiva di
Poulantzas, gli indici di questa materialità: il territorio e la tradizione11. Ciò consente di recuperare alla nostra vista sia lo spazio sia il
tempo, giacché il territorio e la tradizione riproducono rispettivamente il primo e il secondo. Nella parte restante di questo saggio, ci
occuperemo però soltanto della specifica forma di spazialità determinata dallo Stato-nazione capitalistico, il territorio segnato da
frontiere politiche, mettendo da canto il problema della tradizione
come specifica forma della temporalità immanente allo Stato-nazione capitalistico. Non è una scelta dettata solo dalla volontà di non
ingrandire troppo le dimensioni della nostra analisi: lo schema di
lettura adottato da Poulantzas nei riguardi del significato del territorio moderno è lo stesso di quello applicato alla tradizione.
Il carattere differenziale della spazialità politica moderna è,
anzitutto, colto da Poulantzas per via negativa, analizzando il tipo
di spazialità propria degli Stati pre-capitalistici: lo spazio di quest’ultimi è
continuo, omogeneo, simmetrico, reversibile e aperto. Lo spazio
antico in occidente è uno spazio che ha un centro, la polis (che
ha a sua volta un nucleo centrale, l’agorà) ma non ha frontiere
124
nel senso moderno del termine. È uno spazio concentrico ma
aperto, nel senso che non ha propriamente un esterno. Questo
centro (la polis e il nucleo di questa) s’inscrive in uno spazio le
cui caratteristiche essenziali sono l’omogeneità e la simmetria e
non la differenziazione e la gerarchia12.
In questo spazio, in cui non ci si sposta, ma si circola, si va
sempre nello stesso luogo, perché “ogni punto dello spazio è la
ripetizione esatta della precedente: non si colonizza se non per fondare delle riproduzioni di Atene o di Roma”13. Le città non sono
chiuse alla campagna, né esistono segmenti esterni di spazio che si
possono assimilare spostando le frontiere. In breve, non esiste il territorio come spazio segnato da confini. L’unica eterogeneità che si
apre in questo spazio è assoluta, ed è rappresentata dalla terra occupata dai barbari.
Le cose non cambiano molto allorché si entra nella feudalità;
anche qui lo spazio è omogeneo, continuo, reversibile e aperto.
Anzi, in un certo senso, lo spazio medievale è ancor più, ci si passi
l’espressione, “permeabile” di quello antico: “Mai, in realtà, si è
tanto peregrinato come nel medioevo: individuale o collettiva, l’emigrazione contadina è uno dei grandi fenomeni della demografia e
della società medievale”14. Ma non sono solo i contadini a viaggiare:
lo spazio feudale è attraversato da un nomadismo socialmente
molto vario (cavalieri, chierici, pellegrini, studenti, crociati). Anche
qui tuttavia esiste un non-luogo assoluto, ed è quello popolato dai
miscredenti e dagli infedeli15.
Ma qual è il fondamento entro il mondo antico e feudale di
questa spazialità omogenea, continua, reversibile e aperta? Qui la
risposta di Poulantzas sembra riattivare un vecchio motivo dell’althusserismo, e cioè il ruolo dominante, anche se non determinante, della politica e della religione nella struttura dei rapporti di produzione precapitalistici. Politica e religione, infatti, impongono fin
da subito allo spazio una unificazione assoluta, organizzando i luoghi in modo che essi richiamino sempre o la centralità del dominio
politico (Atene e poi Roma) o il marchio della cristianità (tutti i luoghi rivolti verso Gerusalemme)16. È questa dominanza della politica
e della religione che è rotta dall’apparizione del capitalismo: qui è il
processo lavorativo innervato dal macchinismo a imporre allo spa-
125
zio la sua forma. Si tratta di una rottura radicale: a differenza di
quello precapitalistico, quello capitalistico è uno spazio seriale, frazionato, discontinuo, parcellare, cellulare e irreversibile. Il lavoratore diretto è così liberato dal suolo solo per essere rigidamente
inquadrato non soltanto nelle fabbriche, ma anche nella famiglia
monogamica, nelle scuole, negli eserciti, nelle prigioni, nelle città.
Ma il limite spaziale più importante che appare insieme al capitalismo è la già citata frontiera, la quale genera e presuppone allo stesso tempo una topologia seriale e discontinua17.
Tuttavia, anche lo spazio capitalistico conosce l’omogeneità;
solo che questa si costituisce in seconda istanza, dopo cioè che
brecce e fessure hanno già provveduto a determinare lo spazio18. Il
principale strumento di unificazione di uno spazio altrimenti consegnato alla serialità e alla discontinuità è nella modernità proprio il
territorio istituito dallo Stato-nazione, che toglie le differenze al
proprio interno solo per conservarne meglio una, quella con gli altri
Stati-nazione. In questo processo di fissazione delle frontiere e di
unificazione dell’interno, lo Stato nazionale agisce in modo anche
brutale, schiacciando le “nazionalità che stanno ‘all’interno’ delle
frontiere dello Stato-nazione” e cancellando “asperità materiali del
terreno incluso nel territorio nazionale” 19. I genocidi “sono,
anch’essi, una invenzione moderna legata alla spazializzazione proprio degli Stati-nazioni: forma di sterminio specifica della costituzione-pulizia del territorio nazionale che si omogeneizza recingendo”20. Se non vengono sterminati, i fuori-nazione possono essere
internati nei campi di concentramento, invenzione anch’essa
moderna che permette di incorporare le frontiere entro lo stesso
territorio nazionale21.
Sebbene articolato in modo non ancora pienamente organico,
il discorso di Poulantzas sul nesso fra una certa forma dello spazio e
la natura dello Stato capitalistico moderno contiene spunti di grande interesse, che andrebbero ulteriormente ripresi e sviluppati.
Giusta, peraltro, ci pare la sua ispirazione generale, e cioè quella di
utilizzare lo spazio come uno degli indici fondamentali per comprendere la specificità dello Stato capitalistico in quanto Stato rappresentativo, popolare-nazionale e dotato di una propria ossatura
materiale. Nel merito, ci sembra tuttavia che il suo discorso presenti
anche alcuni rilevanti problemi. Il primo è stato già sottolineato da
126
Markus Wissen nella sua disamina del rapporto in Poulantzas fra
spazio, tempo e Stato capitalistico contenuta nel recente libro
Poulantzas Lesen22: le riflessioni che Poulantzas fa sulla configurazioni dello spazio e del tempo nel capitalismo sembrano in buona
parte ricavate dalla esperienza del fordismo e del taylorismo novecenteschi, e non hanno quindi quel valore generale che pure rivendicano a sé. Il secondo rinvia al carattere, in fondo, fortemente unificato della matrice spazio-temporale della modernità proposta da
Poulantzas. Nella prospettiva di quest’ultimo infatti, come già anticipato, il tempo ha la stessa struttura dello spazio, articolandosi per
scomposizioni e successive ricomposizioni. Ma lo spazio, come
aveva già colto Marx nei Grundrisse, tende nel capitalismo per un
verso ad essere annullato dal tempo, dal tempo della riproduzione
allargata del capitale23; per altro verso è una barriera ogni volta
posta all’accumulazione di capitale, possiede una sua propria e difficilmente aggirabile vischiosità. Fra spazio e tempo c’è, insomma,
nel capitalismo molta più tensione e “divergenza” di quanto
Poulantzas sia riuscito, secondo noi, a esprimere. Indagare come
questa tensione e”divergenza” si rifletta e condensi sul piano delle
strutture dello Stato moderno è però un compito di cui qui possiamo soltanto nominare la necessità.
NOTE
In Critical Theories of the State. Marxist, Neo-Marxist, Post-Marxist, The
University of Wisconsin Press, Madison 1993, pp. 51-58.
2
B. JESSOP, Nicos Poulantzas: Marxist Theory and Political Strategy, St.
Martin’s Press, New York 1985, p. 134.
3
Potere politico e classi sociali, trad. it. di A. Chitarin, Editori Riuniti, Roma
1971, pp. 163-164.
4
Su tutto ciò cfr. Il potere nella società contemporanea, trad. it. di G.
Saponaro, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 129-130.
5
Ivi, p. 81.
6
Ivi, p. 32.
7
Ivi, pp. 19-20.
8
Ivi, p. 20.
9
È nel primo capitolo di Il potere nella società contemporanea che
Poulantzas indaga tutti e quattro questi assi di definizione “materiale” dello Stato.
1
127
Ivi, pp. 122-124.
Ivi, p. 129.
12
Ivi, pp. 133-134.
13
Ivi, p. 134.
14
Ivi, p. 136.
15
Ivi, pp. 136-137.
16
Ivi, p. 136.
17
Ivi, p. 138.
18
Ivi, p. 137.
19
Ivi, p. 142.
20
Ibidem.
21
Ivi, p. 139.
22
Citiamo dalla edizione inglese: Territory and historicity: space and time in
Nicos Poulantzas’s State, Power, Socialism, in A. G ALLAS , L. B RETTHAUER , J.
KANNANKULAM, I. STULZE (ed. by), Reading Poulantzas, Merlin Press, London 2012,
p. 195.
23
K. MARX, Ökonomische Manuskripte 1857/1858. Text-Teil 2, cit., p. 424;
trad. it. Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (“Grundrisse”),
cit., p. 510.
10
11
128
La teoria sistemica di Giovanni Arrighi e la storia
Va registrata con favore la crescita di interesse verso il pensiero di Giovanni Arrighi che si sta verificando negli ultimi tempi.
Essa è probabilmente la spia della necessità, sempre più diffusamente avvertita, di fare i conti, al più alto livello di consapevolezza
intellettuale disponibile, con le ragioni di quanto è effettivamente
successo negli ultimi “quarant’anni di turbolenza globale” (Robert
Brenner). Terrorismo, guerre, crisi finanziarie e l’odierno Global
Slump (David McNally) del sistema capitalistico rendono ormai ineludibile il confronto con paradigmi intellettuali “forti”, capaci non
soltanto di riflettere passivamente la sequenza degli eventi, ma di
orientare lo sguardo concettuale, di fornire rispetto ad essi una
qualche bussola interpretativa.
Arrighi offre certamente un paradigma intellettuale di questo
tipo. Il fatto che fino ad ora ciò non sia stato adeguatamente riconosciuto dipende però anche dalla natura fortemente trans-disciplinare del suo approccio, la quale spinge ogni “specialista” in un
certo ambito intellettuale a rivendicare dinanzi a lui i diritti conculcati della sua disciplina. Gli economisti, in particolare, nutrono
insofferenza nei suoi confronti: gli rimproverano di non saper usare
i modelli matematici della economics contemporanea o, più ragionevolmente, di aver trascurato i processi di innovazione tecnologicoorganizzativa.
Sennonché, Arrighi non si è curato della economics contemporanea non per pigrizia o disinteresse intellettuale; egli se ne è
programmaticamente ritratto fin dal suo primo libro, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, in cui afferma a chiare lettere che
l’uso dell’economia neoclassica gli avrebbe impedito di cogliere la
storicità concreta dei processi economici che si stavano svolgendo
in quel momento nell’Africa sub-sahariana1. Nell’intervista concessa ad Harvey poco prima di morire, questo punto affiora di nuovo:
l’economia neoclassica è del tutto incompatibile con il suo pro-
129
gramma scientifico, impostato su una sorta di sociologia storicocomparativa2.
Dunque, il rapporto con la storia è fondamentale, ed è qualcosa che va recuperato fuori e contro le schematizzazioni della economics. A riprova di ciò vi è anche la circostanza che uno degli incontri più decisivi nella biografia intellettuale di Arrighi è stato con uno
storico, Braudel, nelle cui opere (in particolare in Civiltà materiale,
economia e capitalismo) egli ha trovato già pronta l’idea dei “modelli di ricorrenza ed evoluzione” del sistema capitalistico mondiale.
Non importa qui giudicare se i quadri storici schizzati da
Arrighi, specie in Lungo XX secolo, riescano o no interamente convincenti, conformi alle risultanze analitiche delle ultime ricerche storiografiche. Altri si sono già pronunciati a riguardo, cercando di mettere in rilievo dove lo Arrighi “storico” “fallisce” o merita di essere
integrato o rettificato. Del resto era inevitabile che ciò accadesse: la
“storia” che racconta Arrighi è, quasi per definizione, fortemente
“selettiva”, e molte cose, che pure vi andrebbero inserite, sono lasciate da canto3. Ma, appunto, non è dell’efficacia della sua impostazione
“storiografica” che in questa sede ci si vuole occupare : ciò che si
vuole piuttosto fare è provare a tematizzare il rapporto che Arrighi
stabilisce, a livello teorico generale, fra sistema e storia. La nostra tesi
è che, precisamente a causa del suo tipo di approccio sistemico, il
rapporto di Arrighi con la storia rimanga particolarmente problematico, affetto da aporie difficilmente risolvibili.
Ora, che cosa è, anzitutto, il “sistema” in Arrighi? È lo stesso
che in Wallerstein, e cioè il prodotto della combinazione, specificamente moderna, fra l’unità del mercato mondiale e una moltitudine
di Stati sovrani i quali danno vita a un sistema di relazioni
interstatali4. Poiché l’economia che governa il sistema è un’economia
capitalistica, il primo ospita una continua accumulazione di capitale.
Ma per rendere ciò pienamente possibile, il sistema deve approntare
adeguate condizioni istituzionali e politiche. Deve fare in modo, per
esempio, che gli Stati collaborino reciprocamente per promuovere e
stimolare la crescita economica, dando vita a istituzioni sovranazionali di coordinamento delle politiche monetarie, commerciali ecc.
Tuttavia, questo obiettivo, in una condizione in cui vi è una molteplicità di Stati, ciascuno dei quali tende a perseguire i propri interessi, non è facile da realizzare. Per riuscirvi, il sistema “delega” a uno
130
di questi Stati il compito di “mettere ordine” nelle relazioni internazionali e di offrire il migliore ambiente istituzionale per far decollare
il processo di accumulazione. Lo Stato leader nelle relazioni interstatali e nella configurazione del processo di accumulazione è lo Stato
che Arrighi e Wallerstein chiamano “egemonico”5.
Ora – e qui Arrighi comincia a discostarsi da Wallerstein – esiste una specifica logica che governa la nascita e il succedersi delle
egemonie; logica che è espressa dal cosiddetto “ciclo sistemico di
accumulazione”. Il ciclo sistemico di accumulazione – la cui formula, D-M-D’, è la stessa che sta alla base, per Marx, di ogni singolo
investimento capitalistico – implica che, mentre nella sua fase di
crescita l’unità egemonica ospiti al proprio interno investimenti
redditizi soprattutto nel settore produttivo e commerciale (il primo
segmento del ciclo, D-M), nella sua fase declinante essa ospiti investimenti redditizi soprattutto nel settore finanziario (il secondo segmento del ciclo M-D’). La parabola di uno Stato egemonico coincide, dunque, secondo questo schema, con quella del processo di
finanziarizzazione6.
Ma come si passa da un’unità egemonica all’altra? La chiave di
spiegazione di ciò sta proprio nel processo di finanziarizzazione:
dire, infatti, che nello Stato egemonico in declino i capitali si trasferiscono dal settore materiale a quello finanziario, equivale ad affermare che i capitali in eccedenza del paese egemonico in declino
vengono prestati, grazie a ciò che ancora Marx chiamava “sistema
del credito internazionale”, al paese in ascesa, il quale li utilizza per
far espandere il proprio settore produttivo e commerciale7.
In Lungo XX secolo Arrighi ritrova all’opera questo meccanismo in tutte le transizioni egemoniche della storia moderna, tranne
che nell’ultima, in quella che a suo giudizio starebbero ora attraversando gli Stati Uniti. O meglio, ad esser più precisi: l’interruzione
di questo schema sarebbe già avvenuta nella penultima transizione
egemonica, quella dalla Gran Bretagna agli Stati uniti, anche se solo
in parte. In questo caso, infatti, dice Arrighi, a una prima fase in cui
la potenza egemonica in declino, la Gran Bretagna, ha prestato
capitali alla potenza in ascesa, gli Stati uniti, confermando quindi lo
schema, sarebbe succeduta un’altra fase, quella apertasi con la fine
della Prima guerra mondiale, in cui sarebbe stato il paese egemonico in declino, di nuovo la Gran Bretagna, che avrebbe drenato a sé
131
capitali dalla giovane potenza statunitense8. Sennonché, la rottura
di questo schema nella penultima transizione egemonica è stato,
come abbiamo appena detto, solo parziale. La rottura completa starebbe avvenendo oggi: la Cina, la potenza in ascesa, anziché esser
“inondata” dal capitale della potenza in declino, sta inondando essa
stessa di capitali la piazza finanziaria di quest’ultima9.
Ma questa non è l’unica anomalia che caratterizza l’ultima fase
di sviluppo finanziario del sistema rispetto a quelle precedenti.
Un’altra anomalia riguarda, per esempio, il ruolo dei conflitti sociali. Poiché la finanziarizzazione implica una redistribuzione verso
l’alto della ricchezza, e cioè un drenaggio di ricchezza dalle comunità e dalle classi popolari verso le agenzie che controllano il capitale mobile, essa si associa di solito all’esplosione di aspri conflitti
sociali. Ora, dice Arrighi, la collocazione di tali conflitti è all’interno di ogni ciclo egemonico del tutto contingente: nel caso della
transizione dalla egemonia britannica a quella statunitense, essi
sono esplosi dopo la comparsa del processo di finanziarizzazione,
mentre nel caso del ciclo egemonico statunitense essi sono esplosi
prima – negli anni ’60 e ’70 del ’900 – che il processo di finanziarizzazione apparisse sulla scena10.
In questo quadro teorico, quindi, le regolarità del sistema si
connettono ogni volta a un insieme imponderabile di anomalie e
contingenze. Questo, dice Arrighi nella polemica con Robert Pollin,
contribuisce a rendere lo schema evolutivo del sistema relativamente
indeterminato11. Il che vuol dire che il rapporto fra la necessità del
sistema, espressa dalle sue regolarità, e la contingenza è contingente
anch’esso. Ma se non si riesce, in una qualche forma, a spiegare che
rapporto vi è fra necessità e contingenza all’interno della vita del
sistema il rischio che si corre, a nostro giudizio, è di non riuscire a
inscrivere il sistema stesso nella storia. Il sistema può stare nella storia, infatti, quale che sia la chiave di lettura con cui pensiamo e interpretiamo quest’ultima, solo se la sua necessità si dispone in un rapporto coerente e intelligibile con la cerchia delle contingenze.
La dialettica fra ricorrenza e anomalie investe anche il modello
di evoluzione del sistema capitalistico mondiale che Arrighi ritiene
di aver individuato. Un’unica legge ha, infatti, a suo parere governato l’evoluzione del sistema-mondo: l’unità egemonica che ogni
volta emerge per risolvere il caos sistemico succeduto al crollo della
132
precedente potenza egemonica è, rispetto a quest’ultima, dotata di
maggiori capacità organizzative, di più ampie dimensioni territoriali
e di maggiore raggio d’azione e complessità. Per illustrare la cosa
possiamo confrontare le città-Stato italiane rinascimentali, le prime
guide egemoniche del sistema-mondo, con la potenza americana,
che invece ne costituisce l’ultima: mentre le città-Stato italiane
erano piccole, deboli a livello militare, sprovviste di risorse naturali
e prive di autonomi insediamenti produttivi, la potenza americana
si presenta come “un complesso militare-industriale di dimensioni
continentali, dotato di un potere sufficiente a garantire a un gran
numero di governi subordinati e alleati un’efficace protezione, e a
effettuare minacce credibili di strangolamento economico o annientamento militare”12. Dietro le periodiche riorganizzazioni sistemiche agisce perciò una profonda necessità: alla crescita della complessità del sistema-mondo corrispondono unità egemoniche progressivamente più grandi e strutturate.
Ma questo non vuol dire che secondo Arrighi il futuro sia ogni
volta “già scritto”. Il ruolo della contingenza, delle anomalie, non è
mai secondario. Per chiarirlo, Arrighi, nell’intervista concessa ad
Harvey, ricorre a questo ragionamento:
Alla fine del XIX secolo gli Stati uniti presentavano già delle
caratteristiche che li rendevano possibili successori della Gran
Bretagna. Ma ci vollero più di mezzo secolo, due guerre mondiali e una depressione catastrofica prima che essi sviluppassero le strutture e le idee che, dopo la Seconda guerra mondiale,
li misero in grado di assumere veramente l’egemonia. Fu soltanto una contingenza a rendere possibile l’egemonia degli
Stati uniti che potenzialmente esisteva già nel XIX secolo o c’è
qualcosa d’altro? Non lo so. Chiaramente vi era un aspetto geografico contingente – il Nord America aveva una diversa configurazione spaziale rispetto all’Europa, che permise la formazione di uno Stato che non avrebbe potuto sorgere nella stessa
Europa, se si esclude la parte orientale, dove a sua volta la
Russia si stava espandendo territorialmente. Ma c’era anche un
elemento sistemico: la Gran Bretagna creò un sistema di credito internazionale che a un certo punto favorì in modo particolare la formazione degli Stati uniti13.
133
Dunque, la contingenza e le anomalie hanno, pur essendo
imponderabili, una certa influenza sul corso della storia. Ma Arrighi
non è molto chiaro, né qui né altrove, nello spiegare in che senso
ciò accada. L’oscurità di questo punto appare bene dall’esempio da
lui fatto nel brano appena citato. Qui il contingente è individuato
nella struttura geografica degli Stati uniti, nella loro dimensione
continentale e nella loro insularità. Ma guardando retrospettivamente e con gli stessi strumenti analitici di Arrighi a tutta la storia
del sistema, questo elemento appare ben lungi dal poter essere definito “contingente”. Il sistema, infatti, al momento del declino della
egemonia britannica sembra aver “selezionato” precisamente quell’unità statuale che anche per la sua struttura geografica risultava
perfettamente capace di rispondere alle sfide allora esistenti.
Altrove peraltro, in Lungo XX secolo, Arrighi stesso si fa portavoce
di questa opinione: nella crisi scatenata dal declino dell’egemonia
britannica, egli dice, gli Stati uniti
si trovavano in una posizione di gran lunga migliore rispetto
alla Germania. Le dimensioni continentali, la posizione insulare
e la dotazione estremamente favorevole di risorse naturali, così
come la politica, coerentemente seguita dal governo, di chiusura del mercato interno ai prodotti stranieri, ma di apertura al
capitale, al lavoro e all’iniziativa provenienti dall’estero ne avevano fatto i principali beneficiari dell’imperialismo del libero
scambio britannico. […] La Germania non poteva competere
su questo terreno. Storia e posizione geografica ne facevano
una tributaria piuttosto che una beneficiaria di questi flussi di
lavoro, di capitale e di imprenditorialità14.
Arrighi sembra quindi sostenere due posizioni contraddittorie
l’una all’altra. In un caso, la geografia è considerata elemento non
inquadrabile fra i vincoli di sviluppo del sistema; nell’altro, invece,
il modello di evoluzione del sistema richiede necessariamente unità
egemoniche sempre più ampie e diversificate geograficamente. Da
questa contraddizione si può provare a uscire se ci si accorge che
Arrighi cerca di conferire al concetto di “contingenza” uno statuto
schiettamente “temporale”: una contingenza è tale fino a quando il
processo che conduce a una certa configurazione del sistema è
ancora in corso. Dopo, essa acquisisce il volto della necessità.
134
Nell’intervista concessa ad Harvey, quindi, Arrighi definisce “contingente” la geografia degli Stati uniti perché si sta riferendo al fatto
che al momento del declino dell’impero britannico gli Stati uniti
avrebbero anche potuto non esserci, mentre invece le conseguenze
derivanti dalla presenza del sistema finanziario a base inglese erano
necessarie perché interne all’operare del “ciclo sistemico di accumulazione”. Ma gli Stati uniti ci sono stati e il teorico e lo storico
non possono fare a meno di interpretare la loro funzione come
strettamente dipendente da quel modello di evoluzione del sistemamondo di cui abbiamo poc’anzi parlato.
Si potrebbe, a mo’ di riepilogo, formulare la cosa in questi termini, peraltro affatto tradizionali: ciò che per il sistema nel corso
del suo sviluppo appare contingente risulta invece necessario agli
occhi dello storico, ex post facto. Del resto, che questo sia l’orientamento teorico di Arrighi è confermato anche dalla sua analisi della
transizione attuale: in questo contesto, egli ribadisce continuamente
che la futura fisionomia del sistema dipenderà in modo decisivo
dalle contingenze che giungeranno a punteggiare il processo di
disfacimento dell’egemonia statunitense.
Nel complesso, dunque, i problemi che investono il rapporto
in Arrighi fra sistema e storia sono, a nostro avviso, due: il primo si
collega all’opacità del rapporto fra necessità e contingenza all’interno del meccanismo sistemico, mentre il secondo ha a che vedere
con la sostanziale equivocità del concetto di “contingenza” con cui
Arrighi lavora.
Tutto ciò ci riporta al punto di partenza del discorso: Arrighi
vuole costruire una sociologia storico-comparativa e indagare il
capitalismo come un oggetto intrinsecamente storico. Ma il paradigma sistemico da lui utilizzato, che egli, da un certo punto in poi
della sua traiettoria intellettuale, ha reputato il miglior strumento
per ricostruire la storicità del capitalismo, è davvero funzionale a
questo scopo? Noi siamo inclini a pensare che non lo sia, e per una
ragione di fondo: Arrighi si è avvalso – con ciò situandosi ancora al
di qua della “svolta” autopoietica intervenuta, soprattutto grazie a
Maturana e Valera15, nella teoria sistemica stessa – di un sistema, le
regolarità e le ricorrenze del quale possono essere individuate solo
in virtù della scissione di esso dal mondo-ambiente, dal vasto e
inconcluso mondo delle “irregolarità”. Ma tale scissione, se è neces-
135
saria per dare al sistema la sua piena configurazione, sembra non
del tutto adeguata per afferrare l’intrinseca costituzione degli oggetti storici, giacché rende difficilmente eseguibile la ricostruzione dell’unità stessa dell’accadere storico.
NOTE
1
Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, trad. it. di V. Ghinelli,
Einaudi, Torino 1969, pp. 19-20.
2
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista con David Harvey, in Id.,
Capitalismo e (dis)ordine mondiale, ed. it. a cura di G. Cesarale e M. Pianta, manifestolibri, Roma 2010, p. 30.
3
Cfr. soprattutto F. BENIGNO, Braudel in America ovvero le radici lunghe del
presente, in “Contemporanea”, 3 (2003), pp. 554-558 e G. MAIONE, Fragilità dei
modelli e profezie smentite, in “Contemporanea”, 3 (2003), pp. 562-567. Cfr. però
anche la risposta di Arrighi a questa critica (Il lungo XX secolo. Una replica, in
“Contemporanea”, 4 (2003), pp. 731-735), in cui si afferma il carattere sociologico-storico e non storico della sua ricerca.
4
Cfr. I. WALLERSTEIN, L’ascesa e la futura scomparsa del sistema capitalista
mondiale: concetti per una analisi comparata, in Id., Alla scoperta del sistema
mondo, trad. it. di S. Bonura et al., manifestolibri, Roma 2003, pp. 96-97.
5
I. WALLERSTEIN, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemimondo, trad. it. di M. Errico, Asterios, Trieste 1999, p. 141.
6
Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, trad. it. di
M. Di Meglio, Net, Milano 2003, p. 23.
7
Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, trad. it. di P.
Anelli, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 101-102.
8
Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, cit., pp.
353-354.
9
Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, cit., pp. 229237. In verità, in Il lungo XX secolo (p. 34) Arrighi, si riferisce, come potenza in
ascesa prestatrice di capitali, piuttosto al Giappone che alla Cina.
10
Ivi, p. 144.
11
Financial Expansions in World Historical Perspective: A Reply to Robert
Pollin, in “New Left Review”, 224 (1997), p. 159.
12
G. A RRIGHI , B. S ILVER , Capitalismo e (dis)ordine mondiale, in Id.,
Capitalismo e (dis)ordine mondiale, cit., p. 154.
13
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista con David Harvey, cit., p. 40.
14
Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, cit., p. 90.
15
Cfr. H.R. MATURANA, F.J. VARELA, Autopoiesis and Cognition, Kluwer,
Dordrecht 1980.
136
Crisi e immaginazione democratica.
Una discussione con Marcel Gauchet
L’arco del dibattito intorno alla attuale crisi economica mondiale, le sue scaturigini e le sue conseguenze, è notoriamente molto
ampio e articolato. Diverse vedute si avvicendano, interpretazioni
sovente opposte si accavallano: c’è chi addebita l’insorgere della
crisi alla deregulation e chi alle passioni acquisitive sfrenate degli
operatori finanziari, il greed; chi si sofferma sulla poca avvedutezza
delle politiche monetarie della Fed sotto la gestione a “manica
larga” di Greenspan e chi prova a puntare lo sguardo sulle grandi
dinamiche economiche che hanno scosso il mondo capitalistico a
partire dalla fine della convertibilità fra dollaro e oro sancita da
Nixon il 15 agosto del 1971. Non è ancora chiaro se da questa ricchezza promanerà anche un certo grado di produttività scientifica.
Ma intanto alcuni dei problemi fondamentali che attanagliano l’economia mondiale cominciano ad essere osservati dalla giusta angolatura e con più severo sguardo.
Sennonché, ciò di cui forse occorrerebbe cominciare a prendere cognizione è la relativa ristrettezza dello spettro contenutistico di
questo dibattito. La, peraltro giusta, centralità del tema economico
sembra assorbire tutto, non lasciare spazio a una più sostenuta
interrogazione di altri temi e problemi. A proposito dell’impatto
della crisi sulla società, sulla politica, sugli stili di vita ecc., le osservazioni e le analisi sono sparse, estemporanee, non suscettibili di
essere raccolte in una sistemazione più organica. Il sospetto che
anche in queste sfere dell’esistenza sociale “nulla sarà come prima”
determina, certo, una diffusa apprensione per quanto potrà in esse
accadere, ma senza che ciò faccia da stimolo a una più diretta e
cosciente assunzione della necessità che con tutto questo, prima o
poi, i conti vengano seriamente fatti.
Il quadro risulta deludente soprattutto se si esamina il livello di
consapevolezza oggi disponibile intorno al nesso fra crisi e politica
democratica. Ad affermazioni pensose e preoccupate (“dalle crisi si
137
esce spesso politicamente a destra, con una sterzata reazionaria”) si
sono succedute, almeno in una prima fase, soddisfatte diagnosi circa
la diversa “sensibilità” che il personale politico democratico avrebbe
oggi mostrato per i rivolgimenti interni alla sfera economica (“a differenza che nel 1929 vi è stata prontezza di intervento”). Entrambe
queste posizioni, così come tutte le altre che fanno loro da corteo,
sono tuttavia insostenibili. La prima è manchevole di una solida
armatura oggettiva: sondaggi storici più ampi e profondi e una
osservazione più attenta del mondo presente sono sufficienti a smentirla. La seconda ha, senz’altro, alluso a qualcosa di più essenziale (la
compenetrazione fra Stato e riproduzione allargata del capitale
come dato irreversibile della nostra epoca), ma ha mancato anch’essa il bersaglio: a dimostrare prontezza e tempestività non sono stati
certo i parlamenti o i fori della politica democratica, ma banche centrali e poteri esecutivi. E questo è accaduto non per indolenza o
inettitudine degli attori della politica democratica (come vorrebbe
una certa tendenza “sistemica”), ma perché funzioni di comando e
mezzi di intervento, e cioè poteri, sono tutti dislocati dal lato di queste istituzioni. È solo attraverso queste agenzie istituzionali, “tecniche”, “neutre”, sganciate da ogni meno che formale accountability
democratica, che lo Stato sembra oggi governare il processo di
riproduzione del capitale e le sue interne fratturazioni. La cosa
peraltro, dal punto di vista analitico, si complica perché queste agenzie sono costitutivamente inscritte in una rete e in circuiti transnazionali di controllo (si pensi alla funzione svolta da Basilea 2 o a che
cosa può significare oggi il “Financial Stability Board” per i tentativi
di re-regulation del mercato finanziario mondiale). Si viene a creare
una sorta di governo multilevel del capitalismo mondiale che cerca
di fungere da camera di compensazione degli interessi e delle esigenze, spesso antagonistici, dei diversi blocchi di potere, delle diverse
frazioni del capitale, delle diverse aree monetarie ecc.
Non che anche nella golden age, e cioè fra gli anni ’30 e ’70,
questo non si fosse in una certa misura già realizzato. Ma a quella
altezza storica la gestione amministrativa, burocratica e tecnocratica
della dinamica capitalistica appariva ancora mediarsi con gli impulsi provenienti dalle altre sfere di articolazione dello Stato, in specie
da quelle a più alta valenza democratica (parlamenti e partiti, ma
anche certi settori medio e medio-bassi della amministrazione). Si è
138
passati, dunque, da una fase in cui lo Stato gestiva il quadro del
processo di riproduzione allargata del capitale anche attraverso la
mediazione democratica a una fase in cui invece tale mediazione è
stata spinta ai margini e progressivamente depotenziata. Stringere
in poche note le ragioni di tale mutamento sarebbe naturalmente,
in questa sede, incongruo. Basti dire che si tratta di un fenomeno
che accompagna e si intreccia profondamente con ciò che, con un
termine forse un po’ equivoco, piace chiamare “finanziarizzazione”.
Queste osservazioni preliminari ci permettono di circoscrivere
l’orizzonte entro il quale vogliamo provare a discutere le sollecitanti
riflessioni sul nesso fra crisi e democrazia contenute in un breve ma
concentrato saggio di Marcel Gauchet, Rifondazione democratica1,
che, sebbene sia stato scritto in relazione alle prime fasi di svolgimento della crisi, non ha perso di “attualità”. Gauchet è noto, in generale,
per i suoi studi sul processo di modernizzazione e secolarizzazione2,
ma è anche uno dei più acuti indagatori della democrazia e delle sue
condizioni di emergenza. A questo riguardo, è soprattutto da vedere
la sua ultima opera, L’avènement de la démocratie, una storia ragionata della democrazia moderna di cui finora sono stati pubblicati tre
volumi (La révolution moderne, La crise du libéralisme e A l’épreuve
des totalitarismes 1914-1974). Il quarto e ultimo volume, consacrato
all’analisi della democrazia dagli anni ’70 ai giorni nostri, conterrà
probabilmente anche un rinvio alla attuale congiuntura di crisi. Chi
voglia approfondire può anche leggere la relazione, intitolata Les
effets paradoxaux de la crise (consultabile sul blog dell’autore all’indirizzo: http://gauchet.blogspot.com/), che Gauchet ha tenuto nell’ottobre del 2009 a un convegno di Sciences Po di Parigi (“Penser le
dimensions politiques des effets de la crise”).
L’incipit del discorso di Gauchet non è molto promettente,
perché colloca in un certo senso la crisi nel medesimo sfondo da cui
è stata generata: “La crisi finanziaria esplosa nell’autunno del 2008,
e trasformatasi poi in crisi economica generale, ha evidentemente
delle cause endogene che richiedono risposte tecniche”. Tutto il
processo di gestione della riproduzione allargata del capitale è oggi
tecnicamente organizzato, e dunque anche le risposte che esso offre
alle sue contraddizioni. Per questa ragione, se vuole decollare, il
progetto della rifondazione democratica dovrebbe fin da subito
demistificare l’apparenza, socialmente prodotta, della incontroverti-
139
bilità della tecnica che impregna l’ordinario management della crisi.
Ma il tono dimesso dell’avvio è subito riscattato dalla osservazione
seguente:
Nello stesso tempo, però, è il sintomo di cambiamenti più
profondi: così come la crisi del 1929 era stata il catalizzatore
della prima crisi del liberalismo, quella del 2008 resterà senza
dubbio quella della definitiva emersione delle contraddizioni
interne all’esperienza neoliberale iniziata con la fine degli anni
Settanta. In questo senso è strettamente legata alla seconda crisi
di crescita della democrazia.
Dunque l’odierna crisi rappresenta una cesura storica, qualcosa che può servire a indicare un decisivo passaggio di fase. Come
nel 1929 crollò l’aspirazione del liberalismo a trattenere entro di sé
la democrazia, così nel 2008 è venuta meno la pretesa del neoliberismo di schiacciare l’autogoverno democratico. La democrazia è
risorta dopo il 1929; risorgerà, rinvigorita, dopo l’attuale crisi.
Il neoliberismo è caduto sotto il peso delle sue contraddizioni
interne: ha postulato la fine del politico, ma al politico è dovuto
ricorrere in ultima istanza:
Ufficialmente era solo una questione di mercati autoregolati
destinati a sostituire vantaggiosamente quadri politici obsoleti e
controproducenti. Nella pratica banchieri e operatori di mercato sono stati ben contenti di poter contare sull’intervento massiccio degli Stati: senza di loro tra quali ammassi di rovine ci
troveremmo oggi?
Fin qui nulla di nuovo: i mercati sono sempre gramscianamente
determinati, plasmati in tale o tal altro modo dal potere pubblico. Se
la permanente operatività del politico nel mercato è stata a lungo
occultata, la crisi sopravviene a trarre dall’oblio questa verità.
Agendo come formidabile strumento di disoccultamento, la crisi fa
dunque emergere il nocciolo duro intorno a cui si organizzano le
nostre società, e vince, anche solo per un attimo, la resistenza delle
“ideologie”.
Se così è, e di superamento del politico e dello Stato non si
dovrà più parlare, allora bisognerà ritrovare le energie per ricolloca-
140
re il politico “al suo giusto posto” e, persino, per “riarmarlo intellettualmente”. Si richiede un investimento teorico e pratico proporzionalmente diretto a quello che è stato effettuato dal neoliberismo
per giustificare il deperimento del politico attraverso l’egemonia del
mercato. Per avviare l’impresa serve, intanto, diffondere la percezione che la politica è innestata nel mercato non solo per via della
sua funzione regolatoria: l’intervento dello Stato
va molto al di là della regolazione di cui tanto ci si riempie la
bocca senza chiedersi cosa significhi davvero. Si misura qui la
dimensione della sfida: se gli Stati, proprio grazie all’esperienza
acquisita negli anni ’30, hanno saputo reagire prevedendo la
catastrofe, i rispettivi dirigenti, così come le società nel loro
insieme, vivono nella più assoluta inconsapevolezza riguardo a
quale potrà essere il terreno del loro intervento.
Qui l’intreccio problematico si fa più intrigante: lo Stato non si
limita a fissare la cornice esteriore di azione degli operatori economici, perché ha un interscambio continuo con essi. Questa è l’eredità
degli anni ’30 (“l’ombre gigantesque des années 1930”, è detto, con
accenti quasi trontiani, nella relazione tenuta a Sciences Po), consapevolmente ripresa dagli odierni decision-makers: solo uno Stato
organicamente impastato con il processo di riproduzione del capitale
può prevenire la “catastrofe”.
Ma allora perché dire che i “dirigenti” sono immersi in ignoranza e inconsapevolezza? A noi le cose sembrano più complesse: i dirigenti sanno benissimo come intervenire per salvaguardare il regime
di funzionamento del sistema. Tuttavia sanno anche che queste operazioni, nonché puntellare il sistema, a lungo termine lo destabilizzano. Massicce immissioni di liquidità nel circuito interbancario o salvataggi selettivi delle imprese producono conseguenze inintenzionali
di cui i dirigenti temono molto gli effetti. Lo si era già notato (con
Offe, Poulantzas ecc.) durante le turbolenze degli anni ’70 e converrà
di nuovo metterlo in evidenza oggi: la pianificazione statale della crisi
ne attutisce il carattere selvaggio, ma al prezzo di introdurre nella vita
economica e sociale nuove e più allarmanti contraddizioni.
Sennonché, perso per strada questo denso nodo di contraddizioni, Gauchet è costretto ad adagiarsi su una versione facilior di
141
lettura della crisi. La responsabilità di essa sta in ultima istanza
nella povertà e vischiosità del mindset dei “dirigenti”:
il fatto è che, se la completa mancanza di immaginazione
riguardo il futuro ci protegge da questi sbandamenti [quelli
dell’estrema destra e dell’estrema sinistra], il vuoto intellettuale
davanti al quale ci troviamo non ci pone all’altezza degli eventi
– si prospettano uguali disastri, benché di tutt’altro genere; la
stupidità non è un rimedio migliore della follia. A breve sarà
quindi indispensabile pensare di nuovo il nostro mondo impegnandoci in uno sforzo al quale ci siamo un po’ troppo in fretta
convinti di poterci sottrarre.
Lo spirito qui ricorda quello di Keynes, con la sua insofferenza
per la chiusa forma mentis di Tesoro e Banca d’Inghilterra, ma l’argomento è di più netta tempra filosofico-politica: ciò che va combattuto del vecchio e ancora persistente modo di pensare è l’assorbimento della democrazia entro il liberalismo. Le libertà liberali
hanno chiuso le libertà democratiche in un angolo, comprimendo il
diritto all’autodeterminazione delle comunità politiche. Qui si sente
vibrare la corda più propria di Gauchet, la rivendicazione della
democrazia come potere determinativo delle comunità, come loro
più originaria modalità di autoistituzione, in aperta e tenace lotta
contro ogni forma di eteronomia, sia essa di tipo religioso, politico
o economico.
Il disastro cagionato dal soverchiare delle libertà liberali su
quelle democratiche comporta la necessità di approntare un nuovo
“bilanciamento fra libertà private e libertà pubbliche”. Le maggioranze possono essere tiranniche, ma altrettanto tirannico è il “liberalismo unilaterale”, quello che nega l’autogoverno democratico.
Bisogna ripristinare un “equilibrio” fra liberalismo e democrazia,
immaginarne una nuova articolazione.
In questo punto si avverte un certo squilibrio nell’argomentazione di Gauchet: per un verso, i problemi sono, parafrasando
Gramsci, “grandi e terribili”, tanto che si può affermare che si è
giunti a nuovo passaggio evolutivo; per altro verso, la ricetta per
“rimettere le cose a posto” è il vecchio e rassicurante compromesso
fra libertà negative e positive. Ma se la crisi pone problemi nuovi,
142
anche nuovi livelli di consapevolezza e pratica politica dovrebbero
essere sperimentati. Lo squilibrio, peraltro, diventa ancora più visibile allorché Gauchet sembra, subito appresso, assegnare al politico
poteri inusitati nel presente quadro liberaldemocratico:
Nello specifico, quello che ci è richiesto è molto più di uno
sforzo di inquadramento politico e di orientamento dell’attività
economica: non si tratta più solo dei difetti del meccanismo e
delle loro disastrose conseguenze, a questo punto si tratta della
sopravvivenza della specie di un pianeta abitabile. Piuttosto
che continuare a farci guidare ciecamente, dopo due secoli di
rivoluzione industriale è arrivato il momento di sapere cosa
vogliamo fare dell’economia.
Qui Gauchet, spinto dalla radicalità delle minacce che vede
profilarsi all’orizzonte, sembra quasi congiungersi con Marx: al
posto del feticismo, del potere delle cose sugli uomini, bisogna collocare l’autonomia, la libertà dei soggetti dal dominio della cieca e
morta oggettività. Obiettivo ambizioso, di cui, tuttavia, è difficile
non vedere la tensione con l’altra esigenza espressa, e cioè quella di
agire sul più modesto piano di un nuovo bilanciamento fra liberalismo e democrazia.
Il fatto è che anche invocando una “rivoluzione intellettuale”,
un mutamento negli abituali quadri mentali, non molto si fa per
ridurre lo iato esistente fra la constatazione che il meccanismo economico e sociale si è inceppato e la sua trasformazione. Il passaggio
dalla crisi alla crescita democratica sarebbe consumato troppo rapidamente e senza esser sostenuto da un adeguato complesso di forze
e strumenti. Gauchet questo punto lo intuisce perché sa che alla via
delle trasformazioni sociali si accede in buona parte attraverso ciò
che ancora Gramsci avrebbe chiamato “politica di massa”. Le cui
condizioni di possibilità sono di nuovo rinvenute nella crisi, nelle
molteplici contraddizioni sociali che questa fa emergere e nel loro
rifrangersi entro la coscienza degli individui:
L’aspetto più importante della crisi in corso sta probabilmente
nel fatto che, intaccando la modalità di funzionamento globale
delle nostre società, è una crisi profondamente sentita. Certo,
ha un risvolto esoterico, quello che fa riferimento all’ingegneria
143
finanziaria e ai suoi incomprensibili prodotti, ma ciò non la
riduce a una semplice aggressione esterna frutto di forze che ci
superano. È percepita intimamente da tutti noi; attiva e riaccende contraddizioni che già confusamente percepivamo.
Contraddizioni tra il consumatore che vuole tutto, subito e al
prezzo più basso, e il lavoratore colpito dalla deindustrializzazione, dalla disoccupazione e dai numerosi danni collaterali
legati alla sovrapproduzione di beni; contraddizioni tra l’individuo singolo, preoccupato solo dei suoi diritti e ripiegato sui
suoi interessi, e il cittadino rammaricato per l’apatia della sua
società e dalla relativa inadeguatezza di fronte ai cambiamenti
rispetto ai quali si dovrebbe contare collettivamente. A entrare
in crisi, nelle pieghe della crisi economica, è la promessa ideologica che ha accompagnato gli ultimi decenni: la promessa di
un mondo fatto solo da individui, libero dalla dipendenza nei
confronti della storia […], e dai vincoli nei confronti del collettivo […]. Ciò che siamo costretti a scoprire di nuovo, e in termini dolorosi, è che questo mondo di individui onnipotenti,
ciascuno chiuso in se stesso, in effetti non è altro che il mondo
dell’impotenza generale. L’intima percezione di ciò che c’è di
sbagliato nel nostro mondo rappresenta la nostra chance, l’elemento che può fare di questa crisi il punto di partenza di una
rimessa in gioco della nostre società. Può rappresentare l’occasione per un vasto esame di coscienza, condotto tanto nel silenzio dell’intimità quanto nel frastuono del foro pubblico. Uno di
quegli spostamenti profondi che non si traducono necessariamente in manifestazioni spettacolari sulla superficie della storia, ma dai quali emergono spesso le più fondamentali cesure
culturali. Grazie a questa esperienza dei limiti un’altra democrazia e un’altra società, forse, stanno per divenire possibili.
È quindi, entro l’enumerazione di temi tipicamente gauchetiani (l’impossibilità di esaurire la politica nell’affermazione dei diritti
umani, la storia come ambito di sviluppo della politica, l’intrascendibilità del vincolo collettivo), nella maturazione in foro interno,
nella coscienza di larghe masse, dell’insostenibilità del nostro modo
di vita che viene individuata la sorgente prima della trasformazione
sociale. Lo “spazio vuoto” entro cui la politica tende a insediarsi,
quello fra una certa e determinata condizione d’essere, nel nostro
caso quella prodotta dalla crisi, e i mutamenti in actu entro l’assetto
144
economico e politico delle nostre società, è qui occupato da una
sorta di generalizzato “esame di coscienza”.
Troppo e, allo stesso tempo, troppo poco ci vien da dire: troppo, perché le condizioni del cambiamento sono fatte dipendere da
una sorta di metanoia, da un riorientamento del proprio sé non
privo di una sfumatura religiosa (con la conseguenza che la tesi
altrove espressa da Gauchet della modernità come uscita dal religioso verrebbe, con ciò, ipso facto revocata in dubbio); troppo
poco, perché si manca il terreno proprio della democrazia, e cioè
l’articolazione e il suscitamento di forze e movimenti intorno a programmi reciprocamente alternativi. Il passaggio dall’atomismo
determinato dalla politica dei diritti umani e dal mercato a quell’unità sociale che può farsi generatrice di trasformazioni viene quindi
affidato a qualcosa su cui la politica e la politica democratica sembrano avere una presa difficile e problematica.
Come se ne esce? Una via, a nostro avviso, c’è, sebbene sia
stretta e colma di insidie. Ed è contenuta nello stesso discorso di
Gauchet: si tratta di dare diverso respiro e consistenza a quegli elementi che Gauchet, giustamente, ritiene siano stati fortemente compromessi dal dominio del neoliberistico “there is no alternative”:
immaginazione, pensiero, intelligente progettualità. Ma per fare
questo diventa quasi inevitabile, a nostro avviso, tornare a fare i
conti con i processi di costruzione e ricostruzione della soggettività.
Noi pensiamo che da questo punto di snodo non si possa non passare: una democrazia che voglia sfuggire al giogo della necessità
economica, che voglia ospitare immaginazione, pensiero e progettualità, non può articolarsi se al suo interno non si costruiscono e
strutturano soggettività sociali e politiche.
L’ultima affermazione è, in un certo senso, non priva di una
sua durezza per orecchie allenate nell’ultima temperie filosofica.
Quest’ultima ha infatti lavorato con accanimento ed energia per
rompere il nesso interno fra democrazia e soggettività, per delegittimare l’idea che una democrazia forte e vivace non possa darsi se
non alimentata costantemente dalle risorse di senso della soggettività. Si è trattato, è bene dirlo, di una battaglia in gran parte giusta,
e condotta con buone ragioni: la presupposizione della soggettività
al suo darsi sociale e politico oppure il suo essere inscritta, come
avrebbe detto Louis Althusser, nel linguaggio dell’Origine e della
145
Fine hanno pregiudicato quella mobilità primaria della Setzung soggettiva che pure era stata portata alla luce dalla filosofia moderna, e
in particolare, secondo noi, dalla filosofia classica tedesca.
Ma, tenendoci sul terreno filosofico-politico, i risultati originati
dalla piena espulsione della soggettività dalla politica e in particolare
dalla politica democratica ci appaiono, in un certo senso, intrinsecamente deficitari, finanche paradossali. Prendiamo in considerazione
una pensatrice affermata e ricca di interessanti materiali filosofici
come Chantal Mouffe: si sospetta che in quanto teorica antinormativa del conflitto e della egemonia avrebbe interesse a elaborare una
certa teoria della soggettività sociale e politica. Eppure così non è;
dietro le sue recenti esplorazioni filosofico-politiche continua a esservi la radicale critica della soggettività contenuta in Hegemony and
Socialist Strategy. Dunque di soggettività non si deve più parlare: a
scontrarsi nell’agone politico sono “identità collettive”. Ora poiché, e
a dispetto di quanto coltivato nell’ambito della politics of identity, le
identità non possono costituire un orizzonte democratico, perché per
essere tali esse devono essere assolutamente diverse le une dalle altre,
e quindi rendere impossibile la stessa apertura del terreno del conflitto, Mouffe è costretta a dire che, per prodursi, l’identità democratica
ha bisogno di un “esterno costitutivo”, “che la creazione di un’identità implica l’istituzione di una differenza, che spesso viene costruita
sulla base di una gerarchia, per esempio fra forma e materia, bianco e
nero, uomo e donna, e così via”3. Insomma, senza darlo minimamente a vedere, siamo passati dall’identità alla identità che è tale grazie
alla differenza dalla differenza. In linguaggio hegeliano, si potrebbe
dire che siamo passati all’opposizione (del resto che cosa sono bianco
e nero ecc. se non, ancora hegelianamente, opposti?). Di seguito
infatti Mouffe dirà che queste identità collettive sono antagonistiche,
si costituiscono schmittianamente lungo la linea di frattura fra noi e
loro. Ma schimittianamente l’opposizione si risolve con la negazione
assoluta dell’alterità, di modo che l’universalità coestensiva all’ambito
in cui si collocano entrambi gli opposti viene guadagnata attraverso
l’eliminazione di uno dei due. Mouffe da democratica questo non lo
può accettare, e perciò deve ripiegare su un conflitto a più bassa
intensità, in cui la posta in gioco sia bensì ancora la conquista dell’universalità del campo costituente l’opposizione, ma senza troppi spargimenti di sangue. Il concetto di “egemonia” è quello che fa al suo
146
caso perché le permette di consolidare un conflittualismo “garbato” e
costruttivo.
Dunque ad abitare la democrazia sono identità collettive antagonistiche che sviluppano progetti egemonici, vale a dire, se vogliamo tradurre tutto ciò in un linguaggio filosoficamente più rarefatto,
particolarità che vogliono via via acquisire a sé nuovi e più elevati
gradi di universalità. Ma che cosa è questo se non un altro modo
per descrivere e concettualizzare il processo di costituzione della
soggettività sociale e politica?
Naturalmente qui non abbiamo a che fare con puri esercizi
verbalistici. La rimozione della soggettività tramite “identità collettive antagonistiche che sviluppano progetti egemonici” costa, e
molto, perché comporta l’esclusione di tutto ciò che nella soggettività pare di diritto rientrare, e cioè appunto quella immaginazione e
quella intelligente progettualità che Gauchet invoca per fuoriuscire
dal deserto creato dalla politica dei diritti umani. Mouffe infatti
ritiene che le identità collettive vengano a coagularsi non intorno a
progetti, programmi ecc., ma intorno a passioni, a investimenti libidici. Per salvaguardare il carattere antagonistico della identità bisogna sottrarla, questa è la sua convinzione profonda, alla presa della
volontà razionale, dei programmi ecc. perché lungo quest’ultimo
crinale fa capolino l’ombra normativistica dell’accordo e del consenso. La ragione o è disincarnata o non è.
Experimenta filosofici come questo per argomentare della relativa debolezza della soggettività entro la teoria democratica contemporanea sono moltiplicabili ad libitum. Campo fertile per ulteriori
sondaggi di questo tipo sarebbe, per esempio, anche quello offerto
dal normativismo contemporaneo. Ma a noi naturalmente questo
interessa solo in relazione a quanto vogliamo dire circa l’aporia provocata in Gauchet dalla eterogeneità assoluta che sembra sussistere
fra l’atomismo prodotto dal mercato e dalla politica dei diritti
umani e l’unità di cui ci sarebbe bisogno per dare corpo a incisivi
processi di trasformazione. È dentro l’intervallo fra questi termini
che si pone, secondo noi, con tutta la sua asperità e la sua difficoltà,
derivanti anche da una lunga stagione di sconfitte e arretramenti, la
questione della costituzione della soggettività. Aggirarla, per poi
sentirla urgere prepotente sotto il terreno, come in Gauchet, non
serve teoricamente a molto.
147
E non serve, peraltro, proprio a risolvere il problema che ci si
ripromette preliminarmente di risolvere: che politica democratica si
fa a muovere dalla crisi? In Gauchet, o meglio in questi suoi interventi sull’attuale congiuntura (vedremo che cosa ci riserverà l’ultimo volume di L’avènement de la démocratie), è curioso che malgrado la crisi sia il punto di partenza del discorso, essa subito scivoli
sullo sfondo, perda la sua autonoma consistenza. Il discorso passa
immediatamente ad altro, lo sforzo intellettuale si dirige subito
verso problemi di diversa qualità, quasi non trovando produttivo
misurarsi con le ragioni della crisi, con le sue dinamiche interne.
Basta dire che essa è frutto del fallimento della tesi neoliberista dell’autoregolazione dei mercati per chiudere la partita e aprirne un’altra, quella della trasformazione della crisi da momento di depressione, paura, disagio sociale a occasione di riscatto democratico. La
crisi, insomma, evapora come oggetto specifico d’analisi appena si
dissolve anche l’immagine del mondo che ad essa fa da sostegno
(quella che si concentra intorno alla “politica dei diritti umani”).
Ma questo non è un bene. Perché così si perde precisamente la
possibilità di rintracciare le ragioni della sparizione di immaginazione, pensiero e progettualità dalla scena pubblica. Se Gauchet si
convincesse a gettare uno sguardo un po’ più penetrante sulla crisi,
vedrebbe che la sua esplosione si è immancabilmente accompagnata all’avvio di un vasto e profondo processo di ristrutturazione (nell’ordine, prima sociale e poi tecnologica). E che è questa ristrutturazione, anzi il binomio stesso crisi-ristrutturazione, ad aver generato
quella potente ondata di individualizzazione che è alla base del
deperimento delle risorse di senso delle soggettività sociali e politiche. Il binomio crisi-ristrutturazione si è rivelato, così, nella nostra
“èra della turbolenza globale” (Brenner) come uno dei più potenti
vettori di scomposizione della soggettività.
Il favore di cui oggi nel mondo occidentale gode il populismo,
come specifica configurazione delle politiche statali per governare e
riprodurre il consenso nel tempo della crisi, trova qui le sue radici:
quanto più crisi e ristrutturazione capitalistica avanzano (scomponendo ciò che ricompongono a un più alto livello lungo catene
lavorative e finanziarie transnazionali) e cresce “l’effetto di isolamento” fra gli individui4 tanto più la pura unità giuridico-politica
diventa insufficiente e si assiste alla costruzione – impiegando mate-
148
riali di diverso tipo – di un immaginario dell’unità del corpo sociale.
Per decostruire il quale la politica democratica non deve, tuttavia,
fare l’errore di abbandonare la partita: si tratta di lavorare sullo
stesso territorio sociale, scavato da questa ultima fase della mondializzazione e dal pulsare del suo ritmo interno (crisi – ristrutturazione sociale e tecnologica – centralizzazione finanziaria – individualizzazione – nuove forme di legittimità del potere), su cui insiste il
populismo.
NOTE
Apparso su “Micromega”, 5 (2009), pp. 166-168.
Cfr. Il disincanto del mondo, Einaudi, Torino 1992.
3
CH. MOUFFE, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, trad.
it. di S. D’Alessandro, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 17.
4
N. POULANTZAS, Potere politico e classi sociali, cit., p. 159.
1
2
149
NOTA EDITORIALE
Tutti i saggi sono inediti, tranne il terzo, già uscito, senza alcune
modifiche che qui vi sono state apportate, sulla rivista on-line “Consecutio
temporum” (http://www.consecutio.org/2011/05/page/2/) e il quarto,
pubblicato in versione inglese presso la rivista “Historical Materialism”, 1
(2011), pp. 288-303.
1. Indice delle sigle delle edizioni tedesche di Hegel
GW: G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, hrsg. von der RheinischWestfalischen Akademie der Wissenschaften, Felix Meiner, Hamburg
1968 ss.
JA: G.W.F. Hegel, Sämtliche Werke. Jubiläumsausgabe in zwanzig
Bänden, hrsg. von H. Glockner, Frommann, Stuttgart 1927 ss.
Rph: G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821).
Enz 3: G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen
Wissenschaften im Grundrisse (1830).
Rph Ilting 1818-1819: in Ilting, Band I, pp. 229-351.
Ilting: G.W.F. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, Edition
von K.-H. Ilting, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 19731974, 4 Bände.
2. Opere di Hegel
Wissenschaft der Logik, in GW, XI, pp. 237-409, XII, XXI; trad. it.
Scienza della Logica, a cura di A. Moni, rivista da C. Cesa, Laterza, RomaBari 1984, 2 voll.
Grundlinien der Philosophie des Rechts, in GW, XIV; trad. it.
Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari
1987.
Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse
(1830), in GW, XX; trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a cura di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1980.
151
finito di stampare
per conto di manifestolibri – La Talpa srl
il 10 novembre 2012
da LEGO srl - Vicenza