25/1/2016 - Studio Ducoli
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Transcript 25/1/2016 - Studio Ducoli
QUADERN
/ LUNEDÌ, 25 GENNAIO 2016
ILCASODELGIORNO
PRIMOPIANO
Cessazione
dell’attività, valore
residuo per la base
imponibile IVA
Forfetario incerto con redditi di
lavoro dipendente e assimilati
/ Mirco GAZZERA
/ Paola RIVETTI
I beni destinati all’uso o al consumo personale o dei familiari, ai
sensi dell’art. 2 comma 2 n. 5) del
DPR 633/1972, si considerano ceduti ai fini IVA nel momento in cui
avviene il prelievo con l’uscita dalla sfera aziendale (o professionale). La cessazione dell’attività
rappresenta una fattispecie ricorrente nella quale si verifica quanto descritto.
L’imprenditore, ma le medesime
considerazioni valgono per il lavoratore autonomo, deve provvedere a emettere autofattura o altro
documento fiscale (scontrino o ricevuta fiscale) per tutti i beni rimasti in azienda e destinati a lui e
alla sua famiglia. Fanno eccezione i beni per i quali non è stata
operata la detrazione IVA al momento dell’acquisto, in quanto
l’imposta è già gravata sull’imprenditore.
La gestione IVA [...]
Uno dei nuovi requisiti per accedere al regime
forfetario riguarda il possesso di redditi di lavoro dipendente o assimilati.
In particolare, recita il nuovo art. 1 comma 57
lett. d-bis) della L. 190/2014, non possono avvalersi del regime “i soggetti che nell’anno precedente hanno percepito redditi di lavoro dipendente e redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, di cui rispettivamente agli articoli 49 e 50
del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, eccedenti l’importo di
30.000 euro; la verifica di tale soglia è irrilevante se il rapporto di lavoro è cessato”.
La finalità della norma è quella di evitare che
soggetti esercenti attività di lavoro dipendente o
assimilate nell’anno precedente a quello di applicazione del regime forfetario, da cui abbiano ritratto livelli reddituali piuttosto elevati, possano
comunque beneficiare del regime in questione
per le attività d’impresa, arti o professioni esercitate (Relazione illustrativa al Ddl. di stabilità
2016).
Della disposizione sopra riportata l’inciso che fa
sorgere i maggiori dubbi è quello finale in cui si
afferma che la verifica di tale soglia è irrilevan-
Andrebbero chiarite le fattispecie rientranti nella “cessazione del
rapporto di lavoro”
A PAGINA 2
A PAGINA 3
INEVIDENZA
LAVORO & PREVIDENZA
Per cartelle e ipoteche valore della lite ancorato ai
crediti da tutelare
Nuova sospensione del rimborso alla prova del fermo
Niente ICI solo se nell’immobile si esercita attività
sportiva “diretta”
Possono fallire anche le società a partecipazione
pubblica
Verso il pagamento cumulativo del bollo auto
ALTRENOTIZIE
te se il rapporto di lavoro è cessato. Al fine di
applicare correttamente la disposizione sarebbe interessante se venissero indicate le fattispecie riconducibili alla “cessazione del rapporto di lavoro”.
Come sostenuto in dottrina, dovrebbero potervi rientrare tutti quei casi in cui il rapporto
viene a cessare per cause indipendenti dalla
volontà del lavoratore (tipicamente, il licenziamento), nonché in caso di dimissioni (ad
esempio, per giusta causa). A tali eventi consegue l’estinzione della fonte reddituale rilevante ai fini del requisito in esame.
Meno certo – a nostro giudizio – è l’accesso al
regime nell’ipotesi di pensionamento. Si ipotizzi il caso di un soggetto che abbia percepito redditi di lavoro dipendente pari a 50.000
euro nel 2015 e che, dal 2016, vada in pensione avviando una modesta attività professionale per cui intenderebbe fruire del regime agevolato.
Ad una prima lettura potrebbe sostenersi che
il rapporto di lavoro è cessato e che il soggetto possa applicare il regime forfetario. D’altra
parte, potrebbe obiettarsi che il pensionamento determina una cessazione “ [...]
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Dal 2016 opzione part
time per i lavoratori a
fine carriera
/ Andrea COSTA e Angela FUSCO
La legge di stabilità 2016 (L. n. 208/2015) ha
introdotto, al comma 284 dell’art. 1, un’apposita disciplina diretta a regolare il c.d. “invecchiamento attivo”, così definito nella relazione illustrativa alla stessa legge, volta a introdurre elementi di flessibilità nello svolgimento del lavoro negli ultimi anni della carriera
del lavoratore ultrasessantenne, consentendo,
previo accordo con il datore di lavoro, la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo
pieno a tempo parziale, [...]
A PAGINA 5
ancora
IL CASO DEL GIORNO
Cessazione dell’attività, valore residuo per la
base imponibile IVA
L’uscita del bene dalla sfera imprenditoriale o professionale determina la rilevanza ai
fini IVA
/ Mirco GAZZERA
I beni destinati all’uso o al consumo personale o dei familiari, ai sensi dell’art. 2 comma 2 n. 5) del DPR 633/1972, si
considerano ceduti ai fini IVA nel momento in cui avviene il
prelievo con l’uscita dalla sfera aziendale (o professionale).
La cessazione dell’attività rappresenta una fattispecie
ricorrente nella quale si verifica quanto descritto.
L’imprenditore, ma le medesime considerazioni valgono per
il lavoratore autonomo, deve provvedere a emettere autofattura o altro documento fiscale (scontrino o ricevuta fiscale)
per tutti i beni rimasti in azienda e destinati a lui e alla sua
famiglia. Fanno eccezione i beni per i quali non è stata
operata la detrazione IVA al momento dell’acquisto, in
quanto l’imposta è già gravata sull’imprenditore.
La gestione IVA nella cessazione dell’attività, spesso ignorata dal contribuente, assume particolare rilievo nel caso in cui
dall’ultima dichiarazione annuale IVA emerga un credito
che il contribuente richiede a rimborso. L’Agenzia delle Entrate, infatti, effettua spesso una verifica documentale prima
di erogare il rimborso e richiede per prassi il registro dei beni ammortizzabili e il documento fiscale dal quale risultino
beni destinati all’uso o al consumo personale.
Risulterà chiara, pertanto, l’eventuale estromissione di beni
dalla sfera aziendale senza aver scontato l’imposta.
L’IVA a debito, sotto l’aspetto operativo, concorrerà alla liquidazione del periodo ove è avvenuta la destinazione dei
beni a finalità extra-aziendali. L’intero trattamento fiscale
appena descritto è giustificato dal noto principio di neutralità che contraddistingue l’IVA. Nell’autoconsumo (o comunque nella destinazione a finalità personali di beni) il soggetto passivo IVA diviene, infatti, consumatore finale del bene
acquistato originariamente per l’attività imprenditoriale
fruendo della detrazione. L’IVA sulla “cessione”, pertanto,
deve gravare sullo stesso alla stregua di un qualunque
consumatore finale non soggetto passivo.
Una volta chiarita la rilevanza dell’operazione e il momento
di esigibilità dell’imposta (al prelievo) rimane da analizzare
/ EUTEKNEINFO / LUNEDÌ, 25 GENNAIO 2016
la determinazione della base imponibile. La base imponibile
IVA è rappresentata generalmente dall’ammontare del
corrispettivo pattuito secondo le condizioni contrattuali. Nel
caso di specie, tuttavia, non esiste di solito un corrispettivo
in quanto l’operazione coinvolge esclusivamente
l’imprenditore nella duplice veste di cedente e di cessionario
consumatore finale.
Secondo l’art. 13 comma 2 lett. b) del DPR 633/72 nell’autoconsumo e nella destinazione a finalità personali, in mancanza di un corrispettivo, la base imponibile è rappresentata “dal
prezzo di costo dei beni o di beni simili, determinati nel
momento in cui si effettuano tali operazioni”. La
formulazione della disposizione riprende (quasi
letteralmente) quanto contenuto nell’art. 74 della Direttiva
2006/112/CE.
Quest’ultimo è stato oggetto di un’interessante interpretazione, fornita dalla Corte di Giustizia dell’Ue (sentenza 8 maggio 2013, causa C-142/12 Marinov, ripresa dalla sentenza 23
aprile 2015, causa C-16/14 Global Property Development),
che ha riconosciuto efficacia diretta nei Paesi membri alla
citata norma.
Secondo i giudici di Lussemburgo il concetto di prezzo di
costo dei beni alla cessazione dell’attività è definito dal “valore residuo di detti beni a tale data” tenuto conto
“dell’evoluzione del valore di tali beni tra la data della loro
acquisizione e quella della cessazione dell’attività
economica imponibile”.
Il prezzo di costo al momento della cessazione dell’attività
può essere pertanto: inferiore a quello di acquisto a causa
dell’utilizzo pregresso, non ponendo particolari problemi;
superiore, se il bene ha subito un incremento di valore dovuto alla trasformazione (es. da materia prima o semilavorato a
prodotto finito).
La base imponibile, in quest’ultimo caso, dovrà essere parametrata al prezzo sul mercato di un bene similare
considerando i costi di trasformazione sostenuti.
/ 02
ancora
FISCO
Forfetario incerto con redditi di lavoro
dipendente e assimilati
Andrebbero chiarite le fattispecie rientranti nella “cessazione del rapporto di lavoro”
/ Paola RIVETTI
Uno dei nuovi requisiti per accedere al regime forfetario riguarda il possesso di redditi di lavoro dipendente o assimilati.
In particolare, recita il nuovo art. 1 comma 57 lett. d-bis)
della L. 190/2014, non possono avvalersi del regime “i soggetti che nell’anno precedente hanno percepito redditi di lavoro dipendente e redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, di cui rispettivamente agli articoli 49 e 50 del testo
unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, eccedenti
l’importo di 30.000 euro; la verifica di tale soglia è irrilevante se il rapporto di lavoro è cessato”.
La finalità della norma è quella di evitare che soggetti esercenti attività di lavoro dipendente o assimilate nell’anno precedente a quello di applicazione del regime forfetario, da cui
abbiano ritratto livelli reddituali piuttosto elevati, possano
comunque beneficiare del regime in questione per le attività
d’impresa, arti o professioni esercitate (Relazione illustrativa
al Ddl. di stabilità 2016).
Della disposizione sopra riportata l’inciso che fa sorgere i
maggiori dubbi è quello finale in cui si afferma che la verifica di tale soglia è irrilevante se il rapporto di lavoro è cessato. Al fine di applicare correttamente la disposizione sarebbe interessante se venissero indicate le fattispecie riconducibili alla “cessazione del rapporto di lavoro”.
Come sostenuto in dottrina, dovrebbero potervi rientrare tutti quei casi in cui il rapporto viene a cessare per cause indipendenti dalla volontà del lavoratore (tipicamente, il
licenziamento), nonché in caso di dimissioni (ad esempio,
per giusta causa). A tali eventi consegue l’estinzione della
fonte reddituale rilevante ai fini del requisito in esame.
Meno certo – a nostro giudizio – è l’accesso al regime
nell’ipotesi di pensionamento. Si ipotizzi il caso di un soggetto che abbia percepito redditi di lavoro dipendente pari a
50.000 euro nel 2015 e che, dal 2016, vada in pensione avviando una modesta attività professionale per cui intenderebbe fruire del regime agevolato.
/ EUTEKNEINFO / LUNEDÌ, 25 GENNAIO 2016
Ad una prima lettura potrebbe sostenersi che il rapporto di
lavoro è cessato e che il soggetto possa applicare il regime
forfetario. D’altra parte, potrebbe obiettarsi che il pensionamento determina una cessazione “particolare” del rapporto
(non equiparabile alle casistiche sopra riportate), a seguito
della quale il soggetto continua a percepire un reddito equiparabile fiscalmente a quello nascente dal rapporto esaurito.
Opportuno che la questione venga affrontata in un
intervento ufficiale
Inoltre, ulteriori perplessità sull’applicazione del regime sorgerebbero se, considerando il caso esemplificato, il reddito
da pensione per il 2016 risultasse superiore al limite dei
30.000 euro. A nostro giudizio, in tale ipotesi, l’accesso al
regime dal 2016 non sarebbe conforme alla ratio del requisito, che è quella di escludere dal regime soggetti che abbiano percepito redditi di lavoro dipendente e assimilati elevati;
inoltre, il ricorso alla circostanza relativa alla “cessazione
del rapporto” avvenuta nel 2015 costituirebbe un mero strumento per fruire della tassazione sostitutiva per il primo anno di attività autonoma (posto che per l’anno successivo, il
2017, il soggetto fuoriuscirebbe dal regime per superamento
del limite in esame).
Alla luce di tali osservazioni, sarebbe opportuno che la
questione venisse affrontata (e chiarita) in un prossimo
intervento ufficiale.
Sotto un diverso profilo, si rileva che la circostanza di aver
cessato un rapporto di lavoro prima dell’inizio dell’attività
per cui si intende applicare il regime forfetario, sebbene consenta di non verificare il rispetto della causa ostativa in esame, potrebbe assumere rilevanza ai fini della fruibilità della
riduzione dell’aliquota d’imposta al 5% per i primi cinque
anni di attività, la quale è riconosciuta, tra l’altro, a
condizione che l’attività non costituisca mera prosecuzione
di altra precedentemente svolta sotto forma di lavoro
dipendente o autonomo.
/ 03
ancora
FISCO
Per cartelle e ipoteche valore della lite
ancorato ai crediti da tutelare
Le Entrate negano il favor rei per il cumulo sulla conciliazione giudiziale e sulla
mediazione
/ Alfio CISSELLO
Il DLgs. 156/2015, in vigore dallo scorso 1° gennaio 2016,
ha, fermo restando il limite di valore dei 20.000 euro, esteso
l’ambito applicativo del reclamo/mediazione sia agli atti
emessi da enti diversi dall’Agenzia delle Entrate sia ai
provvedimenti degli agenti della riscossione.
Specie in merito a questi ultimi, si pone subito il problema
concernente il valore della lite.
Nella Scheda Eutekne di gennaio 2016 sono stati trattati i
singoli aspetti applicativi della riforma (non circoscritti, tra
l’altro, all’estensione del reclamo), e si è prospettato di fare
riferimento a quelle che, ormai da anni, sono le indicazioni
del Ministero dell’Economia sulla quantificazione del contributo unificato (ove il valore della lite, utile ai fini dell’individuazione dello scaglione su cui calcolarlo, è sempre determinato sulla base dell’art. 12 del DLgs. 546/92, si veda
“Rebus contributo unificato nell’omessa notifica dell’atto
«presupposto»” del 16 febbraio 2015).
L’Agenzia delle Entrate, in una risposta al Videoforum di
Italia Oggi dello scorso 21 gennaio, conferma quanto
esposto, specificando proprio che bisogna riferirsi ai
chiarimenti del Ministero.
In altri termini, per il ricorso contro il fermo, l’ipoteca o la
cartella di pagamento, “il valore della controversia va determinato con riferimento all’atto impugnato e, analogamente a
quanto previsto per la quantificazione del contributo unificato, deve essere calcolato in base al valore dei crediti per tributi”, anche qualora il contribuente, oltre alla misura cautelare, impugni pure gli atti presupposti (si pensi alla loro
omessa notifica, ex art. 19 comma 3 del DLgs. 546/92).
Quindi, l’atto non è mai a valore indeterminabile
(circostanza che lo escluderebbe dal reclamo), e bisogna
sommare i vari ruoli emessi a titolo di imposta.
Nella risposta si evidenzia altresì come “quando con lo stesso ricorso il debitore impugni sia il fermo o l’ipoteca con valore della lite superiore a 20.000 euro sia singole iscrizioni a
ruolo di valore inferiore, prevalga il rito ordinario di impugnazione su quello speciale previsto per le controversie di
valore fino a 20.000 euro”.
Allora, se ci sono tre iscrizioni a ruolo (una per 1.000 euro,
una per 2.000 euro, e una per 18.000 euro) che hanno dato
luogo ad una misura cautelare quale il fermo, la lite esula dal
reclamo.
Rammentiamo che, per ogni situazione dubbia, comunque, la
via più cautelativa è la notifica del ricorso con deposito in
/ EUTEKNEINFO / LUNEDÌ, 25 GENNAIO 2016
Commissione entro i 30 giorni: così facendo, al massimo il
giudice rinvia l’udienza per consentire l’esame del reclamo,
ma non ci sono rischi di inammissibilità.
Le Entrate affermano poi che rimangono validi i criteri di individuazione del valore della lite dettati nel caso delle perdite fiscali dalla circolare 9 del 2012 (si veda, per spunti
critici, “Valore della lite nella rettifica delle perdite con
dubbi per la mediazione” del 28 ottobre 2013).
Nel caso delle liti di rimborso, si evidenzia che, per mediazione o conciliazione, la restituzione avviene con gli interessi del 2%, trattandosi di fattispecie rientrante nell’art. 1 del
decreto 21 maggio 2009 (a nostro avviso, ci sono tutte le argomentazioni per asserire che si tratta di art. 6, quindi di interessi al tasso del 3,5%, visto che siamo pur sempre
nell’ambito di una mediazione o conciliazione giudiziale).
Interessi “più bassi” se si tratta di rimborsi
L’ultimo chiarimento da prendere in considerazione riguarda l’applicazione del “nuovo” art. 12 comma 8 del DLgs.
472/97, che limita fortemente il cumulo giuridico e la
continuazione nella conciliazione giudiziale e nella
mediazione, rendendoli possibili solo in merito al singolo
anno e al singolo tributo.
Nella risposta al Videoforum, non si condivide quanto prospettato in un precedente intervento (“Decorrenza «dubbia»
per la nuova recidiva” del 28 ottobre 2015), secondo cui sarebbe stato necessario che la norma operasse non dalle conciliazioni che si stipulano dal 1° gennaio 2016, ma dalle violazioni commesse da tale data.
Le Entrate, per bypassare il favor rei, adottano un criterio
davvero singolare: siccome, nonostante l’opposto tenore del
“vecchio” art. 12 comma 8 del DLgs. 472/97, così si faceva
anche prima (ovvero non si applicava quasi mai il cumulo),
così continueremo a fare.
Per prima cosa, a noi risulta che ciò non corrisponda al vero.
In secondo luogo, è indubbio che la legge era mal formulata,
siccome l’adesione e la conciliazione giudiziale, entrambi
istituti che hanno base pattizia, non possono avere una regolamentazione differente, ma se ciò non andava bene, vi erano due strade “legalmente concesse”: o rifiutarsi di stipulare
la conciliazione o stimolare il giudice a rimettere gli atti alla
Consulta, ma non certo comportarsi come se la legge non
fosse mai esistita.
/ 04
ancora
LAVORO & PREVIDENZA
Dal 2016 opzione part time per i lavoratori a
fine carriera
La legge di stabilità introduce il c.d. “invecchiamento attivo” per i dipendenti che
maturano i requisiti pensionistici di vecchiaia entro il 2018
/ Andrea COSTA e Angela FUSCO
La legge di stabilità 2016 (L. n. 208/2015) ha introdotto, al
comma 284 dell’art. 1, un’apposita disciplina diretta a regolare il c.d. “invecchiamento attivo”, così definito nella relazione illustrativa alla stessa legge, volta a introdurre elementi di flessibilità nello svolgimento del lavoro negli ultimi anni della carriera del lavoratore ultrasessantenne, consentendo, previo accordo con il datore di lavoro, la trasformazione
del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, con
una riduzione dell’attività lavorativa tra il 40% e il 60%.
Il campo di applicazione soggettivo di tali disposizioni –
operative nei limiti dei fondi stanziati, previsti, per il 2016,
in 60 milioni di euro, per il 2017 in 120 milioni di euro e per
il 2018 in 60 milioni di euro – è comunque relativamente limitato, trovando applicazione esclusivamente nei confronti
dei lavoratori dipendenti del settore privato, con contratto a
tempo pieno e indeterminato, che maturino entro il 2018 i requisiti per il trattamento pensionistico di vecchiaia.
È previsto che i minori introiti per il lavoratore siano parzialmente compensati dalla corresponsione in busta paga da parte del datore di lavoro di un importo, non assoggettato né a
tassazione né a contribuzione previdenziale, pari alla contribuzione ai fini pensionistici a carico dello stesso datore relativa alla prestazione lavorativa non effettuata.
Inoltre, aspetto di assoluto interesse, al lavoratore verrà riconosciuta la contribuzione figurativa per la prestazione non
effettuata, non subendo, quindi, conseguenze in ordine alla
prestazione che andrà a percepire una volta in quiescenza.
Per poter legittimamente accedere all’agevolazione, due sono i requisiti che il lavoratore deve rispettare: il primo è anagrafico, dovendo egli maturare entro il 31 dicembre 2018 il
requisito per il diritto al trattamento pensionistico per la vecchiaia – di 66 anni e 7 mesi per i lavoratori e, per le lavoratrici, 65 anni e 7 mesi per il biennio 2016-2017 e 66 anni e 7
mesi per il 2018 – mentre il secondo è contributivo, dovendo aver già maturato il requisito minimo di 20 anni di contributi versati o accreditati a qualsiasi titolo.
Ad ogni modo, la durata del part time non potrà essere
superiore al periodo intercorrente tra la data di accesso al
beneficio e quella di maturazione del requisito anagrafico
per la pensione.
L’accesso a tale facoltà è inoltre condizionata, come detto,
non solo al raggiungimento di un accordo tra datore di lavo-
/ EUTEKNEINFO / LUNEDÌ, 25 GENNAIO 2016
ro e lavoratore, ma anche all’ottenimento di un’apposita autorizzazione da parte dell’INPS e della Direzione territoriale
del lavoro, da richiedersi a cura del datore di lavoro nel
rispetto delle specifiche procedure che verranno individuate
da un apposito decreto del Ministero del Lavoro e della
previdenza sociale.
Tali disposizioni, lette assieme a quelle che dispongono la
proroga per il 2016 della c.d. “opzione donna” (pensionamento anticipato a 58 anni e 3 mesi di età e 35 anni di versamenti per le donne che maturano i requisiti nel 2016) e l’incremento per i lavoratori pensionati delle detrazioni, rappresentano un anticipo della più ampia riforma delle pensioni
prevista nell’agenda di Governo per il 2016.
Ormai è qualche anno che si discute sul tema dell’innalzamento dell’età pensionistica e, soprattutto, sulle sue conseguenze, legate al mantenimento nel tessuto produttivo di lavoratori “anziani” che, oltre a essere più “costosi”, risultano
generalmente meno produttivi e, in caso di uscita dal lavoro,
difficilmente reimpiegabili. La strada per mantenere attivo
un lavoratore over 60 era già stata tentata con la legge “Fornero”, quando fu presa in considerazione la possibilità di introdurre un “contratto graduale”, che prevedesse una riduzione progressiva dell’attività lavorativa da parte del lavoratore “anziano”.
La legge di stabilità 2016, nell’introdurre l’opzione del part
time, sembra aver ripreso alcuni elementi di tale intervento,
ma senza prevedere alcuna forma di incentivazione all’assunzione di giovani, che, in una sorta di staffetta generazionale, dovrebbero gradualmente prendere il loro posto.
Necessari l’accordo col datore di lavoro e
un’autorizzazione dall’INPS
Dal punto di vista del lavoratore, l’ottenimento dell’agevolazione costituisce un vero e proprio percorso a ostacoli, che
presuppone, oltre alla disponibilità di un reddito familiare
sufficiente a mantenere un adeguato tenore di vita a fronte
della riduzione del reddito, il raggiungimento di un accordo
con il datore di lavoro, il rilascio dell’autorizzazione da parte
degli enti preposti e, soprattutto, la disponibilità dei fondi
stanziati.
/ 05
ancora
FISCO
Nuova sospensione del rimborso alla prova
del fermo
La riforma del contenzioso tributario potrebbe condurre all’inapplicabilità del fermo di
cui all’art. 69 del RD 2440/23
/ Michele IAVAGNILIO
La modifica dell’art. 23 del DLgs. n. 472/1997, introdotta
dall’art. 16, comma 1, lett. h) del DLgs. 24 settembre 2015
n. 158, estende la possibilità di sospendere i rimborsi
dovuti dall’Amministrazione finanziaria, non solo in ipotesi
di contestazione di sanzioni, ma anche laddove siano stati
emessi provvedimenti con cui vengono accertati maggiori
tributi, ancorché non definitivi.
L’operatività, a decorrere dal 1° gennaio 2016, dell’art. 23
citato anche ai tributi, potrebbe implicare la definitiva non
applicabilità, in campo tributario, del fermo ex art. 69 del
RD 2440/1923, norma di carattere generale riguardante ragioni di credito vantate dalle amministrazioni dello Stato.
Più precisamente, nell’ambito delle richieste di rimborso di
crediti tributari, qualora esistano atti impositivi, ai fini della
sospensione risulterebbe applicabile esclusivamente l’art. 23
del DLgs. n. 472/1997 che costituisce norma speciale (in tal
senso cfr. Cassazione n. 25764/2014).
Ciò chiarito, occorrerebbe testare sul nuovo art. 23 l’orientamento espresso in alcune sentenze della Cassazione in relazione al citato art. 69, secondo cui ai fini della sospensione
non sarebbe necessario che il credito sia liquido ed esigibile
ma sarebbe sufficiente la presenza del “fumus bonis iuris”
della pretesa (cfr. Cass. nn. 1602/2007 e 11962/2012).
In particolare, un riferimento all’art. 69 del RD 2440/1923 è
presente nell’ordinanza della Corte di Cassazione n.
14849/2014 che ha rilevato un contrasto in merito alla
possibilità (Cass. n. 7320/2014) o all’impossibilità (Cass. n.
20526/2006) di attuare il fermo amministrativo facendo
valere pretese tributarie dichiarate illegittime, ma con
sentenza non definitiva del giudice tributario.
Tale contrasto, dunque, potrebbe addirittura divenire irrilevante in ipotesi di non applicabilità dell’art. 69 del RD
2440/1923 in campo tributario a far data dal 1° gennaio
2016.
Peraltro, sempre in tale ottica, anche in tema di rimborsi
IVA, potrebbe ritenersi superata l’indicazione contenuta nella circolare n. 32/2014, laddove consente, al punto 2.3, la
possibilità di adottare le misure cautelari, oltre che dell’art.
23 del DLgs. n. 472/1997 (che all’epoca dell’emanazione
della circolare si riferiva solo alle sanzioni), anche del fermo
amministrativo.
Con riferimento al dato testuale, deve osservarsi che la relazione illustrativa al nuovo art. 23 precisa che “sono state in-
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trodotte ulteriori ipotesi di sospensione del pagamento, quali
la consegna del processo verbale di constatazione o il provvedimento con il quale vengono accertati maggiori tributi
ancorché non definitivi. Per effetto della sospensione la novella opera nei limiti di tutti gli importi dovuti in base all’atto o alla decisione della commissione tributaria ovvero della
decisione di altro organo”.
Ora la sentenza non definitiva è subito esecutiva
Alla luce di quanto indicato, ed in linea con il tenore della
norma, qualora, ad esempio, sia stato emesso un accertamento ai fini IRPEF e questo sia stato annullato (totalmente o
parzialmente) da una sentenza di primo grado, non definitiva, e successivamente venga presentata un’istanza di rimborso IRAP, la sospensione ex art. 23 del DLgs. n. 472/1997, da
parte dell’Amministrazione, potrebbe operare nei limiti di
tutti gli importi dovuti in base alla decisione della
commissione tributaria.
E tali limiti dovrebbero operare proprio con riferimento a
sentenze non passate in giudicato. Peraltro, tale conclusione
sembrerebbe rafforzata dal generale principio “dell’immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle
sentenze delle commissioni tributarie”, previsto dall’art. 10
della L. n. 23/2014 ed introdotto dal DLgs. 24 settembre
2015 n. 156.
Qualora, invece, la sentenza passasse in giudicato non avrebbe senso logico, oltreché giuridico, confinare la sospensione
nei limiti di tutti gli importi dovuti in base alla decisione della commissione tributaria definitiva, ai sensi del comma 1
dell’art. 23. In altri termini, interpretare l’inciso “decisione
della commissione tributaria” del primo comma dell’art. 23
quale “decisione definitiva della commissione tributaria”
condurrebbe a conclusioni illogiche ed alla inutilità della
previsione.
Invero, atteso che l’art. 23 è espressamente rubricato “sospensione dei rimborsi e compensazione”, se la sentenza
fosse definitiva non si porrebbero problematiche di
sospensione, ma si produrrebbero le conseguenze
chiaramente previste dal comma 2 dell’art. 23, e cioè la
compensazione del credito chiesto a rimborso nei limiti della
pretesa definitivamente accertata.
/ 06
ancora
FISCO
Niente ICI solo se nell’immobile si esercita
attività sportiva “diretta”
La Regionale ligure, nel caso di un ente sportivo dilettantistico, non tiene conto per
l’esenzione delle attività intimamente connesse a quella sportiva
/ Francesco NAPOLITANO
Con la sentenza n. 894/1/15 la C.T. Reg. Liguria ha deciso in
merito all’assoggettamento ad ICI per gli anni 2006/2008
(ora IMU) degli immobili di proprietà degli enti sportivi dilettantistici.
Il caso riguardava un immobile in cui non veniva svolta
esclusivamente attività sportiva, posto che la norma di cui
all’art. 7, comma 1, lett. i) del DLgs. 504/92 vigente ne
prevedeva l’esclusione da ICI alla compresenza sia dello
svolgimento esclusivo delle attività indicate (requisito
oggettivo) e sia al fatto che tale attività fosse posta in essere
da un soggetto che non avesse quale oggetto esclusivo o
principale una attività commerciale (requisito soggettivo).
Nei fatti, la FIV (Federazione Italiana Vela), impugnando
avviso di accertamento ICI emesso dal Comune, era risultata vittoriosa poiché la C.T. Prov. di Genova aveva basato
la propria decisione sulla sentenza della Cassazione n.
22894/2010, che ribadiva la giurisprudenza secondo la quale – per l’esenzione ICI – bastava il requisito soggettivo
(ente non avente oggetto esclusivo o principale una attività
commerciale) e quello oggettivo (svolgimento di attività
sportiva). Pertanto, la C.T. Prov. aveva concluso per
l’accoglimento delle eccezioni mosse dal contribuente,
concedendo l’esenzione ICI ed annullando l’accertamento
emesso dal Comune.
Il Comune appellava facendo rilevare che la norma in questione subordinava l’esenzione allo svolgimento esclusivo
(in questo caso) di una attività sportiva, oltre che del necessario requisito che a svolgerla fosse un ente non commerciale. Inoltre, venivano richiamate la R.M. n. 1242/1994 e la ris.
n. 2/DF del 2009, le cui conclusioni erano state ribadite in
altra sentenza della Suprema Corte, la n. 2821/2012, secondo cui nell’immobile deve essere esercitata direttamente (e
non in via mediata) l’attività sportiva. Di conseguenza,
chiedeva la legittimità dell’avviso di accertamento e la totale
riforma della sentenza di primo grado.
Nelle controdeduzioni, la contribuente rilevava l’inconferenza dell’ultima sentenza della Suprema Corte citata in quanto
riguardava non una Federazione sportiva ma una società di
capitali con scopo di lucro. Inoltre, concludeva per l’ammissione alla esenzione in quanto la FIV svolgeva in quell’immobile tutta una serie di attività di carattere istituzionale,
non potendo essere derubricate a mere attività
amministrative.
La C.T. Reg., con una motivazione tranchant, accoglie l’appello del Comune in quanto richiama l’art. 7 del DLgs.
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504/92 nella parte in cui esenta da ICI gli immobili degli enti che svolgono, tra le altre, attività sportive in maniera
esclusiva, citando – sul punto – proprio la sentenza della Suprema Corte n. 2821/2012 e sottolineando che tale attività
deve essere esercitata in modo diretto e non mediato.
A supporto di tale tesi conclusiva, aggiunge che l’immobile
era accatastato nella categoria A/10 (Uffici), e che per tale
motivo era difficile immaginarvi lo svolgimento di una attività sportiva.
La sentenza in rassegna offre lo spunto ad alcune considerazioni.
Concetto di attività sportiva troppo rigido
In primis, non può non osservarsi come – nel caso di specie
– è fuor di dubbio che l’attività di vela non possa che essere
svolta all’esterno di un immobile, e quindi forse parrebbe
troppo rigido concedere l’esenzione soltanto per gli
immobili ove viene svolta pura attività sportiva ed escludere
altre attività intimamente connesse a questa. In questo modo
sarebbero tagliate di netto fuori tutte quelle attività il cui
svolgimento è ammissibile soltanto “all’aperto”, e quindi sci,
canoa, sport aerei, sci nautico e così via.
Fermo restando il principio per cui il sodalizio che invoca
una agevolazione fiscale ha l’onere della prova di dimostrare che vengono rispettati nella realtà operativa tutti i requisiti statutari per poterne godere, quel che forse andava esaminato era se l’attività svolta dalla FIV all’interno dell’immobile oggetto di controversia fosse riconducibile tra quelle
per cui è prevista l’esenzione, ciò in quanto in tutti gli enti
sportivi non si esercita soltanto attività sportiva ma anche
tutta una serie di attività di supporto fondamentali per l’esistenza stessa dell’Ente, prima tra tutte una “basilare” attività
amministrativa in una sede sociale, non rientranti tra quelle
produttive di reddito (cfr. Cassazione n. 7385/2012).
Pertanto, pur in una visione rigorosa della norma, non parrebbe sbagliato assoggettare ad IMU (ex ICI) soltanto i
locali ove si esercita attività commerciale o altre attività
svolte con criteri di pura imprenditorialità, pur se connesse
agli scopi istituzionali, salvaguardando – quindi – tutta
quella serie di attività senza le quali non può esistere la
principale. Allo stesso modo, andrà valutato il caso degli
immobili “promiscui”, ossia quelli ove viene esercitata sia
attività istituzionale che commerciale, assoggettando la
superficie relativa a tale ultima attività.
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ancora
IMPRESA
Possono fallire anche le società a
partecipazione pubblica
Amministratori tenuti ad adottare i provvedimenti per prevenire l’aggravamento della
crisi
/ Roberta VITALE
Fra le disposizioni contenute nell’ambito dello schema del
DLgs. recante il “Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica” è stata prevista anche la disciplina in caso
di crisi di impresa.
Si ricorda che lo schema di Testo unico, che contiene le
norme di riordino della disciplina delle partecipazioni
societarie delle amministrazioni pubbliche in attuazione
dell’art. 18 della L. 124/2015, è stato approvato lo scorso 20
gennaio dal Consiglio dei Ministri in esame preliminare (si
veda “Partecipazione pubblica solo a società costituite in
forma di spa o srl” del 22 gennaio).
Una disposizione di particolare rilievo è quella di cui all’art.
14, che assoggetta le società a partecipazione pubblica alle
disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo di
cui al RD 267/42 (L. fall.). Viene estesa anche la normativa
in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al DLgs. 270/99 e al DL
347/2003 (conv. L. 39/2004).
Si pone a carico dell’organo amministrativo un sistema di
monitoraggio nell’ambito dei programmi di valutazione del
rischio (art. 6, comma 3 dello schema): qualora emergano
uno o più indicatori di crisi aziendale, gli amministratori sono tenuti, mediante un piano di risanamento “idoneo”, ad
adottare i provvedimenti necessari per prevenire
l’aggravamento della crisi, correggerne gli effetti ed
eliminarne le cause.
Rischiano gli amministratori che non provvedono in tal senso. Infatti, la mancata adozione di provvedimenti adeguati
costituisce grave irregolarità ex art. 2409 c.c., qualora la crisi
non sia superata e la società a partecipazione pubblica
fallisca o entri in concordato preventivo, o ancora sia
soggetta alla procedura di amministrazione straordinaria.
Lo stesso T.U. specifica poi che non è “adeguato” il provvedimento di ripianamento delle perdite da parte dell’amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie, anche se
attuato in concomitanza con un aumento di capitale o un tra-
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sferimento straordinario di partecipazioni o il rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica. Tale previsione,
però, rientra nel giudizio di “adeguatezza” operato dal legislatore, qualora tale previsione sia accompagnata da un piano di ristrutturazione aziendale. Occorre che dal piano
emerga la sussistenza di “concrete prospettive di recupero
dell’equilibrio economico delle attività svolte”.
Piano di risanamento idoneo per scongiurare la crisi
Viene, poi, previsto che il piano è approvato “anche in deroga al comma 5”.
Secondo tale disposizione, è vietato alle amministrazioni
(art. 1, comma 3, della L. 196/2009) effettuare aumenti di
capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, rilasciare garanzie a favore delle società partecipate non quotate che abbiano registrato, per 3 esercizi consecutivi, perdite
di esercizio o che abbiano usato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali.
Vengono fatte salve le disposizioni di cui agli artt. 2447 e
2482-ter c.c. in tema di riduzione del capitale sociale al di
sotto del limite legale.
I trasferimenti sono comunque consentiti in caso di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse o alla realizzazione
di investimenti.
Inoltre, gli interventi in generale vietati possono essere autorizzati con specifico decreto, su richiesta dell’amministrazione interessata, per la tutela della continuità nella prestazione
di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per
la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico e la sanità.
In caso di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, nei 5 anni successivi, è vietato alle P.A. controllanti costituire nuove società, acquisire o
mantenere partecipazioni in società che gestiscano gli stessi
servizi della società fallita.
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ancora
FISCO
Verso il pagamento cumulativo del bollo
auto
Apertura del Governo sull’estensione alle aziende con flotte di veicoli di tale possibilità
già introdotta per le società di leasing
/ Giovambattista PALUMBO
La normativa nazionale prevede che i pagamenti della tassa
di proprietà dei veicoli (c.d. bollo auto) possano essere effettuati solo con versamenti presso le delegazioni ACI convenzionate con l’Agenzia delle Entrate, le Poste Italiane con
bollettino postale, i tabaccai e le agenzie di pratiche auto
convenzionate e che a tal fine, è necessario compilare, per
ciascun veicolo, un bollettino di pagamento. Con
interrogazione a risposta immediata n. 5-07355 in
Commissione Finanze alla Camera, lo scorso 14 gennaio, è
stata sollevata la questione su tale modalità di pagamento.
Spesso, infatti, per motivi di liquidità, nelle aziende con
flotte di grande dimensione, il possessore deve reiterare con
cadenza quadrimestrale, ritenendo un tale iter un inutile
appesantimento burocratico.
Considerato che la costosa incombenza si potrebbe evitare
dando la possibilità di assolvere la tassa in modo cumulativo, con un unico bollettino, o liquidandola con il modello
F24, predisponendo un apposito supporto informatico
dell’Agenzia delle Entrate, anche considerato che è venuto
meno l’obbligo di esporre sul parabrezza la ricevuta del
pagamento della tassa di proprietà, condizione che, fino a
qualche tempo fa, oggettivamente ne obbligava la
corresponsione veicolo per veicolo, l’interrogante ha dunque
chiesto di sapere se potessero essere individuate le opportune
modifiche normative atte a permettere il pagamento
cumulativo della tassa di proprietà per tali veicoli e, in
particolare, per permettere il versamento con richiesta di
addebito sul conto corrente bancario del contribuente.
Tale obiettivo potrebbe del resto essere raggiunto con una
modifica normativa che estenda alle aziende con flotte di
grande dimensione la facoltà di pagamento cumulativo introdotta per le società di leasing dalla legge n. 99 del 23 luglio
2009, all’art. 7, comma 1, che ha autorizzato le singole
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano a
stabilire le modalità con le quali le imprese concedenti
possono provvedere ad eseguire cumulativamente, in luogo
dei singoli utilizzatori, il versamento delle tasse dovute per i
periodi di tassazione compresi nella durata dei rispettivi
contratti.
Nella risposta del Ministero dell’Economia che ne è seguita,
dopo essere stato ricordato che in ogni Regione ci sono modalità operative differenti (la Regione Lazio ha per esempio adottato la procedura di pagamento cumulativo, così co-
/ EUTEKNEINFO / LUNEDÌ, 25 GENNAIO 2016
me la Regione Piemonte ha sviluppato uno strumento informatico destinato a società ed enti proprietari di flotte di veicoli per la gestione dei pagamenti cumulativi tramite bonifico bancario), è stato dunque evidenziato che ogni Regione a
Statuto ordinario, a cui il gettito della tassa è stato attribuito,
provvede a disciplinare tali aspetti in base alle proprie esigenze organizzative. Mentre per le Regioni a Statuto speciale la tassa automobilistica è di competenza erariale e pertanto trovano applicazione le norme generali che regolano la
materia.
Necessaria una razionalizzazione
Tutto ciò premesso, si conviene che sia necessaria una razionalizzazione del sistema, considerato comunque che, per
consentire il controllo della correttezza e tempestività dei pagamenti è necessario che il pagamento cumulativo sia effettuato con modalità che consentono di individuare, in modo
univoco, le targhe dei veicoli per i quali i versamenti sono
effettuati, i periodi di riferimento della tassa e i relativi importi. L’adozione di una modalità cumulativa di pagamento
viene confermata comunque come un obiettivo di semplificazione che rientra nell’indirizzo di politica legislativa del
Governo. Ed anche a tal fine, per esempio, in Lombardia,
con la pubblicazione, sul Bollettino Ufficiale regionale del 4
gennaio 2016, della DGR del 23 dicembre 2015, è entrato in
vigore il provvedimento che estende ai parchi auto superiori
alle 50 unità lo sconto sul “bollo” previsto per il pagamento
in maniera cumulativa della tassa di circolazione. Questa
nuova norma risulta vantaggiosa sia per l’ente territoriale,
che così può contare su incassi certi e sulla sicurezza che gli
importi versati siano corretti, sia per i contribuenti, che
vedono scendere le spese di gestione.
La norma lombarda prevede che le comunicazioni fra Ente
territoriale e beneficiari delle riduzioni avvengano tramite
posta elettronica certificata (PEC). E, in attesa della pubblicazione da parte del dirigente dell’unità organizzativa di
tutela delle entrate regionali dei modelli di adesione per il
pagamento cumulativo della tassa di circolazione con
riduzione tariffaria, il provvedimento dispone che siano gli
uffici tributari regionali ad accogliere adesioni spontanee,
fornendo ai richiedenti le necessarie indicazioni tecniche.
/ 09
ancora
FISCO
Piccola proprietà contadina estesa a coniuge,
genitori e figli di IAP e CD
Possono fruire dell’agevolazione se già proprietari di terreni agricoli e conviventi col
soggetto “titolare” dell’agevolazione
/ Antonio PICCOLO
Nella L. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) si trovano diverse disposizioni (tributarie e non) riservate al settore agricolo, fra le quali quelle contenute nei commi 906 e 907 che
hanno modificato (in senso favorevole ai contribuenti) le
agevolazioni fiscali previste per la piccola proprietà
contadina.
Nel dettaglio, il comma 906, nell’arricchire il comma 4-bis
dell’art. 2 del DL n. 194/2009 ha esteso con decorrenza dal
1° gennaio 2016 le agevolazioni tributarie agli atti di
trasferimento a titolo oneroso di terreni agricoli e relative
pertinenze, posti in essere a favore di proprietari di masi
chiusi, di cui alla legge della Provincia autonoma di Bolzano
n. 17/2001, dagli stessi abitualmente coltivati.
Tale comma 4-bis ha stabilito fra l’altro che a decorrere dal
28 febbraio 2010 (entrata in vigore della L. 25/2010) gli atti
di trasferimento a titolo oneroso di terreni e relative pertinenze, qualificati agricoli in base agli strumenti urbanistici
vigenti, posti in essere a favore di coltivatori diretti (CD) e
imprenditori agricoli professionali (IAP), iscritti nella relativa gestione previdenziale ed assistenziale, sono assoggettati
alle imposte di registro e ipotecaria nella misura fissa (200
euro per tributo) e all’imposta catastale nella misura dell’1%
(cfr. Agenzia delle Entrate, risoluzione n. 26 del 6 marzo
2015).
Si rammenta altresì che per tali atti di compravendita gli
onorari dei notai sono ridotti alla metà e che i soggetti beneficiari decadono dalle agevolazioni fiscali se, prima che
siano trascorsi cinque anni dalla stipula degli atti stessi, alienano volontariamente a terzi i terreni, oppure cessano di coltivarli o di condurli direttamente. Dal canto suo, il successivo comma 907, invece, ha esteso i trattamenti di favore sanciti nello stesso comma 4-bis dell’art. 2 del DL n. 194/2009
– a decorrere dal 1° gennaio 2016 – al coniuge dell’operatore agricolo (CD, IAP o proprietario di maso chiuso) o ai parenti in linea retta (genitori, figli), purché già proprietari di
terreni agricoli e conviventi, di soggetti aventi i requisiti previsti nel medesimo comma 4-bis.
In materia di piccola proprietà contadina, infine, si segnala la
recente ordinanza n. 26190/2015 con la quale la sezione sesta civile della Corte di Cassazione ha stabilito, per la prima
volta a quanto ci consta, che la disposizione di cui al citato
comma 4-bis dell’art. 2 del DL n. 194/2009, nella parte in
cui non richiede più la produzione della certificazione rila-
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sciata dall’Ispettorato provinciale agrario (IPA) competente,
attestante la sussistenza delle condizioni previste dalla L. n.
604/1954 per usufruire delle agevolazioni in tema di piccola
proprietà contadina, non ha effetto retroattivo.
Eliminazione della certificazione IPA non retroattiva
Nello specifico un operatore agricolo pugliese aveva impugnato un avviso di liquidazione con il quale l’ufficio aveva
preteso il pagamento delle imposte in misura ordinaria, a seguito della decadenza dal regime agevolato in relazione
all’acquisto di un fondo rustico per il quale il certificato
dell’IPA competente era stato prodotto oltre il triennio dalla
registrazione del rogito.
I primi giudici hanno accolto il ricorso del contribuente e la
decisione è stata confermata dal Collegio regionale che si è
così espresso: il termine del deposito del certificato non poteva ritenersi perentorio, dovendosi preferire la sussistenza
dei requisiti in capo al richiedente; l’art. 2, comma 4-bis del
DL n. 194/2009 (convertito dalla L. n. 25/2010) ha eliminato
l’onere della presentazione del certificato definitivo. Il Fisco
ha proposto ricorso innanzi alla suprema Corte che lo ha
accolto perché fondato. In particolare i giudici di legittimità
nel rinverdire il proprio consolidato orientamento (fra tante,
ordinanze n. 21980/2014 e n. 5349/2013), hanno riaffermato
che quando sia stata resa nell’atto un’esplicita dichiarazione
di voler conseguire le agevolazioni tributarie di cui alla L. n.
604/1954 e non sia stato prodotto né il certificato
provvisorio né quello definitivo, sono dovute le ordinarie
imposte di registro e ipotecarie, ma non è precluso il diritto
al rimborso se nel termine triennale gli acquirenti, i
permutanti o gli enfiteuti presentino apposita domanda
all’ufficio corredata dal certificato rilasciato dall’IPA.
L’intempestiva presentazione del certificato definitivo determina la decadenza dai benefici fiscali, a meno che il contribuente non dimostri che il ritardo della produzione del certificato sia imputabile alla condotta colpevole dell’amministrazione competente al rilascio del certificato stesso. Nel caso di specie, invece, i giudici tributari di merito, oltre a non
uniformarsi a tali principi di diritto, affermando la derogabilità del termine di presentazione della certificazione, hanno
erroneamente ritenuto retroattiva la disposizione di cui al citato comma 4-bis dell’art. 2 del DL n. 194/2009.
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ancora
LETTERE
Sarebbe stato troppo semplice poter inviare
le spese sanitarie con Entratel?
Gentile Redazione,
sono solo io che ho la sensazione che le cose si fanno sempre più inutilmente complicate?
Sto accingendomi – per ora senza successo – a spedire le
pratiche dei medici che mi hanno delegato all’invio dei dati
per le spese mediche per “semplificare” la compilazione del
730. È un file telematico. Possibile non si possa inviare come tutti i file telematici tramite Entratel?
Troppo semplice: complichiamo un po’, cosi magari poi
scattano delle belle sanzioni.
Occorre prima essere delegati, autenticarsi e inviarlo al Sistema tessera sanitario con procedure che pure le case software faticano a gestire (sono giorni che mi confronto con la
mia software house, ma manca sempre 99 per fare 100). Poi
l’Agenzia delle Entrate andrà a chiedere al Sistema TS i dati
che potevamo mandare direttamente noi a loro. Mi si dirà: la
privacy? E il Garante?
E altre “favole” per complicare le cose semplici.
No comment!
Ho poi letto la novità delle spese funebri, anche queste da inviare per questa “fregatura” del 730 precompilato: sto già
tremando (e non per l’argomento macabro). Avessi poco da
fare...
Come se non bastasse, la Certificazione unica diventa in
doppio formato (è un ossimoro, o sbaglio?). E via così.
“Buon” lavoro...
Augusto Fumagalli
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili
di Como
Direttore Responsabile: Michela DAMASCO
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