Rassegna Stampa 240 - 31 gennaio 2016

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Transcript Rassegna Stampa 240 - 31 gennaio 2016

240
con il patrocinio di
La
n
os
tr
a
Milano - Basilica di Sant’Ambrogio
Rassegna
Stampa
31 gennaio 2016
A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano”
Con sede in Milano, via Locatelli, 4
www.agenziaculturale.it
Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it
Estratti da:
Ciclostilato in proprio
23/1/2016
Il Papa: nessuna confusione
tra famiglia e altre unioni
Francesco alla Rota Romana ribadisce l'irrinunciabile verità del matrimonio secondo il disegno del Padre
di LUCIANO MOIA
La verità e la misericordia. Tra questi due punti fermi che
definiscono, per quanto possibile, l'universo dell'amore
divino e sono anche i due binari sui quali sta facendo correre
il suo pontificato, il Papa è tornato a parlare di famiglia. Nel
solco della verità e di quanto emerso nel percorso sinodale,
compiuto «in spirito e in stile di effettiva collegialità»,
Francesco ha ribadito ciò di cui la Chiesa è da sempre
convinta e che cioè «non può esserci confusione tra la
famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». E proprio
per non lasciare nulla di vago nelle mani degli specialisti
dell'interpretazione capziosa, ha subito chiarito qual è la
famiglia che appartiene al 'sogno' di Dio. È quella «fondata
sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo». Non
una pretesa confessionale, ma una «missione sempre attuale
che acquista particolare rilevanza nel nostro tempo».
Sul fronte della misericordia, coerentemente non soltanto
con lo spirito giubilare ma con una convinzione personale
che il Papa avverte profondamente, ha spiegato che chi vive
«in uno stato oggettivo di errore», continua «ad essere
oggetto dell'amore misericordioso di Cristo e perciò della
Chiesa stessa». Verità e misericordia, come chiavi
interpretative e come funzioni imprescindibili anche della
Rota Romana alla quale il discorso del Papa ieri era rivolto
nel tradizionale appuntamento per l'inaugurazione dell'anno
giudiziario. Come se Francesco, a poco più di un mese dal
'Rescritto' con cui ha chiarito il senso del Motu proprio sulla
riforma del processo per la nullità matrimoniale, avesse
voluto tornare sul quel documento - pur senza mai
accennarne esplicitamente - riprendendone i capisaldi e
incoraggiando i giudici ecclesiali a percorrere con
convinzione la strada da lui indicata. L'11 dicembre scorso
aveva spiegato che nella sua attività il 'Tribunale della
famiglia' - a cui ieri ha aggiunto la definizione di 'Tribunale
della verità del vincolo sacro' - come tutti gli altri organi
giudiziari della Chiesa, intendono manifestare «prossimità
alle famiglie ferite, desiderando che la moltitudine di coloro
che vivono il dramma del fallimento coniugale sia raggiunta
dall'opera risanatrice di Cristo».
Ieri ha dilatato il concetto, spiegando come, proprio perché
la Chiesa è madre e maestra, «sa che, tra i cristiani, alcuni
hanno una fede forte, formata nella carità, rafforzata dalla
buona catechesi e nutrita dalla preghiera e dalla vita
sacramentale, mentre altri - ha ammesso - hanno una fede
debole, trascurata, non formata, poco educata o
dimenticata». A tutti, alle persone più consapevoli, ma anche
a coloro che fanno fatica a compitare l'Abc della fede, la
Chiesa «con rinnovato senso di responsabilità», continua a
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 240 del 31 gennaio 2016
proporre il matrimonio. E lo fa sottolineando che gli
elementi essenziali di questa unione sono «prole, bene dei
coniugi, unità, indissolubilità, sacramentalità».
Un intreccio robusto di condizioni oggettive, di scelte
interiori e di volontà concrete che non può in alcun modo
essere relativizzato dai «moderni modelli centrati
sull'effimero e sul transitorio», ma che fa diretto riferimento
«alla grazia di Cristo». Una riflessione chiara, dai contorni
ben delineati per evitare qualsiasi fraintendimento, nel clima
di acceso dibattito sul futuro della famiglia che, non solo in
Italia, sta coinvolgendo anche comunità ed associazioni
ecclesiali. «Il tempo che viviamo è molto impegnativo sia
per le famiglia, sia per noi pastori, che siamo chiamate ad
accompagnarle», ha sottolineato Francesco.
Ecco perché tutti coloro che fanno sinceramente riferimento
agli ideali del Vangelo devono avere ben presente ciò che la
Chiesa propone quando parla di famiglia. Ieri il Papa, come
per collocare le sue parole nel solco di una lunga tradizione,
ha fatto riferimento a vari interventi sulla famiglia di Pio XII
e di Paolo VI. Ha ricordato che «famiglia e Chiesa, su piani
diversi, concorrono ad accompagnare l'essere umano verso
il fine della sua esistenza». E «che lo 'spirito famigliare' è una
carta costituzionale della Chiesa ». Con la famiglia, in altre
parole, non si scherza. Non è invenzione dell'uomo ma
volontà stessa di Dio. Precede lo Stato - e anche la Chiesa
stessa - quindi non può essere riassemblata e rimaneggiata
secondo il gusto del momento o le stravaganze culturali delle
mode dominanti. Anche a questo proposito è urgente, dal
punto di vista pastorale, coinvolgere tutta la Chiesa nella
preparazione adeguata degli sposi al matrimonio «in una
sorta di nuovo catecumenato, tanto auspicato da alcuni padri
sinodali».
Tornando ai temi già affrontati nel Motu proprio, Francesco
ha poi dedicato una parte rilevante del suo discorso alla Rota
Romana per chiarire uno dei punti più dibattuti nei processi
di nullità matrimoniali. Quanto conta la fede per stabilire la
verità del consenso? Riprendendo la dottrina tradizionale, il
Papa ha spiegato «che non è condizione essenziale» perché il
consenso può essere minato solo dalla volontà non «dalla
limitata coscienza della pienezza del progetto di Dio». Non è
raro anzi che coloro che si sposano con idee un po' confuse
circa unità e indissolubilità, scoprano poi durante la vita
familiare il tesoro che Dio ha stabilito per loro. E questo
grazie alla fede infusa nel momento del Battesimo «che
continua ad avere influsso misterioso nell'anima, anche
quando la fede non è stata sviluppata e psicologicamente
Punti fermi sembra essere assente».
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pagina 2
27/1/2016
IL SENSO DELLA MEMORIA
di ENZO BIANCHI
«Ricordati di non scordare», cantava Battisti a inizi
anni settanta. E la pubblicità del film «Memento» gli
faceva eco trent'anni dopo: «Ricordati di non
dimenticare!».
Frasi paradossali, ma che ben rendono l'idea del
significato e dell'importanza della «Giornata della
memoria». L'uno dopo l'altro scompaiono i testimonivittime della tragedia della shoah: figli, parenti,
amici raccolgono le ultime briciole di racconto di un
vissuto impossibile da narrare e da essere accolto
come credibile; libri, monumenti, pellicole cercano
di fissare una verità che vorremmo tutti rimuovere. E
intanto, a furia di rimuovere e di schedare, perdiamo
la nostra facoltà di memoria: «Archiviare significa
dimenticare», ammonisce Enzensberger. Allora il senso
e la portata della giornata della memoria vanno
rinnovati ogni anno, non solo e non tanto per
trasmettere il testimone alle nuove generazioni, ma
prima ancora come terapia per una società malata di
amnesia,
una
società
afflitta
da
Alzheimer
collettivo, in preda all'incapacità di conservare
memoria di ciò che è stato e, quindi, di discernere ciò
che accade e di intuire ciò che avverrà. A livello
culturale le nostre difese immunologiche non sanno più
come far tesoro, né individualmente né collettivamente, di quelle che chiamavamo le «lezioni della
storia»: il linguaggio stesso è superato. Così, per
esempio, un Paese che per oltre un secolo ha visto
decine di milioni di suoi cittadini emigrare nei
cinque continenti alla ricerca di un lavoro e di una
vita degna di questo nome, nello spazio di un paio di
generazioni si ritrova a percepire l'immigrazione
come un morbo da combattere e i migranti come minacce
capaci di destare le più irrazionali paure. Il teologo
tedesco Johannes Baptist Metz, tra i primi e i più
acuti nel ripensare la teologia cristiana «dopo
Auschwitz», constatava con tristezza l'affermarsi di
un uomo «completamente insensibile al tempo, un uomo
come
macchina
dolcemente
funzionante,
come
intelligenza computerizzata che non ha bisogno di
ricordare perché non è minacciata da alcuna
dimenticanza, come intelligenza digitale senza storia
e senza passione». Non basta infatti che un fatto sia
accaduto perché diventi patrimonio acquisito,
individuale e collettivo: è la memoria che compie
questa metamorfosi, che coglie, rilegge e interpreta
il passato affinché non piombi nel baratro dell'oblio
e l'onda del non senso ci sommerga. Non so quanto siamo
consapevoli che si registra un raffreddamento di
convinzioni verso ogni forma di «commemorazione»: chi
ricorda appare a molti una persona paralizzata sul suo
passato che non ha saputo rottamare. Così anche questa
giornata odierna rischia di essere ascritta tra le
cose che si devono fare ma senza abitarle, senza cioè
che ci interpellino in profondità, senza che suscitino
in ciascuno di noi responsabilità. Per la mia
generazione, andare a visitare i campi di sterminio in
gennaio - come feci recandomi con la scuola a Dachau a
diciassette anni - era una scoperta che scuoteva fino
alle fondamenta la nostra umanità. Oggi rischia di
essere un'esperienza tra tante, abituati come siamo
alla «conoscenza» delle notizie e degli orrori
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perpetrati nel mondo intero. In verità, se non ci si
ricorda ciò che avvenne nell'epifania del male che
colpì gli ebrei, non si è più capaci nemmeno di provare
orrore per ciò che può di nuovo accadere. Ma bisogna
anche vigilare per non trasformare il «dovere» della
memoria in un'ossessione paralizzante: ricordare le
offese e i torti subiti - come persona, come gruppo
sociale, etnico o religioso, oppure come membro
dell'unica umanità condivisa - non deve servire a
riattizzarli, ad alimentare sentimenti di vendetta
uguale e contraria, a ridare loro vitalità. Al
contrario, la memoria del male serve a farcelo
assumere come atto nelle possibilità di ogni essere
umano - e quindi anche di me stesso - e a considerarlo
vincibile solo attraverso un preciso, ostinato,
intelligente lavoro quotidiano fatto di pensieri e
azioni radicalmente «altri». È questo innanzitutto il
compito dell'indispensabile «purificazione della
memoria»: non un cinico cancellare i misfatti, non una
oltraggiosa equiparazione di vittime e carnefici, ma
la faticosa accettazione che l'interrogativo postoci
emblematicamente da Primo Levi - «se questo è un uomo»
- contiene in sé l'ancor più tragica costatazione che
«questo è stato fatto da un uomo». A quelli che
continuano a ripetere «Dov'era Dio?» - e oggi lo fanno
senza aver patito nulla, per semplice vezzo letterario
- io chiedo di porsi una domanda ancor più seria:
«Dov'era l'uomo?». Sì, dov'era l'umanità? Perché ha
taciuto quando sapeva? Perché è stata testimone e per
anni ha attenuato o cercato di nascondere quanto
accaduto? La memoria è essenziale all'umanizzazione:
dove regna la dimenticanza, regna la barbarie. La
memoria diventa allora il luogo dell'indispensabile
discernimento, l'esercizio in cui il passato, anche se
amaro,
diventa
nutrimento
per
il
futuro.
Discernimento ancor più cogente in un tempo come il
nostro in cui si assiste all'incepparsi stesso della
trasmissione - non solo di valori, ma degli eventi che
tali valori hanno suscitato - all'enfasi posta
sull'oggi o su un futuro concepito dagli uni come
irraggiungibile miraggio e dagli altri come
l'ossessivo aggrapparsi all'attimo presente. Ci si
scorda delle radici, si rimuove il travaglio del
passato, si rottama l'oscuro lavorio di generazioni o
il tragico annientamento di popoli e così ci si priva
del fondamentale strumento per discernere ciò che
dell'oggi merita di avere un futuro. La memoria
infatti non è la meccanica riesumazione di un evento
passato che in esso ci rinchiude: al contrario, quando
facciamo memoria noi richiamiamo l'evento accaduto
ieri, lo invochiamo nel suo permanere oggi, lo
sentiamo portatore di senso per il domani. In questa
accezione la memoria apre al futuro e nel contempo
attesta una fedeltà a eventi e verità, a un
intrecciarsi di vicende che assume lo spessore di
«storia». Se fare memoria è questo operare un
discernimento sul già avvenuto per alimentare
l'attesa del non ancora realizzato, possiamo a ragione
far nostre le parole intelligenti e sorprendenti del
filosofo ebreo francese Marc-Alain Ouaknin, che così
parafrasa il quarto comandamento: «Onora tuo padre e
tua madre, cioè: Ricordati del tuo futuro!».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
pagina 3
27/1/2016
LO SGUARDO SU TEHERAN
di ROBERTO TOSCANO
COME già dimostrano i primi risultati degli incontri sia
a livello governativo che imprenditoriale, la visita di
Hassan Rouhani a Roma riveste un consistente
interesse economico. Con i suoi quasi 80 milioni di
abitanti, l'Iran è un Paese interessante per l'economia
italiana.
HA una popolazione giovane, una classe media estesa
e molto "occidentale" nei gusti e nelle aspirazioni. Dal
settore energetico alla meccanica ai prodotti di alta
gamma (nei mall di Teheran primeggiano le grandi
firme italiane) l'Italia è già molto presente in Iran, e
potrà esserlo ancora di più ora che l'ostacolo delle
sanzioni si avvia ad essere gradualmente rimosso.
Con Rouhani e il suo ministro degli Esteri Zarif,
tuttavia, gli interlocutori italiani non hanno parlato
solo di economia, ma anche di politica. In un momento
in cui Medio Oriente e Nord Africa sono devastati da un
processo di destabilizzazione generalizzata - di cui l'Is
è ad un tempo conseguenza e causa - è giusto che
l'Italia, che non può certo considerarsi al riparo dagli
effetti di quella destabilizzazione, cerchi di verificare
in che misura l'Iran possa contribuire, a partire dalla
Siria, alla ricerca di soluzioni diverse da quella dello
scontro violento. Lo ha detto molto chiaramente,
dopo l'incontro con Rouhani, il presidente del
Consiglio Renzi: «Con l'Iran al tavolo internazionale
sarà più facile vincere questa sfida al terrorismo e allo
Stato Islamico ». È lo stesso concetto espresso nel
breve comunicato emesso al termine dell'incontro fra
Rouhani e papa Francesco, dove si sottolinea «il ruolo
importante dell'Iran, insieme ad altri Paesi della
regione, per promuovere adeguate soluzioni politiche
alle problematiche che affliggono il Medio Oriente ».
Valutazioni che si contrappongono in modo radicale
alla clamorosa opinione espressa in questi giorni dal
ministro della Difesa israeliano Yaalon secondo cui,
dovendo scegliere tra Is e Iran, sarebbe meglio
preferire l'Is.
Non si tratta di attribuire all'Iran finalità
necessariamente coincidenti con le nostre, ma di
vedere se e come raggiungere le necessarie
convergenze in un momento in cui il governo
presieduto da Rouhani sta puntando tutto, sia dal
punto di vista degli equilibri interni che dell'economia,
su un rapporto con il mondo esterno in cui la
collaborazione possa prevalere sulla contrapposizione. L'Italia non da oggi crede nella possibilità di
sviluppare i rapporti con l'Iran puntando fra l'altro sulla
grande simpatia che, come può verificare chiunque
abbia occasione di visitare il Paese, gli iraniani nutrono
nei confronti dell'Italia, un vero e proprio pregiudizio
favorevole che è particolarmente accentuato negli
ambienti riformisti, dove non si dimentica che l'Italia
fu il primo Paese occidentale a tendere la mano al
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presidente Khatami, e anche in quelli del centro
moderato del regime, convinti che l'Italia più di altri
Paesi possa accompagnare l'Iran nel suo processo di
modernizzazione economica e integrazione nel
sistema internazionale su una base di mutuo interesse
e senza secondi fini. Al riguardo è interessante che le
teorie cospirative tanto diffuse nell'opinione pubblica
iraniana non riguardino mai l'Italia. Fra l'altro questa
assenza di sospetto nei nostri confronti permette a
noi meglio che ad altri di sollevare - come risulta sia
avvenuto nel corso dei colloqui - temi politicamente
delicati come i diritti umani e in particolare la pena di
morte, su cui l'Iran, assieme a Cina e Arabia Saudita,
detiene un inaccettabile primato.
In un momento in cui si celebra la Giornata della
Memoria in ricordo della Shoah è comprensibile che si
torni a condannare con fermezza ogni forma di
negazionismo e antisemitismo. Appare però
ingiustificato ignorare le non superficiali distinzioni
che su questo come su altri temi esistono fra il
presidente Ahmadinejad, tristemente famoso per la
vergognosa "Conferenza sull'Olocausto" del 2006, e il
presidente Rouhani. A fine 2014, dopo oltre un anno
di presidenza Rouhani, il quotidiano israeliano Haaretz
pubblicava un'inchiesta molto positiva sulla politica di
Rouhani nei confronti della comunità ebraica in Iran
(circa 20 mila persone), sottolineando l'importanza di
segnali come l'autorizzazione alle scuole ebraiche di
chiudere il Sabato nonché la concessione di
consistenti aiuti statali all'ospedale ebraico di Teheran.
È giusto restare vigili e legare l'apertura nei confronti
di Teheran, come del resto è avvenuto nel caso
nucleare, a concreti comportamenti dell'Iran, cui non
si deve smettere, in particolare, di ricordare che non è
accettabile oltrepassare il confine fra opposizione alle
politiche di Israele e rifiuto di riconoscere il suo diritto
ad esistere. Andrebbe però evitata un'analisi piatta e
dogmatica di un Paese dinamico, politicamente
variegato anche all'interno dello stesso regime e
socialmente in trasformazione che è sbagliato
rappresentare come monolitico ed immutabile. Chi
manifesta oggi un aprioristico scetticismo nei
confronti della possibilità di un dialogo sostiene che la
Repubblica Islamica non è e non può essere uno Stato
normale che valuta pragmaticamente i propri
interessi nazionali. L'accoglienza di Rouhani a Roma
dimostra che l'Italia è convinta che non sia così. In
questo non è lontana, sarebbe bene ricordarlo, dalla
valutazione di fondo su cui si è basata, con il
presidente Obama, la svolta della politica iraniana
degli Stati Uniti. Una svolta che ha permesso l'accordo
nucleare di Vienna grazie a un metodo negoziale che
potrebbe oggi essere esteso, come ha accennato a
Roma il presidente Rouhani, ad altri temi critici.
©RIPRODUZIONE RISERVATA.
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24/1/2016
Un documentato saggio di Aldo Schiavone riesamina la figura del governatore della Giudea con gli
strumenti dello storico e del filologo. Dimostrando che il momento cruciale in cui il romano scarica
sul popolo ebraico la responsabilità della scelta di non liberare Gesù, è privo di credibilità. E riflette
«una tenace pulsione antigiudaica» destinata a trasmettersi nei secoli - 184 pagine 22 euro
Ma Pilato non si lavò le mani
di Claudio Strinati
LA STORIA Di uno che non vuole responsabilità
scaricando tutto sugli altri, si dice che fa come Ponzio
Pilato. Se ne lava le mani! Aldo Schiavone ha scritto un
libro intero (Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria,
Einaudi, euro 22) per spiegare il senso profondo del celebre
aneddoto, raccontando la vera vicenda del quinto
governatore della Giudea per come è deducibile da un
attento scrutinio dei testi antichi su questo personaggio
realmente vissuto e operante all'inizio del primo secolo. Ha
riletto i Vangeli, ha riletto storici e saggisti come Flavio
Giuseppe, Filone di Alessandria, Tacito, Tertulliano; ha
esaminato ogni possibile traccia dell'epoca col fine di
approdare alla ricostruzione di Ponzio Pilato per entrare
sempre più a fondo nella reale conoscenza della figura
storica del Cristo, a prescindere dall'essere credenti o non
credenti. Che cosa può essere detto di filologicamente
documentato quando si tocca un tema di tale delicatezza e
complessità?
LE DOMANDE Nel corso del tempo sono state tante le
risposte a un simile quesito e in tal senso l'incertezza
continuerà a regnare sovrana in saecula saeculorum ma
bisogna dire che ogni passaggio dei Vangeli è qui
seriamente scrutinato da Schiavone per estrarne una verità
o almeno una verosimiglianza degna di esame e cruciale è
proprio l'episodio del lavaggio delle mani. Ma che cosa è
successo veramente? si chiede l'autore che dà per certo
come gli episodi della Passione di Cristo narrati nei
Sinottici e nel Vangelo di Giovanni siano in sostanza
realmente accaduti, dato che prende tali scritti come
testimonianze filologicamente attendibili, da interpretare
certo, ma basate su avvenimenti veri.
È l'evangelista Matteo a raccontare il momento cruciale
della storia e Schiavone lo commenta da par suo. Dopo tre
rifiuti da parte dei giudei di liberare Gesù, Pilato si
scoraggia: "presa dell'acqua si lavò le mani di fronte alla
folla dicendo: Io sono innocente di questo sangue,
vedetevela voi!
E tutto il popolo rispondendo disse: il suo sangue su di noi
e sui nostri figli". Schiavone argomenta : "non si può
credere a una sola parola di questo racconto".
IL METODO Ed emerge il metodo dell'autore misto di
cognizione storica circostanziata, pregnanza narrativa e
competenza giuridica e amministrativa. Non si può
credere a questo racconto, spiega, sia perché Pilato non si
sottrasse affatto agli sviluppi successivi della vicenda sia
perché il rituale del lavarsi le mani era prettamente ebraico
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e quindi non appartenente alla sua cultura e, peraltro, nella
tradizione biblica il lavaggio delle mani avviene dopo
l'uccisione della vittima e non prima.
Schiavone, cioè, cerca di estrarre dagli incerti dati narrativi
dei Vangeli, e del Vangelo di Giovanni soprattutto,
informazioni precise che gli antichi scrittori hanno voluto
presentare come dati di fatto incontrovertibili ma che di
certo non lo sono. In questo episodio, chiarisce Schiavone,
Matteo e Marco vogliono adombrare la terribile tesi per cui
Cristo sarebbe stato ucciso da un intero popolo che "se ne
era assunta piena e collettiva responsabilità". Un evidente
falso, afferma lo studioso, proprio perché smascherabile
attraverso il confronto tra ciò che ci viene raccontato nel
Vangelo e ciò che sappiamo per certo inerente alla cultura
giuridica e amministrativa di quel tempo e di quel
territorio.
Ed ecco che Schiavone può spiegare come qui "si radicava il
rovello di una tenace pulsione antigiudaica che nessuna
acrobazia esegetica può cercare di sminuire: un fondo di
veleni che si sarebbe trasmesso intatto e nefasto attraverso i
secoli". Schiavone, insomma, invoca i fatti almeno
plausibili per trarre conclusioni ragionevoli di carattere
esegetico e teologico. Poi tutta la trattazione del libro è
disseminata di inevitabili ipotesi, dubbi, perplessità.
L'EPOCA Ma proprio per questo l'operazione che mette in
campo in questo testo affascinante e difficile, scritto con
limpida e consequenziale chiarezza, può dirsi riuscita.
Attraverso la scrupolosa e dettagliata ricostruzione della
figura storica di Pilato emerge la grande questione di
fondo: quando comincia veramente il Cristianesimo? È
ovvio, si potrebbe obbiettare, dalla morte e Resurrezione di
Cristo o, per lo meno, dall'epoca che segue subito dopo
culminando con la predicazione paolina e con la stesura dei
Vangeli addentrantesi abbastanza avanti nella seconda
metà del secolo. Ma in realtà non è così e per convincersene
basta leggere attentamente quella parte della trattazione di
Schiavone dedicata alla Palestina al tempo dei Vangeli.
L'autore ci spiega bene cosa fosse la Giudea, come fosse
amministrata, come fosse vissuta la fede ebraica e la
quotidianità dell'esistenza. Ed emerge una verità
sconcertante: il tremendo contrasto tra "la povertà della
storia e la straordinaria ricchezza della memoria" che
affligge oggi la convivenza in quella terra martoriata era
vissuto nel tempo di Cristo esattamente come è vissuto
oggi.
Un monito solenne promana allora da queste pagine.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
pagina 5
21/1/2016
Tra giustizia e nuovi diritti
Il rischio dell'ideologia
Se il desiderio prevale sulla legge, arbitrio non giudizio
di PAOLO BORGNA
In Italia negli ultimi anni si è aperta una nuova fase nell'amministrazione
della giustizia: con la tendenza - rivendicata dalle teorie
"neocostituzionaliste" - a fare del giudice non solo il garante ma il
«creatore dei diritti». Sullo sfondo di questo nuovo ruolo del giudice sta,
in primo luogo, la dilatazione di ciò che si debba intendere come
"diritto".
L'ampliamento della tavolozza dei "diritti" è tendenza, culturale prima
ancora che giuridica, che nasce dall'esigenza di «rimediare alla
stanchezza delle democrazie» e frenare la prepotenza delle regole del
mercato. Ma - come dimostra in un'acuta analisi Luciano Violante ( Il
dovere di avere doveri, Einaudi, 2014) - essa tende ormai a definire come
diritto soggettivo (o addirittura diritto fondamentale) «tutto ciò che
appare desiderabile». Giungendo a un effetto paradossale: di provocare
una frantumazione individualistica della società e di favorire le tendenze
egoistiche del singolo cittadino, che sono la sconfinata prateria in cui il
mercato può galoppare senza briglie.
Tipica espressione di questa tendenza è la pratica dell'utero in affitto. E,
per rimanere in Italia, la sentenza 162 del 2014 della Corte costituzionale
che riconosce la possibilità della coppia anche sterile di ricorrere alla
fecondazione eterologa, ancorandola alla «fondamentale e generale
libertà di autodeterminarsi» e al diritto «incoercibile» di diventare
genitori. Questa sentenza è esemplare di quella che Violante chiama la
«insaziabilità» dei diritti fondamentali: perché il diritto alla genitorialità,
non certo scritto in Costituzione, viene fatto discendere da princìpi di
carattere generale (diritti inviolabili dell'uomo, principio di uguaglianza,
tutela della famiglia e della maternità, di cui agli articoli 2, 3 e 31), dando
di essi un'interpretazione talmente opinabile e creativa da sconfinare
nella discrezionalità politica che, in democrazia, dovrebbe essere il
"giardino proibito" riservato al Legislatore.
A dare forza a questa nuova "teoria dei diritti" c'è poi l'inarrestabile
espansione delle fonti del diritto: non solo le leggi e le Costituzioni
nazionali ma, sempre più, anche le Convenzioni internazionali e la
giurisprudenza delle Corti europee. Si noti che questa dilatazione non è
solo frutto di elaborazioni dottrinali, ma ha trovato esplicito
riconoscimento anche in leggi nazionali.
Si pensi, ad esempio, all'articolo 35 ter inserito (nel 2014) nel nostro
ordinamento penitenziario: secondo cui il giudice di sorveglianza, nel
valutare, a fini risarcitori, la sussistenza di «trattamenti inumani e
degradanti» (art. 3 della Convenzione dei diritti dell'uomo) deve far
riferimento agli orientamenti giurisprudenziali della Corte di
Strasburgo.
Con il che si assiste a un singolare capovolgimento: per cui la
maggioranza degli elettori, rappresentata dal Legislatore, rinuncia a
definire contenuti e contorni di un diritto fondamentale, lasciando questo
compito ai giudici di una Corte. Il punto è che le Convenzioni
internazionali si limitano, perlopiù, ad affermare princìpi, senza che
sussistano norme giuridiche che ne disciplinino l'esercizio e ne
definiscano il limite. Ma se si attribuisce natura giuridica a questi
princìpi e se si ritiene che debba essere il giudice a disciplinarli e a
declinarli in diritti, ecco allora che la nuova definizione del giudice come
«creatore di diritti» ha una sua logica. Se a tutto ciò si aggiunge che
l'affermazione dei princìpi (contenuta nelle varie Carte) non è sempre
chiara e univoca ma appare spesso generica e (a volte) contraddittoria,
allora si dovrà riconoscere che il giudice, chiamato a misurarsi con un
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sistema di fonti sempre più intricato, eserciterà, nella scelta della fonte e
nella modulazione del diritto, una discrezionalità enorme. Le opzioni che
avrà di fronte - privilegiare questa o quella fonte, darle questa o quella
interpretazione - saranno così ampie da trasformare la discrezionalità,
giustamente riconosciuta al giudice nell'applicare la legge, in vero e
proprio arbitrio affidato quasi esclusivamente alle sue preferenze e ai
suoi orientamenti culturali.
I l caso più eclatante è la vicenda "Stamina": per cui una Procura ha
incriminato per associazione a delinquere ed altri reati i responsabili
della fondazione che offriva quel trattamento e, contemporaneamente,
un Tribunale ordinava di proseguire la cura per garantire il «diritto alla
salute e alla vita individuale» e per evitare che venisse soffocato «il
diritto all'autodeterminazione» e il «fondamentale diritto umano a
effettuare scelte lecite più consone alle esigenze della propria sfera
individuale». Verrebbe da dire: ecco a cosa porta l'idea che ogni desiderio
sia un diritto! Ma c'è un ultimo punto su cui dobbiamo riflettere: se
l'operazione che il magistrato è chiamato a compiere nell'affermazione
dei diritti fosse veramente quella che abbiamo descritto, allora si
dovrebbe inevitabilmente riconoscere che il suo compito è cosa
completamente diversa da quella del «giudice della Costituzione» che
avevano in mente i nostri Padri costituenti. A questo punto, tutti i presìdi
posti dalla Costituzione a tutela dell'indipendenza della magistratura reclutamento burocratico tramite concorso, autogoverno attraverso un
Csm eletto per due terzi dagli stessi magistrati, inamovibilità - non
avrebbero più senso.
L'architrave dell'indipendenza dei magistrati è il capoverso dell'articolo
101 della Costituzione: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Ma
se la legge non conta più nulla, a cosa serve l'indipendenza dei giudici?
Perché dei giudici, cui venga attribuito il potere di compiere scelte
discrezionali che tipicamente appartengono alla politica, dovrebbero
essere privi di legittimazione democratica? Ci sono grandi democrazie in
cui il diritto giurisprudenziale conta più della legge.
Ma in quelle democrazie i pubblici accusatori sono elettivi e i giudici
nominati dal governo. Il modello di giudice che piace tanto ai fautori
della "teoria dei diritti" prima o poi, inevitabilmente, dovrebbe essere
collegato (direttamente o indirettamente) con il principio della sovranità
popolare. Come non accorgersene? Si potrebbe obiettare: ma perché non
accettare l'elettività? Non ho dubbi nel rispondere: perché la realtà è
diversa dai sogni.
Come idea astratta, l'elettività di un magistrato raggiunge la perfezione.
Cosa c'è di più democraticamente puro di un popolo che sceglie i suoi
magistrati, affidando ai migliori e ai più saggi il compito di vigilare sulle
proprie libertà?
Ma la realtà ci dice che le forme concrete con cui la politica si realizza
farebbero in modo che la maggioranze politiche del momento
controllerebbero anche l'elezione dei magistrati: imporrebbero i loro
candidati, quelli più pronti a promettere e servire. Inoltre, nella nostra
civiltà dell'immagine, in cui l'esposizione mediatica vale più del merito, i
meccanismi di formazione del consenso elettorale premierebbero non i
migliori ma i più capaci ad apparire, a farsi sentire. E, per un magistrato,
apparire e farsi sentire significa dare pubblicità al proprio lavoro in
forme spettacolari che quasi mai sono compatibili con il rendere
giustizia. Sono certi di volere proprio questo i teorici del «giudice che
crea i diritti»?
(2 - fine) RIPRODUZIONE RISERVATA.
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21/1/2016
A Davos i grandi della terra affrontano i temi del futuro. Le macchine sostituiranno 5 milioni di
lavoratori, l'economia digitale è già pari a un quinto del Pil globale. Ma crescono le disparità
Ricerca e robotica nuova rivoluzione
di Francesco Bisozzi
GLI SCENARI Entro il 2020 i robot saranno i migliori amici
dell'uomo. O i suoi peggiori nemici, dipende dai punti di vista.
Oltre a badare alla casa, a fornire assistenza agli anziani e a
lavorare negli ospedali, faranno anche da consulenti
finanziari, siederanno nei cda delle grandi aziende e verranno
impiegati per svolgere attività di routine nella pubblica
amministrazione. Risultato: si mangeranno 5 milioni di posti
di lavoro. È quanto emerge dal rapporto "The future of jobs"
presentato al World Economic Forum di Davos, stando al
quale il mercato della robotica conoscerà a breve un boom
senza precedenti, un po' come è successo al settore
dell'informatica negli anni Novanta.
IL MERCATO Il valore complessivo del mercato dei robot
raggiungerà tra quattro anni quota 151,7 miliardi di dollari.
Oggi vale circa 27 miliardi di dollari, contro i 7,4 del 2000 e i
10,8 del 2005. A fare da traino sarà la Cina, dove il rapporto tra
macchine e dipendenti è destinato a crescere a dismisura: nel
Paese asiatico la densità robotica è dieci volte inferiore a quella
della Germania, ma nei prossimi due anni i robot
raddoppieranno. In pole position anche l'Italia, tra i primi
Paesi al mondo nella produzione di robotica industriale.
Come detto però un po' di preoccupazione c'è. Nel Belpaese i
robot cancelleranno 200 mila posti di lavoro. In Francia ne
spariranno circa 400 mila, in Germania 600 mila. Secondo il
rapporto presentato al World Economic Forum di Davos, con
l'aumento dei robot in circolazione due terzi dei potenziali
posti di lavoro andranno perduti nel settore amministrativo,
dove macchine sempre più smart svolgeranno le attività di
routine. L'avanzare della robotica e dell'intelligenza artificiale
avrà un impatto notevole anche nel settore energetico. Pure il
mondo della finanza dovrà adeguarsi. Dopo i robo-consulenti
che analizzano gli investimenti e usano algoritmi per creare
portafogli personalizzati (alla fine del 2014 i robot già
gestivano 19 miliardi di dollari), arriveranno anche i
consiglieri di amministrazione robotici. Il primo robot a
sedere in un consiglio di amministrazione è stato Vital,
acronimo di Validating Investment Tool for Advancing Life
Sciences , che nel 2014 è entrato a far parte del cda della Deep
Knowledge Ventures di Hong Kong. Vital è stato impiegato
tra le altre cose per analizzare gli aspetti che riguardano i rischi
e le aree di investimento dei progetti. Al summit di Davos si è
parlato ieri anche di economia digitale. Secondo il rapporto
sulla "digital disruption" di Accenture l'economia digitale, che
già oggi vale più di un quinto del prodotto interno lordo
mondiale, potrebbe generare 2 trilioni di dollari di produzione
economica in più entro il 2020. In Italia l'economia digitale
contribuisce al 18% del pil, contro il 33% degli Usa, il 31% del
Regno Unito e il 29% dell'Australia. Entro il 2020 la cosiddetta
"digital disruption" potrebbe portare nel Belpaese a una
crescita addizionale del pil del 4,2%, per un valore di circa 75
miliardi di euro. Al World Economic Forum non potevano
mancare i giganti del web. Il Ceo di Microsoft Satya Nadella ha
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 240 del 31 gennaio 2016
annunciato che la multinazionale donerà un miliardo di
dollari in risorse di cloud computing a enti no profit.
PROBLEMATICHE Come sempre l'attenzione si è
focalizzata sui problemi del mondo Stando al rapporto
dell'organizzazione umanitaria Oxfam, diffuso alla vigilia del
summit, oggi l'1% più ricco della popolazione mondiale
detiene una ricchezza maggiore del restante 99%. Nonostante
il Pil globale sia più che raddoppiato negli ultimi trent'anni,
arrivando a 78 mila miliardi di dollari nel 2014 e contribuendo
a dimezzare il numero di persone sotto la soglia della povertà
estrema, sono in pochi ad averne beneficiato: l'1% più ricco del
mondo ha ricevuto la metà dell'incremento di ricchezza
registrato negli ultimi 15 anni su scala globale. Risultato?
Rispetto al 2010, quando le 388 persone più facoltose del
pianeta detenevano la stessa ricchezza della metà più povera
del mondo, la situazione è notevolmente peggiorata. E nei
prossimi anni la disuguaglianza di ricchezza a livello globale
continuerà a farsi più marcata. Per Save The Children, che ha
presentato il rapporto "Povertà minorile nel mondo", più di
950 milioni di minori rischiano invece di cadere in povertà.
© RIPRODUZIONE RISERVATA.
27/1/2016
Ma la libertà non si contratta
di PIERLUIGI BATTISTA
Restituitele alla loro nudità. Che poi significa restituitele alla loro libertà.
Quelle statue di nudi femminili ricoperte per non offendere l'ospite, il
presidente iraniano Rouhani, è stato un segno di cedimento culturale.
Speriamo che quelle statue vengano svestite al più presto. Restituite alla
loro nudità. Che poi significa restituite alla loro libertà. Averle ricoperte
per non offendere l'ospite, il presidente iraniano Rouhani, è stato un
segno di cedimento culturale. Una macchia. Non abbiamo nulla di cui
vergognarci. Non dobbiamo pensare che la nudità dell'arte sia qualcosa
di spregevole o di vergognoso. Consideriamo giustamente ridicoli i
braghettoni con cui in passato il bigottismo cercava di coprire il nudo
delle statue. E quel nudo ci racconta che nel nostro «stile di vita» la
libertà artistica è parte integrante e imprescindibile della libertà tout
court. Chi chiede che le nostre stature siano coperte manifesta
un'arroganza culturale che dovremmo respingere, una pretesa di
superiorità morale che possiamo spedire tranquillamente al mittente.
Invece ci mettiamo sempre in difesa. Ammettiamo che, certo, quei nudi
possono rappresentare qualcosa di sconveniente. Che dovremmo
nasconderli per non dare all'arcigno ospite una brutta impressione. Non
vogliamo capire che la libertà d'espressione non è una cosa da
maneggiare come fosse cosa impura. Non vogliamo capire che una
battaglia culturale non è un atto bellicoso, ma un atto d'amore nei
confronti di ciò che siamo e che siamo diventati pagando prezzi immensi.
La libertà di vestirsi e di svestirsi, la libertà di comportarsi senza seguire i
precetti e i dogmi, la libertà di separare politica e religione. Era lui, il
presidente Rouhani, che avrebbe dovuto adattarsi per non offenderci, e
non il contrario. E non dovrebbe essere un contratto in più, o una mossa
diplomatica, a farci rinnegare, tra l'altro con modalità che sfiorano il
ridicolo, quello che siamo, anche in manifestazioni estetiche
apparentemente innocue. Senza sfregiare, sia pur simbolicamente, i
monumenti di cui andiamo orgogliosi.
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PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Roma - Piazza San Pietro
Domenica, 24 gennaio 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nel Vangelo di oggi, l'evangelista Luca prima di presentare il discorso
programmatico di Gesù a Nazaret, ne riassume brevemente l'attività
evangelizzatrice. E’un'attività che Egli compie con la potenza dello Spirito
Santo: la sua parola è originale, perché rivela il senso delle Scritture; è una
parola autorevole, perché comanda persino agli spiriti impuri e questi
obbediscono (cfr Mc 1,27). Gesù è diverso dai maestri del suo tempo: per
esempio, non ha aperto una scuola per lo studio della Legge, ma va in giro a
predicare e insegna dappertutto: nelle sinagoghe, per le strade, nelle case,
sempre in giro! Gesù è diverso anche da Giovanni Battista, il quale
proclama il giudizio imminente di Dio, mentre Gesù annuncia il suo perdono
di Padre.
Ed ora immaginiamo di entrare anche noi nella sinagoga di Nazaret, il
villaggio dove Gesù è cresciuto fino a circa trent'anni. Ciò che vi accade è un
avvenimento importante, che delinea la missione di Gesù. Egli si alza per
leggere la Sacra Scrittura. Apre il rotolo del profeta Isaia e prende il passo
dove è scritto: “lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha
consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto
annuncio” (Lc 4,18). Poi, dopo un momento di silenzio pieno di attesa da
parte di tutti, dice, tra lo stupore generale: “Oggi si è compiuta questa
Scrittura che voi avete ascoltato” (v. 21).
Evangelizzare i poveri: questa è la missione di Gesù, secondo quanto Lui
dice; questa è anche la missione della Chiesa, e di ogni battezzato nella
Chiesa. Essere cristiano ed essere missionario è la stessa cosa. Annunciare
il Vangelo, con la parola e, prima ancora, con la vita, è la finalità principale
della comunità cristiana e di ogni suo membro. Si nota qui che Gesù
indirizza la Buona Novella a tutti, senza escludere nessuno, anzi
privilegiando i più lontani, i sofferenti, gli ammalati, gli scartati della
società.
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 240 del 31 gennaio 2016
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Domandiamoci: che cosa significa evangelizzare i poveri? Significa anzitutto
avvicinarli, significa avere la gioia di servirli, di liberarli dalla loro
oppressione, e tutto questo nel nome e con lo Spirito di Cristo, perché è Lui il
Vangelo di Dio, è Lui la Misericordia di Dio, è Lui la liberazione di Dio, è Lui
chi si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà. Il testo di lsaia,
rafforzato da piccoli adattamenti introdotti da Gesù, indica che l'annuncio
messianico del Regno di Dio venuto in mezzo a noi si rivolge in modo
preferenziale agli emarginati, ai prigionieri, agli oppressi.
Probabilmente al tempo di Gesù queste persone non erano al centro della
comunità di fede. Possiamo domandarci: oggi, nelle nostre comunità
parrocchiali, nelle associazioni, nei movimenti, siamo fedeli al programma di
Cristo? L'evangelizzazione dei poveri, portare loro il lieto annuncio, è la
priorità? Attenzione: non si tratta solo di fare assistenza sociale, tanto meno
attività politica. Si tratta di offrire la forza del Vangelo di Dio, che converte i
cuori, risana le ferite, trasforma i rapporti umani e sociali secondo la logica
dell'amore. I poveri, infatti, sono al centro del Vangelo.
La Vergine Maria, Madre degli evangelizzatori, ci aiuti a sentire fortemente la
fame e la sete del Vangelo che c’è nel mondo, specialmente nel cuore e nella
carne dei poveri. E ottenga ad ognuno di noi e ad ogni comunità cristiana di
testimoniare concretamente la misericordia, la grande misericordia che
Cristo ci ha donato.
© Copyright 2016 - Libreria Editrice Vaticana
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quaderno 3954
21 marzo 2015
LA SCOMUNICA AI MAFIOSI
Luciano Larivera S.I.
Nel suo ultimo messaggio di fine anno, l'ex-presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, ha indicato l'imperativo dell'unità nazionale «per
affrontare su larghe basi unitarie le più gravi patologie di cui il nostro Paese
soffre. A cominciare da quella della criminalità organizzata e dell'economia
criminale; e da quella di una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega
della realtà sociale e istituzionale, trovando sodali e complici in alto: gli
inquirenti romani stanno appunto svelando una rete di rapporti tra "mondo di
sotto" e "mondo di sopra". Sì, dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e
corrosivo della nostra società. E bisogna farlo insieme, società civile, Stato,
forze politiche senza eccezione alcuna. Solo riacquisendo intangibili valori
morali la politica potrà riguadagnare e vedere riconosciuta la sua funzione
decisiva. Valori morali, valori di cultura e di solidarietà. Non lasciamo
occupare lo spazio dell'attenzione pubblica solo a italiani indegni».
L'allora Presidente ha richiamato il Messaggio di Papa Francesco per la
«Giornata Mondiale della Pace 2015» sulla «durissima realtà dei "molteplici
volti della schiavitù" nel mondo di oggi». Perché in Italia ci sono territori e
gruppi sociali (anche stranieri che implorano la liberazione dal dominio o
dall'oppressione da parte di mafie nazionali, cinesi, nigeriane ecc. E il
Pontefice, nel condannare gli asservimenti materiali e morali, aveva ricordato
quelli ad opera delle organizzazioni criminali: traffico di esseri umani,
prostituzione, lavoro nell'industria delle droghe ecc.
Poco prima del messaggio presidenziale, il Vescovo di Roma nell'omelia
al Te Deum aveva fatto un riferimento implicito, come Napolitano, allo
scandalo «Mafia Capitale-mondo di mezzo» scoppiato il 2 dicembre scorso,
con 37 arresti e 101 indagati. E ha coniato il neologismo «mafiarsi».
«Senz'altro - affermava il Papa - le gravi vicende di corruzione, emerse di
recente, richiedono una seria e consapevole conversione dei cuori per una
rinascita spirituale e morale. [...]. È necessario un grande e quotidiano
atteggiamento di libertà cristiana per avere il coraggio di proclamare, nella
nostra Città, che occorre difendere i poveri e non difendersi dai poveri, che
occorre servire i deboli e non servirsi dei deboli!».
Riprendendo poi «l'insegnamento di un semplice diacono romano», san
Lorenzo, il Papa ha aggiunto: «Quando una società ignora i poveri, li
perseguita, li criminalizza, li costringe a "mafiarsi", quella società si
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21 marzo 2015
impoverisce fino alla miseria, perde la libertà e preferisce "l'aglio e le cipolle"
della schiavitù, della schiavitù del suo egoismo, della schiavitù della sua
pusillanimità, e quella società cessa di essere cristiana».
Papa Francesco a Sibari
Le «mafie» vecchie e nuove, alfine di un illecito arricchimento,
compiono una serie di delitti (omicidi, traffico di droga, estorsioni, usura,
corruzione su appalti pubblici, compravendita di voti ecc.). Ma questi reati
sono compiuti anche da singoli o da più persone associate senza che tra di
loro ci sia un sodalizio mafioso. Per la loro specifica pericolosità, ossia di
infiltrare e avvelenare, come un cancro, la vita economica, sociale,
culturale e sportiva (o addirittura religiosa) di un territorio o di un gruppo
etnico, le «associazioni di stampo mafioso» non devono essere comprese
come semplici organizzazioni criminali. Altrimenti è impossibile
contrastarle.
Tra i sodali di questa forma di organizzazione a delinquere il vincolo
associativo ha un proprium oggettivo che costituisce il « metodo mafioso».
Come recita l'art. 416 bis del Codice penale italiano, il proprium mafioso è che
«coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del
vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne
deriva». Tre quindi sono gli elementi: intimidazione, assoggettamento,
omertà. Essi valgono nei confronti degli associati e verso terzi (complici,
inquirenti, vittime, testimoni, estranei) di un certo territorio o di un gruppo
sociale. L'assoggettamento e l'omertà si basano sulla convinzione di essere
continuamente esposti al pericolo ineludibile di subire violenza fisica,
psicologica e morale. Questa violenza intimidatrice deriva dal sodalizio stesso
e non dalla forza di qualcuno dei suoi membri.
Il magistero del Papa e dei vescovi contro le mafie è sempre più
circostanziato, incalzante e di portata globale. E la riforma delle finanze
vaticane risponde anche all'imperativo di non permettere alle mafie di usarle
per corruzione e riciclaggio. Inoltre la scomunica latae sententiae per i crimini
più gravi compiuti anche dai mafiosi esiste. E vale a fortiori, se tali delitti sono
compiuti da mafiosi. Nel 1944, in una Lettera collettiva dell'episcopato siculo,
essa era trasparente, pur senza riferimenti espliciti alla mafia: «Per parte
nostra... dichiariamo colpiti da scomunica... tutti coloro che si fanno rei di
rapina o di omicidio ingiusto o volontario». Nel 1952, questa scomunica fu
estesa ai mandanti e ai collaboratori. Poi, nel 1982, si scomunicava chi si fosse
macchiato di crimini violenti che hanno «come matrice la mafia e la nefasta
mentalità che la muove e la facilita».
Il Codice di diritto canonico del 1983 prevede che i ministri sacri devono
negare i sacramenti ai pubblici peccatori (cfr can. 843 § 1), come i notori capi
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mafiosi. Nel 1989, il documento della Conferenza episcopale italiana Chiesa
italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà (n. 14) trattava della natura
e delle conseguenze dei sodalizi di stampo mafioso e dichiarava: «La Chiesa
italiana condanna radicalmente queste organizzazioni criminose ed esorta gli
uomini "mafiosi" a una svolta nel loro comportamento». In seguito la Cei e i
vescovi locali hanno proseguito la pastorale di denuncia, di progressiva
purificazione delle processioni e dei sacramenti, e di promozione dell'uso
sociale dei beni confiscati ai mafiosi ecc.
Papa Francesco in molte occasioni si pronuncia contro la mafia, così
come per un trattamento carcerario dignitosa. Il 21 marzo 2014, a Roma,
incontrando l'associazione Libera, ha detto che, senza conversione, i mafiosi
devono aspettarsi l'inferno. Nel frattempo si attendono le parole del Pontefice
ai camorristi, quando visiterà Napoli il 21 marzo, giornata che, quale inizio di
primavera, Libera (e adesso anche lo Stato) dedica alla memoria e all'impegno
per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie.
Ma ancora risuona l'omelia di Francesco a Sibari del 21 giugno scorso. Il
Papa ha definito la 'ndrangheta «adorazione del male e disprezzo del bene
comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! La
Chiesa che so tanto impegnata nell'educare le coscienze, deve sempre di più
spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, ce lo
domandano i nostri giovani bisognosi di speranza. Per poter rispondere a
queste esigenze, la fede ci può aiutare. Coloro che nella loro vita seguono
questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio:
sono scomunicati! Oggi lo confessiamo con lo sguardo rivolto al Corpus
Domini, al Sacramento dell'altare».
I mafiosi non soltanto non sono in comunione con Dio, ma neppure con
la Chiesa. Anche se battezzati e se vanno a Messa o ricevono indebitamente i
sacramenti, «sono scomunicati». Il Papa si è espresso con i termini della
scomunica latae sententiae. Essa è automatica e senza processi; quindi non
serve una sentenza formale dell'autorità ecclesiastica che commini questa
pena canonica. Il Papa ha esteso tale condanna non soltanto agli
'ndranghetisti, ma a tutti mafiosi in ogni angolo del mondo, tuttavia non ai
corrotti/corruttori sic et simpliciter. Questa scomunica si riferisce al semplice
fatto di partecipare a un sodalizio mafioso, al di là dei singoli delitti commessi
secondo il diritto penale canonico. Ecco la novità, che era implicita negli
anatemi dei suoi due predecessori.
Il Papa non si è pronunciato con una formula solenne scritta in un
documento pontificio, ma in un'omelia. Ha argomentato in base all'evidenza
indefettibile dei fatti. Ha invocato il senso morale, ecclesiale e di fede del
popolo di Dio. Lo ha confessato insieme ai vescovi calabresi e all'assemblea
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dei fedeli davanti al Mistero eucaristico. E lo ha fatto in terra di 'ndrangheta e
in modo pubblico perché le sue parole fossero conosciute da tutti, anche
tramite i mass media, come è avvenuto. Sembra un modo eccezionale, ma
reale, di promulgare una legge penale della Chiesa cattolica.
Saranno le Conferenze episcopali e i vescovi locali a fissare le norme su
chi ha il potere di assolvere da questo delitto nel sacramento della
Riconciliazione, e a quali condizioni, anche in termini di riparazione (in
particolare, nei riguardi dei mafiosi in carcere o agli arresti domiciliare), dove
sarà fondamentale il discernimento dei cappellani penitenziari. Per quanto
riguarda le esequie, ad esempio, l'arcivescovo di Napoli ha disposto che i
funerali di noti camorristi non vengano celebrati in chiesa: soltanto al cimitero
è prevista la benedizione della salma.
Saranno i vescovi poi a sanzionare gli abusi di sacerdoti e religiosi in
caso di contiguità e accondiscendenza con mafiosi, ad esempio nell'accettarne
donazioni, nel porgere loro gesti di ossequio in occasione di processioni,
nell'ammetterli alla celebrazione del sacramento del matrimonio o come
padrini di battesimo ecc. Per la Chiesa cattolica, la pastorale ante-mafia, che è
globale e locale, esige anche la collaborazione con cristiani di altre
confessioni, come i valdesi in Italia, e i credenti di tutte le religioni.
La scomunica di Sibari ha ribadito l'evidenza che l'associazionismo
mafioso, il suo modus operandi e la complicità con le mafie sono un
peccato e un male sociale intrinseco. Per la fede, il mafioso compie una
professione di ateismo pratico. Quindi il battezzato che si affilia alla mafia
commette apostasia, perché adora denaro e potere. E questo è un delitto
contro la religione e l'unità della Chiesa, che il Codice di diritto canonico
sanziona con la scomunica (can. 1364 § 1).
Inoltre, il mafioso che interferisce con la vita della Chiesa
(ammantandosi di devozionismo cattolico potrebbe ricadere nel delitto,
previsto nel can. 1374 § 1, di chi si iscrive a un'associazione che cospira contro
la libertà della Chiesa e le autorità ecclesiastiche. La sanzione prevista è
l'interdetto che, nel caso del mafioso dopo le parole di Sibari, diventa
scomunica. Tuttavia l'applicazione diretta di questi due canoni sic et
simpliciter ai mafiosi è dubbia, finché non venga esplicitata formalmente.
Infatti, in ambito penale, a tutela dell'imputato, non si può applicare una
norma perché supplisca a una assente. Ma l'estensione di questi due canoni è
anche inopportuna, perché l'associazione mafiosa è un delitto con tratti
specifici di gravità che non vanno disconosciuti o assimilati ad altri crimini.
Le parole di Sibari non sono state eccessive, vista la natura della mafia,
che attenta alla vita non meno dell'aborto procurato, il quale è sanzionato con
la scomunica latae sententiae. Sono parole definitive e inequivocabili, anche
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se non si voglia attribuire ad esse un senso di diritto canonico. Il Papa non ha
fatto un uso metaforico e secolarizzato del termine ecclesiale «scomunica». E
andando in visita, lo stesso giorno, al carcere di Castrovillari, ha ribadito nei
gesti che anche la peggiore scomunica ecclesiale ha sempre valore medicinale
e non vendicativo. Le parole di Sibari invitano ogni mafioso ad accusare se
stesso e a convertirsi.
Questo pronunciamento pontificio comporta pure la responsabilità dei
pastori di aiutare i mafiosi a pentirsi, a cambiare vita nella fede, a reinserirsi
nella vita ecclesiale e sociale. Il Papa non attribuisce ai confessori un potere
inquisitorio. Eccetto il caso di mafiosi notori, un sacerdote, in occasione del
sacramento della Riconciliazione, salvo l'autoaccusa del penitente, non può
accertare facilmente la mafiosità reale e non soltanto culturale. Lo si vede
anche nei tribunali civili italiani: per i pubblici ministeri non è facile provare
l'aggravante del metodo mafioso o il «concorso esterno».
Quindi la moglie complice di un mafioso potrebbe comprendere di
essere stata colpita da scomunica soltanto quando cerca l'assoluzione
sacramentale e le viene rifiutata.
A Sibari il Papa ha voluto sancire un punto di non ritorno
dell'autocomprensione di fede e di morale della Chiesa, ma pure che non basta
denunciare, anche con la scomunica, la natura demoniaca e di apostasia della
professione mafiosa. Alla società è indispensabile una prassi pastorale
quotidiana della Chiesa anche contro la «mentalità mafiosa» di chi cerca
protezioni, raccomandazioni e aiuti dai mafiosi, non vuole riconoscere le loro
vittime o addirittura giustifica questa anti-cultura affermando che la mafia
crea lavoro e garantisce l'ordine. Si tratta dì educare alla legalità e all'antimafia fin da bambini, senza ambiguità e senza dare scandalo.
La Nota pastorale dei vescovi calabresi
Le parole di Francesco a Sibari hanno stigmatizzato in particolare la
'ndrangheta che, come la mafia siciliana, russa e messicana ecc., spesso usa la
religione e ne scimmiotta i riti, le preghiere, la venerazione dei santi, nei patti
di sangue dei nuovi affiliati.
La Conferenza episcopale calabra ha ripreso le sollecitazioni del Papa e
ne ha trattato in un documento di 12 pagine, dal titolo Testimoniare la verità
del Vangelo. Nota pastorale sulla 'ndrangheta, emanato il 25 dicembre 2014 e
reso pubblico lo scorso 2 gennaio. Data la diffusione, in Italia e nel mondo,
delle 'ndrine, le parole dei vescovi calabresi hanno rilevanza almeno
nazionale. Inoltre permettono di cogliere meglio, nella scomunica ai mafiosi,
la valenza teologica e pastorale, che è di valore maggiore della sua
comprensione canonistica.
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L'episcopato riconosce alla pietà popolare forza evangelizzatrice, ma
alcune sue forme sono diventate autentiche manifestazioni di idolatria,
mascherata di religiosità per infiltrazione della 'ndrangheta, che è la negazione
del Vangelo, «l'anti-religione con i suoi simbolismi e i suoi atteggiamenti
utilizzati al fine di guadagnare consenso». La 'ndrangheta è opera del male e
del Maligno. E «l'appartenenza a ogni forma di criminalità organizzata non è
titolo di vanto o di forza, ma di disonore e di debolezza, oltre che di offesa
esplicita alla religione cristiana». Per loro natura e finalità, Chiesa e
'ndrangheta sono incommensurabilmente lontane tra loro, perché si
oppongono l'amore al prossimo e la schiavizzazione tramite
un'organizzazione basata su odio, paura e sangue. La 'ndrangheta «è una
struttura di peccato che stritola il debole e l'indifeso, calpesta la dignità della
persona, intossica il corpo sociale».
L'episcopato calabrese ha deciso di introdurre nei propri Istituti teologici
e di scienze religiose un corso su «Chiesa-'ndrangheta» dal secondo semestre
dell'Anno accademico 2014-15. Supporta «interventi programmati,
specialmente quelli relativi alle diverse espressioni della pietà e della
religiosità popolare, della formazione remota, prossima e permanente dei
presbiteri, dei laici e dei catechisti, nell'esperienza dei movimenti e delle
aggregazioni ecclesiali, con l'ausilio e la testimonianza di quel "monastero" di
purezza, povertà e obbedienza, rappresentato dalle persone di vita
consacrata». E affida a un prossimo Direttorio su aspetti della Celebrazione
dei Sacramenti e della Pietà popolare princìpi e linee guida a cui ispirarsi e
attenersi nelle diocesi calabresi.
I vescovi della Calabria senza alcun dubbio configurano «la mafia come
apostasia; i suoi adepti, che non sono in comunione con la Chiesa, sono
collocati automaticamente fuori dalla comunità cristiana e dalla retta
professione di fede». Cioè, chi «notoriamente e ostinatamente, nel corso della
vita terrena abbia preso parte in prima persona, come mandante, come
esecutore e collaboratore consapevole, ad organizzazioni criminali, come la
'ndrangheta». Quindi, «il mafioso, se non dimostra autentico pentimento, né
volontà di uscire da una situazione di peccato, non può essere assolto
sacramentalmente nel rito della Confessione-Riconciliazione, né può
accedere alla Comunione eucaristica; tantomeno può rivestire uffici e compiti
all'interno della comunità ecclesiale». E un pentimento sincero non è soltanto
funzionale ad avere sconti di carcere.
Nel cammino di conversione del mafioso, la Chiesa «non lo lascia solo,
ma lo accompagna con pazienza e amore, come ci ha insegnato Gesù». Perché
la scomunica, quando viene comminata, è monito per un possibile
ravvedimento. Chi vive da mafioso «morirà senza la consolazione che lo
Spirito offre a chi sceglie la vita vera»; ma la Chiesa «resta sempre pronta a
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quaderno 3954
21 marzo 2015
offrire il balsamo della Riconciliazione e dell'Unzione degli infermi a quanti
desiderano convertirsi».
L'episcopato calabro, a imitazione delle esperienze evangeliche di
conversione dell'adultera, di Zaccheo, di Matteo e di Saulo di Tarso, chiede
«segnali chiari, possibilmente anche forti e significativi» ai mafiosi che
intendono rientrare nella comunione ecclesiale. Si tratta di «un percorso
penitenziale, irto di fatiche, ma non impossibile»: lo garantisce l'azione della
misericordia di Dio. Quindi la conversione dello 'ndranghetista non è un atto
intimistico, ma richiede espiazione e riparazione, e predispone all'effettivo
reinserimento nella società, a cui deve essere funzionale la vita carceraria.
Si può quindi dedurre che una sincera conversione richiede dal mafioso
cristianamente pentito la consegna dei patrimoni frutto di reati, la
collaborazione leale con la magistratura, la manifestazione sincera alle
vittime di riconoscere il loro ingiusto dolore, spesso irreparabile e duraturo.
I vescovi calabresi riconoscono le funzioni e i meriti, anche di sangue,
delle istituzioni dello Stato. Ma la missione della Chiesa «non sempre può
coincidere con l'azione inquirente e punitiva, propria dello Stato», in
particolare per il rispetto del segreto confessionale. La Chiesa e i cristiani non
possono però restare indifferenti, «hanno il dovere di porsi in prima fila nel
denunciare le ingiustizie, ma soprattutto il dovere di creare una forte
coscienza morale, sociale e politica, che susciti concrete iniziative». Perché i
poteri dello Stato sono efficaci soltanto se trovano «un terreno dissodato:
coscienze preparate, ricche di senso civico e morale, acquisito attraverso il
cammino formativo delle nuove generazioni».
Per quanto riguarda la propria missione, i vescovi calabresi hanno
espresso fiducia nelle grandi capacità del loro popolo. E vogliono «predicare
la Parola di Dio, perché tutti, senza eccezioni si convertano: pecore e lupi». E
ne esplicitano il metodo: «Il pastore dinanzi al male, al malaffare, alle
ingiustizie, non può usare, per codardia, la prudenza del diplomatico o, peggio
ancora, far finta di non vedere. In questi casi, anzi, deve avvalersi della
chiarezza e dell'indignazione, di giuste e veraci parole, di azioni corrette, di
sostegno spirituale alla gente e sempre alla luce della buona novella di Gesù
Cristo, che va testimoniata con coraggio. Intendiamo inserirci, per il nostro
specifico, nelle opere messe in atto dallo Stato, per trasformare tanti individui
in altrettanti cittadini, consapevoli dei propri doveri, ma anche dei propri
diritti irrinunciabili».
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