Bollettino-2015-09

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Transcript Bollettino-2015-09

a cura di centro
studi diritti e lavoro
DIRITTI&LAVORO
FLASH
n. 9_2015
idee e strumenti per il sindacato
Direttore scientifico: Prof. Giovanni Orlandini
Comitato scientifico: avv. Fabio Rusconi avv. Andrea Danilo Conte
In redazione: Andrea Ranfagni Adele Pasquini Giovanni Calvellini, Livia Irtinni
Hanno collaborato Luigi Pelliccia e Ivan Petrone
Centro Studi Diritti & Lavoro Firenze Via della Condotta, 12
[email protected]
www.dirittielavoro.it
SU IL SIPARIO
La Consulta: i precari delle Fondazioni liriche
dovevano essere assunti. Ma il futuro resta incerto.
INOLTRE: APPALTI, STOP AL DUMPING
LA NUOVA DISCIPLINA DELLE MANSIONI
LA CORTE UE SUI LICENZIAMENTI COLLETTIVI
IL CRITERIO DELLA PROSSIMITA' ALLA PENSIONE
reg. trib. n. 5725/7.5.2009
ART.18 E PUBBLICO IMPIEGO
Appalti, stop al dumping.
(Corte di Giustizia permettendo)
9_2015
GIOVANNI ORLANDINI
Il Consiglio di Stato pone un argine allo shopping contrattuale nelle
gare di appalto, censurando l’affidamento ad aziende che non
applicano il Ccnl firmato dalle organizzazioni comparativamente
più rappresentative. Lo ha fatto con la sentenza n.4699 del 14
ottobre, ribaltando la decisione del TAR Lombardia che non aveva
accolto il ricorso di una società classificatasi seconda in una gara
indetta dall’Azienda Ospedaliera di Desenzano del Garda per
l’affidamento e la gestione di servizi di front office; gara conclusasi
con l’aggiudicazione ad una concorrente che aveva operato un
sostanzioso ribasso (30%) sull’importo a base d’asta (anche) grazie
all’applicazione di un Ccnl firmato da organizzazioni non
rappresentative (nel caso, il Ccnl CNAI). Le conclusioni cui sono
giunti i supremi giudici amministrativi non erano affatto scontate, e
per questo sono destinate (almeno c’è da augurarselo) ad incidere
su una giurisprudenza tutt’altro che univoca riguardo alla
possibilità di applicare Ccnl diversi da quelli firmati dalle OO.SS.
comparativamente più rappresentative.
La giurisprudenza amministrativa sui CCNL applicabili negli
appalti pubblici
Le incertezze in merito, per la verità, derivano dalla stessa
giurisprudenza recente del Consiglio di Stato, nella quale è stato
più volte ribadito che i valori del costo del lavoro fissati dalle
tabelle Ministeriali sulla base dei contratti firmati dalle
organizzazioni più rappresentative (come prescrive l’art. 86,
comma 3 bis del d.lgs. 163/06, il c.d. “codice degli appalti
pubblici”), non costituiscano parametri inderogabili, di modo che
debba automaticamente considerarsi anomala un’offerta che da
questi si discosti. L’Amministrazione è tenuta piuttosto a
considerarli “indici” di adeguatezza dell’offerta, sulla cui
valutazione essa mantiene margini di discrezionalità (tra le tante,
CdS 3.4.2015, n.1743). Proprio in virtù di tale lettura “flessibile”
dei vincoli posti da codice degli appalti in materia di costo del
lavoro, diversi TAR (come quello del caso in esame) hanno
riconosciuto non dirimente per l’affidamento di appalti pubblici
l’applicazione del Ccnl siglato dalle organizzazioni
comparativamente più rappresentative. Per giungere a questa
conclusione si è anche fatto riferimento al principio della libertà di
scelta del Ccnl (derivante dall’art.39 comma 1, Cost. e dall’art.41
Cost.) che impedirebbe alle stazioni appaltanti di imporre il rispetto
di uno specifico Ccnl, posto che, come noto, a nessun Ccnl nel
nostro ordinamento è riconosciuta efficacia erga omnes (così anche
TAR Toscana 1160/2013).
Le precisazioni del CdS in merito alla portata ed al significato della
sua precedente giurisprudenza permettono di far chiarezza su questi
principi di rilievo costituzionale, scongiurandone un uso improprio
che travalichi dal loro specifico ambito di applicazione. Il
parametro del costo del lavoro basato sui Ccnl firmati dalle
organizzazioni più rappresentative si spiega proprio in ragione del
fatto che, nel nostro ordinamento, non esiste un obbligo di legge di
rispettare quei contratti; la libertà di scelta circa il Ccnl applicabile
renderebbe quindi possibile tra i partecipanti ad una gara pubblica
una competizione basata sul costo del lavoro che il codice degli
appalti vuole evitare. Sul punto le parole dei supremi giudici
amministrativi sono molto chiare: il fine è di evitare “pratiche di
dumping sociale” possibili se si consente solo ad alcune imprese di
“beneficiare di disposizioni che giustificano un costo del lavoro
inferiore”.
Non è legittimo dunque per l’Amministrazione
appaltante non considerare indizio di anomalia dell’offerta lo
scostamento dai valori stabiliti dalle tabelle ministeriali e non
procedere ad una valutazione in merito alle ragioni di tale
scostamento; da ciò la
censura nei confronti dell’Azienda
Ospedaliera che, nel caso in esame, aveva concluso nel senso della
congruità dell’offerta senza adeguata motivazione e sulla base della
semplice constatazione del rispetto di un Ccnl valido ed efficace da
parte dell’azienda concorrente. Il giudizio sull’anomalia, seppur
discrezionale, deve essere particolarmente rigoroso proprio quando,
nel settore interessato, convivono più contratti collettivi, alcuni dei
quali firmati da organizzazioni senz’altro non rappresentative. E
ciò perché, appunto, la legittimità dello scostamento può desumersi
da diversi fattori riguardanti le singole imprese (natura,
caratteristiche, eventuali agevolazioni o sgravi fiscali ottenibili),
ma non dall’utilizzo di Ccnl non stipulati da organizzazioni
rappresentative; fattore questo “del tutto estraneo alle valutazioni
riguardanti le specifiche caratteristiche dell’attività d’impresa”.
A queste conclusioni il CdS giunge anche tenendo conto di quanto
affermato dalla Corte costituzionale in una recente sentenza (n.
51/15), la cui portata non è stata sino ad oggi oggetto della dovuta
attenzione. Nel far salva la costituzionalità della norma che impone
alle cooperative di attenersi ai livelli retributivi fissati dai Ccnl
firmati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative (art.7
comma 4, d.l. 248/07), i giudici delle leggi hanno pienamente
legittimato l’obiettivo di “contrastare forme di competizione
salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che,
da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della
sufficienza (art.36 Cost.) la retribuzione concordata” in tali
contratti. Se il rispetto di un simile parametro retributivo può
legittimamente essere imposto a tutte le aziende che operano in un
determinato settore economico, a
maggior ragione ciò può
avvenire nei confronti di aziende che intendono partecipare a gare
di aggiudicazione di appalti pubblici.
D’altra parte a questa conclusione si giunge anche considerando
un’altra norma contenuta nel codice degli appalti, non considerata
(nonostante la sua indubbia rilevanza) dal Consiglio di Stato nella
sentenza in commento: l’art.118, comma 6 che pone in capo agli
aggiudicatari di appalti (ed ai loro eventuali subappaltatori)
l’obbligo di “osservare integralmente il trattamento economico e
normativo stabilito dai contratti nazionali e territoriali in vigore
per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni”;
vale a dire (come precisa il regolamento di attuazione, nell’art.4,
DPR 207/2010) dai contratti “stipulati tra le parti sociali firmatarie
di contratti collettivi nazionali comparativamente più
rappresentative”. E’ vero che (ambiguamente) il legislatore non
indica quali effetti conseguano al mancato rispetto di tale obbligo;
ma non c’è dubbio che ne derivi un ulteriore avallo ad una lettura
“rigida“ dei parametri fissati dalle tabelle ministeriali ex art. 86,
comma 3 bis.
…e quella europea
Il quadro sarebbe dunque confortante se non fosse che quanto
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affermato dai giudici nazionali rischia di risultare in contrasto con i
principi di diritto dell’Unione europea enunciati dalla Corte di
giustizia. Delle retribuzioni applicabili da parte delle imprese
aggiudicataria di appalti pubblici, i giudici europei si sono occupati
la prima volta nella sentenza Rüffert (causa C- 346/06), relativa ad
una legge del Land della Bassa Sassonia che prescriveva come
condizione di aggiudicazione degli appalti in edilizia il rispetto degli
standard retributivi previsti dai contratti territoriali, privi di efficacia
erga omnes. Un simile vincolo è stato ritenuto in contrasto sia con la
direttiva 96/71 relativa al distacco transnazionale sia con l’art.56 del
Trattato sul funzionamento dell’UE che tutela la libera prestazione
di servizi e che della direttiva rappresenta la base giuridica. Né la
direttiva (in specie l’art.3) né i principi generali che sovrintendono
al funzionamento del mercato interno consentono infatti di gravare
le imprese stabilite in altri Stati membri di oneri relativi al costo del
lavoro che non siano strettamente giustificate dall’ esigenze di
assicurare una tutela minima ai lavoratori che da queste dipendono;
vale a dire, superiori ai minimi retributivi che vincolano tutte le
imprese nazionali del settore interessato.
Su questi principi la Corte di giustizia è tornata nella sentenza
Regiopost del 17 novembre scorso (C-115/14) interpretando (per la
prima volta) in base ad essi la norma della direttiva del 2004 in
materia di appalti pubblici che consente di condizionare
l’esecuzione di un appalto a “particolari condizioni sociali e
ambientali” (art.26, direttiva 2004/18, il cui contenuto è
sostanzialmente riprodotto nell’art.70 della “nuova” direttiva appalti
2014/24). Ancora una volta si è trattato di valutare la compatibilità
con il diritto dell’UE (e con le regole del mercato interno, sulle quali
si fonda la normativa europea in materia di appalti) di una legge di
un Land tedesco (Renania Palatinato); legge che però, a differenza
di quella della Bassa Sassonia oggetto del caso Rüffert, non rinvia ai
contratti collettivi, ma fissa direttamente la retribuzione minima da
applicare ai lavoratori impiegati in qualsiasi appalto pubblico
bandito dalle amministrazioni locali (8, 50 euro orari lordi, cioè la
stessa cifra che dal 1 gennaio 2015 è prevista a livello federale).
Proprio questo spiega il diverso esito del giudizio della Corte di
giustizia, che in questo caso ha fatto salva la normativa tedesca: da
una parte l’obbligo di rispettare determinati standard retributivi è
infatti stabilito con una fonte di generale applicazione (la legge e
non un contratto collettivo di diritto comune), in quanto tale capace
di vincolare tutte le imprese sia nazionali che straniere; dall’altra
detto obbligo è limitato al rispetto dei minimi retributivi, posto che
(all’epoca dei fatti) nessuna norma “imponeva, per il settore dei
servizi un salario minimo di livello inferiore”. In altre parole, la
normativa in questione è giudicata compatibile con il diritto dell’UE
perché si limita ad imporre alle imprese aggiudicatarie di un appalto
standard salariali minimi fissati per legge; se così non fosse, e si
rinviasse al’integrale rispetto di contratti collettivi (territoriali o
nazionali) privi di efficacia generale, si riprodurrebbe un’indebita
compressione della libertà di prestazione dei servizi garantita dal
diritto dell’UE, com’è avvenuto nel caso oggetto della sentenza
Rüffert.
La sentenza Regiopost è stata salutata con sollievo da quanti
(sindacati tedeschi compresi) temevano un ulteriore
delegittimazione di misure nazionali tese a contrastare il dumping
sociale. Da essa però si ricavano indicazioni ben poco rassicuranti
per l’ordinamento italiano, dove (al contrario di quanto accade in
Germania) non esistono minimi salariali fissati ex lege e la
normativa in materia di appalti impone di rispettare integralmente
quanto prescritto da contratti collettivi privi di efficacia generale. Un
onere economico, quest’ultimo, considerato “sproporzionato” dalla
Corte di giustizia, per la quale solo quella parte del CCNL di fatto
vincolante per tutte le imprese di un settore (ovvero, minimi tabellari
e poco altro) può legittimamente essere imposta alle imprese
aggiudicatarie straniere. Da ciò la conseguenza che anche gli
standard retributivi fissati da CCNL firmati da organizzazioni non
rappresentative potrebbero considerarsi “congrui” ai fini della
valutazione del costo del lavoro, se comunque superiori ai minimi
salariali così determinati.
L’accento posto dai giudici europei sulla “legge” come fonte
privilegiata di definizione dei minimi salariali, può poi rafforzare la
posizione di quanti sostengono la necessità di dare attuazione
all’unica parte del Jobs Act rimasta inattuata: quella appunto relativa
al salario minimo legale. Salario minimo che, una volta introdotto
nell’ordinamento, diventerebbe il parametro obbligato per valutare il
costo del lavoro imponibile alle imprese aggiudicatarie di pubblici
appalti.
Possibili contrasti tra il diritto nazionale e quello dell’UE prendono
dunque forma proprio quando sta per essere approvata la nuova
normativa in materia di appalti pubblici, di recepimento della
direttiva 2014/24 che ha sostituito la direttiva 2004/18 oggetto della
sentenza Regiopost. La direttiva del 2014 sembra aprire più spazi al
possibile utilizzo di clausole sociali di contrasto al dumping
contrattuale; ciò almeno a giudicare dall’art. 18, par. 2 a norma del
quale gli Stati sono chiamati ad adottare “misure adeguate per
garantire che gli operatori economici, nell’esecuzione di appalti
pubblici, rispettino [anche] gli obblighi stabiliti da contratti
collettivi”. La norma però non è scevra da ambiguità, frutto com’è di
una logica compromissoria imposta dai contrastanti interessi che
l’hanno generata. Il suo significato è infatti chiarito nei
considerando (cioè nelle premesse alla stessa direttiva), dove a più
riprese si sottolinea come essa vada interpretata alla luce dei principi
che regolano il mercato interno e nel rispetto della direttiva 96/71,
come interpretata dalla Corte di giustizia; il che equivale ad un
avallo alla sentenza Ruffert.
Analoghi problemi di compatibilità con le regole della concorrenza
pongono le clausole sociali finalizzate a garantire la stabilità
dell’occupazione nel cambio di affidatario dell’appalto, sulle quali la
Corte di giustizia non si è espressa, ma che sono state oggetto di
censura in una (ormai) risalente sentenza relativa alla normativa di
liberalizzazione dei servizi aeroportuali (Commissione c. Italia del
9.11.2004). La recente giurisprudenza amministrativa è orientata a
riconoscerne la legittimità solo se non applicate in maniera rigida ed
automatica, ovvero se le assunzioni prioritarie del personale già
impiegato avvengono compatibilimente con gli assetti organizzativi
e gestionali dell’impresa subentrante (tra le altre, Consiglio di Stato
2533/2013). Negli stessi termini si è espressa l’Autorità Garante
della concorrenza e del mercato nel recente parere dell’11 dicembre
(richiesto dal Presidente della commissione lavoro del Senato), nel
quale si invita il futuro legislatore delegato a tener conto
dell’esigenza di rispettare i principi in materia di concorrenza nel
dare attuazione alle disposizioni della legge delega che prevedono
vincoli a tutela della continuità dell’occupazione (artt. 1, comma 1,
lett. ddd), fff) e ggg) del Disegno di legge 1678-B, approvato
definitivamente dal Senato il 14 gennaio).
Qualunque sia la strada che il futuro legislatore nazionale intenderà
intraprendere, Il futuro delle clausole sociali negli appalti pubblici
resta dunque incerto, appeso com’è al filo della futura evoluzione
della giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo, cui,
verosimilmente, prima o poi toccherà vagliare la tenuta della
normativa italiana alla luce delle regole che governano il processo di
integrazione del mercato interno dei servizi.
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La Corte UE fa chiarezza
sui licenziamenti collettivi
LIVIA IRTINNI
Con sentenza pubblicata l’11 novembre scorso e pronunciata nella causa C- 422/2014, la
Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta a chiarimento su due punti centrali
della Direttiva europea (98/59/CE) in tema di licenziamenti collettivi stabilendo, da un lato,
che nella determinazione della dimensione aziendale devono essere computati anche i
lavoratori a termine, dall’altro, che la nozione di licenziamento rilevante al fine
dell’individuazione della soglia numerica oltre la quale si ha un licenziamento collettivo
comprende tutte quelle ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro per causa non
imputabile al lavoratore, comprese le dimissioni per giusta causa.
Quanto al requisito dimensionale, la Direttiva predetta impone di fare riferimento al
“numero di lavoratori abitualmente occupati” nello stabilimento interessato dalla riduzione
del personale.
La Corte, per accertare se i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato siano o
meno computabili in tale organico “abituale”, afferma l’irrilevanza della natura del rapporto
di lavoro dal momento che la Direttiva non prevede alcuna distinzione basata sulla durata
del rapporto di lavoro, per cui anche i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato
devono essere considerati lavoratori abitualmente impiegati. Sotto questo profilo la
normativa italiana appare conforme alla normativa europea: l’art. 8 del D. Lgs. n. 368/2001,
così come sostituito dall’art. 27 del D. Lgs. n. 81/2015, infatti stabilisce che, per il calcolo
della soglia dei 15 dipendenti, sono computabili anche i lavoratori a termine, seppur nel
limite “del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato, compresi i
dirigenti, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell'effettiva durata dei loro rapporti
di lavoro”.
Per quanto riguarda invece la determinazione della soglia numerica di licenziamenti per
motivi oggettivi oltre la quale è configurabile un licenziamento collettivo, la Direttiva
98/59/CE stabilisce che “sono assimilate ai licenziamenti le cessazioni del contratto di
lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla
persona del lavoratore, purché i licenziamenti siano almeno cinque” e quindi si è posto il
problema di capire se la condizione che “i licenziamenti siano almeno cinque” ricomprenda
o meno anche le cessazioni del contratto di lavoro assimilate ad un licenziamento.
Secondo la Corte, il riferimento al limite dei cinque licenziamenti riguarda i licenziamenti
in senso stretto e non le cessazioni assimilate; tuttavia, nella nozione di licenziamento deve
farsi rientrare “qualsiasi cessazione del contratto di lavoro non voluta dal lavoratore e,
quindi, senza il suo consenso”.
Nel caso di specie, la Corte è stata chiamata a valutare la legittimità di una norma della
legge spagnola che riconosce al lavoratore danneggiato da una modifica sostanziale delle
sue condizioni di lavoro la facoltà di recedere dal contratto ricevendo un’indennità.
Qualcosa di simile, dunque, alle nostre dimissioni per giusta causa. Ebbene, afferma la
Corte, in un caso del genere la cessazione del rapporto è dovuta alla modifica unilaterale (e
svantaggiosa) apportata dal datore di lavoro ad un elemento sostanziale del contratto di
lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore e pertanto equivale a un
licenziamento e, come tale, deve essere considerato ai fini del computo della soglia
numerica che determina l’applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi.
Pertanto, secondo quanto affermato dalla Corte nella sentenza qui in commento, viola la
Direttiva qualsiasi normativa nazionale che conduca ad escludere dalla nozione di
licenziamento tutte le fattispecie come quella in esame. Un simile principio avrà senz’altro
rilievo anche nell’ordinamento italiano, nel quale sinora le dimissioni del lavoratore, di
qualsiasi tipo anche quelle per giusta causa, sono sempre state ritenute irrilevanti ai fini del
computo della soglia numerica qui in esame
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9_2015
Su il sipario.
DANILO CONTE
La stipulazione illegittima di un contratto di lavoro a tempo
determinato tra un lavoratore ed una Fondazione lirico-sinfonica
ha per conseguenza la trasformazione del contratto da tempo
determinato a tempo indeterminato. La Corte Costituzionale con
sentenza n. 260 del 1 dicembre 2015 ha dichiarato
l’incostituzionalità dell’art. 40 comma 1 bis del d.l. 69/2013
convertito dalla l. 98/2013 (c.d. “decreto del fare”) nella parte in
cui prevedeva il divieto di trasformazione di un rapporto a tempo
determinato in rapporto a tempo indeterminato pur in presenza di
un qualsiasi vizio riguardante la stipula del contratto.
Ma andiamo con ordine. La vicenda inizia nelle aule di giustizia.
Nei primi mesi del 2011, a causa dei termini decadenziali
introdotti dal collegato lavoro (l. 183/2010), centinaia di
lavoratori precari delle fondazioni liriche introducono altrettante
cause di lavoro chiedendo che i tribunali dichiarassero
l’illegittimità dei contratti a termine e quindi la sussistenza di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Gli esiti sono
prevalentemente positivi. E non poteva essere altrimenti poiché
in nessun altro settore come in quello delle fondazioni liriche il
ricorso abusivo all’istituto dell’apposizione del termine è stato
così clamoroso. In molti casi davanti al Tribunale si presentano
lavoratori che hanno stipulato oltre cento contratti a termine
(ciascuno per esigenze temporanee e contingenti) in un arco
temporale che a volte supera i trent’anni. Evidente la violazione
del principio fondamentale che individua nel contratto a tempo
indeterminato la forma comune del rapporto di lavoro e consente
il ricorso a personale a termine solo in presenza di esigenze
oggettive e temporanee. Una temporaneità lunga trent’anni che
viene pertanto dichiarata illegittima dai tribunali. A seguito del
susseguirsi delle sentenze di accoglimento dei ricorsi le
Fondazioni, invocando la crisi del settore, chiedono interventi
legislativi che blocchino il corso della giustizia e i diversi
governi succedutisi nel tempo (intervengono infatti sulla materia
sia il governo Berlusconi che quello Letta che quello Renzi)
accolgono le istanze delle Fondazioni emanando provvedimenti
normativi che perseguono l’esplicito intento, come ricorda
proprio il Giudice delle leggi e come già evidenziava la puntuale
ordinanza di rimessione della Corte di appello di Firenze, di
“bloccare” i giudizi in corso e modificarne gli esiti. Viene così
approvata dapprima la legge Bondi (d.l.64/2010) e poi, vista
l’inefficacia di quest’ultima, l’art. 40 comma 1 bis d.l. 69/2013
oggetto del pronunciamento della Corte Costituzionale.
Ed invero l’iter di approvazione di questo articolo ha seguito
percorsi assai originali. Il testo dello stesso era infatti
inizialmente previsto nell’art. 11 comma 19 del d.l. 91/2013 (c.d.
decreto Bray sulle fondazioni lirico sinfoniche). Ma mentre
ancora nelle commissioni parlamentari si discuteva del testo e
della sua modifica o abrogazione esso veniva sbrigativamente
approvato in sordina, inserito in sede di conversione, quale
comma 1 bis dell’art. 40 di un decreto avente per oggetto
tutt’altra materia. Si assisteva così ad un autentico paradosso nei
lavori parlamentari: dai lavori delle commissioni ed in
particolare della commissione cultura del Senato emerge che
parlamentari della Repubblica (distratti?) discutevano se
abrogare o meno il comma 19 dell’articolo 11…quando quel
testo era già stato approvato (identico e dai medesimi
parlamentari) qualche giorno prima in un altro testo normativo.
Chiaro, anzi dichiarato in tutte le sedi, comprese le aule di
giustizia, l’intento del legislatore e delle Fondazioni con
l’approvazione dell’art. 40: introdurre una norma che consentisse
la stipula, la proroga ed il rinnovo di contratti a termine nel
settore delle Fondazioni liriche, libere da qualsiasi vincolo e
senza che ciò comportasse alcun rischio di “conversione” del
rapporto in rapporto a tempo indeterminato. Una totale
liberalizzazione delle assunzioni precarie. Tale obiettivo veniva
perseguito introducendo una norma cosiddetta di interpretazione
autentica dell’art. 3 comma 6 del decreto Bondi n. 64/2010 che a
sua volta dichiarava la piena vigenza di una legge del 1977 (l.
426/1977), ritenuta abrogata dalla legge di privatizzazione degli
Enti lirici. Attraverso quindi un duplice sistema di rimandi l’art.
40, oggi dichiarato incostituzionale, interpretava autenticamente
una norma che aveva per oggetto solo la materia dei rinnovi dei
contratti estendendone la portata anche alla materia della
stipulazione degli stessi. Evidente la forzatura, messa in luce con
acutezza dal giudice costituzionale. Non vi era “appiglio
semantico”, scrive la Corte, che potesse consentire una siffatta
forzatura, né vi era sulla materia un dibattito giurisprudenziale
che giustificasse l’intervento di interpretazione autentica.
Evidente, al contrario, che l’intento del legislatore era quello di
“evitare le stabilizzazioni” in corso a seguito dei pronunciamenti
dei tribunali del lavoro intervenendo nel corso dei giudizi con
una norma in realtà innovativa, asseritamente dichiarata di
interpretazione autentica, al solo fine di ribaltare gli esiti dei
giudizi, intento peraltro espressamente menzionato nei lavori
parlamentari. La norma in esame, secondo la Corte, viola non
solo la Costituzione ma anche “l’affidamento dei consociati nella
sicurezza giuridica e le attribuzioni costituzionali dell’autorità
giudiziaria”.
Ora i giudizi pendenti, sospesi in attesa del pronunciamento della
Corte, riprenderanno il proprio corso. Precari ormai trentennali
otterranno, finalmente, un pronunciamento dell’autorità
giudiziaria che confermerà o meno le sentenze dei giudici di
primo grado o si pronuncerà per la prima volta sulla legittimità
dei contratti a termine reiterati per un quarto di secolo.
In attesa di qualche nuovo intervento governativo. E comunque
in attesa che, con riferimento al medesimo settore, nelle aule di
giustizia si affronti l’evidente contrasto tra il diritto comunitario
ed il nuovo quadro normativo derivante dalla combinazione del
decreto Poletti (d.l. 34/2014) e del jobs act (d. lgs. 81/2015).
Ma questo sarà un altro capitolo, o un altro atto, di una storia
che, evidentemente, non finisce qui.
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La nuova disciplina delle mansioni
ALESSIO AMORELLI
Come noto, la riforma dell'art. 2103 c.c., avente ad oggetto la
disciplina delle mansioni (art. 3, d.lgs.81/15), vuole concedere ai
datori di lavoro una maggiore e più ampia flessibilità
nell'organizzazione del lavoro, evidentemente a scapito di tutti i
lavoratori che avranno maggiori difficoltà a veder tutelata la loro
professionalità.
Infatti, mentre il testo vigente sino al 25 giugno 2015 valorizzava il
concetto dell'equivalenza delle mansioni, il nuovo art. 2103 c.c.
abbandona tale criterio, stabilendo che il lavoratore può
legittimamente essere assegnato alle mansioni riconducibili allo
stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime
effettivamente svolte. Il legislatore, con l'eliminazione del richiamo
al concetto dell'equivalenza delle mansioni, vorrebbe negare alla
giurisprudenza la possibilità di controllo del potere organizzativo del
datore di lavoro tramite un giudizio di valore che, partendo dal
previgente riferimento normativo all'equivalenza delle mansioni, è
volto a tutelare la professionalità specifica di ogni singolo lavoratore.
Sono passati appena sei mesi da quando l'articolo 3 del D.Lgs.
81/2015 ha riscritto interamente, dopo ben 45 anni, la disposizione in
commento. Tuttavia, tanto è bastato a due diversi Tribunali per
esprimersi con pronunce di segno opposto. In particolare, i due
organi giudicanti si sono interrogati sulla possibilità di applicare la
nuova normativa ad atti di demansionamento compiuti prima
dell'entrata in vigore della riforma legislativa e, di conseguenza,
riconoscerne la legittimità a prescindere dall’accertamento in merito
alla equivalenza del contenuto professionale tra mansioni vecchie e
nuove.
Secondo quanto chiarito dal Tribunale di Ravenna con sentenza
pubblicata il 30 settembre 2015, la nuova normativa non è
applicabile qualora il fatto generatore del demansionamento si sia
prodotto nel vigore della legge precedente. La corte romagnola
afferma che il discrimine che consente di applicare la nuova o la
vecchia normativa consiste proprio nell'atto iniziale che produce il
demansionamento. Da ciò discende che il perpetrarsi del
demansionamento nel vigore della legge successiva è assolutamente
irrilevante essendo dunque applicabile soltanto il vecchio testo del
2103 c.c. In termini tecnici, la sentenza in commento applica il
generale principio di irretroattività della legge per affermare che un
illecito commesso sotto il vigore di una disposizione non può essere
regolato da una norma successiva. In conformità al suddetto
orientamento, dunque, tutti i dipendenti che hanno subito un
demansionamento prima del 25 giugno 2015 beneficeranno della
tutela prevista dalla previgente normativa sulle mansioni anche
qualora il comportamento illecito sussista nel vigore del nuovo testo
normativo, con integrale risarcimento dei danni subiti.
Il Tribunale di Roma, anch'esso in data 30 settembre 2015, ha
affrontato la stessa questione decidendo, tuttavia, in maniera
diametralmente opposta. Infatti, il giudice capitolino qualifica il
demansionamento del lavoratore come una sorta di illecito
"permanente", nel senso che è attuato e si rinnova ogni giorno in cui
il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori rispetto a
quelle che il lavoratore avrebbe diritto di svolgere in conformità alla
legge e al contratto di lavoro. Di conseguenza, il Tribunale arriva ad
affermare che la valutazione della condotta del datore di lavoro deve
avere riguardo alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno
per giorno. Pertanto, se la disciplina di riferimento subisce delle
modifiche che autorizzano determinate condotte prima non
ammissibili, l'illecito si interrompe per il periodo di tempo
successivo a dette modifiche. Applicando concretamente questo
orientamento è possibile ipotizzare che il risarcimento del danno dovuto a un lavoratore che ha subito un demansionamento - sia
circoscritto al periodo antecedente all'entrata in vigore della modifica
introdotta dal Jobs Act. Pertanto, se sono rispettate le condizioni
fissate dalla nuova normativa, alcune condotte considerate illecite
secondo la vecchia disciplina cessano di essere tali dopo il 25 giugno
2015.
Le due pronunce suddette, pur muovendo da interpretazioni diverse
rispetto alla normativa sulle mansioni, hanno entrambe rigettato
integralmente le domande dei lavoratori che lamentavano di aver
subito un demansionamento. Il rigetto delle domande dei dipendenti
lascia aperto il problema relativo alla tutela specifica della
professionalità dei lavoratori nel vigore della nuova disciplina delle
mansioni.
Come già detto, infatti, il nuovo testo dell'articolo 2103 c.c. si
riferisce al criterio della riconducibilità delle mansioni al livello e
alla categoria legale di inquadramento del singolo dipendente. La
nuova formulazione della disposizione sembra dunque non
ammettere il ricorso al concetto dell'equivalenza, utilizzato dalla
giurisprudenza in passato per tutelare la professionalità dei
lavoratori. La riconducibilità al livello di inquadramento è un criterio
descrittivo che sembra esprimere la possibilità di attribuire ad un
soggetto specifiche mansioni mediante un meccanismo di
incasellamento semi-automatico, in virtù delle disposizioni contenute
nella contrattazione collettiva di riferimento. La riconducibilità delle
mansioni ad un determinato livello legale di inquadramento
presuppone dunque un intervento della contrattazione collettiva. Una
simile scelta legislativa, se può apparire un forma indiretta di
sostegno al ruolo dell'autonomia collettiva, dall’altra però dà origine
ad una serie di problemi applicativi di non agevole soluzione.
Può accadere, infatti, che il datore di lavoro assegni ad un dipendente
delle mansioni non espressamente previste nella declaratoria
professionale del contratto collettivo di riferimento. In tali
circostanze, l'interprete sarà comunque tenuto a valutare le nuove
mansioni assegnate al dipendente sulla base di un giudizio di valore
rispetto alle ultime effettivamente svolte. È prevedibile che, in questo
caso, il giudice tornerà ad applicare il criterio dell'equivalenza che il
legislatore si è preoccupato di eliminare dal testo del nuovo articolo
2103 c.c.
Inoltre, il concetto di equivalenza potrebbe trovare spazio anche
qualora le nuove mansioni assegnate al lavoratore siano
perfettamente riconducibili a mansioni dello stesso livello e categoria
legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Infatti,
considerati i limiti di efficacia della contrattazione collettiva nel
nostro ordinamento, l'interprete potrebbe decidere di non vincolarsi a
quanto contrattualmente previsto al fine di verificare se le nuove
mansioni, pur riconducibili allo stesso livello di inquadramento,
comportino un lesione concreta del diritto di ogni dipendente a
conservare e migliorare la competenza e la professionalità maturata
nella pregressa esperienza lavorativa.
Se dunque non c’è dubbio che la nuova disciplina giustifichi atti di
demansionamento sino a ieri illegittimi, non è scontato che il
concetto di equivalenza delle mansioni sia veramente scomparso dal
nostro ordinamento. Alla giurisprudenza futura l'ardua sentenza.
6
9_2015
Licenziamenti collettivi,
il criterio di prossimità
alla pensione
LIVIA IRTINNI
Nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo,
laddove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare
l'organico dell'intero complesso aziendale per diminuire il costo
del lavoro, il criterio della prossimità alla pensione, individuato
quale unico criterio applicabile, non viola il principio di non
discriminazione per età affermato dall’art. 15 della L. n.
300/1970, purché l’applicazione di tale criterio non consenta
margini di discrezionalità al datore di lavoro. Questo quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 22914/2015.
Come noto, il problema della scelta dei lavoratori da licenziare
si pone nel momento in cui si rende necessario individuare, tra
diversi lavoratori che potrebbero essere potenzialmente colpiti
dall’esubero, quali saranno effettivamente interessati dalla
riduzione di personale e, per evitare qualsiasi discriminazione in
danno a soggetti eventualmente sgraditi dall'impresa, tale scelta
deve avvenire secondo criteri di selezione oggettivi e trasparenti
e non può in alcun modo configurare atti discriminatori o
contrari alla correttezza e alla buona fede. In tal senso si è
espressa anche la Corte Costituzionale, con sentenza n.
268/1994, secondo la quale la determinazione negoziale dei
criteri di scelta dei lavoratori da licenziare deve rispettare, da un
lato, il principio di non discriminazione previsto dall’art. 15
della L. n. 300 del 1970, modificato dal D. Lgs. n. 216/2003
attuativo della Direttiva 2000/78/CE, dall’altro, il principio di
razionalità, nel senso che i criteri concordati devono avere i
caratteri dell'obiettività e della generalità e devono essere
coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori.
A norma della L. n. 223/1991, l’individuazione dei lavoratori da
licenziare deve avvenire, laddove presenti, nel rispetto di criteri
di scelta contrattualmente stabiliti in un accordo sindacale
siglato tra l’azienda e le rappresentanze sindacali oppure, in
mancanza di quest’ultimo, nel rispetto dei criteri legali di cui
all’art. 5, 1° comma, della Legge predetta (cioè carichi di
famiglia, anzianità ed esigenze tecnico-produttive) in concorso
fra loro.
Uno dei criteri maggiormente utilizzati dall’autonomia collettiva
è quello della prossimità alla pensione, quello cioè che prevede
il licenziamento di quei lavoratori che siano vicini a possedere i
requisiti per accedere ad un trattamento pensionistico.
Sennonché il principale limite di un simile criterio è costituito
dal fatto che il prepensionamento, se considerato come l’unico
criterio di scelta, permetterebbe la diretta identificazione dei
dipendenti da licenziare con la conseguenza che, basandosi
essenzialmente sull’età anagrafica dei lavoratori, tale criterio
impedirebbe una selezione imparziale e finirebbe per costituire
una discriminazione indiretta in ragione dell’età.
Nel caso qui in esame, un lavoratore aveva proposto ricorso
lamentando la discriminatorietà, e quindi la nullità, di un
licenziamento collettivo diretto a ridimensionare l’organico
dell’intero complesso aziendale, in cui i lavoratori da licenziare
erano stati individuati esclusivamente in base alla loro età
anagrafica: secondo il ricorrente una simile condotta datoriale si
poneva in aperto contrasto con l’art. 15 della L. n. 300/1970.
La Corte, nel rigettare il ricorso, ha stabilito che “la
determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da
licenziare […] poiché adempie ad una funzione regolamentare
delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non
discriminazione sanzionato dalla legge n. 300/1970, art. 15, ma
anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri
concordati devono avere i caratteri dell’obiettività e della
generalità e devono essere coerenti col fine dell’istituto della
mobilità dei lavoratori, con la conseguenza che nel criterio
unico, che non consente alcuna discrezionalità all’azienda, non
può rinvenirsi alcun elemento discriminatorio”.
Nel caso di specie secondo la Corte, poiché il numero dei
lavoratori con l’età più prossima alla pensione era inferiore a
quello dei licenziamenti programmati e poiché la riduzione del
personale era riferita all’intero complesso aziendale, il criterio
dell'anzianità contributiva non consentiva alcun margine di
discrezionalità all’azienda e quindi non poteva rinvenirsi alcun
elemento discriminatorio.
Quanto affermato dalla Corte si pone in perfetta continuità con
quell’indirizzo interpretativo secondo cui il criterio unico della
prossimità al pensionamento è legittimo e non discriminatorio,
purché consenta la formazione di una graduatoria rigida che può
essere applicata e controllata senza margini di discrezionalità e
purché vada a incidere sulla posizione di lavoratori che, potendo
fruire del trattamento di quiescenza, subiscono dal licenziamento
il danno minore (in tal senso, cfr. anche C. Cass. n. 15371/2014;
C. Cass. n. 6283/2011).
La Cassazione, quindi, sembra ormai avere definitivamente
superato le pronunce con le quali la stessa Corte, pur avendo
ritenuto valido il criterio unico della vicinanza al
pensionamento, aveva messo in evidenza che se lo stesso si
fosse rivelato insufficiente a individuare i dipendenti da
licenziare, sarebbe divenuto automaticamente illegittimo qualora
non combinato con un altro criterio di selezione (cfr. C. Cass. n.
12781/2003), non potendo il margine di discrezionalità del
datore di lavoro nella scelta dei lavoratori pensionabili da
licenziare essere utilizzato a mero scopo discriminatorio in
violazione dei principi di correttezza e buona fede (cfr. C. Cass.
n. 13393/2002).
7
L’art. 18 versione Fornero si
applica anche al pubblico
impiego. E il Jobs Act?
9_2015
ANDREA RANFAGNI
Importante sentenza della Cassazione quella del 26 novembre meramente procedurale, non poteva spettare la reintegra, bensì
2015, n. 24157, la quale, per la prima volta, affronta la tanto
dibattuta questione se le recenti novità in materia di
licenziamenti introdotte dai Governi Monti e Renzi trovino
applicazione anche al Pubblico Impiego “privatizzato” (quindi
a tutti i dipendenti pubblici, ad esclusione dei magistrati, dei
docenti e ricercatori universitari, degli Avvocati dello Stato, del
personale militare e delle Forze di Polizia, del personale della
carriera prefettizia e diplomatica, dei Vigili del Fuoco). Una
problematica, questa, che oltre che essere al centro del dibattito
giuridico, lo è anche e soprattutto al centro di quello politico,
con forti contrasti, come noto, all’interno dell’attuale Governo.
In realtà, è bene sin da subito precisarlo, la decisione si occupa
soltanto dell’applicazione delle novità introdotte dalla Riforma
Fornero (l. n. 92/2012), non anche di quelle del Jobs Act di cui
al d.lgs. n. 23/2015. Essa, comunque, offre importanti spunti di
riflessione circa l’applicabilità al settore pubblico anche di
queste seconde modifiche.
Come vedremo, poi, la decisione afferma che la violazione del
procedimento disciplinare valevole per i dipendenti pubblici dà
comunque diritto alla reintegra. Il che è sicuramente una buona
notizia.
Il caso posto all’attenzione della Suprema Corte
Il caso posto all’attenzione della Suprema Corte ha riguardato
un dirigente licenziato da un ente pubblico economico di
Agrigento, come tale rientrante nell’area delle “Pubbliche
Amministrazioni” e soggetto alla disciplina contenuta nel d.lgs.
n. 165/2001 (cosiddetto Testo Unico sul Pubblico Impiego).
Nell’impugnare il proprio licenziamento, il dipendente aveva
sollevato, quali vizi d’illegittimità del medesimo, la violazione
di alcune regole procedimentali previste per l’irrogazione di
sanzioni disciplinari nel Pubblico Impiego. Il riferimento è
all’art. 55-bis, d.lgs. n. 165/2001 (modificato dalla Riforma
Brunetta, d.lgs. n. 150/2009), il quale obbliga le PA ad irrogare i
provvedimenti più gravi come il licenziamento, appunto,
mediante un organo chiamato “ufficio disciplinare”.
Nel caso di specie, tutto ciò non era avvenuto in quanto, come
poi dimostrato in giudizio, l’organizzazione interna dell’ente
prevedeva il carattere collegiale dell’ufficio in questione,
composto da 3 membri, mentre il procedimento che aveva
portato al licenziamento del dirigente era stato aperto, istruito e
concluso da un solo componente dello stesso ufficio. Da qui
l’impugnazione del licenziamento, con richiesta di
applicazione, in punto di conseguenze sanzionatorie, del diritto
alla reintegra sancito dall’art. 18, l. n. 300/1970.
Il ricorso veniva accolto in primo grado e la Sentenza del
Tribunale di Agrigento veniva confermata dalla Corte
d’Appello di Palermo.
L’amministrazione datrice di lavoro proponeva così ricorso per
Cassazione e, tra i vari motivi, invocava l’entrata in vigore della
cosiddetta Legge Fornero e le modifiche da questa apportate
all’art. 18, l. n. 300/1970. Sosteneva così che essendo il vizio
d’illegittimità del licenziamento riscontrato di carattere
solamente un’indennità di carattere risarcitorio.
Ricordiamo, infatti, come una delle principali novità introdotte
dalla l. n. 92/2012 sia stata quella di avere graduato il diritto
alla reintegra in base al tipo di vizi accertati nel licenziamento
irrogato, relegando quelli di carattere procedurale al gradino più
basso, come tali sanzionabili non con il ripristino del rapporto,
bensì con un’indennità compresa tra le 6 e le 12 mensilità.
Le modifiche apportate dalla Riforma Fornero trovano
applicazione anche al Pubblico Impiego, ma sì alla reintegra
in caso di violazione del procedimento disciplinare dei
dipendenti pubblici
Nell’esaminare il ricorso presentato dall’amministrazione
pubblica di Agrigento, il primo principio affermato dalla Corte
di Cassazione nella sentenza del 26 novembre 2015 è quello
secondo il quale le modifiche apportate dalla l. n. 92/2012
all’art. 18, Statuto dei Lavoratori, trovano applicazione anche
nel Pubblico Impiego.
Nonostante ciò ha comunque fatto salvo il diritto alla reintegra
del dirigente licenziato.
A quest’ultima conclusione i giudici di legittimità sono giunti in
virtù del fatto che la violazione del procedimento disciplinare
previsto dall’art. 55-bis, d.lgs. n. 165/2001 per l’irrogazione di
sanzioni al dipendente pubblico rende lo stesso provvedimento
nullo, con conseguente applicazione della reintegra in base allo
stesso articolo 18 “post Fornero”.
Come noto, infatti, il comma 1 di tale disposizione mantiene il
diritto al ripristino del rapporto in tutti i casi di nullità previsti
dalla legge. In questi, afferma la Corte, vi rientra anche la
violazione di norme imperative (art. 1418 cc), quali quelle sul
procedimento disciplinare nel pubblico impiego contenute
nell’art. 55-bis, d.lgs. n. 165/2001.
La sanzione di cui all’art. 1418 cc – nullità per violazione di
norme imperative – opera poi salvo che la legge non disponga
diversamente e tale è il caso in questione.
Il ragionamento in merito alla natura imperativa delle
richiamate norme del TU appare corretto. Assai meno
condivisibile è invece l’assunto di partenza, per cui la riforma
del 2012 troverebbe applicazione anche nel lavoro pubblico. La
delicata questione è infatti risolta in modo sbrigativo e non si
può non osservare come avrebbe invece meritato maggiore
riflessione.
Osserva la Cassazione, infatti, come l’art. 51, d.lgs. n. 165/2001
affermi, con grande chiarezza, che “La legge 20 maggio 1970,
n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica
alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei
dipendenti”.
Essendo l’art. 18 contenuto nella legge n. 300/1970, esso trova
applicazione, in virtù di tale chiara previsione, anche alle PA.
Menzionando l’art. 51, d.lgs. n. 165/2001 non solo la legge
300/1970, ma anche le sue “successive modificazioni ed
integrazioni”, devono considerasi applicabili al Pubblico
Impiego le modifiche introdotte all’art. 18 dalla Riforma
Fornero.
8
9_2015
Il ragionamento, come si dice, non fa una piega. Tuttavia, merita
evidenziare come la stessa Legge Fornero contenga delle
previsioni che sembra possano portare ad una conclusione
contraria e che la Cassazione ha ignorato.
Il riferimento è ai commi 7 e 8 dell’art. 1, l. n. 92/2012, i quali,
molto chiaramente, subordinano l’applicazione al Pubblico
Impiego delle novità introdotte dalla stessa legge ad iniziative,
“anche normative”, di “armonizzazione”, previo confronto
obbligatorio con le OO.SS.. Di tale processo di
“armonizzazione” non vi è ad oggi traccia. Probabile che se ne
occuperà la tanto discussa Riforma Madia in sede di
decretazione.
Resta il fatto che, a fronte di un siffatto altrettanto chiaro dettato
legislativo, per di più contenuto nella stessa Legge Fornero, la
previsione dell’art. 51, d.lgs. n. 165/2001 richiamata dalla
Cassazione nella sentenza in commento non pare possa essere
utilizzata per sostenere l’applicazione alle PA delle modifiche
apportate nel 2012 all’art. 18. E ciò, quanto meno, nel rispetto
del principio della successione delle leggi nel tempo, secondo
cui una legge successiva prevale su quella precedente con cui è
in contrasto. Principio, quest’ultimo, sul quale, come noto, si
fondano i rapporti tra fonti dello stesso rango.
Come detto, però, la Suprema Corte ha liquidato con poche
parole la questione, affermando che “E’ innegabile che il nuovo
testo della L. n. 300 del 1970, art. 18, come novellato dalla L. n.
92 del 2012, art. 1, trovi applicazione ratione temporis al
licenziamento per cui è processo e ciò a prescindere dalle
iniziative di armonizzazione previste dalla legge c.d. Fornero
di cui parla l’impugnata sentenza”.
Le novità del Jobs Act trovano applicazione al Pubblico
Impiego?
Come anticipato, la decisione in commento non risolve l’altra e
analoga questione se le novità in materia di licenziamenti
introdotte dal d.lgs. n. 23/2015 (ovvero il decreto sul contratto a
tutele crescenti emanato nell’ambito della Riforma del mercato
del lavoro denominata Jobs Act) trovino applicazione anche al
settore pubblico. La sentenza però fornisce l’occasione per una
riflessione in merito.
Il d.lgs. n. 23/2015, come noto, non contiene norme specifiche
circa la sua applicazione al Pubblico Impiego. Diversamente
dalla Legge Fornero non prevede neanche quelle iniziative di
armonizzazione citate sopra.
La stessa legge delega n. 183/2014 sulla base del quale il
decreto licenziamenti è strato adottato non pare offrire spunti sul
tema. La questione interpretativa, quindi, se non si vuole basarsi
sulle parole spese dal Governo nei comunicati stampa e nei talk
show televisivi, pare risolvibile solo e soltanto alla luce delle
disposizioni contenute nel Testo Unico sul pubblico impiego e
al loro raccordo con quelle dello stesso d.lgs. n. 23/2015.
Il primo possibile ragionamento è abbastanza semplice.
Secondo un criterio interpretativo strettamente letterale,
teoricamente primo ed unico criterio da seguire qualora il senso
delle parole utilizzate dal legislatore sia univoco, il d.lgs. n.
23/2015 pare applicabile al Pubblico Impiego.
L’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, infatti, afferma che “I
rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo
II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di
lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse
disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono
disposizioni a carattere imperativo”.
Alla luce di tale disposizione, quindi, è chiaro che ai rapporti di
lavoro presso le PA si applicano tutte le previsioni applicabili
nei rapporti con le imprese, a meno che non vi siano
disposizioni speciali valevoli solo per il settore pubblico, che, in
quanto “speciali”, appunto, prevalgono su quelle valevoli
nell’ambito privatistico. Previsioni che possono essere
contenute sia nello stesso Testo Unico sul Pubblico Impiego,
sia, in virtù del principio di specialità (altro principio che regola
i rapporti tra fonti dello stesso rango), in altre leggi valevoli per
il solo settore pubblico.
Essendo il d.lgs. n. 23/2015 normativa sui rapporti di lavoro
nelle imprese e non esistendo né in altri testi normativi, né,
soprattutto, nello stesso d.lgs. n. 165/2001 una diversa
previsione sui licenziamenti - ma anzi, come visto sopra, un
richiamo alla legge 300, che evidenzia ancora di più l’assenza di
previsioni specifiche - si dovrebbe concludere per l’applicabilità
del Jobs Act nel Pubblico Impiego.
A far saltare questo ragionamento - che, inutile dirlo, avrebbe
conseguenze di estrema gravità viste le rilevanti e peggiorative
novità introdotte dal d.lgs. n. 23/2015 – potrebbe essere una
lettura sistematica dello stesso Jobs Act, il quale pare essere
incentrato ed adottato per le sole imprese.
Molte sue disposizioni, infatti, contengono espressioni in
contrasto con l’impianto delle PA. Si pensi, ad esempio, allo
stesso art. 1, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, che, nell’individuare
proprio il campo di applicazione, fa riferimento alla categoria
legale dei “quadri” come noto assente nel pubblico impiego. Lo
stesso comma 2 estende l’applicazione delle nuove disposizione
sui licenziamenti anche a coloro che vedono convertire il
proprio rapporto di lavoro da termine a tempo indeterminato.
Circostanza, quest’ultima, non riscontrabile, salvo rari casi (ad
esempio, processi di stabilizzazione), nel Pubblico Impiego.
Ancora, si estende l’applicazione delle nuove norme a color che
si vedono “confermati” al termine del periodo di apprendistato,
contratto, quest’ultimo, non applicabile al Pubblico Impiego.
Insomma, la presenza di queste previsioni letterali poco
compatibili con il settore pubblico, potrebbero far ritenere, sulla
base di criteri interpretativi sussidiari - come quello secondo
l’intenzione del legislatore - che la volontà di quest’ultimo sia
stata quella di limitare il campo di applicazione al solo settore
privato.
C’è poi un argomento ancora più rilevante, perché attiene a
principi di rilievo costituzionale che giustificano il permanere di
profili di specialità nel lavoro pubblico. A questo si accede
infatti come noto con concorso (come prescrive l’art.97 Cost.),
ovvero a seguito di un procedimento amministrativo posto a
garanzia dell’interesse pubblico e sul quale si fonda il diritto del
lavoratore ad essere assunto. Consentire ad una
Amministrazione di risolvere il rapporto di lavoro
illegittimamente (cioè in violazione di legge) equivale quindi a
non rispettare l’esito di una procedura concorsuale,
costituzionalmente necessaria; il che non è ammissibile.
La questione, però, è con tutta evidenza complessa e di difficile
soluzione. Pare altrettanto evidente, in ogni caso, come la
confusione sia stata frutto di un’omissione del Governo, figlia, a
sua volta, del mancato raggiungimento di un accordo politico tra
le sue varie forze interne.
A breve pare verrà adottata la tanta attesa Riforma Madia della
Pubblica Amministrazione. La speranza è che non si perda
l’occasione per fare chiarezza.
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