L`O S S E RVATOR E ROMANO
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Transcript L`O S S E RVATOR E ROMANO
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L’OSSERVATORE ROMANO
EDIZIONE SETTIMANALE
Unicuique suum
Anno LXVI, numero 3 (3.825)
IN LINGUA ITALIANA
Non praevalebunt
Città del Vaticano
Giovedì 21 gennaio 2016
Papa Francesco incontra la comunità ebraica nel Tempio maggiore di Roma
Siamo diventati amici e fratelli
La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione
Consuetudine
fissa
Consuetudine fissa, in ebraico chazaqà, diventa ogni atto ripetuto tre
volte. Così, dopo aver accolto con
un benvenuto cordiale Papa Francesco nel Tempio maggiore di Roma, il rabbino capo Riccardo Di
Segni ha saputo cogliere il senso
del terzo incontro di un Pontefice
con la più antica comunità della
diaspora ebraica, quella della città
di cui è vescovo. Tre incontri in
trent’anni, che potrebbero sembrare pochi ma che in realtà segnano
il progredire complessivo di un
riavvicinamento davvero storico,
irreversibile e tuttavia non privo di
ostacoli.
In questo processo una tappa
fondamentale intervenne mezzo
secolo fa, nelle ultime settimane
del Vaticano II, quando fu approvata a larghissima maggioranza,
grazie soprattutto alla paziente e
tenace azione di Paolo VI e dei
suoi collaboratori più stretti, la dichiarazione Nostra aetate. Il testo,
tanto breve quanto importante, ha
nutrito infatti le nuove relazioni
della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane, e in particolare con la radice santa dell’ebraismo, descritta già da Paolo nella
lettera ai Romani.
Da allora la conoscenza e l’amicizia si sono sempre più allargate.
Grazie a figure come il rabbino
capo Elio Toaff e a Giovanni Paolo II, i protagonisti della prima visita di un Papa alla più grande sinagoga della città ricordati insieme dalla presidente della comunità romana Ruth Dureghello, che
ha poi voluto mandare un saluto a
Benedetto XVI, decisivo nel contribuire a questo riavvicinamento. E
con loro tante sono state e sono le
persone senza le quali questi nuovi rapporti non sarebbero possibili.
Ma non ci si deve fermare. Lo
richiedono molte situazioni dove il
nome di Dio viene profanato da
chi uccide prendendo a pretesto e
bestemmiando il suo nome. Lo
esige soprattutto la storia quasi bimillenaria di ebrei e cristiani perché, come ha sottolineato lucidamente il presidente dell’Unione
delle comunità ebraiche italiane
Renzo Gattegna, è necessario che
la conoscenza dei molteplici progressi in questa nuova relazione
non resti circoscritta «ai vertici reCONTINUA A PAGINA 14
«Da nemici ed estranei, siamo diventati amici e fratelli». Nel Tempio
maggiore di Roma Papa Francesco
ha riassunto con queste parole gli
ultimi cinquant’anni di relazioni tra
cattolici ed ebrei. Recandosi in visita
nel pomeriggio di domenica 17 gennaio alla più antica comunità della
diaspora, il Pontefice ha reso omaggio al «dialogo sistematico» tra le
due parti «reso possibile» dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate.
Il Vaticano II — ha spiegato — «ha
tracciato la via» e, definendo «teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della
Chiesa cattolica con l’ebraismo», ha
fornito «un importantissimo stimolo
per ulteriori, necessarie riflessioni».
Attualizzando il discorso, il vescovo
di Roma ha poi messo in luce come
insieme con le questioni teologiche
non debbano essere perse di vista
«le grandi sfide che il mondo si tro-
Messaggio al vertice di Davos
Non dimenticate i poveri
«Dar vita a nuovi modelli
imprenditoriali che, nel
promuovere lo sviluppo
di tecnologie avanzate,
siano anche in grado di
utilizzarle per creare un
lavoro dignitoso per tutti,
sostenere e consolidare i
diritti sociali e proteggere
l’ambiente». È quanto auspicato da Papa Francesco
in un messaggio indirizzato ai partecipanti al Forum economico mondiale,
apertosi il 20 gennaio a
Davos sul tema «Padroneggiare la quarta rivoluzione industriale».
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va ad affrontare» oggi: come quelle
provocate da «conflitti, guerre, violenze e ingiustizie», che «aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la
pace e la giustizia». In proposito il
Pontefice ha ribadito con forza che
«la violenza dell’uomo sull’uomo è
in contraddizione con ogni religione
degna di questo nome». Al contrario, «ogni essere umano, in quanto
creatura di Dio, è nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o
dalla sua appartenenza religiosa».
Perché, ha sottolineato, «né la violenza né la morte avranno mai l’ultima parola davanti a Dio, che è il
Dio dell’amore e della vita». Di
conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi dobbiamo praticare in Europa, in Terra santa, in Medio oriente, in Africa e in ogni altra parte del
mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita». Non è mancato, infine, il commosso riferimento «allo sterminio
degli ebrei europei». Sei milioni di
persone, «solo perché appartenenti
al popolo ebraico, sono state vittime
della più disumana barbarie, perpetrata in nome di un’ideologia che
voleva sostituire l’uomo a Dio», ha
detto ricordando la deportazione ad
Auschwitz di oltre mille uomini,
donne e bambini della comunità
ebraica di Roma, il 16 ottobre 1943.
«Vorrei esprimere la mia vicinanza —
ha concluso — a ogni testimone della Shoah ancora vivente».
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L’OSSERVATORE ROMANO
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giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
Vetrata nella chiesa evangelica luterana
di Saint John a Colton in California
Udienza generale nell’ottavario per l’unità dei cristiani
La misericordia
è più forte delle divisioni
«La misericordia di Dio, che opera nel battesimo, è più forte delle nostre
divisioni». Lo ha ricordato Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì
20 gennaio, parlando ai fedeli presenti nell’Aula Paolo VI della settimana
di preghiera per l’unità dei cristiani, che si celebra quest’anno sul tema
«Chiamati per annunziare a tutti le opere meravigliose di Dio» ispirato
a un passo della Prima Lettera di Pietro (2, 9).
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Abbiamo ascoltato il testo biblico
che quest’anno guida la riflessione
nella Settimana di Preghiera per
l’unità dei cristiani, che va dal 18 al
25 gennaio: questa settimana. Tale
brano della Prima Lettera di san
Pietro è stato scelto da un gruppo
ecumenico della Lettonia, incaricato
dal Consiglio Ecumenico delle Chiese e dal Pontificio Consiglio per la
promozione dell’unità dei cristiani.
Al centro della cattedrale luterana
di Riga vi è un fonte battesimale che
risale al XII secolo, al tempo in cui
la Lettonia fu evangelizzata da san
Mainardo. Quel fonte è segno eloquente di una origine di fede riconosciuta da tutti i cristiani della Lettonia, cattolici, luterani e ortodossi.
Tale origine è il nostro comune Battesimo. Il Concilio Vaticano II afferma che «il Battesimo costituisce il
vincolo sacramentale dell’unità che
vige tra tutti quelli che per mezzo di
esso sono stati rigenerati» (Unitatis
redintegratio, 22). La Prima Lettera di
Pietro è rivolta alla prima generazione di cristiani per renderli consapevoli del dono ricevuto col Battesimo
e delle esigenze che esso comporta.
Anche noi, in questa Settimana di
Preghiera, siamo invitati a riscoprire
tutto questo, e a farlo insieme, andando al di là delle nostre divisioni.
Anzitutto, condividere il Battesimo significa che tutti siamo peccatori e abbiamo bisogno di essere salvati, redenti, liberati dal male. È que-
sto l’aspetto negativo, che la Prima
Lettera di Pietro chiama «tenebre»
quando dice: «[Dio] vi ha chiamati
fuori dalle tenebre per condurvi nella sua luce meravigliosa». Questa è
l’esperienza della morte, che Cristo
ha fatto propria, e che è simbolizzata nel Battesimo dall’essere immersi
nell’acqua, e alla quale segue il riemergere, simbolo della risurrezione
alla nuova vita in Cristo. Quando
noi cristiani diciamo di condividere
un solo Battesimo, affermiamo che
tutti noi — cattolici, protestanti e ortodossi — condividiamo l’esperienza
di essere chiamati dalle tenebre impietose e alienanti all’incontro con il
Dio vivente, pieno di misericordia.
Tutti infatti, purtroppo, facciamo
esperienza dell’egoismo, che genera
divisione, chiusura, disprezzo. Ripartire dal Battesimo vuol dire ritrovare la fonte della misericordia, fonte di speranza per tutti, perché nes-
suno è escluso dalla misericordia di
D io.
La condivisione di questa grazia
crea un legame indissolubile tra noi
cristiani, così che, in virtù del Batte-
Liberi, responsabili e solidali
Tre parole decisive
«Liberi, responsabili, solidali»: è
così che si sono presentati al
Papa quattordici giovani venuti
dall’Uganda per incontrarlo
all’udienza generale nell’aula
Paolo VI. «Tre parole decisive»,
spiegano, che hanno stampato
anche sulle loro magliette.
«Viviamo nella periferia della
regione della Karamoja, la più
povera e marginale del nostro
Paese e anche dell’intera Africa»
hanno raccontato a Francesco.
Sono a Roma per partecipare al
progetto «Vieni e vedi»,
promosso dal movimento Africa
Mission - Cooperazione e
Sviluppo. «Dal 21 dicembre
scorso — fa sapere il presidente
Carlo Ruspantini — hanno
incontrato tantissime comunità
cristiane per testimoniare, proprio
attraverso i loro tradizionali canti
e balli, il messaggio di speranza
che viene dai popoli dell’Africa e
per condividere la gioia
travolgente di credere in Gesù
Cristo».
Ad accompagnarli, e a presentarli
a uno a uno al Papa, c’era in aula
monsignor Damiano Guzzetti,
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GIOVANNI MARIA VIAN
direttore
Giuseppe Fiorentino
vicedirettore
Gianluca Biccini
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telefono 06 698 84797 fax 06 698 84998
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coordinatore
TIPO GRAFIA VATICANA EDITRICE
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Redazione
via del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano
fax +39 06 698 83 675
don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
simo, possiamo considerarci tutti
realmente fratelli. Siamo realmente
popolo santo di Dio, anche se, a
causa dei nostri peccati, non siamo
ancora un popolo pienamente unito.
La misericordia di Dio, che opera
nel Battesimo, è più forte delle nostre divisioni. Nella misura in cui accogliamo la grazia della misericordia, noi diventiamo sempre più pienamente popolo di Dio, e diventiamo anche capaci di annunciare a
tutti le sue opere meravigliose, proprio a partire da una semplice e fraterna testimonianza di unità. Noi
cristiani possiamo annunciare a tutti
la forza del Vangelo impegnandoci a
condividere le opere di misericordia
corporali e spirituali. E questa è una
testimonianza concreta di unità fra
noi cristiani: protestanti, ortodossi,
cattolici.
In conclusione, cari fratelli e sorelle, tutti noi cristiani, per la grazia
del Battesimo, abbiamo ottenuto misericordia da Dio e siamo stati accolti nel suo popolo. Tutti, cattolici, ortodossi e protestanti, formiamo un
sacerdozio regale e una nazione santa. Questo significa che abbiamo
una missione comune, che è quella
di trasmettere la misericordia ricevuta agli altri, partendo dai più poveri
e abbandonati. Durante questa Settimana di Preghiera, preghiamo affinché tutti noi discepoli di Cristo troviamo il modo di collaborare insieme per portare la misericordia del
Padre in ogni parte della terra.
Abbonamenti: Italia, Vaticano: € 58,00 (6 mesi € 29,00); Europa: € 100,00 - $ 148.00 U.S.;
America Latina, Africa, Asia: € 110,00 - $ 160.00 U.S.; America del Nord, Oceania: € 162,00 - $ 240.00
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numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 3
Tre parole
decisive
Nei saluti conclusivi
Vocazione comune
L’invito del Papa a non dimenticare
la «vocazione comune» dei cristiani
è risuonato nei saluti ai vari gruppi
di fedeli presenti all’udienza generale
del 20 gennaio, in particolare
in quello ai pellegrini di lingua
araba provenienti da Libano, Siria
e Medio oriente.
Saluto cordialmente i pellegrini di
lingua francese, in particolare i
giovani venuti dalla Francia. Vi invito ad unirvi alla preghiera di tutta la Chiesa per l’unità dei cristiani, affinché possiamo trovare i modi di collaborare insieme per portare la misericordia del Padre per
tutta la terra.
Che Dio vi benedica!
Saluto i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza,
specialmente i gruppi provenienti
dalla Nuova Zelanda e dagli Stati
Uniti d’America. Nel contesto della Settimana di Preghiera per
l’Unità dei Cristiani, rivolgo un saluto
particolare
agli
alunni
dell’Istituto Ecumenico di Bossey.
Su tutti voi, e sulle vostre famiglie,
invoco la gioia e pace del Signore
Gesù. Dio vi benedica!
Saluto cordialmente i pellegrini
provenienti dai Paesi di lingua tedesca. Andiamo avanti insieme con
tutti i cristiani sul cammino verso
l’unità piena, unendoci nella preghiera e nelle opere di carità. Il Signore benedica voi e le vostre famiglie.
Saluto cordialmente i pellegrini
di lingua spagnola , in particolare
i gruppi provenienti da Spagna e
America latina. In questa Settimana preghiamo affinché tutti i discepoli di Cristo trovino un modo
per lavorare insieme per portare la
misericordia di Dio in ogni angolo
della terra. Dio vi benedica.
Rivolgo un cordiale saluto ai
pellegrini di lingua portoghese qui
presenti. In questa Settimana di
Preghiera per l’Unità dei Cristiani,
invochiamo la grazia di vivere i
nostri impegni battesimali in
Il fonte battesimale (XII secolo) della cattedrale luterana di Riga
un’adesione più profonda al Volto
della Misericordia divina che è
Gesù, nostra speranza e nostra pace. Dio vi benedica!
Rivolgo un cordiale benvenuto
ai pellegrini di lingua araba, in
particolare a quelli provenienti dal
Libano, dalla Siria e dal Medio
Oriente. Il Battesimo ci fa realmente fratelli, figli del Padre, fratelli di Gesù e tempio dello Spirito; ci ricorda la nostra comune vocazione a portare la Buona Novella fino ai confini della Terra. Preghiamo affinché lo Spirito Santo
ci guidi all’unità e ci sproni a portare la misericordia del Padre in
ogni parte della terra. Il Signore vi
benedica e vi protegga dal maligno!
Un cordiale saluto rivolgo ai
pellegrini polacchi. Carissimi, in
questa settimana di preghiera per
l’unità dei cristiani chiediamo a
Cristo che tutti noi, come suoi discepoli, consapevoli di essere radicati nel suo amore attraverso il sacramento del battesimo, troviamo
il modo di collaborare per portare
la misericordia del Padre fino ai
confini della terra. Dio vi benedica!
Rivolgo un cordiale benvenuto
ai pellegrini di lingua italiana. Saluto in particolare i membri
dell’Associazione Penelope, della
Società Delta e della Confesercenti. Saluto i gruppi parrocchiali, i
ragazzi ugandesi del Movimento
Africa Mission e gli studenti
dell’Istituto Ecumenico Universitario di Bossey in visita di studio a
Roma. A tutti formulo l’auspicio
che la celebrazione del Giubileo,
con il passaggio dalla Porta Santa,
converta i nostri cuori e li apra
all’amore per Dio e per i fratelli.
Un pensiero speciale ai giovani,
ai malati e agli sposi novelli. La
Settimana di preghiera per l’unità
dei cristiani, ci ricorda che tutti i
credenti in Cristo, attraverso il
Battesimo, fanno parte del popolo
di Dio. Cari giovani, pregate affinché tutti i cristiani diventino sempre di più un’unica grande famiglia; cari ammalati, offrite le vostre
sofferenze per la causa dell’unità
della Chiesa di Cristo; e voi, cari
sposi novelli, coltivate l’amore misericordioso e gratuito come quello
che Dio nutre per noi.
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vescovo di Moroto. «Per undici dei
quattordici giovani è il primo viaggio
fuori dall’Uganda — spiega il presule —
e il fatto che avvenga nell’anno santo
sta dando loro l’opportunità di vivere
un’esperienza unica che non solo
arricchirà la loro vita personale, ma
sarà importantissima anche per i loro
coetanei che non sono potuti essere qui
oggi».
A Francesco i giovani hanno raccontato
di averlo già incontrato a Kampala, il
28 novembre scorso. «È per questo —
confidano — che al Papa abbiamo detto
un grande “sì”, rispondendo all’invito
che ci fede in quella occasione, di
impegnarci a trasformare le cose
negative in positive, l’odio in amore, la
guerra in pace». E per esprimere la
loro gioia, hanno letteralmente
riempito Francesco di doni simbolici.
Tra questi, un presepe realizzato
secondo la tradizione africana e il
fazzoletto azzurro che ricorda i
quarantatré anni dell’attività del
movimento Africa Mission Cooperazione e Sviluppo.
Durante l’udienza il Pontefice ha
stretto a sé in un abbraccio la famiglia
Sobolivsky, rifugiatasi in Polonia dalla
regione di Donbas in Ucraina, e ora
impegnati nell’assistenza
ai loro connazionali in difficoltà. E così
Vitaliy e Mariya hanno presentato a
Francesco le loro due figlie: Sofiya e
Veronika, di otto e cinque anni.
Con particolare affetto il Papa ha
voluto salutare personalmente anche gli
studenti dell’Istituto universitario di
Bossey, da martedì 19 a Roma per la
consueta settimana di studio
organizzata nell’ambito dell’anno
accademico della graduate school. Il
gruppo era formato da trentadue
giovani, guidati dal direttore, il
reverendo Ioan Sauca, del patriarcato
ortodosso di Romania. Da parte
cattolica, gli studenti erano
accompagnati da monsignor Andrzej
Choromanski, officiale del Pontificio
Consiglio per la promozione dell’unità
dei cristiani.
Particolarmente vivace, poi, il racconto
dell’iniziativa promossa da don Frankie
Mulgrew: per tutto l’anno giubilare
percorrerà le strade della diocesi
inglese di Salford guidando un
pullman a due piani
già denominato mercy bus, insieme
ad alcuni sacerdoti pronti a confessare
chi ne facesse richiesta.
Al Papa poi è stata portata anche la
voce dei piccoli imprenditori italiani,
riuniti nella Confesercenti, con gli
accenti posti sulle conseguenze della
crisi economica ma pure sull’«impegno
a rispettare la domenica come giorno
consacrato al Signore e non al
commercio a tutti i costi».
Un abbraccio particolare, inoltre,
Francesco ha riservato alle sette
persone con disabilità psichiche che
vivono l’esperienza della comunità
dell’Arca a Kaunas, in Lituania. Un
incontro fortemente voluto
dall’arcivescovo Lionginas Virbalas. E,
infine, il Pontefice non ha mancato di
rivolgere un incoraggiamento ai
familiari delle persone scomparse che
fanno parte dell’associazione Penelope,
di cui è divenuto “socio onorario”.
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L’OSSERVATORE ROMANO
giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
Messaggio per il giubileo dei ragazzi e delle ragazze
Chiamati per nome
«Costruire ogni giorno, anche nelle piccole cose, un mondo di pace»: è il compito
che il Papa affida ai ragazzi e alle ragazze che parteciperanno al giubileo
nel prossimo mese di aprile. A loro Francesco si rivolge con un messaggio e scrive:
«Vi vorrei chiamare per nome come fa Gesù».
Carissimi ragazzi e ragazze,
la Chiesa sta vivendo l’Anno Santo della Misericordia, un tempo di
grazia, di pace, di conversione e
gioia che coinvolge tutti: piccoli e
grandi, vicini e lontani. Non ci sono
confini o distanze che possano impedire alla misericordia del Padre di
raggiungerci e rendersi presente in
mezzo a noi. Ormai la Porta Santa è
aperta a Roma e in tutte le Diocesi
del mondo.
Questo tempo prezioso coinvolge
anche voi, cari ragazzi e ragazze, e
io mi rivolgo a voi per invitarvi a
prenderne parte, a diventarne i protagonisti, scoprendovi figli di Dio
(cfr. 1 Gv 3, 1). Vi vorrei chiamare
uno a uno, vi vorrei chiamare per
nome, come fa Gesù ogni giorno,
Al collegio
sacerdotale
argentino
di Roma
Una ventina di giovani preti che
studiano al Collegio sacerdotale
argentino di Roma sono stati ricevuti in udienza da Papa Francesco
nella mattina di giovedì 14 gennaio, nella Biblioteca del Palazzo
apostolico. Provenienti da diverse
diocesi del Paese, i sacerdoti erano
guidati dal rettore Ángel Hernández e dal vicerettore Daniel Forconesi. Ad accompagnarli alcuni presuli, fra i quali monsignor Sergio
Buenanueva, vescovo di San Francisco e presidente della commissione episcopale dei ministeri della
Conferenza episcopale argentina.
perché lo sapete bene che i vostri
nomi sono scritti in cielo (Lc 10, 20),
sono scolpiti nel cuore del Padre che
è il Cuore Misericordioso da cui nasce ogni riconciliazione e ogni dolcezza.
Il Giubileo è un intero anno in
cui ogni momento viene detto santo
affinché diventi tutta santa la nostra
esistenza. È un’occasione in cui scopriremo che vivere da fratelli è una
grande festa, la più bella che possiamo sognare, la festa senza fine che
Gesù ci ha insegnato a cantare attraverso il suo Spirito. Il Giubileo è la
festa a cui Gesù invita proprio tutti,
senza distinzioni e senza escludere
nessuno. Per questo ho desiderato
vivere anche con voi alcune giornate
di preghiera e di festa. Vi aspetto
numerosi, quindi, nel prossimo mese
di aprile.
“Crescere misericordiosi come il
Padre” è il titolo del vostro Giubileo, ma è anche la preghiera che facciamo per tutti voi, accogliendovi
nel nome di Gesù. Crescere misericordiosi significa imparare a essere
coraggiosi nell’amore concreto e disinteressato, significa diventare grandi tanto nel fisico, quanto nell’intimo. Voi vi state preparando a diventare dei cristiani capaci di scelte e
gesti coraggiosi, in grado di costruire ogni giorno, anche nelle piccole
cose, un mondo di pace.
Romisichei, «Youth Code» (2015)
La vostra è un’età di incredibili
cambiamenti, in cui tutto sembra
possibile e impossibile nello stesso
tempo. Vi ripeto con tanta forza:
«Rimanete saldi nel cammino della
fede con la ferma speranza nel Signore. Qui sta il segreto del nostro
cammino! Lui ci dà il coraggio di
andare controcorrente. Credetemi:
questo fa bene al cuore, ma ci vuole
il coraggio per andare controcorrente e Lui ci dà questo coraggio! Con
Lui possiamo fare cose grandi; ci farà sentire la gioia di essere suoi discepoli, suoi testimoni. Scommettete
sui grandi ideali, sulle cose grandi.
Noi cristiani non siamo scelti dal Signore per cosine piccole, andate
sempre al di là, verso le cose grandi.
Per un gruppo di bisognosi assistiti dall’Elemosineria
Pomeriggio al circo
Un pomeriggio al
circo: è il nuovo
“regalo” di Papa
Francesco a un
gruppo di poveri,
senzatetto, profughi, carcerati e bisognosi, che giovedì 14 gennaio hanno assistito a Roma
a uno spettacolo
offerto dal Rony
Roller Circus. Tutti
i 2000 posti del
grande tendone allestito in via di Torrevecchia sono stati
Joan Miró, «Il circo» (1934)
messi a disposizione per questa iniziativa promossa dall’Elemosineria apostolica. Lo spettacolo è stato aperto da una canzone dedicata al Pontefice e composta da un cantautore
spagnolo, anch’egli senzatetto: «Diventerà — spiega l’elemosiniere, l’arcivescovo Konrad Krajewski — una preghiera d’inizio e insieme un ringraziamento al Santo Padre per questo nuovo gesto di vicinanza a ciascuno
di loro». Il presule ricorda le parole rivolte da Francesco ai circensi —
«creatori di bellezza» li ha definiti — e auspica che «questo dono offerto
dagli artisti del circo, che con costanza, impegno e tanti sacrifici riescono
a creare e a donare bellezza a se stessi e agli altri, potrà diventare anche
per i nostri fratelli più poveri un incoraggiamento a superare le asprezze
e le difficoltà della vita». Durante il pomeriggio alcuni bisognosi sono
stati visitati e assistiti da medici e infermieri dei Servizi sanitari vaticani,
presenti con il camper mobile e le ambulanze dell’autoparco.
Giocate la vita per grandi ideali!»
(Omelia nella Giornata dei Cresimandi e Cresimati dell’Anno della
Fede, 28 aprile 2013).
Non posso dimenticare voi, ragazzi e ragazze che vivete in contesti di
guerra, di estrema povertà, di fatica
quotidiana, di abbandono. Non perdete la speranza, il Signore ha un
sogno grande da realizzare insieme a
voi! I vostri amici coetanei che vivono in condizioni meno drammatiche
della vostra, si ricordano di voi e si
impegnano perché la pace e la giustizia possano appartenere a tutti.
Non credete alle parole di odio e di
terrore che vengono spesso ripetute;
costruite invece amicizie nuove. Offrite il vostro tempo, preoccupatevi
sempre di chi vi chiede aiuto. Siate
coraggiosi e controcorrente, siate
amici di Gesù, che è il Principe della pace (cfr. Is 9, 6), «tutto in Lui
parla di misericordia. Nulla in Lui è
privo di compassione» (Misericordiae vultus, 8).
So che non tutti potrete venire a
Roma, ma il Giubileo è davvero per
tutti e sarà celebrato anche nelle vostre Chiese locali. Siete tutti invitati
per questo momento di gioia! Non
preparate solo gli zaini e gli striscioni, preparate soprattutto il vostro
cuore e la vostra mente. Meditate
bene i desideri che consegnerete a
Gesù nel Sacramento della Riconciliazione e nell’Eucaristia che celebreremo insieme. Quando attraverserete
la Porta Santa, ricordate che vi impegnate a rendere santa la vostra vita, a nutrirvi del Vangelo e dell’Eucaristia, che sono la Parola e il Pane
della vita, per poter costruire un
mondo più giusto e fraterno.
Il Signore benedica ogni vostro
passo verso la Porta Santa. Prego
per voi lo Spirito Santo, perché vi
guidi e vi illumini. La Vergine Maria, che è Madre di tutti, sia per voi,
per le vostre famiglie e per tutti coloro che vi aiutano a crescere in
bontà e grazia, una vera Porta della
Misericordia.
Dal Vaticano, 6 gennaio 2016,
Solennità dell’Epifania del Signore
numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 5
Con il Movimento cristiano lavoratori denunciata l’illegalità che porta alla corruzione
Per un nuovo umanesimo del lavoro
«Dobbiamo formare, educare
a un nuovo umanesimo del lavoro,
dove l’uomo, e non il profitto, sia
al centro; dove l’economia serva l’uomo
e non si serva dell’uomo»:
lo ha ribadito il Papa ricevendo
in udienza sabato mattina, 16 gennaio,
nell’Aula Paolo VI, dirigenti e aderenti
al Movimento cristiano lavoratori.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi accolgo con piacere e ringrazio il
Presidente per le parole che mi ha
indirizzato. Rivolgo un fraterno benvenuto ai Pastori che hanno voluto
essere presenti con voi, e alcuni di
loro venendo anche da lontano. Saluto tutti voi e ringrazio i due rappresentanti, Maria e Giovanni, per le
testimonianze che hanno scritto.
Nella sua testimonianza, Maria
accennava alla vostra vocazione, parlando di “vocazione del lavoro”. È
vero: il lavoro è una vocazione, perché nasce da una chiamata che Dio
rivolse fin dal principio all’uomo,
perché “coltivasse e custodisse” la
casa comune (cfr. Gen 2, 15). Così,
nonostante il male che ha corrotto il
mondo e anche l’attività umana,
«nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale l’essere umano
esprime e accresce la dignità della
propria vita» (Esort. ap. Evangelii
gaudium, 192). Come possiamo ri-
Fortunato Depero «Lavoratori» (1925-1939, particolare)
spondere bene a questa vocazione,
che ci chiama ad imitare attivamente
l’instancabile opera del Padre e di
Gesù che, dice il Vangelo, “agiscono
sempre” (cfr. Gv 5, 17)?
Vorrei suggerirvi tre parole, che
possono aiutarci. La prima è educa-
La visita ad anziani e malati nella periferia romana
Venerdì della misericordia
«Venerdì della misericordia» per Papa Francesco
in due strutture che accolgono anziani e malati
nella periferia orientale
di Roma. Il Pontefice
nel pomeriggio del 15
gennaio si è recato a
sorpresa nel quartiere
periferico di T0rre Spaccata per una visita privata dapprima alla Casa
di riposo Bruno Buozzi,
che offre ricovero a trentatré anziani, poi nella
vicina Casa Iride, dove
risiedono sei malati in
stato vegetativo. Si tratta del secondo “venerdì della misericordia” — l’iniziativa giubilare in cui il
Papa si riserva di compiere un’opera di misericordia esemplare — dopo
l’apertura, lo scorso 18 dicembre, della Porta della carità all’ostello della
stazione Termini di Roma. In particolare, in questa circostanza, Francesco
ha voluto evidenziare da una parte la grande e preziosa importanza delle
persone anziane, dei nonni, e dall’altra il valore e la dignità della vita in
ogni situazione, contro la “cultura dello scarto”. Accompagnato dall’arcivescovo Rino Fisichella, incaricato dell’organizzazione del giubileo della Misericordia, Francesco si è recato verso le ore 16 in via di Torre Spaccata 157,
tra la sorpresa e la gioia degli abitanti del quartiere e soprattutto degli
ospiti della casa Bruno Buozzi, in quanto la visita non era stata annunciata. Alla presenza del carmelitano Lucio Zappatore, parroco di Santa Maria
Regina Mundi, il Papa ha incontrato singolarmente ciascuno dei trentatré
anziani ricoverati, soffermandosi a parlare con ognuno. Una preghiera e la
condivisione di un tè hanno concluso il breve momento. Francesco si è poi
trasferito a Casa Iride, una struttura che non è organizzata come un ospedale ma come una casa famiglia dove i degenti possono essere assistiti continuamente dai loro familiari. E dopo aver benedetto ciascuno dei sei ospiti
— quasi tutti giovani vittime di incidenti stradali in stato vegetativo o di
minima coscienza — ha salutato e confortato i parenti. Verso le 17.15 il
Pontefice è risalito sull’utilitaria blu con cui è tornato a Santa Marta in Vaticano.
zione. Educare significa “trarre fuori”. È la capacità di estrarre il meglio
dal proprio cuore. Non è solo insegnare qualche tecnica o impartire
delle nozioni, ma rendere più umani
noi stessi e la realtà che ci circonda.
E questo vale in modo particolare
per il lavoro: occorre formare a un
nuovo “umanesimo del lavoro”. Perché viviamo in un tempo di sfruttamento dei lavoratori; in un tempo,
dove il lavoro non è proprio al servizio della dignità della persona, ma è
il lavoro schiavo. Dobbiamo formare, educare ad un nuovo umanesimo
del lavoro, dove l’uomo, e non il
profitto, sia al centro; dove l’economia serva l’uomo e non si serva
dell’uomo.
Un altro aspetto è importante:
educare aiuta a non cedere agli inganni di chi vuol far credere che il
lavoro, l’impegno quotidiano, il dono di sé stessi e lo studio non abbiano valore. Aggiungerei che oggi, nel
mondo del lavoro — ma in ogni ambiente — è urgente educare a percorrere la strada, luminosa e impegnativa, dell’onestà, fuggendo le scorciatoie dei favoritismi e delle raccomandazioni. Qui sotto c’è la corruzione.
Ci sono sempre queste tentazioni,
piccole o grandi, ma si tratta sempre
di “compravendite morali”, indegne
dell’uomo: vanno respinte, abituando il cuore a rimanere libero. Altrimenti, ingenerano una mentalità falsa e nociva, che va combattuta: quella dell’illegalità, che porta alla corruzione della persona e della società.
L’illegalità è come una piovra che
non si vede: sta nascosta, sommersa,
ma con i suoi tentacoli afferra e avvelena, inquinando e facendo tanto
male. Educare è una grande vocazione: come san Giuseppe addestrò Gesù all’arte del falegname, anche voi
siete chiamati ad aiutare le giovani
generazioni a scoprire la bellezza del
lavoro veramente umano.
La seconda parola che vorrei dirvi
è condivisione. Il lavoro non è soltanto una vocazione della singola persona, ma è l’opportunità di entrare
in relazione con gli altri: «Qualsiasi
forma di lavoro presuppone un’idea
sulla relazione che l’essere umano
può o deve stabilire con l’altro da
sé» (Lett. enc. Laudato si’, 125). Il
lavoro dovrebbe unire le persone,
non allontanarle, rendendole chiuse
e distanti. Occupando tante ore nella giornata, ci offre anche l’occasione
per condividere il quotidiano, per
interessarci di chi ci sta accanto, per
ricevere come un dono e come una
responsabilità la presenza degli altri.
Giovanni ha parlato, nella sua testimonianza scritta, di una forma di
condivisione che si attua nel vostro
Movimento: i “progetti di Servizio
Civile”, che vi consentono di avvicinare persone e contesti nuovi, facendone vostri i problemi e le speranze.
È importante che gli altri non siano
solo destinatari di qualche attenzione, ma di veri e propri progetti. Tutti fanno progetti per sé stessi, ma
progettare per gli altri permette di
fare un passo avanti: pone l’intelligenza a servizio dell’amore, rendendo la persona più integra e la vita
più felice, perché capace di donare.
L’ultima parola che vorrei consegnarvi è testimonianza. L’apostolo
Paolo incoraggiava a testimoniare la
fede anche mediante l’attività, vincendo la pigrizia e l’indolenza; e
diede una regola molto forte e chiara: «Chi non vuol lavorare, neppure
mangi» (2 Ts 3, 10). Anche in quel
tempo c’erano quelli che facevano
lavorare gli altri, per mangiare loro.
Oggi, invece, ci sono persone che
vorrebbero lavorare, ma non ci riescono, e faticano persino a mangiare. Voi incontrate tanti giovani che
non lavorano: davvero, come avete
detto, sono “i nuovi esclusi del nostro tempo”. Pensate che in alcuni
Paesi dell’Europa, di questa nostra
Europa, tanto colta, la gioventù arriva al 40 per cento di disoccupazione, 47 per cento in altri Paesi, 50 per
cento in altri. Ma cosa fa un giovane
che non lavora? Dove finisce? Nelle
dipendenze, nelle malattie psicologiche, nei suicidi. E non sempre si
pubblicano le statistiche dei suicidi
giovanili. Questo è un dramma: è il
dramma dei nuovi esclusi del nostro
tempo. E vengono privati della loro
dignità. La giustizia umana chiede
l’accesso al lavoro per tutti. Anche la
misericordia divina ci interpella: di
fronte alle persone in difficoltà e a
situazioni faticose — penso anche ai
giovani per i quali sposarsi o avere
figli è un problema, perché non hanno un impiego sufficientemente stabile o la casa — non serve fare prediche; occorre invece trasmettere speranza, confortare con la presenza,
sostenere con l’aiuto concreto.
Vi incoraggio a dare testimonianza a partire dallo stile di vita personale e associativo: testimonianza di
gratuità, di solidarietà, di spirito di
servizio. Il discepolo di Cristo,
quando è trasparente nel cuore e
sensibile nella vita, porta la luce del
Signore nei posti dove vive e lavora.
Questo vi auguro, mentre vi chiedo
scusa per il ritardo: avete pazienza,
voi! Ma le udienze [del mattino] si
sono allungate. E benedico tutti voi,
le vostre famiglie e il vostro impegno. Per favore, non dimenticatevi
di pregare per me. Grazie.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
Al pellegrinaggio della Chiesa luterana di Finlandia
Cammino promettente
Un «promettente cammino verso un’interpretazione
condivisa, a livello sacramentale, di Chiesa,
Eucaristia e ministero»: così il Pontefice ha definito
il dialogo tra luterani e cattolici, durante l’incontro
di lunedì mattina, 18 gennaio, con la delegazione
ecumenica della Chiesa luterana di Finlandia,
ricevuta in Vaticano nell’ambito del tradizionale
pellegrinaggio per la festa di Sant’Enrico.
Accompagnati dal cardinale Kurt Koch, presidente
del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità
dei cristiani, e da monsignor Matthias Türk,
assistente per la sezione occidentale del dicastero,
erano presenti: per la Chiesa cattolica, il vescovo
di Helsinki monsignor Teemu Sippo, il parroco
don Marco Pasinato, la segretaria della curia Auli
Nukarinen, due religiose, suor Marja Liisa
Makiranta e suor Irene Dang, e due seminaristi,
Tuomas Nyssola e Oskari Juurikkale;
per la Chiesa ortodossa di Finlandia, il metropolita
di Helsinki, Ambrosius, con un assistente;
e per la Chiesa evangelica-luterana di Finlandia,
il vescovo di Helsinki, Irja Askola,
con il direttore esecutivo Kimmo Kaariainen
e un collaboratore.
Cari fratelli e sorelle, Eminenza,
rivolgo il mio cordiale benvenuto a
voi, che anche quest’anno avete voluto fare visita al Vescovo di Roma
in occasione del tradizionale pellegrinaggio per la festa di sant’Henrik.
Ringrazio il Vescovo Luterano di
Helsinki, Irja Askola, per le sue cortesi parole.
Questo vostro pellegrinaggio ecumenico è un segno eloquente del
fatto che, come luterani, ortodossi e
cattolici, avete scoperto ciò che vi
accomuna e, insieme, desiderate dare
testimonianza di Gesù Cristo, che è
il fondamento dell’unità.
In particolare, siamo grati al Signore per i risultati che sono stati
conseguiti nel dialogo tra luterani e
cattolici. Ricordo il documento comune “Justification in the Life of the
Church”. Su questa base, tale dialogo
prosegue nel suo promettente cammino verso un’interpretazione condivisa, a livello sacramentale, di Chiesa, Eucaristia e Ministero. Gli importanti passi avanti compiuti insieme stanno costruendo un solido fondamento di comunione di vita nella
fede e nella spiritualità, e i rapporti
sono sempre più pervasi da uno spirito di sereno confronto e di fraterna
condivisione.
La comune vocazione di tutti i
cristiani è ben evidenziata dal testo
biblico di riferimento della Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani, che inizia oggi: «Voi siete la
stirpe eletta, il sacerdozio regale, la
nazione santa, il popolo che Dio si è
acquistato perché proclami le opere
meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile
luce» (1 Pt 2, 9).
Nel nostro dialogo, alcune differenze tuttora permangono nella dottrina e nella prassi. Questo però non
deve scoraggiarci, ma piuttosto spro-
Udienza alla delegazione
del Patriarcato serbo-ortodosso
Nella mattina di sabato 16 gennaio il Papa ha ricevuto in udienza una delegazione del Patriarcato serbo-ortodosso. Accompagnata dal cardinale
Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, e dal domenicano Hyacinthe Destivelle, assistente per la sezione orientale del dicastero, la delegazione era formata dalle Loro Eminenze, Amfilohije, metropolita del Montenegro e del Litorale, e Irinej, vescovo di Novi Sadr e di Backa, e dal professor Darko Tanaskovic, già ambasciatore di Serbia presso la Santa Sede.
narci a proseguire insieme il cammino verso una sempre maggiore unità,
anche superando vecchie concezioni
e reticenze. In un mondo spesso lacerato dai conflitti e segnato da secolarismo e indifferenza, tutti uniti
siamo chiamati ad impegnarci nel
confessare Gesù Cristo, diventando
sempre più testimoni credibili di
unità e artefici di pace e di riconciliazione.
Cari fratelli e sorelle, mi rallegro
per il vostro comune impegno per la
cura del creato, e vi ringrazio di
cuore per il segno simbolico di ospitalità che avete voluto offrirmi a nome del popolo Finlandese.
Nella speranza che questa vostra
visita contribuirà a rafforzare ulteriormente la collaborazione tra le vostre rispettive comunità, chiedo per
tutti voi abbondanti grazie di Dio e
vi accompagno di cuore con la mia
fraterna benedizione.
Vi invito a pregare insieme il Padre Nostro.
Videomessaggio a un congresso svoltosi in Brasile
Educati all’incontro
Creare una cultura dell’incontro tra
i giovani. Lo ha chiesto Papa Francesco in un videomessaggio inviato
ai partecipanti al XXIV congresso
interamericano di educazione cattolica, che si è svolto a San Paolo del
Brasile, dal 13 al 15 gennaio.
«In un mondo in cui al centro
dell’organizzazione mondiale non
c’è l’uomo ma la paura — ha detto
il Pontefice parlando in spagnolo —
l’educazione sta diventando sempre
più elitaria», limitandosi a «dare
contenuti nozionistici, in modo che
non includa tutta la sfera umana,
perché la persona, per sentirsi tale,
deve sentire, deve pensare, deve fare». Il Papa ha riconosciuto che il
lavoro degli educatori è molto grande. Essi soffrono, in generale, l’ingiustizia più grande, perché sono
malpagati. O meglio, non c’è coscienza del bene che possono fare.
Poi ha fatto riferimento alla necessità di aprire il piano educativo verso
la cultura dell’incontro: che «i giovani si incontrino tra di loro — ha
auspicato — e sappiano sentire, sappiano lavorare insieme, a qualsiasi
religione appartengano, di qualsiasi
etnia siano, da qualsiasi cultura pro-
vengano». Perché, solo così, «l’educazione insegna a incontrare la gente e a portare avanti opere che rechino frutto». Al riguardo, ha ricordato il lavoro promosso a Buenos
Aires dalla «Escuela de vecinos»,
maturato oggi nell’associazione che
si chiama «Scholas occurrentes»,
che sta «aprendo cammini, attraverso lo sport e l’arte». Infatti, ha constatato, «lo sport educa in quello
che è il lavoro di squadra. L’arte
educa, il dialogo educa».
Il Pontefice ha poi chiesto di
proseguire su questa strada, di non
chiudersi a nuove proposte, anche a
quelle audaci di educazione. «Essere educatore — ha aggiunto — è
quello che ha fatto Gesù: ci ha educati. Contro tutto un sistema educativo, dei dottori della Legge, della
rigidezza», come si narra nel capitolo 23 del Vangelo di Matteo, Cristo
«ci educa in altro modo, attraverso
un altro stile. Ci educa in due colonne molto grandi: le beatitudini,
al principio del Vangelo, e il protocollo sul quale saremo giudicati»,
come recita il capitolo 25 sempre
dell’evangelo di Matteo.
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
pagina 7
L’Angelus nella giornata mondiale del migrante e del rifugiato
Una storia, una cultura
Ogni migrante «porta in sé una storia,
una cultura, dei valori preziosi;
e spesso purtroppo anche esperienze
di miseria, di oppressione, di paura».
Lo ha ricordato Francesco ai fedeli
riuniti in piazza San Pietro
per l’Angelus di domenica 17 gennaio
— giornata mondiale del migrante e
del rifugiato — dopo aver commentato
il brano del Vangelo di Giovanni
dedicato alle nozze di Cana.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo di questa domenica presenta l’evento prodigioso avvenuto a
Cana, un villaggio della Galilea, du-
Grido
dell’umanità
rante una festa di nozze alla quale
partecipano anche Maria e Gesù,
con i suoi primi discepoli (cfr. Gv 2,
1-11). La Madre fa notare al Figlio
che è venuto a mancare il vino, e
Gesù, dopo averle risposto che non
è ancora giunta la sua ora, tuttavia
accoglie la sua sollecitazione e dona
agli sposi il vino più buono di tutta
la festa. L’evangelista sottolinea che
«questo fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in
lui» (v. 11).
I miracoli, dunque, sono segni
straordinari che accompagnano la
predicazione della Buona Notizia e
hanno lo scopo di suscitare o rafforzare la fede in Gesù. Nel miracolo
compiuto a Cana, possiamo scorgere
un atto di benevolenza da parte di
Gesù verso gli sposi, un segno della
benedizione di Dio sul matrimonio.
L’amore tra l’uomo e la donna è
quindi una buona strada per vivere
il Vangelo, cioè per incamminarsi
con gioia sul percorso della santità.
Ma il miracolo di Cana non riguarda solo gli sposi. Ogni persona
umana è chiamata ad incontrare il
Signore nella sua vita. La fede cristiana è un dono che riceviamo col
Battesimo e che ci permette di incontrare Dio. La fede attraversa tempi di gioia e di dolore, di luce e di
oscurità, come in ogni autentica
esperienza d’amore. Il racconto delle
nozze di Cana ci invita a riscoprire
che Gesù non si presenta a noi come
un giudice pronto a condannare le
nostre colpe, né come un comandante che ci impone di seguire ciecamente i suoi ordini; si manifesta come Salvatore dell’umanità, come fratello, come il nostro fratello maggiore, Figlio del Padre: si presenta come Colui che risponde alle attese e
alle promesse di gioia che abitano
nel cuore di ognuno di noi.
Allora possiamo chiederci: davvero conosco il Signore così? Lo sento
vicino a me, alla mia vita? Gli sto rispondendo sulla lunghezza d’onda
di quell’amore sponsale che Egli manifesta ogni giorno a tutti, a ogni essere umano? Si tratta di rendersi
conto che Gesù ci cerca e ci invita a
fargli spazio nell’intimo del nostro
CONTINUA A PAGINA 10
Apprezzamento per il lavoro svolto dall’Ispettorato di pubblica sicurezza presso il Vaticano
Oltre seimila migranti e rifugiati
delle principali comunità
cattoliche presenti a Roma e
nel Lazio hanno celebrato
il giubileo varcando domenica
17 gennaio la porta santa
della basilica vaticana in occasione
della giornata mondiale loro
dedicata. Tema di quest’anno:
«Migranti e rifugiati
ci interpellano. La risposta
del Vangelo della misericordia».
Dopo aver partecipato all’Angelus
del Papa, colorando piazza San
Pietro con foulard bianchi e gialli
con il logo della fondazione
Migrantes, con bandiere
delle trenta nazioni di provenienza
e con striscioni di ringraziamento
e di affetto rivolti a Francesco,
hanno compiuto il gesto giubilare,
passando attraverso la porta santa
della basilica. Tra loro anche
duecento richiedenti asilo
del Centro di accoglienza
straordinaria (Cara)
di Castelnuovo di Porto
con gli operatori della cooperativa
Auxilium.
Successivamente hanno animato
la messa presieduta alla cattedra
dal cardinale Vegliò. Ai piedi
dell’altare c’era la croce
di Lampedusa. Le ostie distribuite
alla Comunione sono state
realizzate e donate dai detenuti,
anche stranieri, del carcere
milanese di Opera.
Con professionalità e senso del dovere
Apprezzamento per il lavoro svolto
«con professionalità e senso del
dovere» è stato espresso da Papa
Francesco a dirigenti e agenti
dell’Ispettorato di Pubblica sicurezza
presso il Vaticano, ricevuti in udienza
lunedì mattina, 18 gennaio,
nella Sala Clementina.
Signora Dirigente,
Signori Funzionari,
cari Agenti di Pubblica Sicurezza!
Anche quest’anno sono lieto di incontrarvi e di manifestarvi la mia riconoscenza per il vostro prezioso
servizio alla Sede Apostolica e alla
Città del Vaticano. Vi saluto tutti
cordialmente, ad iniziare dalla
dott.ssa Maria Rosa Maiorino, che
ringrazio per le sue cortesi parole. A
ciascuno di voi, che fate parte
dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza presso il Vaticano, rinnovo
l’espressione del mio apprezzamento
per il lavoro che svolgete con professionalità e senso del dovere. E vi sono riconoscente anche per la vostra
presenza nelle visite pastorali che
compio in Italia. Saluto e ringrazio
per la loro presenza il Prefetto Alessandro Pansa, Capo della Polizia
Italiana, i Vice Capi, il Questore di
Roma, dott. Nicolò D’Angelo, e gli
altri rappresentanti della Polizia di
Stato.
Il nostro odierno incontro è ancor
più significativo perché si colloca nel
contesto dell’Anno Santo della Misericordia, evento di rilevanza spirituale, che ha visto già in questi primi giorni affluire a Roma molti pellegrini provenienti da ogni parte del
mondo. Anche voi, Dirigenti, Funzionari e Agenti di Pubblica Sicurezza, siete chiamati ad un impegno
più grande per far sì che le celebrazioni e gli eventi collegati con il
Giubileo straordinario si svolgano in
modo regolare e proficuo. L’ordine
esteriore, sul quale voi vegliate con
attenta premura, non mancherà di
favorire quello interiore, permeato di
serenità e di pace.
Abbiamo appena concluso il tempo natalizio, ma in molti luoghi —
come qui in Piazza San Pietro — ancora rimane esposto il presepe, che
ci invita a custodire dentro di noi,
sull’esempio della Madonna, il mistero che abbiamo celebrato. Maria
ci ha offerto Gesù come principio di
vita nuova. Quel Bambino è il vero
consolatore dei cuori, la luce vera
che rischiara la nostra vita, vincendo
l’oscurità del peccato. In Lui abbiamo contemplato il volto della misericordia di Dio Padre, e abbiamo accolto il rinnovato invito a convertirci
all’amore e al perdono. Che questa
esperienza spirituale ci accompagni
durante l’intero Anno Santo! Che il
Giubileo della Misericordia sia per
tutti un tempo forte dello spirito,
tempo di riconciliazione con Dio e
con i fratelli. Tutti noi abbiamo bisogno di riconciliarci, tutti. Tutti abbiamo qualcosa con un fratello, in
famiglia, con un amico... E questo è
il tempo della riconciliazione, per fare pace.
In questa prospettiva, auguro anche a ciascuno di voi di vivere nel
miglior modo possibile i prossimi
mesi, accogliendo i doni di grazia
che questo evento di salvezza ci offre. Vi auguro di sperimentare quella
consolazione interiore che provarono
i pastori di Betlemme.
Cari fratelli e sorelle, il Signore vi
protegga nell’adempimento del compito che svolgete in collaborazione
con le altre Forze di sicurezza. Vi sia
sempre accanto nelle difficoltà Maria
Santissima, Madre di Gesù e nostra.
Lei ottenga la benedizione divina
sulle vostre aspirazioni e i vostri progetti, e vi aiuti, con la sua materna
assistenza, a camminare sulle orme
del suo Figlio Gesù. Da parte mia,
vi assicuro un costante ricordo nella
preghiera. E questo è vero! Quando
esco in piazza, quando vado e vi vedo, prego per voi, e lo faccio di cuore. E vi chiedo per favore di pregare
per me, perché questo non è un lavoro facile! Pregate per me, questo è
quello che vi chiedo. Auguro a voi e
alle vostre famiglie un felice anno
nuovo, e di cuore vi benedico.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 8
giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
Messe a Santa Marta
Sconfitta e vittoria
Giovedì 14 gennaio
La forza della preghiera dell’uomo
di fede è stata al centro dell’omelia
del Papa durante la messa celebrata
giovedì 14 gennaio a Santa Marta. Il
Pontefice ha messo a confronto la
prima lettura e il vangelo della liturgia del giorno, facendo notare come
nei testi si parlasse «di una vittoria e
di una sconfitta». Nel brano tratto
dal primo libro di Samuele (4, 1-11)
si legge infatti del popolo di Dio
che «è sconfitto in battaglia, in
guerra contro i Filistei» mentre nel
Vangelo di Marco (1, 40-45) si racconta, invece, della vittoria sulla malattia del lebbroso che si affida a
Gesù. Due esiti opposti dovuti alla
differente fede dei protagonisti.
Francesco ha cominciato soffermandosi sugli eventi che portarono
al disastro per Israele, che «fu sconfitto e ciascuno fuggì alla sua tenda.
La strage fu molto grande: dalla
parte di Israele caddero trentamila
fanti. Trentamila! In più l’arca di
Dio fu presa e i due figli di Eli, Ofni e Fineès morirono». Il popolo,
cioè, aveva «perso tutto. Anche la
dignità...». Ma perché, si è chiesto il
Papa, «è successo questo?». Il Signore era sempre stato con il suo
popolo: «Cosa ha portato a questa
sconfitta?». Il fatto è, ha spiegato,
che il popolo «passo, passo, passo,
lentamente si era allontanato dal Signore; viveva mondanamente», addirittura si era fatto degli idoli. È vero
che gli israeliti andavano al santuario di Silo, ma lo facevano «in una
maniera un po’... come se fosse una
abitudine culturale: avevano perso il
rapporto filiale con Dio». Ecco,
quindi, il punto centrale: «non adoravano più Dio». Perciò «il Signore
li lasciò da soli». Si allontanarono e
Dio li lasciò fare.
Ma non è tutto. Il Pontefice ha
infatti continuato la sua analisi del
comportamento
degli
israeliti.
Quando persero la prima battaglia,
«gli anziani si chiesero: “Ma perché
ci ha sconfitto oggi il Signore, di
fronte ai Filistei? Andiamo a prenderci l’arca dell’alleanza!”». In quel
momento di difficoltà, cioè, «ricordarono il Signore», ma ancora una
volta senza vera fede. Infatti, ha ribadito il Papa, «andarono a prendere l’arca dell’alleanza come se fosse
una cosa — scusatemi la parola — un
po’ “magica”». Dicevano: «Portiamo
l’arca, ci salverà! Ci salverà!». Ma
nell’arca — ha sottolineato Francesco
— «c’era la legge», quella legge «che
loro non osservavano e dalla quale si
erano allontanati». Tutto questo significa che «non c’era più un rapporto personale con il Signore: avevano dimenticato il Dio che li aveva
salvati».
Avvenne così che gli israeliti portarono l’arca e che i filistei dapprima
si spaventarono, ma poi dissero:
«Ma no! Siamo uomini, andiamo
avanti!». E vinsero. La strage — ha
commentato il Papa — «fu totale:
trentamila fanti! E in più l’arca di
Dio fu presa dai Filistei; i due figli
di Eli, quei sacerdoti delinquenti che
sfruttavano la gente nel Santuario di
Silo, Ofni e Fineès, morirono». Un
bilancio disastroso: «Il popolo senza
fanti, senza giovani, senza Dio e
senza sacerdoti. Una sconfitta totale!».
Nel salmo responsoriale (tratto
dal salmo 43) si trova la reazione del
popolo quando si accorge di quello
che è accaduto: «Signore, ci hai respinti e coperti di vergogna». Il salmista prega: «Svegliati, destati, non
respingerci per sempre! Perché nascondi il tuo volto? Dimentichi la
nostra miseria ed oppressione?».
Questa — ha concluso il Pontefice —
«è la sconfitta: un popolo che si allontana da Dio finisce così». Ed è
una lezione che vale per tutti. Anche
oggi. Anche noi, apparentemente,
Passo avanti
Venerdì 15 gennaio
La fede è «un dono» che non si
compra o si acquisisce per i propri
meriti. Ispirato dalla liturgia del
giorno, Papa Francesco, nella messa
celebrata venerdì 15 gennaio a Santa Marta, ha continuato a parlare
delle caratteristiche della fede.
Ricordando come il giorno precedente il vangelo avesse presentato
l’episodio dellebbroso che dice a
Gesù: «Se vuoi, tu puoi guarirmi»,
il Pontefice si è soffermato sulle figure di altri «decisi», di altri «coraggiosi» spinti dalla fede. Nel riprendere il brano di Marco (2, 112), Francesco ha ripercorso l’episodio del paralitico condotto dagli
amici al cospetto di Gesù. Il quale,
«come al solito, è in mezzo alla
gente, tanta gente». Per avvicinare
il malato a lui gli amici osano di
tutto, «ma non hanno pensato ai rischi» che comporta «far salire la
barella sul terrazzo» o anche al rischio «che il proprietario della casa
chiamasse i poliziotti e li mandasse
in galera». Essi, infatti, «pensavano
soltanto ad avvicinarsi a Gesù. Avevano fede».
Si tratta, ha detto il Papa, della
«stessa fede di quella signora che
anche, in mezzo alla folla, quando
Gesù andava a casa di Giairo, si è
arrangiata per toccare il lembo della veste di Gesù, del manto di Gesù, per essere guarita». La stessa fede del «centurione che disse: “No,
no, maestro, non disturbarti: soltanto una parola tua, e il mio servo sarà guarito». Una fede «forte, coraggiosa, che va avanti», con il «cuore
aperto».
A questo punto però, ha sottolineato Francesco, «Gesù fa un passo
avanti». Per spiegare quanto affermato, il Pontefice ha richiamato un
altro episodio evangelico, quello in
cui Gesù «a Nazareth, all’inizio del
suo ministero, era andato in sinagoga e aveva detto che era stato inviato per liberare gli oppressi, i carcerati, dare la vista ai ciechi... inaugurare un anno di grazia, cioè un anno — si può capire bene — di per-
dono, di avvicinamento al Signore». Indicava, cioè, una strada nuova, «una strada verso Dio». La stessa cosa accade con il paralitico al
quale non dice semplicemente: «Sii
guarito», ma: «Ti sono perdonati i
peccati».
Con questa novità, ha fatto rilevare il Papa, Gesù ha innescato la
reazioni di «quelli che avevano il
cuore chiuso». I quali «già accettavano — fino a un certo punto — che
Gesù fosse un guaritore»; ma che
perdonasse anche i peccati per loro
era «troppo». Pensavano: «Non ha
diritto a dire questo, perché soltanto Dio può perdonare i peccati».
Allora Gesù ribatte: «Perché pensate queste cose? Perché sappiate
che il Figlio dell’uomo ha il potere
— ed è qui, ha spiegato Francesco,
«il passo avanti» — di perdonare i
peccati. Alzati, prendi e guarisci».
Gesù comincia a parlare con quel
linguaggio «che a un certo punto
CONTINUA A PAGINA 9
siamo devoti, «abbiamo un santuario, abbiamo tante cose...». Ma, ha
chiesto il Papa, «il tuo cuore è con
Dio? Tu sai adorare Dio?». E se credi in Dio, ma «un Dio un po’ nebbioso, lontano, che non entra nel
tuo cuore e tu non obbedisci ai suoi
comandamenti», allora significa che
sei di fronte a una «sconfitta».
D’altra parte il vangelo parla di
una vittoria. Anche in questo caso
Francesco ha voluto richiamare la
scrittura, nella quale si narra che
«venne da Gesù un lebbroso che lo
supplicava in ginocchio — proprio in
un gesto di adorazione — e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi”».
Il lebbroso, ha spiegato il Papa, in
un certo senso «sfida il Signore dicendo: io sono uno sconfitto nella
vita». Infatti «era uno sconfitto, perché non poteva fare vita comune;
era sempre “scartato”, messo da parte». Ma lo incalza: «Tu puoi trasformare questa sconfitta in vittoria!». E
«davanti a questo, Gesù ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli
disse: “Io lo voglio! Sii purificato!”». Un’altra battaglia, quindi:
questa però «finita in due minuti
con la vittoria», mentre quella degli
israeliti durò «tutta la giornata» e finì con la sconfitta. La differenza sta
nel fatto che «quell’uomo aveva
qualcosa che lo spingeva ad andare
da Gesù» e a lanciargli quella sfida.
Insomma, «aveva fede!».
Per approfondire la riflessione, il
Pontefice ha anche citato un passo
del quinto capitolo della prima lettera di Giovanni, dove si legge: «È
questa la vittoria nostra sul mondo:
la nostra fede». La fede cioè, ha detto Francesco, «vince sempre. La fede
è vittoria». Ed è proprio quanto è
capitato al lebbroso: «Se vuoi, puoi
farlo». Gli sconfitti descritti nella
prima lettura, invece, «pregavano
Dio, portavano l’arca, ma non avevano fede, l’avevano dimenticata».
A questo punto il Papa è entrato
nel cuore della sua riflessione, sottolineando che «quando si chiede con
fede, Gesù stesso ci ha detto che si
muovono le montagne». E ha ricordato le parole del Vangelo: «Qualunque cosa che chiedete al Padre
nel mio nome, vi sarà data. Chiedete
e vi sarà dato; bussate e vi sarà aperto». Tutto è possibile, ma solo «con
la fede. E questa è la nostra vittoria». Perciò, ha concluso Francesco,
«chiediamo al Signore che la nostra
preghiera sempre abbia quella radice
di fede»: chiediamo «la grazia della
fede». La fede, infatti, è un dono e
«non si impara sui libri». Un dono
del Signore che va chiesto. «“D ammi la fede!”. “Credo, Signore!” ha
detto quell’uomo che chiedeva a Gesù di guarire suo figlio: “Credo Signore, aiuta la mia poca fede”».
Dobbiamo quindi chiedere «al Signore la grazia di pregare con fede,
di essere sicuri che ogni cosa che
chiediamo a lui ci sarà data, con
quella sicurezza che ci dà la fede. E
questa è la nostra vittoria: la nostra
fede».
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
pagina 9
Otri nuovi
Lunedì 18 gennaio
Il cristiano che si nasconde dietro il
«Si è sempre fatto così...» commette
peccato, divenendo idolatra e ribelle
e vivendo una «vita rattoppata, metà
e metà», perché chiude il suo cuore
alle «novità dello Spirito Santo». È
un invito a liberarsi dalle «abitudini», per lasciare spazio alle «sorprese di Dio», quello che Papa
Francesco ha lanciato durante la
messa celebrata lunedì mattina, 18
gennaio, nella cappella della Casa
Santa Marta.
Nella prima lettura, tratta dal primo libro di Samuele (15, 16-23), «abbiamo ascoltato — ha fatto subito
notare il Papa — come il re Saul viene rigettato da Dio per non obbedire: il Signore ha detto a lui che
avrebbe vinto nella battaglia, nella
guerra, ma che tutto sarebbe dovuto
essere votato allo sterminio». E Saul
«non ha obbedito».
Così «quando il profeta gli rimprovera questo e poi lo rigetta in nome di Dio come re di Israele, lui —
continua il brano — dà una spiegazione: “Ho ascoltato la voce del popolo che voleva prendere questo be-
stiame più buono per farne sacrificio
al Signore”».
«È una cosa buona fare un sacrificio — ha spiegato Francesco — ma il
Signore aveva ordinato, aveva dato il
mandato di fare un’altra cosa». Ed
ecco che Samuele dice a Saul: «Il
Signore gradisce forse gli olocausti e
i sacrifici quanto l’obbedienza alla
voce del Signore?». Dunque, ha affermato il Papa, «l’obbedienza va oltre» e supera anche le parole di giustificazione di Saul: «Io ho ascoltato
il popolo e il popolo mi ha detto:
sempre si è fatto così! Le cose di più
valore andranno al servizio del Signore, sia al tempio sia per i
sacrifici. Sempre è stato fatto cosi!».
Così «il re, che doveva cambiare
questo: “Sempre è stato fatto così...”,
dice a Samuele: “Ho temuto il popolo”». Saul «ha avuto timore» e
per questo «ha lasciato che la vita
continuasse contro la volontà del Signore».
Lo stesso atteggiamento — ha proseguito il Papa riferendosi al passo
liturgico di Marco (2, 18-22) — ce lo
«insegna Gesù nel Vangelo, quando
i dottori della legge gli rimproverano
che i discepoli non facciano digiuno:
“Ma sempre è stato fatto così, perché non fanno digiuno i tuoi?”. E
Gesù risponde con questo principio
di vita: “Nessuno cuce un pezzo di
stoffa grezza su un vestito vecchio;
altrimenti il rattoppo nuovo porta
via qualcosa alla stoffa vecchia e lo
strappo diventa peggiore. E nessuno
versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri, e si
perdono vino e otri. Ma vino nuovo
in otri nuovi!”».
In sostanza, ha affermato Francesco, «cosa significa questo, che cambia la legge? No!». Vuol dire, piuttosto, «che la legge è al servizio
dell’uomo, che è al servizio di Dio, e
per questo l’uomo deve avere il cuore aperto». L’atteggiamento di chi
dice: «Sempre è stato fatto così...»
nasce in realtà da «un cuore chiuso». Invece «Gesù ci ha detto: “Vi
invierò lo Spirito Santo e lui vi condurrà fino alla piena verità”». Dunque «se tu hai il cuore chiuso alla
novità dello Spirito, mai arriverai alla piena verità». E «la tua vita cristiana sarà una vita metà e metà,
una vita rattoppata, rammendata di
cose nuove, ma su una struttura che
non è aperta alla voce del Signore:
un cuore chiuso, perché non sei capace di cambiare gli otri».
Proprio «questo — ha spiegato il
Pontefice — è stato il peccato del re
Saul, per il quale è stato rigettato».
Ed è anche «il peccato di tanti cristiani che si aggrappano a quello
che sempre è stato fatto e non lasciano cambiare gli otri». Finendo così
Venerdì 15 gennaio
DA PAGINA 8
scoraggerà la gente», un linguaggio duro, con il quale
«parla di mangiare il suo corpo come strada di salvezza». Comincia, cioè, a «rivelarsi come Dio», cosa che
poi farà chiaramente davanti al sommo sacerdote dicendo: «Io sono il Figlio di Dio».
Un passo avanti che viene proposto anche alla fede
dei cristiani. Ciascuno di noi, infatti, può avere fede in
«Cristo Figlio di Dio, inviato dal Padre per salvarci: sì,
salvarci dalle malattie, tante cose buone che il Signore
ha fatto e ci aiuta a fare»; ma soprattutto bisogna avere
fede che egli è venuto per «salvarci dai nostri peccati,
salvarci e portarci dal Padre». È questo, ha detto Papa
Francesco, «il punto più difficile da capire». E non solo per gli scribi «che dicevano: “Ma, questo bestemmia! Solo Dio può perdonare i peccati!”». Alcuni discepoli, infatti, «dubitano e se ne vanno» quando Gesù si mostra «con una missione più grande di quella di
un uomo, per dare quel perdono, per dare la vita, per
ricreare l’umanità». Tanto che lo stesso Gesù «deve
chiedere al suo piccolo gruppetto: “Anche voi volete
andarvene?”».
Dalla domanda di Gesù, il Pontefice ha preso spunto per invitare ciascuno a chiedersi: «Come è la mia fede in Gesù Cristo? Credo che Gesù Cristo è Dio, è il
Figlio di Dio? E questa fede mi cambia la vita? Fa che
nel mio cuore si rinnovi in quest’anno di grazia, quest’anno di perdono, quest’anno di avvicinamento al Signore?».
È l’invito a scoprire la qualità della fede, consapevoli
che essa «è un dono. Nessuno “merita” la fede. Nessuno la può comprare». Per Francesco occorre chiedersi:
«La “mia” fede in Gesù Cristo, mi porta all’umiliazione? Non dico all’umiltà: all’umiliazione, al pentimento,
alla preghiera che chiede: “Perdonami, Signore” e che
Sadao Watanabe, «Gesù guarisce il paralitico»
è capace di testimoniare: “Tu sei Dio. Tu ‘puoi’ perdonare i miei peccati”».
Da qui la preghiera conclusiva: «Il Signore ci faccia
crescere nella fede» perché facciamo come coloro che,
avendo ascoltato Gesù e visto le sue opere, «si meravigliarono e lodavano Dio». È infatti «la lode la prova
che io credo che Gesù Cristo è Dio nella mia vita, che
è stato inviato a me per “perdonarmi”». E la lode, ha
aggiunto il Pontefice, «è gratuita. È un sentimento che
dà lo Spirito Santo e ti porta a dire: “Tu sei l’unico
D io”».
Marko Ivan Rupnik, «Le nozze di Cana»
(particolare)
per vivere «una vita a metà, rattoppata, rammendata, senza senso».
Ma «perché succede questo? Perché è tanto grave, perché il Signore
rigetta Saul e poi sceglie un altro
re?». La risposta la dà Samuele
quando «spiega cosa sia un cuore
chiuso, un cuore che non ascolta la
voce del Signore, che non è aperto
alla novità del Signore, allo Spirito
che sempre ci sorprende». Chi ha un
cuore così, afferma Samuele, «è un
peccatore». Si legge nel passo biblico: «Sì, peccato di divinazione è la
ribellione, e colpa e terafìm — cioè
idolatria — l’ostinazione». Dunque,
ha affermato Francesco, «i cristiani
ostinati nel “sempre è stato fatto così, questo è il cammino, questa è la
strada”, peccano: peccano di divinazione»: è «come se andassero dalla
chiromante». Insomma, alla fine risulta «più importante quello che è
stato detto e che non cambia; quello
che sento io — da me e dal mio cuore chiuso — che la parola del Signore». E questo «è anche peccato di
idolatria: l’ostinazione. Il cristiano
che si ostina, pecca. Pecca di idolatria».
Di fronte a questa verità, la domanda da porsi è: «Qual è la strada?». Francesco ha suggerito di
«aprire il cuore allo Spirito Santo,
discernere qual è la volontà di Dio».
È vero, «sempre, dopo le battaglie,
il popolo prendeva tutto per i sacrifici al Signore, anche per la propria
utilità, anche i gioielli per il tempio». Ed «era abitudine, al tempo di
Gesù, che i bravi israeliti digiunassero». Però, ha spiegato, «c’è un’altra
realtà: c’è lo Spirito Santo che ci
conduce alla verità piena». E «per
questo lui ha bisogno di cuori aperti, di cuori che non siano ostinati nel
peccato di idolatria di se stessi» ritenendo «più importante quello che io
penso» e non «quella sorpresa dello
Spirito Santo».
E «questo — ha rimarcato il Papa
— è il messaggio che oggi ci dà la
Chiesa; quello che Gesù dice tanto
forte: “Vino nuovo in otri nuovi!”».
Perché, ha ripetuto, «alle novità dello Spirito, alle sorprese di Dio anche
le abitudini devono rinnovarsi». Prima di proseguire nella celebrazione,
Francesco ha auspicato «che il Signore ci dia la grazia di un cuore
aperto, di un cuore aperto alla voce
dello Spirito, che sappia discernere
quello che non deve cambiare più,
perché fondamento, da quello che
deve cambiare per poter ricevere la
novità dello Spirito Santo».
L’OSSERVATORE ROMANO
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giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
Santo e peccatore
Martedì 19 gennaio
Nonostante i peccati ogni uomo è
stato scelto per essere santo. È il
messaggio di consolazione e di speranza offerto da Papa Francesco nella messa celebrata a Santa Marta
martedì mattina, 19 gennaio. A suggerire la riflessione è stata la vicenda
del re Davide, il «santo re Davide»,
figura centrale nella liturgia di questi
giorni, che presenta brani tratti dal
libro di Samuele.
Dopo aver visto come il Signore
avesse «rigettato Saul perché aveva
il cuore chiuso» e avesse pensato a
un altro re perché questi non gli
aveva ubbidito, nella prima lettura
(1 Sam, 16 1-13) si trova il racconto
di come «venne scelto» il re Davide.
Si legge quindi di Dio che si rivolge
a Samuele: «Fino a quando piangerai su Saul, mentre io l’ho ripudiato?
Andiamo a cercarne un altro. Riempi d’olio il tuo corno e parti». Il
profeta prova a fare resistenza temendo la vendetta di Saul, ma il Signore lo invita a essere «astuto» e a
simulare un semplice atto di culto,
un sacrificio: «prendi una giovenca e
vai».
Da qui inizia, ha spiegato il Pontefice, il racconto di quello che fu
«il primo passo della vita del re Davide: la scelta». Nella Scrittura si
legge quindi di Jesse che «presenta i
suoi figli» e di Samuele che, di fronte al primo, dice: «Certo, davanti al
Signore sta il suo consacrato». Vedeva davanti a sé, infatti, ha sottolineato Francesco, «un uomo in gamba».
Ma il Signore replicò a Samuele:
Marc Chagall
«Re David» (1966)
«Non guardare al suo aspetto né alla sua statura, io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo;
infatti, l’uomo vede l’apparenza, ma
il Signore vede il cuore». Ecco allora
la prima lezione: «Noi siamo tante
volte schiavi delle apparenze, schiavi
delle
cose
che
appaiono e ci lasciamo portare avanti da
queste cose: “Ma
questo
sembra...”.
Ma il Signore sa la
verità».
La narrazione continua, «passano i sette figli di Jesse e il
Signore non sceglie
alcuno», tanto che
Samuele chiede a
Jesse se gli avesse
presentato tutti i figli. E Jesse rivela
che, in realtà, «ce n’è
uno, il piccolo, che
non conta, che ora
sta pascolando il
gregge». Di nuovo il
contrasto tra apparenza e verità: «Agli
occhi degli uomini —
ha commentato il
Pontefice — questo
ragazzino non contava». Succede quindi
che, fatto arrivare il
ragazzo, il Signore
disse a Samuele:
«Alzati e ungilo».
Eppure era «il più
piccolo, quello che
agli occhi del papà
non contava» e «non
perché il papà non
lo amasse», ma perché pensava «Come Dio sceglierà questo ragazzino?». Non considerava che «l’uomo
vede l’apparenza, ma il Signore vede
il cuore». Così «Samuele prese il
corno dell’olio e lo unse in mezzo ai
suoi fratelli. E lo Spirito del Signore
L’Angelus nella giornata mondiale del migrante
DA PAGINA 8
cuore. E in questo cammino di fede
con Lui non siamo lasciati soli: abbiamo ricevuto il dono del Sangue
di Cristo. Le grandi anfore di pietra
che Gesù fa riempire di acqua per
tramutarla in vino (v. 7) sono segno
del passaggio dall’antica alla nuova
alleanza: al posto dell’acqua usata
per la purificazione rituale, abbiamo ricevuto il Sangue di Gesù, versato in modo sacramentale nell’Eucaristia e in modo cruento nella
Passione e sulla Croce. I Sacramenti, che scaturiscono dal Mistero pasquale, infondono in noi la forza
soprannaturale e ci permettono di
assaporare la misericordia infinita
di Dio.
La Vergine Maria, modello di
meditazione delle parole e dei gesti
del Signore, ci aiuti a riscoprire con
fede la bellezza e la ricchezza
dell’Eucaristia e degli altri Sacramenti, che rendono presente l’amore fedele di Dio per noi. Potremo
così innamorarci sempre di più del
Signore Gesù, nostro Sposo, e andargli incontro con le lampade accese della nostra fede gioiosa, di-
ventando così suoi testimoni nel
mondo.
Al termine della preghiera mariana,
dopo le parole rivolte ai profughi
e ai migranti presenti in piazza,
il Pontefice ha invitato a pregare
per le vittime dei recenti attentati
in Indonesia e Burkina Faso.
Cari fratelli e sorelle,
oggi ricorre la Giornata Mondiale
del Migrante e del Rifugiato che,
nel contesto dell’Anno Santo della
Misericordia, è celebrata anche come Giubileo dei Migranti. Sono lieto, pertanto, di salutare con grande
affetto le comunità etniche qui presenti, tutti voi, provenienti da varie
regioni d’Italia, specialmente dal
Lazio. Cari migranti e rifugiati,
ognuno di voi porta in sé una storia, una cultura, dei valori preziosi;
e spesso purtroppo anche esperienze di miseria, di oppressione, di
paura. La vostra presenza in questa
Piazza è segno di speranza in Dio.
Non lasciatevi rubare la speranza e
la gioia di vivere, che scaturiscono
dall’esperienza della divina misericordia, anche grazie alle persone
che vi accolgono e vi aiutano. Il
passaggio della Porta Santa e la
Messa che tra poco vivrete, vi riempiano il cuore di pace. In questa
Messa, io vorrei ringraziare — e anche voi ringraziate con me — i detenuti del carcere di Opera, per il dono delle ostie confezionate da loro
stessi e che saranno utilizzate in
questa celebrazione. Li salutiamo
con un applauso da qui, tutti insieme...
Saluto con affetto tutti voi, pellegrini venuti dall’Italia e da altri
Paesi: in particolare, l’Associazione
culturale Napredak, di Sarajevo; gli
studenti spagnoli di Badajoz e Palma de Mallorca; e i giovani di
Osteria Grande (Bologna).
Adesso vi invito tutti insieme a
rivolgere a Dio una preghiera per le
vittime degli attentati avvenuti nei
giorni scorsi in Indonesia e Burkina
Faso. Il Signore le accolga nella sua
casa, e sostenga l’impegno della comunità internazionale per costruire
la pace. Preghiamo la Madonna:
Ave o Maria,...
A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi
di pregare per me. Buon pranzo e
arrivederci!
irruppe su Davide, e da quel giorno
in poi» tutta la sua vita «è stata la
vita di un uomo unto dal Signore,
eletto dal Signore».
Ci si potrebbe chiedere: «Allora il
Signore lo ha fatto santo?». La risposta di Francesco è netta: «No, il
re Davide è il santo re Davide, questo è vero, ma santo dopo una vita
lunga», raggiunse infatti una veneranda età, «ma anche una vita costellata da vari peccati». Davide fu
«santo e peccatore». Era «un uomo
che ha saputo unire il Regno, ha saputo portare avanti il popolo
d’Israele» ma anche un uomo che
«aveva le sue tentazioni» e commise
peccati. Davide, addirittura, «è stato
anche un assassino» che, «per coprire la sua lussuria, il peccato di adulterio» ha comandato di uccidere.
Proprio lui. Tanto che verrebbe da
chiedersi: «Ma il santo Re Davide
ha ucciso?». È vero, ma è anche vero che quando Dio ha inviato il profeta Natan per far «vedere questa
realtà» a Davide che «non si era accorto della violenza che aveva ordinato», lo stesso Davide «ha riconosciuto “Ho peccato” e ha chiesto
perdono». Così la vita del re Davide
«è andata avanti» piena di luci e di
ombre. Ha sofferto «nella sua carne
il tradimento del figlio, ma mai ha
usato Dio per vincere una causa propria». Nel tratteggiare la figura del
santo e peccatore, Francesco ha ricordato come nel «momento tanto
difficile della guerra», quando dovette «fuggire da Gerusalemme» Davide ebbe la forza di mandare indietro l’arca: «No, Signore, rimanga là;
non userò il Signore a mia difesa».
E ancora, quando incontrò chi gli
diceva «uomo sanguinario» egli fermò uno dei suoi che voleva uccidere
chi lo insultava dicendogli: «Se questo mi insulta, il Signore gli ha detto
di insultarmi». Difatti, «nel suo cuore Davide sentiva: “Me lo merito”,
perciò ordinò: “Lascialo, forse il Signore avrà compassione della mia
umiliazione e mi perdonerà di
più”». Nella sua vita Davide ha poi
conosciuto «la vittoria», e la grande
«magnanimità» che lo portò a non
uccidere Saul pur potendolo fare.
Insomma, ha concluso il Pontefice,
«ma questo è il santo Re Davide?
Sì, santo, eletto dal Signore, scelto
dal popolo di Dio» fu anche «peccatore grande, ma peccatore pentito». E ha commentato: «A me commuove la vita di quest’uomo e mi fa
pensare alla nostra». Infatti, «tutti
noi siamo stati scelti dal Signore nel
Battesimo, per essere nel suo popolo, per essere santi»; tutti «siamo
stati consacrati dal Signore, in questo cammino della santità», eppure,
ha concluso Francesco, leggendo la
storia di questo uomo — un «percorso che incomincia da un ragazzo e
va avanti fino a un uomo anziano»
— che ha fatto tante cose buone e altre non tanto buone, «mi viene di
pensare che nel cammino cristiano»,
nel cammino che il Signore invita a
fare, «non c’è alcun santo senza passato, e neppure alcun peccatore senza futuro».
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
pagina 11
La terza visita di un Pontefice alla sinagoga di Roma
Ancora insieme, di nuovo in cammino
Pubblichiamo un articolo del direttore dell’Osservatore
Romano uscito nel numero di gennaio di «Pagine
ebraiche. Il giornale dell’ebraismo italiano».
n un tempo mediaticamente ossessionato dalle prime volte (che spesso prime non sono affatto), che interesse e che senso può avere la
visita di papa Francesco alla comunità ebraica di
Roma? Non è difficile rispondere che proprio la
consuetudine degli incontri tra il pontefice, capo
visibile della chiesa cattolica, ed esponenti o comunità dell’ebraismo mondiale, ormai moltiplicatisi soprattutto negli ultimi anni, rendono questo
nuovo incontro, dopo quelli dei suoi predecessori,
non meno significativo, ma al contrario ancora
più rilevante nella crescita irreversibile della reciproca conoscenza (ancora scarsa, per la verità) e
dell’amicizia.
Per la visita, come per quella di Benedetto XVI,
è stato scelto il giorno in cui in Italia si celebra il
dialogo tra cattolici ed ebrei, fissato non casualmente alla vigilia della settimana di preghiera per
l’unità dei cristiani. In modo analogo, l’organismo
della Santa sede deputato ai rapporti con l’ebraismo è inserito in quello istituito per favorire
l’unione tra le confessioni cristiane tra loro separate. In modo da esprimere una realtà antica e di
cui si va sempre più prendendo coscienza, e cioè
che la prima dolorosa separazione è stata proprio
tra sinagoga e chiesa.
Separazione che ha portato a una storia complicata, fitta di incomprensioni, inimicizie, disprezzo, violenze, persecuzioni, ma anche di vici-
I
nanza e rapporti fecondi. Attraverso vicende, dialettiche e tensioni fortissime, anche se queste mai
hanno portato ebrei e cristiani a troncare un legame che non può né potrà essere reciso e il cui significato sarà rivelato soltanto alla fine dei tempi.
Meno di trent’anni dopo il supplizio sulla croce e
la resurrezione di Gesù, il maestro di Nazaret, è
già Paolo a intuire questa storia misteriosa quando detta la sua lettera alla comunità cristiana di
Roma, di origine ovviamente giudaica e che ancora non conosce.
Nell’età moderna e in quella contemporanea,
nuove persecuzioni, l’assimilazione in alcuni paesi
europei, giudeofobie, antigiudaismi e antisemitismi diversi s’intrecciano fino al maturare e allo
scatenarsi del male radicale nella shoah, con lo
sterminio di sei milioni di ebrei nel vecchio continente. La tragedia, quasi indicibile nel suo orrore,
porta di fatto a una vicinanza e a una volontà di
comprensione nuove tra cristiani ed ebrei. Fino
alle intuizioni di Giovanni XXIII e soprattutto alla
determinazione di Paolo VI, che con pazienza
porta il concilio a votare quasi all’unanimità una
dichiarazione apertamente positiva sulle religioni
non cristiane, e in particolare sull’ebraismo.
La visita del primo vescovo di Roma venuto
dall’America alla più antica comunità della diaspora giudaica avviene appunto cinquant’anni dopo l’approvazione del testo conciliare. Per ragioni
anagrafiche Bergoglio è anche il primo papa a
non avere partecipato al Vaticano II, ma del concilio che ha cambiato il volto della chiesa cattolica
è figlio, viene da un paese, l’Argentina, dove è ra-
dicata una forte minoranza ebraica, e come vescovo ha alle spalle una storia di consuetudine e di
amicizia con diversi esponenti dell’ebraismo.
Nei decenni successivi al Vaticano II i rapporti
di conoscenza, amicizia e collaborazione tra moltissimi cattolici ed ebrei si sono intensificati al
punto non solo di bilanciare ma addirittura di soverchiare resistenze e opposizioni che si ritrovano
comunque, anche tenaci, in entrambe le parti. Più
difficile invece è superare l’indifferenza, l’ignoranza e la diffidenza reciproche. In questo un uomo
su tutti va ricordato per quanto ha fatto a favore
dell’avvicinamento tra le due comunità, e questi è
Elio Toaff, per mezzo secolo rabbino capo di Roma, ricordato da Giovanni Paolo II nel suo testamento singolarmente dominato da una visione
mistica della storia.
Francesco arriva dunque nel Tempio Maggiore
di Roma accompagnato da una storia lunghissima
e che nelle ultime settimane è stata segnata da due
documenti molto importanti: una dichiarazione,
tanto breve quanto importante, di venticinque rabbini ortodossi, in gran parte israeliani e statunitensi, sul significato e sul valore del cristianesimo, da
una parte, e dall’altra un lungo documento della
commissione della Santa sede per i rapporti con
l’ebraismo sulla irrevocabilità dei doni di Dio al
popolo della prima alleanza. Testi che costituiscono un reciproco impegnativo riconoscimento,
nell’affermazione esplicita che una e indivisibile è
la vocazione di ebrei e di cristiani: un passo avanti
che non è azzardato definire di portata storica.
g.m.v.
Ci attendono i frutti più dolci
di GUID O VITALE*
La terza visita di un Pontefice alla
sinagoga di Roma rappresenta certo
qualcosa di molto diverso e di assai
più significativo del caloroso rinnovo
di una bella consuetudine. Molti segnali lasciano intendere che il ripetersi di questo evento non comporti
il rischio di sbiadire nella ripetizione
formale, ma al contrario segni il
tempo di un lungo e difficile percorso che continua a compiersi sulla
strada del dialogo.
Le tre diverse personalità dei Papi
accolti nel più rappresentativo tempio ebraico italiano, aggiungono certo un carattere distintivo a ognuno
di questi incontri. Ma quello che ora
emerge con chiarezza, proprio
nell’occasione di questa terza visita,
è come i diversi incontri si rivelino
utili a scandire il tempo del dialogo
e a segnarne il divenire.
L’unità di misura costituita
dall’elaborazione dei documenti teologici finisce così per trovare un raccordo con i punti fermi segnati da
questi gesti di fraterna amicizia.
Molti hanno già constatato la significativa crescita nelle relazioni ebraico-cristiane dopo la svolta fondamentale della dichiarazione Nostra
aetate. Ma è ora possibile contare
anche i passi intercorsi dalla stagione della prima visita. Non è necessaria una specifica competenza teologica, per vedere che questo cammino
segna il ritmo della nostra amicizia,
ma in un certo modo anche quello
della nostra vita.
Nell’aprile del 1986, quando si
preparava il primo incontro, il rabbino capo di Roma Elio Toaff mi an-
La sinagoga e Sant’Ivo alla Sapienza
(da «Il Tempio Maggiore di Roma», Allemandi)
nunciava in un’intervista «una rivoluzione radicale, una rinuncia alla
tentazione di emarginare il popolo
ebraico, un gesto che farà nascere
rapporti nuovi fra due fedi che hanno le stesse, comuni radici storiche.
Nasce un nuovo rapporto, su un
piede di parità e di collaborazione.
E se alcuni ebrei — concludeva allora
— possono temere forse il pericolo di
una certa attività missionaria da parte della Chiesa, diciamo si tratta di
un rischio che, se mai esistesse, crediamo di essere in grado di poter
scongiurare». Le sue calde parole insegnavano che non può esserci dialogo senza assumersi rischi e responsabilità, senza vincere le incertezze,
senza una solida consapevolezza della propria identità che deve tenerci
al riparo da pericolose confusioni.
Nell’occasione della visita di Papa
Ratzinger avevo chiesto al vignettista del giornale dell’ebraismo italia-
no «Pagine Ebraiche», di elaborare
due disegni da pubblicare uno alla
vigilia e uno alla conclusione della
sua venuta. Due viaggi per attraversare il Tevere e raggiungere la sponda opposta, quella che si trova di
fronte chi guarda Roma dalle mura
del Vaticano e chi guarda la stessa
città dal punto di osservazione del
quartiere ebraico. Le vignette, cariche di simbologie, rappresentavano
in modi diversi un viaggio avventuroso, un passaggio difficile. Furono
riprese dalla stampa nazionale e internazionale e i colleghi in redazione
ricordano ancora divertiti come vi
furono troupe televisive che chiesero
il nostro consiglio per riprendere il
Tevere dalla medesima precisa prospettiva, un certo cantuccio dell’isola
Tiberina, che offriva la stessa visuale
della vignetta.
Quei disegni costituiscono, assieme alle parole di incoraggiamento
del rabbino Toaff, un caro ricordo,
eppure, riguardandoli a distanza di
appena cinque anni, appaiono già
lontani nel tempo, perché la contagiosità dell’amicizia non ha fatto altro che restringere il fiume e avvicinarne progressivamente le sponde,
rendendo raggiungibili, grazie ai
tanti meriti dei suoi protagonisti,
mondi diversi senza inciampare nelle
sovrapposizioni.
Meglio allora pensare che le emozioni professionali che accompagnarono le visite precedenti restino vive,
ma non replicabili, e che a esse si
possa aggiungere questo alto onore
di rivolgersi al lettore dell’O sservatore Romano dopo essere stati onorati
di ospitare sulle pagine dell’ebraismo italiano il pensiero del direttore
dell’autorevole testata vaticana. I
grandi miracoli saranno ancora da
compiersi, ma anche questo piccolo
gesto, che segna la volontà di comprendersi e che un tempo sarebbe
stato impensabile, è un bel segno di
conforto nei nostri tempi difficili e
incerti.
Ma la terza visita, l’avvenimento
della presente stagione, oltre a farci
misurare il progresso conquistato, ci
offre anche l’occasione di guardare
avanti. Se la persecuzione, l’emarginazione, la dottrina del disprezzo, la
teorizzazione della conversione di
massa, sembrano ormai relegati a un
passato complesso e doloroso, cosa
possiamo chiedere parlando al tempo futuro? Cosa possono in particolare offrire gli ebrei di oggi rivolgendosi al mondo cattolico e cosa possono sperare dai propri interlocutoCONTINUA A PAGINA 14
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
«Da nemici ed estranei, siamo diventati
amici e fratelli». Con queste parole
Papa Francesco si è rivolto alla comunità
ebraica riunita nel Tempio maggiore
di Roma, dove si è recato in visita
nel pomeriggio
di domenica 17 gennaio. Di seguito
il discorso pronunciato dal Pontefice
durante l’incontro nella sinagoga.
Cari fratelli e sorelle,
sono felice di trovarmi oggi con voi in
questo Tempio Maggiore. Ringrazio
per le loro cortesi parole il Dottor Di
Segni, la Dottoressa Dureghello e l’Avvocato Gattegna; e ringrazio voi tutti
per la calorosa accoglienza, grazie! Todà rabbà!
Nella mia prima visita a questa Sinagoga come Vescovo di Roma, desidero
esprimere a voi, estendendolo a tutte le
comunità ebraiche, il saluto fraterno di
pace di questa Chiesa e dell’intera
Chiesa cattolica.
Le nostre relazioni mi stanno molto
a cuore. Già a Buenos Aires ero solito
andare nelle sinagoghe e incontrare le
comunità là riunite, seguire da vicino le
feste e le commemorazioni ebraiche e
rendere grazie al Signore, che ci dona
la vita e che ci accompagna nel cammino della storia. Nel corso del tempo, si
è creato un legame spirituale, che ha
favorito la nascita di autentici rapporti
di amicizia e anche ispirato un impe-
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nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o dalla sua appartenenza
religiosa. Ogni persona va guardata
con benevolenza, come fa Dio, che
porge la sua mano misericordiosa a tutti, indipendentemente dalla loro fede e
dalla loro provenienza, e che si prende
cura di quanti hanno più bisogno di
Lui: i poveri, i malati, gli emarginati,
gli indifesi. Là dove la vita è in pericolo, siamo chiamati ancora di più a proteggerla. Né la violenza né la morte
avranno mai l’ultima parola davanti a
Dio, che è il Dio dell’amore e della vita. Noi dobbiamo pregarlo con insistenza affinché ci aiuti a praticare in
Europa, in Terra Santa, in Medio
Oriente, in Africa e in ogni altra parte
del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita.
Il popolo ebraico, nella sua storia, ha
dovuto sperimentare la violenza e la
persecuzione, fino allo sterminio degli
ebrei europei durante la Shoah. Sei milioni di persone, solo perché appartenenti al popolo ebraico, sono state vittime della più disumana barbarie, perpetrata in nome di un’ideologia che voleva sostituire l’uomo a Dio. Il 16 ottobre 1943, oltre mille uomini, donne e
bambini della comunità ebraica di Roma furono deportati ad Auschwitz. Oggi desidero ricordarli con il cuore, in
modo particolare: le loro sofferenze, le
loro angosce, le loro lacrime non devono mai essere dimenticate. E il passato
ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro. La Shoah ci insegna
che occorre sempre massima vigilanza,
per poter intervenire tempestivamente
in difesa della dignità umana e della
pace. Vorrei esprimere la mia vicinanza
ad ogni testimone della Shoah ancora
vivente; e rivolgo il mio saluto particolare a voi, che siete qui presenti.
Cari fratelli maggiori, dobbiamo davvero essere grati per tutto ciò che è stato
possibile realizzare negli ultimi cinquant’anni, perché tra noi sono cresciute
e si sono approfondite la comprensione
reciproca, la mutua fiducia e l’amicizia.
Preghiamo insieme il Signore, affinché
conduca il nostro cammino verso un futuro buono, migliore. Dio ha per noi
progetti di salvezza, come dice il profeta
Geremia: «Io conosco i progetti che ho
fatto a vostro riguardo — oracolo del Signore —, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di
speranza» (Ger 29, 11). Che il Signore ci
benedica e ci protegga. Faccia splendere
il suo volto su di noi e ci doni la sua
grazia. Rivolga su di noi il suo volto e
ci conceda la pace (cfr. Nm 6, 24-26).
Shalom alechem!
to al recente documento della Pontificia commissione per i rapporti religiosi
con l’ebraismo, ha notato come da parte cattolica ormai «il fatto che gli ebrei
abbiano parte nella salvezza di Dio è
teologicamente fuori discussione».
Per il presidente dell’Ucei occorre
ora che «il grande lavoro svolto» e il
«consolidamento dei sentimenti di rispetto reciproco, di amicizia e fratellanza», a oggi «rimasti circoscritti ai vertici religiosi e culturali», trovino «un’ampia diffusione presso tutta la popolazione» attraverso «una strategia comune». Purtroppo, infatti, «ancora circolano con frequenza pregiudizi e discorsi
improntati a un disprezzo che ci offende e ci ferisce».
L’obbiettivo di una sempre più salda
amicizia troverà, secondo Gattegna, un
valido sostegno proprio nella persona
del Pontefice, il quale «ha mostrato
una grande capacità di diffondere, in
maniera virtuosa, messaggi importanti e
complessi in modo semplice, proprio
attraverso la forza dell’esempio e dei
gesti simbolici». E considerando il panorama internazionale in cui «cristiani
ed ebrei sono accomunati dallo stesso
destino», sarà fondamentale stare «fianco a fianco, nel rispetto delle diversità,
ma al tempo stesso consapevoli dei
valori che ci uniscono», ha aggiunto
concludendo il suo discorso: occorre
una testimonianza comune per difendere il mondo «da spietati nemici, violenti e intolleranti, che stanno usando il
nome di Dio per spargere il terrore
compiendo i più atroci crimini contro
l’umanità».
Visita alla comunità ebraica di Roma
Siamo diventati amici e fratelli
La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione
gno comune. Nel dialogo interreligioso
è fondamentale che ci incontriamo come fratelli e sorelle davanti al nostro
Creatore e a Lui rendiamo lode, che ci
rispettiamo e apprezziamo a vicenda e
cerchiamo di collaborare. E nel dialogo
ebraico-cristiano c’è un legame unico e
peculiare, in virtù delle radici ebraiche
del cristianesimo: ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo
stesso Dio e da un ricco patrimonio
spirituale comune (cfr. Dich. Nostra aetate, 4), sul quale basarsi e continuare a
costruire il futuro.
Con questa mia visita seguo le orme
dei miei Predecessori. Papa Giovanni
Paolo II venne qui trent’anni fa, il 13
aprile 1986; e Papa Benedetto XVI è stato tra voi sei anni or sono. Giovanni
Paolo II, in quella occasione, coniò la
bella espressione “fratelli maggiori”, e
infatti voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede. Tutti
quanti apparteniamo ad un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo. Insieme, come ebrei e come cattolici, siamo chiamati ad assumerci le
nostre responsabilità per questa città,
apportando il nostro contributo, anzitutto spirituale, e favorendo la risoluzione dei diversi problemi attuali. Mi
auguro che crescano sempre più la vici-
nanza, la reciproca conoscenza e la stima tra le nostre due comunità di fede.
Per questo è significativo che io sia venuto tra voi proprio oggi, 17 gennaio,
quando la Conferenza Episcopale Italiana celebra la «Giornata del dialogo
tra cattolici ed ebrei».
Abbiamo da poco commemorato il
50º anniversario della Dichiarazione
Nostra aetate del Concilio Vaticano II,
che ha reso possibile il dialogo sistematico tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo.
Il 28 ottobre scorso, in Piazza San Pietro, ho potuto salutare anche un gran
numero di rappresentanti ebraici, e mi
sono così espresso: «Una speciale gratitudine a Dio merita la vera e propria
trasformazione che ha avuto in questi
cinquant’anni il rapporto tra cristiani
ed ebrei. Indifferenza e opposizione si
sono mutate in collaborazione e benevolenza. Da nemici ed estranei, siamo
diventati amici e fratelli. Il Concilio,
con la Dichiarazione Nostra aetate, ha
tracciato la via: “sì” alla riscoperta delle
radici ebraiche del cristianesimo; “no”
ad ogni forma di antisemitismo, e condanna di ogni ingiuria, discriminazione
e persecuzione che ne derivano». Nostra aetate ha definito teologicamente
per la prima volta, in maniera esplicita,
le relazioni della Chiesa cattolica con
l’ebraismo. Essa naturalmente non ha
risolto tutte le questioni teologiche che
ci riguardano, ma vi ha fatto riferimento in maniera incoraggiante, fornendo
un importantissimo stimolo per ulteriori, necessarie riflessioni. A questo proposito, il 10 dicembre 2015, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo ha pubblicato un nuovo documento, che affronta le questioni teologiche
emerse negli ultimi decenni trascorsi
dalla promulgazione di Nostra aetate.
Infatti, la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico merita di essere
sempre più approfondita, e desidero incoraggiare tutti coloro che sono impegnati in questo dialogo a continuare in
tal senso, con discernimento e perseveranza. Proprio da un punto di vista
teologico, appare chiaramente l’inscindibile legame che unisce cristiani ed
ebrei. I cristiani, per comprendere sé
stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur
professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità
dell’Antica Alleanza e l’amore costante
e fedele di Dio per Israele.
Insieme con le questioni teologiche,
non dobbiamo perdere di vista le grandi sfide che il mondo di oggi si trova
ad affrontare. Quella di una ecologia
integrale è ormai prioritaria, e come cristiani ed ebrei possiamo e dobbiamo
offrire all’umanità intera il messaggio
della Bibbia circa la cura del creato.
Conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie
aprono ferite profonde nell’umanità e ci
chiamano a rafforzare l’impegno per la
pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con
ogni religione degna di questo nome, e
in particolare con le tre grandi religioni
monoteistiche. La vita è sacra, quale
dono di Dio. Il quinto comandamento
del Decalogo dice: «Non uccidere» (Es
20, 13). Dio è il Dio della vita, e vuole
sempre promuoverla e difenderla; e noi,
creati a sua immagine e somiglianza,
siamo tenuti a fare lo stesso. Ogni essere umano, in quanto creatura di Dio, è
I saluti al Pontefice
Fianco a fianco
«Benvenuto Papa Francesco!»: così il
rabbino capo Riccardo Di Segni ha dato voce all’abbraccio che poco prima,
all’ingresso della sinagoga, aveva scambiato con il Pontefice. Un calore e una
familiarità che hanno sottolineato quella che egli stesso ha definito una «nuova era» nei rapporti tra ebrei e cattolici:
«La svolta sancita dal concilio Vaticano
cinquant’anni fa — ha detto nel discorso tenuto sulla tribuna del Tempio
maggiore di Roma — è stata confermata
da numerosi e fondamentali atti e dichiarazioni, l’ultima un mese fa, che
hanno prima aperto e poi consolidato
un percorso di conoscenza, di rispetto
reciproco e di collaborazione».
A conferma di come «le strade divise
e molto diverse dei due mondi religiosi» condividano comunque «una parte
del patrimonio comune che entrambe
considerano sacro», Di Segni ha sottolineato come la visita del Pontefice sia
avvenuta all’inizio dell’anno giubilare,
scansione temporale molto vicina alla
spiritualità ebraica. E citando la formula liturgica — «Aprite le porte della giustizia!» — usata per l’apertura della
porta santa, ha sottolineato come essa
sia una citazione del salmo 118:
«L’evento della cristianità centrato sulla
misericordia mantiene un rapporto con
le origini bibliche, usa i versi dei salmi,
da cui riprende il tema della giustizia
che è indissociabile dalla misericordia».
Riferendosi poi ai contrasti del passato,
ha aggiunto: «Tutti attendiamo un momento chissà quanto lontano nella storia in cui le divisioni si risolveranno. In
che modo, ognuno ha la sua visione.
Ma nel frattempo ciascuno, rimanendo
fedele alla propria tradizione, deve trovare un modo per rapportarsi all’altro.
In pace e con rispetto».
Alla luce di questo, il rabbino ha
messo in evidenza due temi fondamentali. Innanzitutto quello della continuità: attento alla vita della comunità
ebraica anche quando era arcivescovo
di Buenos Aires, Bergoglio stabilisce,
con questa terza visita di un Papa alla
sinagoga, «una consuetudine», facendo
intendere — ha detto — «che la Chiesa
cattolica non intende tornare indietro
nel percorso di riconciliazione».
«Il secondo segnale di questa visita è
dettato dall’urgenza dei tempi» ha aggiunto il rabbino capo: «La triste novità dei nostri giorni è che dopo i due secoli di disastri prodotti da nazionalismi
e ideologie, la violenza torna a scate-
narsi alimentata e giustificata da visioni
fanatiche ispirate dalla religione». Di
fronte a tutto ciò, ha sottolineato, «un
incontro di pace tra comunità religiose
differenti è un segnale molto forte che
si oppone all’invasione e alla sopraffazione delle violenze religiose». Non un
semplice atto di denuncia, ma l’impegno comune a collaborare nel quotidiano mettendo al servizio della collettività «le esperienze, i valori, le tradizioni,
le grandi idee che ci identificano».
Su questi temi si erano soffermati anche la presidente della comunità romana, Ruth Dureghello, e il presidente
dell’Unione delle comunità ebraiche
italiane (Ucei), Renzo Gattegna, che
avevano preceduto Di Segni nei discorsi di saluto al Pontefice. «Mi sento di
poter dire che ebrei e cattolici, a partire
da Roma, debbono sforzarsi di trovare
assieme soluzioni condivise per combattere i mali del nostro tempo» ha infatti detto all’inizio del suo intervento
Dureghello, aggiungendo: «Abbiamo la
responsabilità di rendere il mondo in
cui viviamo un posto migliore per i nostri figli». Un discorso, quello della
presidente, che, nell’invito a prendere
lezione dagli errori del passato, è stato
improntato alla sollecitazione di un im-
pegno comune per la costruzione di
una «convivenza ispirata all’accoglienza, alla pace e alla libertà in cui si impari a rispettare, ciascuno con la propria identità, l’altro», perché «la fede
non genera odio, la fede non sparge
sangue, la fede richiama al dialogo».
Di ampio respiro l’intervento di Renzo Gattegna il quale, innanzitutto, ha
ripercorso le tappe che negli ultimi cinquant’anni hanno caratterizzato il cammino, l’una incontro all’altra, delle due
religioni. «Dalla fondamentale svolta»
data dalla promulgazione della Nostra
aetate, infatti, il rapporto tra la Chiesa
cattolica e l’ebraismo vive «un periodo
di grande progresso che possiamo sicuramente definire di portata storica».
In merito alla particolare «accelerazione» che sotto il pontificato di Francesco ha avuto il dialogo tra ebrei e
cattolici, Gattegna ha voluto sottolineare alcune dichiarazioni «della cui importanza non tutti si sono resi conto».
Così, citando l’esortazione Evangelii
gaudium, ha richiamato, tra gli altri, un
passo in cui si legge «la Chiesa considera il popolo dell’alleanza e la sua fede come radice sacra della propria
identità cristiana». E facendo riferimen-
Punto
d’incontro
All’indomani della visita di Papa
Francesco, «Pagine ebraiche. Il giornale
dell’ebraismo italiano», mensile diretto
da Guido Vitale, è uscito con un numero caratterizzato da una sezione speciale dedicata all’avvenimento. Riportiamo uno degli articoli pubblicati.
di ANNA FOA
Un caldo abbraccio che ripete quello che assurse trent’anni fa a simbolo della visita di Giovanni Paolo II
in Sinagoga e dell’accoglienza fattagli da rav Toaff e quello che fu al
centro della seconda visita, quella di
papa Benedetto, sei anni fa esatti.
Un atto che si ripete per tre volte
diventa per il diritto rabbinico una
consuetudine, “chazaqà”, ricorda rav
Di Segni. Una visita divenuta una
consuetudine, ma senza l’ovvietà dei
rituali usati, che vuole essere soprattutto, sia per la Comunità ebraica
che lo accoglie che per l’illustre visitatore, un gesto di amicizia, un simbolo forte del calore del rapporto tra
cristiani ed ebrei, della loro fratellanza, della crescita avvenuta nel dialogo in questi anni. La forza e il calore che devono aver provato, nel lontano 1959, quando ancora non c’erano stati il Concilio e i suoi cambiamenti, gli ebrei romani che all’uscita
dalla Sinagoga di Sabato videro il
corteo delle macchine di Giovanni
XXIII arrestarsi inaspettatamente sul
Lungotevere e il Papa impartire loro
la sua benedizione. Gesti simbolici,
certo, ma spesso sono i simboli a
smuovere le montagne.
Il contesto generale di oggi è tuttavia diverso anche da quello della
più recente visita di papa Benedetto:
siamo in una delle crisi politiche più
gravi dell’Europa a partire dalla fine
della seconda guerra mondiale, la
crisi economica non è finita e minaccia di acuirsi, il fondamentalismo
islamico minaccia tutti, compresa
tanta parte del mondo musulmano.
Che in questo contesto il richiamo
alla fede sia, nel rispetto reciproco
delle differenze, un antidoto alla violenza, è stato qui ribadito con forza
da tutti gli interlocutori, dalla presidente Dureghello al presidente Gattegna a rav Di Segni e al Pontefice
nel suo discorso finale. Così come è
stato sottolineato come il richiamo al
rispetto delle differenze, al riconoscimento reciproco delle diversità, sia
non solo giusto ma anche essenziale
per smorzare l’odio fanatico di chi
usa il nome di Dio per uccidere. Ed
è questo il messaggio più forte che il
riunirsi insieme, alla presenza di papa Francesco, di ebrei e cristiani può
mandare, nel momento in cui i cristiani sono oggetto delle persecuzioni più sanguinose e l’antisemitismo
riemerge sempre più visibile sia nei
proclami del Daesh sia nella quotidianità della vita degli ebrei in Diaspora come in Israele. Un’alleanza,
insomma, tra le tre religioni monoteiste, e quindi estesa naturalmente,
come ha detto Ruth Dureghello, ai
«tanti musulmani che condividono
con noi la responsabilità di migliorare il mondo», in nome del reciproco
rispetto e della tolleranza. Un richiaCONTINUA A PAGINA 14
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 14
Consuetudine
fissa
giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
Ci attendono
i frutti più dolci
DA PAGINA 1
DA PAGINA 11
ligiosi e culturali» ma si diffonda con
larghezza tra ebrei e cattolici.
E proprio la testimonianza di una
amicizia autentica e la volontà di curare
questi rapporti sono state ribadite dal
Papa: «Già a Buenos Aires ero solito
andare nelle sinagoghe e incontrare le
comunità là riunite, seguire da vicino le
feste e le commemorazioni ebraiche e
rendere grazie al Signore, che ci dona la
vita e che ci accompagna nel cammino
della storia» ha detto Bergoglio. Allargando subito dopo la celebre definizione usata da Giovanni Paolo II: «Voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle
maggiori nella fede. Tutti quanti apparteniamo ad un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci
protegge come suo popolo».
Per questo il documento per i cinquant’anni della Nostra aetate ha ribadito «l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei», mentre «la Chiesa, pur
professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità
dell’antica alleanza e l’amore costante e
fedele di Dio per Israele» ha ripetuto il
Pontefice. Che ha concluso chiedendo
una preghiera comune perché il Signore
«conduca il nostro cammino verso un
futuro buono».
ri? Sgombrato il campo dai detriti della
diffidenza e del sospetto, sarebbe forse
azzardato sostenere che la strada del
dialogo appare ora tutta in discesa, ma
certamente siamo autorizzati a sperare
che della nostra amicizia ci attendano i
frutti più dolci. Conquistata la stagione
dell’accettazione, possiamo aprirci alla
gioia della autentica conoscenza reciproca. E credo che il mondo ebraico nella
sua estrema complessità e diversificazione interna faccia bene a chiedere ora di
essere non solo accettato, ma anche
compreso per quello che effettivamente
è.
Il dialogo, come è stato giustamente
rilevato da più parti, si è svolto necessariamente fra realtà asimmetriche. E non
solo per la ridotta dimensione numerica
della popolazione ebraica nel mondo.
La maggiore differenza fra gli interlocutori è che il mondo ebraico ha la vocazione di rappresentare una possibilità
alternativa di leggere la vita e il mondo.
Non un’idea contrapposta, quanto piuttosto un linguaggio, una metodologia
del pensiero, un punto di osservazione
del tutto differente.
Si direbbe, in effetti, che il mondo
ebraico non possa offrire all’interlocutore un messaggio univoco, un corrispondente unico, una gerarchia facilmente
identificabile. Ma al contrario, nella dialettica interna fra gli elementi indispensabili di Israele e della diaspora, fra i
diversi modi di intendere la Legge e la
libera scelta individuale, nelle tante modulazioni identitarie che non possono
essere tutte facilmente ricomprese nel
quadro istituzionale, nell’ancestrale metodologia della discussione e della conoscenza, in questa complicazione si rinnova la sfida di ascoltare molte voci per
ricomporle in una visione infine coerente. Ascoltare la complessità che il mondo ebraico esprime può essere contemporaneamente faticoso ed entusiasmante, ma soprattutto comporta la responsabilità di evitare infine fraintendimenti
e confusioni. E i cardini della lunga
esperienza dell’ebraismo italiano possono rappresentare una bussola preziosa.
Due millenni di storia hanno insegnato che è giusto accogliere tutti e ascoltare tutti, ma senza mai dimenticare che le
metodologie interpretative della Legge
elaborate dal rabbinato ortodosso restano insostituibili. E hanno insegnato che
il legame assoluto, incrollabile con la
realtà di Israele non può essere indebolito o reciso in alcun modo.
Accettare questa differente maniera di
essere, perseguire l’amicizia sincera e
l’autentico desiderio di conoscere l’altro
senza prevaricarlo, e continuare a crescere insieme percorrendo lo stesso cammino senza cedere alla tentazione della
sostituzione e della conversione, da una
parte, e dell’affrettata elaborazione dettata dall’ansia di farsi meglio intendere,
dall’altra. Sono questi in definitiva i
nuovi orizzonti da conquistare, senza
mai cedere il passo alla stanca ripetizione, senza mai piegarsi al vuoto gesto
formale, per far sì che le innumerevoli
visite e i tanti incontri che ancora ci attendono continuino a rinnovarsi e a palpitare di autentica, incessante emozione.
g.m.v.
Punto d’incontro
DA PAGINA 12
mo al fatto che le religioni possono e debbono essere motori di pace e non di guerra. Questo il primo messaggio forte che ci è venuto dalla giornata del 17 gennaio.
Un altro tema, più sommesso rispetto a questi grandi temi che
toccano il destino del mondo ma
altrettanto importante, riguarda i
rapporti tra ebrei e cristiani. Al 17
gennaio si è arrivati con grandi
progressi nel dialogo, progressi
sanciti da molte voci autorevoli
nel corso delle celebrazioni del
cinquantenario della Nostra aetate
e in particolare da un documento
emanato il 10 dicembre 2015 dalla
Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, «Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili», che, pur riallacciandosi
ad altri documenti precedenti e riprendendone le linee principali,
rappresenta in questa formulazione una rottura senza precedenti
nei rapporti tra cattolici ed ebrei,
la seconda in successione dopo la
Nostra aetate, alle cui suggestioni
teologiche questo documento si
appoggia, sviluppandole e approfondendole e da cui trae il punto
di partenza per le sue affermazioni
tanto innovative. Ed è dopo questo riconoscimento che il papa si è
presentato oggi in Sinagoga, ed è
a questo documento che il suo discorso si è richiamato. Un’apertura teologica, un invito forte a tutti
coloro che sono impegnati nel dialogo ad indagare infine anche la
sua dimensione teologica. Un discorso, questo teologico, rinviato
invece esplicitamente dal mondo
ebraico in nome dell’invito a pratiche, azioni, progetti comuni, come
Rav Di Segni ha tenuto a sottolineare. Rinviato, forse, non dismesso.
Non credo che sia una trasformazione di poco conto il fatto che
la Chiesa abbia rinunciato del tutto alla tradizione secolare di missione agli ebrei come non necessaria nel contesto della salvezza e
abbia detto parole chiare ed indiscutibili sulla vexata quaestio della
teologia della sostituzione, secondo cui l’elezione divina degli ebrei
sarebbe stata sostituita da quella
dei cristiani. E non credo neanche
che ci siano esitazioni da parte
ebraica a riconoscere come, dopo
tanti inviti a pronunciarsi senza
esitazioni ed ambiguità su questi
punti, questo pronunciamento sia
infine arrivato. La visita di oggi,
ha detto rav Di Segni, significa
che la Chiesa non intende tornare
indietro sul percorso di riconciliazione. Da parte ebraica, tuttavia,
la risposta non è chiara e molte riserve emergono attraverso la cautela delle parole. Sono riserve dovute soltanto al fatto che il discorso teologico appare incomprensibile ai più? O non ci sono invece,
nei riconoscimenti della novità del
passo compiuto dalla Chiesa, anche timori e remore? Timori che,
una volta che la Chiesa ha rinunciato alla conversione, il riavvicinamento tra ebrei e cristiani porti
all’annacquamento delle differenze
dottrinali. In un articolo pubblicato pochi giorni fa sull’O sservatore
Romano, il direttore di Pagine
Ebraiche Guido Vitale ha ricordato una sua intervista nel lontano
1986 a rav Toaff, in occasione della visita in Sinagoga di Giovanni
Paolo II. In quell’occasione Toaff
aveva parlato proprio di questi timori: «Una rivoluzione radicale,
una rinuncia alla tentazione di
emarginare il popolo ebraico, un
gesto che farà nascere rapporti
nuovi fra due fedi che hanno le
stesse, comuni radici storiche. Nasce un nuovo rapporto, su un piede di parità e di collaborazione. E
se alcuni ebrei possono temere forse il pericolo di una certa attività
missionaria da parte della Chiesa,
diciamo si tratta di un rischio che,
se mai esistesse, crediamo di essere
in grado di poter scongiurare». È
con questa fiducia in se stessi e
nella forza della tradizione ebraica
che gli ebrei hanno aperto in Sinagoga le braccia a papa Francesco. Richiamandosi, come ha detto il rabbino Di Segni, alla “forza
dello spirito”.
Lungi dall’essere una ripetizione
di simboli già visti, l’incontro ha
rappresentato una spinta rinnovata
nella direzione della promessa verso il mondo, la promessa di lottare
a favore di una realizzazione piena
dell’umanità di tutti gli esseri. Un
incontro di pace. Il punto di incontro tra due universalismi, l’universalismo degli ebrei e quello dei
cristiani, tanto più necessario in
un momento in cui le religioni devono attingere in se stesse e nella
loro riconciliazione la forza di resistere al fanatismo e in cui cristiani,
ebrei, uomini e donne di tutte le
religioni e non credenti di buona
volontà si uniscono sempre più
spesso per collaborare a costruire
un mondo migliore.
*Direttore di «Pagine Ebraiche.
Il giornale dell’ebraismo italiano»
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
pagina 15
Intervista al cardinale segretario di Stato
Violenza e religione sono incompatibili
Soluzioni rapide e urgenti per rispondere al dramma delle migrazioni
Come può il giubileo della misericordia
cambiare il modo di vivere la fede nella
Chiesa?
Il giubileo straordinario della misericordia è un momento straordinario di grazia e di rinnovamento spirituale. È un tempo propizio di cambiamento, che noi cristiani chiamiamo “conversione”, innanzitutto — mi
sembra — nel senso di tornare al
centro della vita cristiana, di ritornare a ciò che è importante, di concentrarsi sull’essenziale, che è la misericordia. Papa Francesco, nella bolla
Misericordiae vultus, la chiama sintesi del mistero della fede cristiana e
architrave che sostiene la vita della
Chiesa. Dunque una vita vissuta come esperienza profonda dell’amore
di Dio, che consola, perdona e offre
speranza attraverso l’incontro con
Gesù Cristo, il volto della misericordia del Padre; una fede che, dall’altro lato, sa farsi carico delle debolezze e delle difficoltà dei fratelli e si
trasforma in testimonianza forte ed
efficace di amore e di pace. Magari
tutti noi battezzati sapessimo accettare questa grazia e questa chiamata
a lasciarci trasformare dal più profondo del nostro cuore!
glienza di quanti si recano pellegrini
a Roma che l’ha sempre contraddistinta. Allo stesso tempo, non dobbiamo lasciarci paralizzare dalla paura. È proprio quello che vogliono i
terroristi. Bisogna reagire con coraggio e forza contro questo sentimento, e farlo tutti insieme. Il Vangelo
che abbiamo letto all’inizio del tempo d’Avvento ha ricordato a noi cristiani che, anche in mezzo a tutte le
turbolenze che possono accadere nel
mondo, chi rivolge il proprio sguardo a Gesù Cristo crocifisso e risorto
non ha paura. Per questo ogni giorno preghiamo così: «Liberaci, o Signore, da tutti i mali, concedi la pace ai nostri giorni, e con l’aiuto della
tua misericordia vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento».
La Chiesa cattolica sta facendo abbastanza per affrontare il terrorismo islamista? Ritiene opportuna un’operazione
internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite per porre fine allo “Stato islamico”?
Direi che, di fronte all’uso della
religione per giustificare la violenza,
sono in primo luogo i leader musul-
Su «Vida Nueva»
Pubblichiamo in una nostra
traduzione italiana la prima parte
dell’intervista che il cardinale
Pietro Parolin, segretario di Stato,
ha rilasciato ad Antonio Pelayo,
Darío Menor e al direttore José
Beltrán per il settimanale spagnolo
«Vida Nueva». Nella lunga
conversazione — che appare
nel numero della rivista uscita
giovedì 14 gennaio — il porporato
affronta temi e questioni di grande
attualità, soffermandosi fra l’altro
sulla minaccia del terrorismo
a sfondo religioso e sul fenomeno
migratorio, ma parla anche
del giubileo della misericordia
e della riforma della Curia romana
intrapresa da Papa Francesco.
La parte centrale del colloquio è
un’analisi della situazione politica
della Spagna dopo le recenti
elezioni legislative, mentre
la conclusione è dedicata
Come si deve reagire alla paura di
fronte a possibili attentati durante l’anno santo?
Credo che dobbiamo essere realisti in questi tempi difficili, riconoscendo con sincerità e umiltà che
siamo tutti impauriti, chi più chi
meno, da quello che è successo e
purtroppo può riaccadere. In tal
senso, è necessario che i responsabili
del bene comune prendano tutte le
misure di sicurezza atte a prevenire e
a evitare gli attentati. Sono certo che
l’Italia lo sta facendo, come parte di
quella disponibile e generosa acco-
al prossimo viaggio papale
in Messico, ai rapporti tra Santa
Sede e Cina e alla recente visita
di Francesco in Africa.
mani a dovere condannare senza ambiguità tutti gli atti di terrorismo
commessi in nome dell’islam. Spetta
inoltre a loro insegnare chiaramente
la totale incompatibilità tra violenza
e religione, sviluppando una nuova
forma di ermeneutica in cui non ci
sia posto per un’interpretazione
estremista che giustifichi il terrorismo. Bisogna però riconoscere che ci
sono leader islamici nel mondo che
hanno denunciato e condannato il
terrorismo e che, in occasione degli
attentati di Parigi di gennaio e novembre dello scorso anno, ci sono
stati musulmani che hanno compiuto gesti coraggiosi per salvare vite
umane. Non dimentichiamo che la
maggior
parte
delle
vittime
dell’estremismo islamico sono esse
stesse musulmane. La Chiesa cattolica, da parte sua, deve continuare a
impegnarsi nel dialogo interreligioso, perché oggi più che mai c’è bisogno d’incontrarsi e di parlarsi. Allo
stesso tempo, può fare di più per capire il fenomeno dell’estremismo, come e perché ci sono giovani che si
lasciano attrarre da queste ideologie.
Esistono, ovviamente, cause economiche, sociali e politiche, ma anche
cause spirituali. In tal senso, spetta
alla Chiesa raddoppiare i suoi sforzi
per colmare i vuoti generati dal nichilismo spirituale, soprattutto nel
nostro mondo occidentale, evitando
così che siano riempiti dall’odio e
dalla violenza. Quanto alla seconda
domanda, tenendo conto che il cosiddetto “Stato islamico” riguarda
territori di alcuni Stati e minaccia la
pace e la stabilità mondiale, l’unico
modo possibile di combatterlo è nel
quadro del diritto internazionale.
Pertanto, l’organismo competente
per decidere un intervento della comunità internazionale è il Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite, il
cui primo mandato è proprio il mantenimento della pace e della sicurezza nel mondo.
C’è qualche spiegazione al fatto che, in
modo più o meno ciclico, si producono
alcuni scandali nella gestione economico-finanziaria della Santa Sede? Le
sembra adeguata la struttura attuale
per evitare nuovi problemi?
La gestione economico-finanziaria
della Santa Sede risulta, a mio parere, meno problematica di come a
volte la si vuole presentare al pubblico. Occorre inoltre tener presente
che tale gestione implica un certo
grado di complessità, essendo destinata a sostenere il ministero del Papa come pastore della Chiesa universale e la missione della Chiesa stessa, per esempio aiutando la diffusione del Vangelo e le opere caritative
in diverse aree del mondo. In tale
quadro, non si può escludere, come
accade in tutte le realtà del mondo,
la possibilità che si verifichino errori
e inefficienze e che siano opportuni,
anzi necessari, la sua riforma e il suo
miglioramento verso una maggiore
efficacia e trasparenza. È il cammino
che si sta attualmente percorrendo,
con grande impegno e determinazione. L’attenzione e il clamore suscitati da alcuni episodi esprimono comunque
le
giuste
aspettative
dell’opinione pubblica verso gli ecclesiastici, dai quali, giustamente e
più che dagli altri, ci si aspetta uno
stile di vita sobrio, in linea con la
povertà evangelica, e anche un comportamento moralmente irreprensibile.
Francesco si è rivelato come il grande
leader internazionale. Come si può utilizzare la sua influenza per ottenere un
cambiamento nell’attuale crisi dei rifugiati?
Papa Francesco si preoccupa molto della situazione dei migranti forzati, anche di quelli che non vengono riconosciuti come rifugiati; per
esempio, quelli che sono stati costretti a emigrare dalla povertà e dal
degrado ambientale, o le vittime del
traffico di esseri umani, o gli emigranti che cercano condizioni di vita
migliori per sé e per le loro famiglie.
Non dimentichiamoci che il suo primo viaggio fuori dal Vaticano è stato per loro, a Lampedusa, di fronte
a quella striscia del Mediterraneo
dove si stavano perdendo centinaia
di vite umane. Lì ha interpellato il
mondo parlando della globalizzazione dell’indifferenza che impedisce di
guardare agli emigranti come a fratelli e sorelle. Le istituzioni, ha detto, devono svolgere il proprio ruolo,
ma tutti abbiamo una responsabilità
sociale e dobbiamo domandarci se il
nostro atteggiamento è di accoglienza o di esclusione. Il Papa ha parlato della grave emergenza migratoria
in moltissime altre occasioni con vescovi, leader di altre religioni, capi
di Stato e di Governo, parlamentari,
responsabili di organizzazioni internazionali, e così via. La sua è una
parola energica che interpella, e posso assicurare che non ha smesso di
scuotere le coscienze, suscitando
un’attenzione più seria e alcuni passi
CONTINUA A PAGINA 16
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 16
giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
L’arcivescovo Becciu al settimanale «Panorama»
Il Vaticano non è un covo di ladri
«Il Vaticano non è un covo di ladri». Non si sottrae alle domande più scomode l’arcivescovo Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato,
nell’ampia intervista rilasciata a Stefano Lorenzetto che è stata pubblicata il 14 gennaio sul settimanale «Panorama». Il colloquio è avvenuto in Vaticano il 31 dicembre: giorno inconsueto, che sulle
prime ha lasciato interdetta anche la guardia svizzera di turno alla porta di Sant’Anna quando si è
vista di fronte il giornalista veronese, al quale il
sostituto aveva dato appuntamento proprio il
giorno di San Silvestro. La lunga conversazione
affronta vari argomenti, a cominciare naturalmente dalle questioni di attualità delle quali ultimamente i media hanno trattato, come lo scandalo
della fuga di documenti, il cosiddetto Vatileaks2,
e l’uscita dei libri di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi.
Proprio a questo proposito il presule osserva
che arrivare a rappresentare il Vaticano come «un
covo di ladri» costituisce «una falsità assoluta».
Oltretutto, sono le parole dell’arcivescovo, «trovo
sommamente ingiusto che i nostri dipendenti, orgogliosi di svolgere un servizio per il Papa e per
la Chiesa, da qualche tempo siano arrivati al punto di doversi vergognare a dire in giro che lavorano qua dentro». Anzi, ribadisce con fermezza
monsignor Becciu, «non siamo un’accolita di corrotti e incapaci. La Cosea ha messo in evidenza,
oltre ad aspetti positivi, anche alcune storture. Per
casi isolati accaduti allo Ior o all’Apsa sono state
prese le necessarie contromisure. Il Papa ha avviato una riforma, creando la Segreteria per l’Economia. Ora si tratta solo di darle una chiara veste
giuridica». L’arcivescovo non ha dubbi nemmeno
a ribadire che «l’umile operosità» è più diffusa
del carrierismo. E porta l’esempio di chi va in
pensione a 75 anni, dopo «quaranta anni di lavoro compiuto in silenzio, nel nascondimento, senza
mai pretendere nulla».
Il presule chiarisce poi che non vi sono utilizzi
per scopi personali delle donazioni dei fedeli, a
cominciare dall’Obolo di San Pietro. «Dispiace —
rileva monsignor Becciu — che all’esterno appaia
questo; posso assicurare che è un’immagine totalmente distorta». E aggiunge: «I giornalisti dovrebbero essere più precisi e dire che l’Obolo serve per le molteplici necessità della Chiesa universale, non solo per le opere di carità in favore dei
più bisognosi». A questo proposito, è bene notare
che «nessuno imbroglia i fedeli quando le loro
elemosine vengono utilizzate per sovvenzionare le
strutture ecclesiastiche. È una prassi antica». Non
regge nemmeno l’accusa di destinare ai poveri
soltanto una parte dell’Obolo ricevuto. Infatti,
l’arcivescovo ricorda che proprio qualche giorno
fa Benedetto xvi gli ha parlato di quando, fin da
bambino, il 29 giugno versava «l’offerta per
l’Obolo convinto che il Papa l’avrebbe usata come meglio riteneva». E «tale è anche la certezza
dei fedeli di tutto il mondo quando fanno la donazione al Santo Padre».
Risulta inoltre fuorviante la contestazione di sanare i bilanci della Curia romana con l’Obolo, in
quanto «il bilancio è pubblico, approvato dal
Santo Padre e dal consiglio dei cardinali». Basta
leggerlo per constatare come esso venga usato, tra
l’altro, anche per sostenere le nunziature apostoliche, «vale a dire le rappresentanze diplomatiche
della Santa Sede, le quali fra l’altro svolgono un
servizio indiretto verso i poveri». È tramite queste, infatti, spiega il sostituto, che il Papa «fa per-
venire la sua carità alle popolazioni colpite da improvvise calamità naturali e provvede alla distribuzione annuale dei sussidi finanziari in favore
delle chiese missionarie». In ogni caso «la situazione è trasparente e perfettamente nota a Sua
Santità».
Nell’intervista l’arcivescovo parla anche della
questione delle tessere rilasciate per fare acquisti
in Vaticano ed evidenzia che «il rilascio di un
badge per l’entrata in Vaticano non rappresenta
un’agevolazione, bensì una forma di controllo sugli ingressi nel territorio dello Stato».
Tornando poi ai libri dei giornalisti — le fonti
dei due di Nuzzi, rimarca l’arcivescovo, «sono
sempre finite in carcere» — monsignor Becciu afferma che la documentazione pubblicata era già a
sua conoscenza. «Non mi piace — sottolinea ancora il sostituto — l’atteggiamento degli autori
quasi si sentissero investiti di una missione divina
per la salvezza della Chiesa. Papa Francesco lo ha
scandito con chiarezza all’Angelus, tre giorni dopo l’uscita dei loro libri: rubare quei documenti è
stato un reato, un atto deplorevole che non aiuta,
tanto più che gli erano ben noti». Poi precisa ulteriormente la sua opinione sulla vicenda e ribadisce che «non è in discussione il diritto dei giornalisti a pubblicare le notizie di cui vengono in possesso. I dubbi riguardano il modo in cui si sono
procurati queste notizie».
Nell’intervista monsignor Becciu confessa, tra
le altre cose, di amare i nuovi mezzi di comunicazione, tra i quali facebook, che gli ha consentito
anche di intessere un dialogo con alcune persone
che poi si sono avvicinate al sacramento della
confessione.
Intervista al segretario di Stato
DA PAGINA 15
concreti. Da parte sua, la Chiesa cattolica cerca di rispondere all’appello
del Papa del 6 settembre scorso ad
aiutare, insieme a molte istituzioni e
persone di buona volontà, a offrire
accoglienza, sostenere le famiglie,
creare vincoli di conoscenza reciproca e di rispetto e favorire le condizioni che permettano il ritorno di
queste persone al proprio Paese, in
libertà e sicurezza.
Come giudica l’atteggiamento dell’Europa?
Per l’Unione Europea è urgente
trovare soluzioni rapide. Occorre
cercarle a partire da una visione e da
responsabilità condivise, senza lasciare soli i Paesi nelle decisioni più
gravi e onerose. L’Europa possiede
gli strumenti giuridici, tecnici e soprattutto culturali per affrontare la
questione migratoria in un modo rispettoso della dignità e dei diritti sia
dei suoi cittadini sia degli emigranti.
Vorrei sottolineare la dimensione
culturale, accanto agli aspetti logistici e della sicurezza. Solo su questa
base si può sperare che le politiche
migratorie producano buoni risultati
per gli emigranti — evitando di percepirli genericamente come minacce
contro le quali occorre difendersi, e
favorendo, al contrario, la loro integrazione, il che comporta diritti ma
anche obblighi — e per le popolazioni che gli accolgono, le quali esigono il rispetto dei loro valori e dei
principi della vita sociale, per il bene di tutti.
Come sono i suoi rapporti quotidiani
con il Santo Padre? Lo vede ogni giorno e sbriga con lui tutte le questioni? È
facile lavorare con una personalità così
carismatica? Le lascia una certa libertà
di movimento?
Il Santo Padre Francesco è una
persona semplice, alla quale si può
accedere con molta facilità e senza
protocollo. Io ho con lui un incontro settimanale, come è consuetudine
per il segretario di Stato — la cosiddetta udienza “di tabella” — nel quale parliamo delle questioni più importanti che sono di competenza
della Segreteria di Stato. Ma ogni
volta che, tra un’udienza e l’altra,
sorge una questione che devo sottoporgli ed è urgente, mi reco con
molta libertà nel suo ufficio nella
Casa Santa Marta o gli parlo al telefono. Anche lui, quando ha bisogno
di qualcosa, mi contatta telefonicamente. Poi, quando si affrontano i
problemi, il Papa è molto interessato
a conoscere i pareri e le opinioni
dell’interlocutore e quindi io mi sento libero di fare i miei commenti e
di esprimergli il mio punto di vista.
Inoltre, due cose mi colpiscono negli
incontri di lavoro con il Santo Padre: la prima è il suo modo di porsi
sempre in atteggiamento di discernimento di fronte a qualsiasi decisione, atteggiamento in cui la preghiera
ha una parte importante per poter
maturare la decisione dinanzi al Signore e per prenderla secondo la sua
volontà; la seconda è la sua serenità
di fronte alle situazioni, persino
quelle più complicate e difficili, che
nasce da una profonda pace interiore. Forse mi sorprende la sua capacità di proporre approcci nuovi e soluzioni inedite alle questioni a cui non
sarei giunto neppure dopo averci
pensato a lungo. Ciò è sicuramente
legato alla sua personalità carismatica, con cui noi collaboratori — io in
primo luogo in quanto segretario di
Stato – siamo chiamati a sintonizzarci. Per quanto riguarda la libertà di
movimento, ci sono spazi in cui sono chiamato a esercitare la mia responsabilità diretta e il Santo Padre
li riconosce e li rispetta.
Quale deve essere il ruolo della Segreteria di Stato in questa Curia rinnovata? Sarà solo la “segreteria papale”?
La Pastor bonus attribuisce alla
Segreteria di Stato un ruolo di coordinamento all’interno della Curia romana. È importante comprendere
che tale ruolo non è arbitrario, ma
che piuttosto deriva direttamente
dalla sua funzione di Segreteria del
Papa. Penso quindi che la Segreteria
di Stato dovrebbe continuare a esercitare tale ruolo, ovviamente purificato da tutti quegli elementi o difetti
che in un passato recente hanno suscitato tante critiche e che nei lavori
del Consiglio di cardinali si stanno
esaminando con la dovuta considerazione. Si potrebbe obiettare che la
Curia ha funzionato per secoli senza
questo ruolo di coordinamento svolto dalla Segreteria di Stato. È vero.
Ciononostante, anelare a un tempo
in cui ogni ufficio o dicastero possa
lavorare in modo autonomo, avendo
come unico limite la sua competenza, significa non tener conto della
complessità dell’epoca in cui viviamo e delle profonde trasformazioni
che la società delle comunicazioni di
massa e della globalizzazione ha generato anche nell’esercizio del ministero del Papa e nelle strutture di
governo della Chiesa. Per quanto riguarda la gestione dei rapporti con
gli Stati e con gli altri soggetti di diritto internazionale, affidata oggi alla seconda Sezione della Segreteria
di Stato — chiamata Sezione per i
Rapporti con gli Stati — non è casuale: la natura della Santa Sede
mostra di fatto che il romano Pontefice è il titolare unico della personalità giuridica internazionale e quindi
è naturale che in suo nome agisca la
sua Segreteria, la quale, al di là
dell’origine storica del nome, può
definirsi “di Stato” (ossia espressione
di un ente di diritto internazionale)
perché è “papale”, e non il contrario.
Infine, vorrei fare riferimento a un
punto fondamentale che Papa Francesco segnala di continuo e che potrebbe probabilmente essere il fattore di equilibrio più efficace per evitare che la Segreteria di Stato assuma un ruolo eccessivo e, allo stesso
tempo, per far sì che tutta la Curia
possa sviluppare meglio, secondo
uno spirito di servizio, la sua funzione rispetto alle Chiese particolari. Si
tratta di porre maggiore enfasi sulla
prassi della collegialità e della sinodalità. La creazione di un Consiglio
di cardinali e la valorizzazione del
Sinodo dei vescovi sono passi decisivi in questa decisione.
numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 17
In un messaggio al vertice di Davos il Papa ricorda che l’uomo deve governare lo sviluppo
Non dimenticate i poveri
«Non dimenticate i poveri»: è l’appello rivolto dal Papa ai partecipanti
all’annuale vertice di Davos promosso in questi giorni dal Forum economico
mondiale. In un messaggio inviato al presidente esecutivo della fondazione,
Francesco ricorda che l’uomo deve guidare lo sviluppo tecnologico e invoca nuovi
modelli imprenditoriali più attenti ai diritti sociali e all’ambiente.
Al Professore KLAUS SCHWAB
Presidente esecutivo
del Forum Economico Mondiale
Innanzitutto vorrei ringraziarla per il
suo cortese invito a rivolgermi alla
riunione annuale del Forum Economico Mondiale, che avrà luogo a
Davos-Klosters alla fine di gennaio
sul tema «Mastering the Fourth Industrial Revolution» (“Padroneggiare la
quarta rivoluzione industriale”). Le
porgo i miei cordiali auguri per la
proficua riuscita dell’incontro, che
cerca di incoraggiare una continua
responsabilità sociale ed ambientale
mediante un dialogo costruttivo con
responsabili di governo, dell’attività
imprenditoriale e della società civile,
nonché con distinti rappresentanti
dell’ambito politico, finanziario e
culturale.
Il sorgere della cosiddetta “quarta
rivoluzione industriale” è stato accompagnato da una crescente percezione dell’inevitabilità di una drastica riduzione nel numero dei posti di
lavoro. I più recenti studi, condotti
dall’Organizzazione Internazionale
per il Lavoro, indicano che attualmente la disoccupazione riguarda
centinaia di milioni di persone. La
finanziarizzazione e la tecnologizzazione delle economie nazionali e di
quella globale hanno prodotto cambiamenti di ampia portata nel campo del lavoro. Le diminuite opportunità per un’occupazione vantaggiosa e dignitosa, insieme a una riduzione della copertura previdenziale, stanno causando una preoccupante crescita della disuguaglianza e
della povertà in diversi Paesi. Emerge con chiarezza il bisogno di dar
vita a nuovi modelli imprenditoriali
che, nel promuovere lo sviluppo di
tecnologie avanzate, siano anche in
grado di utilizzarle per creare un lavoro dignitoso per tutti, sostenere e
consolidare i diritti sociali e proteggere l’ambiente. L’uomo deve guidare lo sviluppo tecnologico, senza lasciarsi dominare da esso!
Faccio appello una volta ancora a
tutti voi: «Non dimenticate i poveri!». Questa è la sfida primaria che,
come dirigenti nel mondo degli affari, avete dinanzi. «Chi ha i mezzi
per condurre una vita dignitosa, invece di essere preoccupato per i privilegi, deve cercare di aiutare i più
poveri ad accedere anch’essi a condizioni di vita rispettose della dignità
umana, in particolare attraverso lo
sviluppo del loro potenziale umano,
culturale, economico e sociale» (Discorso alla classe dirigente e al Corpo
Diplomatico, Bangui, 29 novembre
2015).
Non dobbiamo mai permettere
che la cultura del benessere ci anestetizzi e ci renda «incapaci di provare compassione dinanzi al grido di
dolore degli altri», così che «non
piangiamo più davanti al dramma
degli altri né ci interessa curarci di
loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci
compete» (Evangelii gaudium, 54).
Piangere davanti al dramma degli
altri non significa solo partecipare
alle loro sofferenze, ma anche, e soprattutto, rendersi conto che le nostre stesse azioni sono causa di ingiustizia e disuguaglianza. Pertanto
«apriamo i nostri occhi per guardare
le miserie del mondo, le ferite di
tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad
ascoltare il loro grido di aiuto. Le
nostre mani stringano le loro mani, e
tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro
grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per
nascondere l’ipocrisia e l’egoismo»
(Bolla di indizione del Giubileo
Straordinario della Misericordia, Misericordiae Vultus, 15).
Quando ci rendiamo conto di
questo, diventiamo più pienamente
umani, dal momento che la responsabilità nei confronti dei nostri fratelli e sorelle è una parte essenziale
della nostra comune umanità. Non
abbiate paura di aprire le menti e i
cuori ai poveri. In questo modo darete completa libertà di azione ai vostri talenti economici e tecnici e scoprirete la felicità di una vita piena,
che il consumismo di per sé non
può procurare.
Di fronte a cambiamenti profondi
ed epocali, i leader mondiali sono
chiamati alla sfida di assicurare che
l’imminente “quarta rivoluzione industriale”, gli effetti della robotica e
delle innovazioni scientifiche e tecnologiche non conducano alla distruzione della persona umana — ad
essere rimpiazzata da una macchina
senz’anima — o alla trasformazione
del nostro pianeta in un giardino
vuoto per il diletto di pochi scelti.
Al contrario, il momento presente
offre una preziosa opportunità per
dirigere e governare i processi in
corso e per edificare società inclusi-
Richiamo alla realtà
di GIUSEPPE FIORENTINO
«Migliorare la condizione del
mondo»: è questo lo scopo dichiarato del forum di Davos che
quest’anno giunge alla sua quarantaseiesima edizione. La questione, scrive Liz Alderman sul
«New York Times» del 20 gennaio, «è capire come alcune migliaia di esponenti dell’élite globale sequestrati sulle Alpi possano davvero raggiungere quel nobile obiettivo». Anche perché, come fanno notare alcuni commentatori internazionali, l’agenda
dell’incontro può a volte sembrare non in sintonia con la realtà
geopolitica mondiale. Come dimostra l’invito rivolto dagli organizzatori a una delegazione della
Corea del Nord, invito frettolosamente ritirato in seguito all’esperimento nucleare condotto dal regime di Pyongyang lo scorso 5
gennaio.
Anche il tema scelto per l’incontro di quest’anno, «Padroneggiare la quarta rivoluzione industriale», potrebbe apparire alieno
— ricorda ancora il «New York
Times» — al momento attuale, in
cui la comunità internazionale deve affrontare la gravissima crisi in
Medio oriente, la minaccia sempre più estesa del terrorismo, le
tensioni che attraversano la penisola coreana. E in cui l’Europa
deve confrontarsi con la questione
dei migranti e dei rifugiati che rischia di scuotere l’Ue dalle fondamenta. Senza dimenticare la
crescita sempre più lenta della Cina che minaccia di esporre l’economia mondiale a una nuova crisi
globale, la seconda in meno di
dieci anni.
Alla vigilia del forum, sono stati diffusi da Oxfam dei dati a dir
poco allarmanti sulla distribuzione della ricchezza, che, nel 2015,
ha visto l’un per cento della poCONTINUA A PAGINA 23
ve, basate sul rispetto della dignità
umana, sulla tolleranza, sulla compassione e sulla misericordia. Vi
esorto, pertanto, a riprendere nuovamente la vostra conversazione su come costruire il futuro del pianeta, la
“nostra casa comune”, e vi chiedo di
fare uno sforzo congiunto al fine di
perseguire uno sviluppo sostenibile
ed integrale.
Come ho spesso detto, ed ora volentieri ripeto, l’attività imprenditoriale è «una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti», soprattutto
«se comprende che la creazione di
posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» (Laudato si’, 129). Come tale, essa ha la responsabilità di aiutare a
superare la complessa crisi sociale ed
ambientale e di combattere la povertà. Ciò renderà possibile migliorare
le precarie condizioni di vita di milioni di persone e colmare il divario
sociale, che dà origine a numerose
ingiustizie ed erode i valori fondamentali della società, tra cui l’uguaglianza, la giustizia e la solidarietà.
In questo senso, attraverso mezzi
di dialogo preferenziali, il Forum
Economico Mondiale può diventare
una piattaforma per la difesa e la tutela del creato e per il raggiungimento di un progresso che sia «più
sano, più umano, più sociale e più
integrale» (Laudato si’, 112), anche
con il dovuto riguardo per gli obiettivi ambientali e per la necessità di
massimizzare gli sforzi al fine di sradicare la povertà, come stabilito
nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo
Sostenibile e nell’Accordo di Parigi
nel contesto della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
Signor Presidente, rinnovando
l’augurio per il successo dell’imminente incontro a Davos, invoco su di
lei, su tutti i partecipanti al Forum e
sulle loro famiglie abbondanti benedizioni divine.
Dal Vaticano, 30 dicembre 2015
pagina 18
L’OSSERVATORE ROMANO
giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
Vincent Van Gogh, «La Pietà» (1889)
di KURT KO CH*
«Da parte mia, desidero assicurare,
sulla scia dei miei predecessori, la
ferma volontà di proseguire nel cammino del dialogo ecumenico». Con
queste parole pronunciate già durante il suo primo incontro con i rappresentanti delle Chiese e delle Comunità ecclesiali e delle altre religioni, il giorno dopo l’inizio del suo
pontificato, Papa Francesco annunciava il suo impegno ecumenico. Al
riguardo, colpisce innanzitutto la
consapevolezza del Papa di trovarsi
in una fondamentale continuità con
i suoi predecessori. Allo stesso tempo, la sua visione ecumenica mostra
quei tratti specifici che il Santo Padre ha illustrato in maniera più
esplicita nel discorso tenuto durante
la Divina Liturgia nella chiesa patriarcale di San Giorgio a Costantinopoli: «Incontrarci, guardare il volto
l’uno
dell’altro,
scambiare
l’abbraccio di pace, pregare l’uno
per l’altro sono dimensioni essenziali
di
quel
cammino
verso
il
ristabilimento della piena comunione
alla quale tendiamo. Tutto ciò precede e accompagna costantemente
quell’altra dimensione essenziale di
tale cammino che è il dialogo teologico». In queste parole programmatiche, sono riconoscibili le quattro
dimensioni fondamentali della visione ecumenica di Papa Francesco.
Al primo posto, vi è l’ecumenismo
della carità, della fratellanza e
La visione ecumenica di Papa Francesco
Cammino
a quattro dimensioni
2014, e ciò rivela un’altra sfaccettatura, sorprendente quanto positiva, del
suo fare ecumenismo. Papa Francesco si è rivolto con grande cordialità
alle comunità ecclesiali evangelicali e
pentecostali. Ricordando le persecuzioni contro i pentecostali compiute
durante il fascismo in Italia — persecuzioni alle quali anche cattolici presero parte e durante le quali i membri delle chiese pentecostali furono stigmatizzati come “fanatici”
e “pazzi” — Papa
Francesco si è sentito
in dovere di chiedere
perdono con le seguenti parole: «Io sono il pastore dei cattolici: io vi chiedo
Il legame tra battesimo e testimonianza
perdono per questo!
cristiana sarà al centro della riflessione
Io vi chiedo perdono
della Settimana di preghiera per l’unità
per quei fratelli e sodei cristiani (18-25 gennaio). «Chiamati per
relle cattolici che non
annunziare a tutti le opere meravigliose
hanno capito e che
di Dio» è il tema dell’ottavario ispirato
sono stati tentati dal
a un passo neotestamentario (1 Pietro 2, 9).
diavolo e hanno fatto
I sussidi per la preghiera e la riflessione
la stessa cosa dei fraquest’anno sono stati preparati
telli di Giuseppe.
da un gruppo ecumenico della Lettonia.
Chiedo al Signore
che ci dia la grazia di
riconoscere e di perdonare».
Un altro grande passo di riconcidell’amicizia. Papa Francesco, lui
stesso uomo dell’incontro diretto, liazione è stato compiuto da Papa
che non si stanca mai di promuovere Francesco nel giugno 2015, quando
una cultura credibile dell’incontro, il Pontefice si è recato a Torino per
punta tutto sull’incontro diretto tra i incontrare — primo tra i Papi — la
cristiani e tra le varie Chiese e Co- comunità valdese nel tempio valdese
munità ecclesiali e lo fa nella con- locale. Anche in questa occasione,
vinzione che, in tale incontro, non ha sentito l’obbligo di chiedere persoltanto si trova l’unità, ma si incon- dono. E si è espresso in modo toctra anche la verità. Difatti, «la verità
cante: «Riflettendo sulla storia delle
è un incontro, un incontro tra personostre relazioni, non possiamo che
ne. La verità non si fa in laboratorio,
si fa nella vita, cercando Gesù per rattristarci di fronte alle contese e altrovarlo». Questo incontro con Gesù le violenze commesse in nome della
Cristo
conduce
inevitabilmente propria fede, e chiedo al Signore che
all’incontro tra i fratelli e le sorelle ci dia la grazia di riconoscerci tutti
peccatori e di saperci perdonare gli
cristiani.
Queste parole Papa Francesco le uni gli altri. Da parte della Chiesa
ha pronunciate a Caserta durante la cattolica vi chiedo perdono. Vi chiesua visita privata al pastore penteco- do perdono per gli atteggiamenti e i
stale Giovanni Traettino, nel luglio comportamenti non cristiani, persino
Ottavario
per l’unità dei cristiani
non umani che, nella storia, abbiamo avuto contro di voi».
Con queste due richieste di perdono per i peccati commessi nel passato, Papa Francesco ha mostrato che,
spesso, segnali forti sono più eloquenti di molte parole. Tali gesti sono parte integrante del vocabolario
ecumenico del Santo Padre e rendono visibile ciò che più profondamente gli sta a cuore. Il gesto compiuto
da Papa Francesco durante la sua visita alla chiesa patriarcale del Fanar
a Costantinopoli, quando si è chinato davanti al patriarca ecumenico
Bartolomeo chiedendogli la benedizione per lui e per la Chiesa di Roma, rimarrà sicuramente impresso
nella memoria. Questi gesti, che si
iscrivono nella tradizione dei Pontefici precedenti, traducono nella vita
concreta una delle convinzioni fondamentali del decreto conciliare Unitatis redintegratio, secondo cui «non
esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione», conversione
che non è primariamente quella degli altri, ma è la propria, comportando la disponibilità di riconoscere in
maniera autocritica le proprie debolezze e di ammettere con umiltà i
propri peccati. Di tale ecumenismo
della conversione Papa Francesco dimostra di essere un credibile protagonista.
Secondo la convinzione di Papa
Francesco, le sopramenzionate dimensioni dello sforzo ecumenico devono precedere e allo stesso tempo
accompagnare
costantemente
quell’altra dimensione essenziale del
cammino ecumenico, definita ecumenismo della verità. Pertanto, il dialogo teologico viene soltanto al secondo posto nell’impegno ecumenico.
Papa Francesco lo ha più volte ripetuto, relativizzando l’importanza che
riveste il dialogo teologico nella ricerca dell’unità, a esempio quando
ha affermato in maniera inequivocabile che l’unità dei cristiani «non sarà il frutto di raffinate discussioni
teoriche nelle quali ciascuno tenterà
di convincere l’altro della fondatezza
delle proprie opinioni. Verrà il Figlio
dell’uomo e ci troverà ancora nelle
discussioni» (Omelia durante i vespri nella solennità della Conversione di san Paolo apostolo, il 25 gennaio 2015).
D’altro canto, però, in Papa Francesco, si trovano anche chiari e continui riferimenti al ruolo necessario,
all’interno delle relazioni ecumeniche, del dialogo teologico, che il Papa sostiene e considera come un importante contributo alla promozione
dell’unità dei cristiani. Per lui fondamentale è il fatto che soltanto uno
sguardo teologico nutrito dalla fede,
dalla speranza e dall’amore riesca a
generare una riflessione teologica autentica, che è «in realtà vera scientia
Dei, partecipazione allo sguardo che
Dio ha su se stesso e su di noi», e
richieda una teologia «fatta in ginocchio» (Discorso alla delegazione
del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, il 28 giugno 2014).
In questo stesso spirito, Papa
Francesco e il patriarca ecumenico
Bartolomeo, nella loro dichiarazione
comune, hanno ribadito, nel maggio
2014 a Gerusalemme, che «il dialogo
teologico non cerca un minimo comune denominatore teologico sul
quale raggiungere un compromesso», ma si basa piuttosto «sull’approfondimento della verità tutta intera, che Cristo ha donato alla sua
Chiesa e che, mossi dallo Spirito
Santo, non cessiamo mai di comprendere meglio».
Per definire ancora meglio la dimensione teologica del dialogo ecumenico, Papa Francesco ricorre volentieri all’espressione spesso utilizzata da Papa Giovanni Paolo II,
quella dello «scambio di doni», che
non è «un mero esercizio teorico»,
ma permette «di conoscere a fondo
le reciproche tradizioni per comprenderle e, talora, anche per apprendere da esse» (Discorso alla delegazione del patriarcato ecumenico
di Costantinopoli, il 28 giugno
2013). Secondo Papa Francesco, nei
dialoghi ecumenici, infatti, non si
tratta solamente «di ricevere informazioni sugli altri per conoscerli
meglio», come il Santo Padre argomenta ampiamente nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium.
Si tratta piuttosto «di raccogliere
quello che lo Spirito ha seminato in
loro come un dono anche per noi».
In riferimento allo scambio di doni, nel quale possiamo imparare
molto dagli altri, il Santo Padre
menziona un esempio eloquente e
utile: «nel dialogo con i fratelli ortodossi, noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più sul
significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità» (Evangelii gaudium, 246).
Questa opportunità di imparare
qualcosa di più sulla sinodalità, che
per Papa Francesco si collega anche
a una sana «decentralizzazione» e a
una «conversione del papato», ha
naturalmente conseguenze anche
sull’ecumenismo, come il Santo Padre ha ricordato in occasione della
commemorazione del cinquantesimo
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numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 19
La visione ecumenica di Papa Francesco
DA PAGINA 18
anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi.
Il dialogo teologico della verità è
soltanto uno dei contributi apportati
al cammino verso l’unità visibile dei
cristiani. Altrettanto importante agli
occhi di Papa Francesco è quella forma di ecumenismo che è definita
ecumenismo pratico, nel quale si
tenta di fare tutto ciò che può essere
fatto insieme: «pregare insieme, lavorare insieme per il gregge di Dio,
cercare la pace, custodire il creato,
tante cose che abbiamo in comune.
E come fratelli dobbiamo andare
avanti» (Udienza generale del 28
maggio 2014). La collaborazione
ecumenica tra le varie Chiese e Comunità ecclesiali è urgente soprattutto alla luce delle grandi sfide del nostro tempo, come l’impegno a favore
dei poveri e della salvaguardia del
creato, la promozione della pace e
della giustizia sociale, la difesa della
libertà religiosa e la tutela delle istituzioni sociali del matrimonio e della famiglia. Anche e soprattutto la
crescente globalizzazione deve essere
per i cristiani un ulteriore motivo
per consolidare e intensificare la collaborazione ecumenica al servizio
del bene comune dell’umanità, come
Papa Francesco ha scritto nel messaggio rivolto alla decima assemblea
plenaria del Consiglio ecumenico
delle Chiese tenutasi nel novembre
2013 a Busan, in Corea del Sud: «Il
mondo globalizzato nel quale viviamo esige da noi che rendiamo insieme una testimonianza comune della
dignità riconosciuta da Dio ad ogni
essere umano, in favore di una promozione concreta delle condizioni
culturali, sociali e giuridiche che
permettano agli individui, come pure alle società, di crescere nella libertà».
Alla luce di queste sfide, lo scandalo delle divisioni che tuttora permangono in seno alla cristianità è
assolutamente evidente. Poiché le divisioni nuocciono alla credibilità
dell’annuncio del Vangelo di Gesù
Cristo, esse sono «uno scandalo, un
ostacolo all’annuncio del Vangelo
della salvezza al mondo» (Discorso
a Justin Welby, arcivescovo di Canterbury, il 16 giugno 2014). In particolare nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, Papa Francesco insiste sul fatto che la credibilità
dell’annuncio cristiano sarebbe molto più grande «se i cristiani superassero le loro divisioni», che minano la
credibilità del Vangelo: «Data la
gravità della controtestimonianza
della divisione tra cristiani, particolarmente in Asia e Africa, la ricerca
di percorsi di unità diventa urgente.
I missionari in quei continenti menzionano ripetutamente le critiche, le
lamentele e le derisioni che ricevono
a causa dello scandalo dei cristiani
divisi». Pertanto, agli occhi del Santo Padre, «l’impegno per un’unità
che faciliti l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera diplomazia
o un adempimento forzato, per trasformarsi in una via imprescindibile
dell’evangelizzazione».
Fermo
restando
l’importanza
dell’impegno ecumenico per l’unità
dei cristiani e del cammino comune
di tutti i cristiani e di tutte le Chiese, è evidente, per Papa Francesco,
che noi uomini non possiamo fare
l’unità con le nostre sole forze, ma
che possiamo piuttosto riceverla in
dono dallo Spirito Santo, che è la
fonte divina e il motore trainante
dell’unità. Papa Francesco ha espresso più volte questa convinzione,
quando ha affermato che «l’unità
non è primariamente frutto del nostro sforzo, ma dell’azione dello Spirito Santo al quale occorre aprire i
nostri cuori con fiducia perché ci
conduca sulle vie della riconciliazione e della comunione» (Discorso alla delegazione della Federazione luterana mondiale, il 21 ottobre 2013).
Il modo migliore per prepararsi
ad accogliere l’unità come dono dello Spirito Santo è, per Papa Francesco, la preghiera per l’unità. Proprio
perché i cristiani, nella loro fede,
sanno che l’unità «è primariamente
un dono di Dio per il quale dobbiamo incessantemente pregare», essi
sono anche consapevoli della responsabilità che spetta loro «di preparare le condizioni, di coltivare il
terreno del cuore, affinché questa
straordinaria grazia venga accolta»
(Discorso alla delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, il 28 giugno 2013). Senza preghiera non può dunque esserci unità, come ha osservato il Santo Padre
il 24 gennaio 2015, durante il suo in-
contro ecumenico con le comunità
cristiane di vita consacrata: «L’impegno ecumenico risponde, in primo
luogo, alla preghiera dello stesso Signore Gesù e si basa essenzialmente
sulla preghiera».
Papa Francesco attribuisce, da un
lato, una grande importanza alla
preghiera comune, nella quale possiamo vivere fin da ora l’unità. Per
questo, le visite dei capi di altre
Chiese in Vaticano sono sempre una
proficua occasione per pregare in comunione con il Papa. Dall’altro lato,
il Santo Padre ricorda costantemente
che i cristiani e le Comunità ecclesiali devono pregare gli uni per gli
altri: «possa lo Spirito Santo illuminarci e guidarci verso il giorno tanto
desiderato in cui potremo condividere la mensa eucaristica» (Discorso a
Karekin II, patriarca supremo e catholicos di tutti gli Armeni, l’8 maggio 2014). Mettendo in evidenza la
preghiera per l’unità, Papa Francesco riconosce un’importanza speciale
all’ecumenismo spirituale, definito
dal decreto sull’ecumenismo del concilio Vaticano II «anima di tutto il
movimento ecumenico» (Unitatis redintegratio, n. 8).
Una forma particolare di ecumenismo spirituale è quella chiamata dal
Papa «ecumenismo del sangue».
Con tale definizione, egli si riferisce
alla tragica realtà presentataci dal
mondo odierno, in cui moltissimi
cristiani sono vittima di massicce
persecuzioni e le comunità cristiane
sono diventate Chiese di martiri, al
Paul Gauguin, «Il Cristo giallo» (1889)
punto che oggi hanno luogo più
persecuzioni contro i cristiani rispetto ai primi secoli e non c’è Chiesa o
Comunità ecclesiale cristiana che
non abbia i suoi martiri. Oggi i cristiani sono perseguitati non perché
cattolici o ortodossi, protestanti o
pentecostali, ma perché cristiani. Il
martirio è ecumenico. Si può parlare
di un vero e proprio ecumenismo dei
martiri o di un ecumenismo del sangue, che rappresenta attualmente
una grande sfida, riassunta da Papa
Francesco con le seguenti, pregnanti
parole: «Se il nemico ci unisce nella
morte, chi siamo noi per dividerci
nella vita?» (Discorso al Movimento
del Rinnovamento nello Spirito, il 3
luglio 2015).
Nell’ecumenismo del sangue Papa
Francesco vede il fulcro centrale di
ogni sforzo ecumenico teso alla ricomposizione dell’unità della Chiesa. Poiché la sofferenza di così tanti
cristiani nel mondo costituisce
un’esperienza comune più forte delle
differenze che ancora dividono le
Chiese cristiane, il martirio comune
dei cristiani è oggi «il segno più
convincente» dell’ecumenismo (Discorso al Global Christian Forum, il
1 novembre 2015). Come la Chiesa
primitiva era convinta che il sangue
dei martiri fosse seme di nuovi cristiani, così noi oggi dobbiamo essere
animati dalla speranza che il sangue
di così tanti martiri del nostro tempo si riveli un giorno seme di piena
unità ecumenica del Corpo di Cristo. E dobbiamo credere addirittura
che nel sangue dei martiri siamo già
una cosa sola.
Se gettiamo uno sguardo alle varie dimensioni della visione ecumenica di Papa Francesco, visione incentrata
soprattutto
sulla
realtà
dell’«ecumenismo in cammino», costatiamo che, effettivamente, l’impegno ecumenico fa parte delle priorità
del Santo Padre, come egli aveva annunciato e promesso all’inizio del
suo pontificato. Se, oltre a ciò, ripercorriamo le sue disparate iniziative e
i suoi numerosi incontri ecumenici,
giungiamo alla conclusione che Papa
Francesco, in continuità con i suoi
predecessori nel ministero petrino,
esercita sin da ora un primato ecumenico e lo fa nella convinzione che
la dimensione del dialogo ecumenico
sia un aspetto essenziale nel ministero del Vescovo di Roma, «tanto che
oggi non si comprenderebbe pienamente il servizio petrino senza includervi questa apertura al dialogo con
tutti i credenti in Cristo» (Omelia
durante i vespri nella solennità della
Conversione di san Paolo apostolo,
il 25 gennaio 2014). Di questo primato ecumenico che promuove l’unità dei cristiani dobbiamo essere profondamente grati.
*Cardinale presidente del Pontificio
Consiglio per la promozione dell’unità
dei cristiani
L’OSSERVATORE ROMANO
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giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
Montini e le forme della testimonianza cristiana
Dentro e oltre la storia
Paolo
VI
in un disegno di Dina Bellotti
di ANGELO MAFFEIS
Giovanni Battista Montini ha cominciato molto presto a scrivere. Gli
articoli per le riviste dei circoli studenteschi cattolici ai quali partecipava gli hanno permesso di cimentarsi
precocemente con i grandi temi del
dibattito ecclesiale e civile nell’Italia
uscita dalla prima guerra mondiale.
In questi scritti, che rivelano talvolta
l’irruenza dell’animo giovanile portato a giudizi drastici e l’acerbità di un
pensiero alla ricerca di una formulazione, si può tuttavia osservare uno
sforzo metodico di comprendere e di
maturare un giudizio sulle vicende
della società contemporanea. E tra le
molte questioni che destano l’interesse del giovane Montini, il tema
della cultura contemporanea e delle
difficoltà che essa oppone alla fede
cristiana ha certamente un rilievo di
primo piano.
L’analisi del tema si sviluppa su
due versanti. Da una parte si delineano e si esaminano gli orientamenti filosofici e le attitudini culturali diffusi nella società che determinano una chiusura della coscienza
nei confronti del messaggio cristiano. Dall’altra, si constata che le forme della testimonianza cristiana e il
linguaggio in cui il messaggio evangelico è formulato sono spesso del
tutto inadeguate a fare breccia
nell’anima dei destinatari e risultano
perciò prive di efficacia e incapaci di
interpellare la loro coscienza. Fin dai
primi scritti di Montini appare, dunque, la chiara consapevolezza della
necessità di comprendere adeguatamente e di discutere criticamente i
presupposti della cultura contemporanea e, insieme, di sviluppare
un’apologia del cristianesimo all’altezza delle questioni sollevate dalla
cultura contemporanea.
Perché questa insistenza sulla cultura? Nell’ambiente italiano dell’inizio del Novecento la restaurazione
neoscolastica e la reazione al moder-
nismo avevano accentuato l’estraneità della teologia al pensiero contemporaneo. Il dibattito culturale
costituiva perciò il terreno sul quale
era possibile ricercare l’incontro tra
la fede cristiana e la modernità. La
“cultura cattolica” rappresentava
l’ambito in cui, lasciando intatta la
teologia, era possibile tentare di far
incontrare tra loro la concezione cri-
non è risparmiata la critica che evidenzia soprattutto una tendenza al
soggettivismo tale da rendere impossibile una conoscenza certa della
realtà e un’autentica socialità. Il giudizio negativo sul soggettivismo e
sull’individualismo caratteristici della
modernità non costituisce però l’unica e, tanto meno, l’ultima parola della lettura montiniana della cultura
contemporanea. Egli è convinto che
con essa si debba entrare in dialogo perché, solo a questa condizione,
è possibile creare le premesse per
l’accoglienza della verità cristiana e
per un’educazione alla fede. L’educazione cristiana vive così della tensione tra una duplice polarità: da
una parte, intende trasmettere una
solida sostanza dogmatica, che nella
fede in Cristo trova il suo principio
unificante e, dall’altra, ha lo scopo
di far maturare una “coscienza” cristiana matura. La condanna del soggettivismo non implica perciò in alcun modo l’irrilevanza del soggetto
nel processo di scoperta e di maturazione della fede. Al contrario, tanto
la critica rivolta al metodo apologetico scolastico, come l’impostazione
del lavoro educativo mostrano quanto sia decisivo per Montini il carattere persuasivo del discorso con il
quale si trasmette la fede cristiana e
la sua capacità di coinvolgere tutte
Le radici bresciane
Dagli Annali della Fondazione
Tovini 2015 (Roma, Edizioni
Studium, 2015, pagine 185),
volume con introduzione
di Giacomo Scanzi, direttore
editoriale del «Giornale
di Brescia», pubblichiamo stralci
della lectio magistralis tenuta
il 10 dicembre 2014 dal presidente
dell’Istituto Paolo VI in occasione
dell’inaugurazione dell’anno
accademico 2014-2015
della Famiglia Universitaria
«Cardinale Giulio Bevilacqua Emiliano Rinaldini» di Brescia.
Il contributo riprende alcune
parti dell’articolo intitolato Vivere
il mistero di Cristo nella Chiesa,
pubblicato dall’autore
stiana del mondo e la cultura moderna. L’interesse che guidava gli
sforzi compiuti in questo campo era
di stabilire un rapporto critico, ma
anche costruttivo e dialogico con le
espressioni filosofiche, letterarie, storiche della civiltà contemporanea,
costruito, per così dire, dall’interno
del processo culturale, e rispettoso
delle esigenze di metodo della ricerca scientifica.
Il giudizio di Montini sulla cultura moderna non è affatto ingenuo.
In alcuni passaggi dei suoi scritti
giovanili è anzi formulato in modo
assai severo e alla cultura del tempo
nel «Notiziario» dell’«Istituto
Paolo VI» (n. 67, 2014). Vi si
approfondiscono e valorizzano
le radici bresciane del futuro
Papa, gli anni della sua
formazione in famiglia e i suoi
legami con la Chiesa locale
nella quale ha percorso
il cammino che lo ha portato
nel 1920 a ricevere l’ordinazione
sacerdotale. Attraverso due temi
principali — il confronto con
la cultura moderna e il valore
dell’impegno politico
del cristiano — l’autore mette
in luce alcuni fili che collegano
la riflessione del giovane Montini
e il suo insegnamento
da Pontefice.
le dimensioni del soggetto e dell’esistenza personale.
Questi temi sono sviluppati
nell’ampia recensione che Giovanni
Battista Montini dedica nel 1921 al
libro dal titolo La luce nelle tenebre,
pubblicato lo stesso anno da padre
Giulio Bevilacqua. In quest’opera
Montini vede un esempio di come
dovrebbe essere l’apologia cristiana
e, mentre presenta le idee di uno dei
suoi maestri, propone in modo altrettanto chiaro le proprie convinzioni sulle strade che l’annuncio cristiano deve percorrere. Nel suo scritto
Montini descrive «l’uomo moderno»
come soggetto che «gode la sconfinata libertà di chi pensa tutto e dubita sempre». Egli mette in rilievo in
particolare le tensioni irrisolte e le
contraddizioni da cui è attraversato
il pensiero contemporaneo che non
accetta alcun limite, ma soffre anche
per la perdita di stabili punti di riferimento: «Il pensatore d’oggi sente
l’insufficienza delle sue filosofie perché le conosce tutte; ne vive e ne
esprime gli sforzi angosciosi per riedificare colle rovine ch’esse hanno
creato; conosce i risultati sperimentali a cui è giunta la scienza in sussidio alle filosofie positive; valuta le
conquiste, poiché alcune vi sono,
dello spirito moderno; osserva con
titubanti speranze le difese del pensiero tradizionale; avido di sintesi
ignora e trascura le umili e sicure vie
dell’analisi scolastica; transigente fino allo scetticismo, diventa d’un
tratto violento e intransigente quando riesce ad afferrare qualche brandello di vero; triste per le sue sconfitte, cerca per obliqui sentieri la vita
che gli sfugge colla verità».
Questa situazione del pensiero e
della cultura pone ai credenti e alla
Chiesa una questione ineludibile,
che Montini formula in questi termini: «Questo pensiero contemporaneo
corrotto e deluso, come può essere
messo a contatto col sublime del
Vangelo? Questo dubbio tenebroso
come può essere vinto dalla luce di
Cristo? Quest’atonia intellettuale è
ancora capace dei fremiti della verità?». L’apologia è la risposta a questa esigenza. Ma il modo in cui abitualmente si interpreta questo compito di mostrare la ragionevolezza
della fede cristiana e la corrispondenza della verità rivelata da Dio alla ricerca umana della verità, nella
maggior parte dei casi, è del tutto
inefficace. Una trattazione formalmente ineccepibile, tanto dal punto
di vista dei contenuti come del rigore dell’argomentazione, non ha alcuna efficacia per giovani che, intraprendendo lo studio universitario,
vengono a contatto con un pensiero
critico che scuote le convinzioni assimilate in precedenza attraverso
un’educazione cristiana: «Un’anima
messa a contatto colle pagine di
questi studiosi non arriva a percepire
di Dio, dell’infinito, della fede, del
mistero, del Messia, d’ogni sconfinato problema religioso che la descrizione, il nome; fa come un occhio
che studia le costellazioni sopra una
carta di topografia celeste, senza
avere la sensazione abissale del firmamento e dello spazio. Le altezze
sono diventate proiezioni piane e
brevi; per i grandi pensatori scolastici questa proiezione piana non è che
un metodo riassuntivo, esclusivamente fatto per fermare i dati
dell’intelligenza, trascurando intenzionalmente i dati della volontà, del
sentimento, della fantasia: il calore,
la meraviglia, la gioia della verità.
CONTINUA A PAGINA 21
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
pagina 21
Montini e le forme della testimonianza cristiana
DA PAGINA 20
Per i non sommi invece questa pianificazione è divenuta indivisibile e
sostanziale al sistema scolastico;
l’idea scolastica non ammette così altra esposizione che la descrizione
piatta dei concetti, e agisce su di essi
come sui numeri, senza contemplare,
senza intuire, senza sentire le vertigini dell’infinito che si tratta in una
teologia, da essenzialmente mistica,
divenuta esclusivamente scienza positiva».
La riflessione di Giovanni Battista
Montini sull’apologetica, consegnata
alla recensione dell’opera di padre
Bevilacqua, pubblicata l’anno successivo alla sua ordinazione sacerdotale, può essere collegata alla meditazione proposta da Paolo VI nel
1964, nella prima enciclica del suo
pontificato. La terza parte dell’Ecclesiam suam è infatti dedicata al dialogo al quale il Papa attribuisce il significato di imperativo per la missione della Chiesa contemporanea e
per la sua stessa identità: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo
in cui si trova a vivere. La Chiesa si
fa parola; la Chiesa si fa messaggio;
la Chiesa si fa colloquio». Dialogo è
il nuovo nome con cui Paolo VI designa il metodo dell’apologia rinnovata, all’altezza della cultura del tempo, che aveva tratteggiato più di
quarant’anni prima. La parola dialogo, come spesso accade con le parole di successo, è intesa in modi diversi e talora contraddittori. Proprio
la diversità di modi d’intendere il
dialogo spiega le valutazioni disparate che la riflessione di Paolo VI ha
incontrato, dall’approvazione incondizionata per la svolta della Chiesa
che rinuncia ad atteggiamenti dogmatici e autoritari, alla critica per
una concezione del dialogo che rappresenterebbe solo un espediente
tattico per portare chi non crede a
condividere l’insegnamento della
Chiesa cattolica.
In realtà, l’elemento più originale
dell’enciclica Ecclesiam suam è l’incontro tra l’asse verticale del dialogo
— quello iniziato dalla parola rivolta
da Dio all’umanità e dalla chiamata
alla fede — e l’asse orizzontale, sul
quale si sviluppa la testimonianza
che i credenti e la Chiesa sono chiamati a rendere alla parola del Vange-
lo e che oggi deve assumere forma
dialogica. Il primo asse del dialogo
è definito da Paolo VI «dialogo della
salvezza» (colloquium salutis), che altro non è se non un modo per dire
che l’inizio della conversazione tra
gli esseri umani e tra la comunità
dei credenti e il mondo non è una
parola detta da noi, ma è una parola
che viene dall’alto, una parola qualitativamente diversa rispetto alle nostre, la parola rivolta da Dio
all’umanità. Il dialogo della salvezza
presenta le seguenti caratteristiche: è
frutto dell’iniziativa di Dio che, per
amore, si apre verso l’umanità e la
chiama alla comunione con sé, non
guarda ai meriti degli interlocutori,
ma si instaura sotto il segno della
totale gratuità, chiama i destinatari
ai quali Dio rivolge la sua parola a
una risposta libera, ha una destinazione universale e si attua secondo
la legge di una gradualità che si distende nel tempo e si adatta alle
condizioni dell’interlocutore. Questo
dialogo può perciò essere assunto
come il paradigma del modo in cui
la Chiesa compie la missione che le
è stata affidata di annunciare il Vangelo, cioè di far risuonare la parola
che Dio ha rivolto all’umanità nel
suo Figlio e chiamare tutti alla fede,
cioè a rispondere a questa parola.
La preparazione di Giovanni Battista Montini all’ordinazione presbiterale ha seguito un itinerario sui generis, assai diverso da quello ordinario dei seminaristi del tempo. Per ragioni di salute, infatti, egli non ha
mai abitato in seminario, ma ha seguito da esterno i corsi di teologia,
risiedendo con la propria famiglia.
Questa situazione ha segnato in profondità la formazione del giovane
seminarista. La famiglia Montini, infatti, era un crocevia dove era possibile incontrare i principali esponenti
del movimento cattolico bresciano e
nazionale, nel quale il padre Giorgio
ricoprì un ruolo di primo piano.
Giorgio Montini aveva raccolto l’eredità di Giuseppe Tovini e guidato la
sezione III dell’Opera dei congressi,
dedicata all’educazione; è stato tra i
fondatori dell’Editrice La Scuola e
di numerose istituzioni educative, ha
rivestito cariche amministrative locali, ha diretto il quotidiano «Il Cittadino di Brescia», è stato tra i fondatori del Partito popolare e deputato
alla Camera dal 1919 fino al 1926,
quando fu dichiarato decaduto dal
regime fascista. La formazione di
Giovanni Battista Montini non è
dunque avvenuta in un luogo come
il seminario che, pur non isolato
dall’ambiente, evidenzia però simbolicamente la separazione dal mondo,
ma nel mezzo del dibattito sociale,
culturale e politico del tempo, conosciuto attraverso protagonisti e testimoni di prima mano.
Il dialogo di Giovanni Battista
Montini con il padre sulle vicende
sociali e politiche è da questo punto
di vista assai importante, come mostra la traccia che tale dialogo ha lasciato nel loro epistolario. Proprio
una delle lettere di Giovanni Battista
al padre descrive le caratteristiche
dell’impegno a cui il cristiano è
chiamato nell’ambito politico e di
cui Giorgio Montini rappresenta
un’incarnazione esemplare. Il 17
marzo 1924, nelle settimane che precedono le elezioni del 6 aprile, alle
quali Giorgio Montini, non senza
esitazioni, aveva accettato di ricandidarsi, il figlio gli scrive: «È veramente un lavoro difficile quello di mantenersi fedeli all’antica concezione
d’una politica rigorosamente autonoma e sinceramente aperta a comprendere ogni possibilità di concordia. Sono spesso preoccupato di
quale sarà l’avvenire del popolo italiano che si addestra ogni giorno più
a una mentalità settaria quando difende un programma, e alla spavalda
sconfessione dei programmi quando
ci trovi interesse. Lo sfoggio delle
pose eroiche fa pietà, quando si pensi su che misere virtù personali, su
che concetti egoisti si fondi. Chi più
osa, sembra cittadino più meritevole
[...]. Caro papà, valuto invece con
compiacenza lo sforzo, come il tuo,
di quelli che cercano ragioni superiori di coerenza e di moralità politica per rimanere sul campo della
competizione, piuttosto che ritirarsi
a criticare, e a sognare [...]. Uno dei
pericoli più gravi per un paese è che
dalle sue correnti politiche debbano
esulare gli onesti, i probi, i competenti, è quindi atto di civile virtù restare anche quando si debba restarvi
come superati e come sconfitti; e la
Provvidenza, se deve da qualche
pretesto umano trarre motivo alle
sue misericordie, certo si piegherà a
benedire quei popoli per cui gente
disinteressata ha perduto la gloria
proprio per salvare l’onore. Credo
che i giovani quantunque così distratti oggi dalle forme eccessive,
semplicistiche, superficiali, sono ancora in grado, dopo la guerra, di capire simili eroismi. Ad ogni modo
non vanno perduti. Il tempo li raccoglie; e chi ha fede, semina più per
il tempo avvenire che per il presente.
Vi sarà un giorno che si capirà che
la miglior polemica, l’unica benefica
e cristiana, per vincere deve convincere? Non so, ma bisogna lavorare
come se dovesse venire; lavorare
lealmente, cavallerescamente, senza
un attimo di sfiducia».
L’opera educativa messa in atto
da Giovanni Battista Montini in
mezzo ai giovani della Fuci, in un
contesto sociale dominato dal regime fascista, ha privilegiato il terreno
religioso e culturale rispetto a quello
politico e sociale, che non era praticabile. Ma proprio lo spazio educativo sottratto all’influenza del regime
ha rappresentato un’oggettiva contestazione della sua pretesa totalitaria
e ha assunto, indirettamente, una valenza politica. Divenuto arcivescovo
di Milano, in un discorso agli assistenti della Giac diocesana dell’11
novembre 1958, Montini evocherà gli
anni del fascismo con queste parole:
«Le idee non avevano corso; non era
possibile enunciare nessun programma. Anche di questo, forse, voi giovani non vi rendete conto: abbiamo
passato un ventennio, in cui non era
possibile pensare, e, soprattutto,
esprimere». In tale contesto, l’impegno di Montini è stato anzitutto
quello di educare a pensare, creando
così uno spazio di libertà che, seppure indirettamente, aveva una valenza politica. Non è un caso che
dalle file della Fuci montiniana e dei
Laureati cattolici siano usciti numerosi esponenti della classe dirigente
che ha assunto la guida del Paese
all’indomani della seconda guerra
mondiale. Questa esperienza personale non è priva di significato anche
in relazione all’insegnamento proposto da Paolo VI circa l’impegno sociale politico come forma in cui la
carità cristiana trova realizzazione.
Nella lettera apostolica Octogesima
adveniens, pubblicata in occasione
dell’ottantesimo anniversario dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII,
Paolo VI insiste sul valore dell’impegno politico per dare una soluzione
«strutturale» ai problemi della società e per servire il bene comune e la
giustizia.
Paolo VI richiama il carattere concreto dell’azione politica, che non
può limitarsi all’astratta affermazione di principi e, tanto meno, alla loro declamazione retorica, ma deve
essere accompagnata da un’assunzione di responsabilità e dall’impegno
operativo. L’orizzonte della speranza
cristiana guarda oltre la storia e confida nella trasformazione del mondo
che è opera di Dio. Questa fiducia
non si traduce però in atteggiamento
di disimpegno nella storia, ma al
contrario assume il proprio compito,
cosciente del limite di ogni azione
politica e, insieme, con la consapevolezza che essa può contribuire a
rendere il mondo più umano e più
corrispondente al disegno di Dio.
L’OSSERVATORE ROMANO
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Per riflettere
sulla Scrittura
giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
NOSTRE INFORMAZIONI
Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Mannar (Sri
Lanka), presentata da Sua Eccellenza Monsignor Rayappu Joseph, in conformità al canone 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico.
Provvista di Chiesa
Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Macau (Cina) Sua Eccellenza Monsignor Stephen Lee Bun Sang, Vescovo titolare di Nove
e Ausiliare della Diocesi di Hong Kong.
(16 gennaio 2016)
Nomina
di Amministratore Apostolico
Il Santo Padre ha nominato Amministratore
Apostolico della Diocesi di Mannar (Sri Lanka) Sua Eccellenza Monsignor Joseph Kingsley Swampillai, Vescovo emerito di Trincomalee.
Nomine episcopali
La nomina italiana di questa settimana riguarda la Chiesa in Puglia.
Dalle Chiese Orientali
Donna C., «Elijah and Elisha» (Honolulu)
Domenica 31 gennaio,
IV
del Tempo ordinario
Orecchio attento
di LEONARD O SAPIENZA
Un anonimo ha osservato che il profeta è una persona
che a stento viene perdonata dai posteri. Il destino di
Gesù, e di quanti come lui dicono parole di verità, è
quello di essere fraintesi. Il loro grido cade nella banalità, la distrazione li uccide, la stupidità li demolisce.
Gesù dice parole di grazia, ma gli altri si stupiscono.
E, quello che è peggio, rifiutano di prenderlo sul serio.
Quando noi siamo prigionieri delle nostre categorie,
dei nostri pregiudizi, possiamo ascoltare le cose più
belle,
ma
restiamo
chiusi nelle nostre comode abitudini. Le no- Geremia 1, 4-5.17-19: Ti ho
stre orecchie e i nostri stabilito profeta
cuori sono ostruiti da delle nazioni.
Salmo 70: La mia bocca
altri interessi.
«Ma la vita si spe- annunzierà la tua giustizia.
gne quando muoiono 1 Corinzi 12, 31-13,13:
le attese... L’abitudine Rimangono la fede,
spegne il mistero e la la speranza, la carità; ma
sorpresa» (Ermes Rondi tutte più grande
chi). È quello che accaè la carità.
de in famiglia, tra genitori e figli, tra amici, Luca 4,21-30: Gesù, come
Elia ed Eliseo, è mandato
tra innamorati.
Ha detto giustamen- non per i soli Giudei.
te qualcuno: «Il poliziotto e il caporale, il
banchiere e l’affarista sono più forti del poeta e del filosofo, del profeta e del santo. Il Figlio di Dio è stato
crocifisso, Socrate avvelenato, i profeti lapidati» (Nicolai Berdjaev). Lo vediamo nella nostra società in
questi tempi: banchieri e affaristi, cioè la forza, il potere e il denaro, nella storia apparentemente trionfano;
ma chi incide nell’anima, chi genera amore, chi costruisce per il domani, chi crea speranza è il profeta o
il santo, il poeta e il filosofo. Il cristiano che si sforza
con determinazione e coerenza di andare anche contro
corrente, per far affermare i principi del Vangelo. «Si
può ostacolare la parola profetica, ma non ucciderla.
La sua vitalità è incontenibile perché viene da Dio»
(Ermes Ronchi).
Anche oggi ci sono profeti. Ma il chiasso della nostra civiltà, la superficialità, le chiacchiere inconcludenti di politicanti e imbonitori televisivi, tentano di
emarginare le parole del papa e di quanti ci richiamano alle verità essenziali per la nostra vita.
Saremo felici, se avremo un orecchio libero, teso all'ascolto profondo, e un cuore sensibile e aperto
all’amore (seconda lettura).
Il Santo Padre ha concesso il Suo Assenso
all’elezione canonicamente fatta dal Sinodo
dei Vescovi della Chiesa Greco-Cattolica
Ucraina del Reverendo Padre Volodymyr
Hrutsa, C.Ss.R., finora Maestro dei novizi della Provincia di Lviv della Congregazione del
Santissimo Redentore, all’ufficio di Vescovo
Ausiliare dell’Arcieparchia di Lviv degli Ucraini (Ucraina), assegnandogli la sede titolare vescovile di Baanna.
(14 gennaio 2016)
Provvista di Chiesa
Il Santo Padre ha nominato Vescovo di
Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi
(Italia)
Sua Eccellenza Monsignor Domenico Cornacchia, trasferendolo dalla sede vescovile di Lucera-Troia.
(15 gennaio 2016)
Il Santo Padre ha nominato Nunzio Apostolico nel Principato di Monaco Sua Eccellenza Monsignor Luigi Pezzuto, Arcivescovo
titolare di Torre di Proconsolare, Nunzio Apostolico in Bosnia ed Erzegovina e in Montenegro.
Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al
governo pastorale della Diocesi di Macau (Cina), presentata da Sua Eccellenza Monsignor
José Lai Hung-seng, in conformità al canone
401 § 2 del Codice di Diritto Canonico.
Domenico Cornacchia
vescovo di Molfetta-Ruvo
Giovinazzo-Terlizzi
Nato ad Altamura, Bari, il 13 febbraio
1950, ha frequentato inizialmente il seminario del capoluogo pugliese e poi ha continuato gli studi nel seminario regionale di
Molfetta. È stato, quindi, alunno del seminario romano maggiore, seguendo i corsi di
filosofia e di teologia presso la Pontificia
università Lateranense. Ha conseguito il
dottorato in teologia presso la facoltà teologica dell’Italia meridionale. È stato ordinato sacerdote per la diocesi di AltamuraGravina-Acquaviva delle Fonti il 24 aprile
1976 e ha svolto i seguenti incarichi: insegnante di religione (1977-1995); vicario cooperatore (1977-1984); parroco del Sacro
Cuore di Gesù (1984-1993); assistente dei
giovani dell’Azione cattolica (1977-1982); assistente spirituale dei gruppi, movimenti e
istituti secolari. Ha insegnato teologia spirituale nella facoltà teologica pugliese e dopo essere stato per dodici anni padre spirituale nel seminario regionale teologico di
Molfetta, è divenuto parroco del Santissimo Redentore ad Altamura. Più volte è stato membro del consiglio presbiterale diocesano e del collegio dei consultori. Eletto alla sede vescovile di Lucera-Troia il 30 giugno 2007, ha ricevuto l’ordinazione episcopale il successivo 22 settembre.
Udienza al principe Alberto
II
di Monaco
Nella mattina di lunedì 18 gennaio,
Papa Francesco ha ricevuto in udienza Sua altezza serenissima il Principe
Alberto II di Monaco, accompagnato
da Sua altezza serenissima la Principessa Charlene. Successivamente, il
principe si è incontrato con il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, e l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con
gli Stati. Nel corso dei cordiali colloqui, sono state sottolineate le buone
relazioni bilaterali esistenti e si è fatto riferimento al contributo storico
della Chiesa cattolica alla vita del
Principato. Nel prosieguo della conversazione ci si è soffermati su alcune
questioni di interesse comune, come
la salvaguardia dell’ambiente, l’aiuto
umanitario e lo sviluppo integrale dei
popoli.
Infine, sono state prese in esame
alcune problematiche che interessano
la comunità internazionale, quali la
pace e la sicurezza, l’accoglienza dei
migranti e la situazione generale nella regione del Mediterraneo e nel
Medio oriente.
numero 3, giovedì 21 gennaio 2016
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 23
Il vertice
di Davos
Sviluppo integrale e sostenibile auspicato dal cardinale Parolin
Dove nascono le disuguaglianze
Dal 2010 al 2015 il patrimonio dei
62 supermiliardari nel mondo è aumentato del 44 per cento, arrivando
ai 1760 miliardi di dollari. Questo
mentre il reddito delle fasce più povere della popolazione è crollato del
41 per cento. A certificarlo è uno
studio dell’Oxfam (ong internazionale che si batte per lo sradicamento
della povertà), che esce in concomi-
ni introdotte dalle nuove tecnologie?
A queste domande il rapporto
dell’Oxfam dà una risposta negativa, suggerendo un’analisi fuori dal
coro: sono le grandi imprese che,
servendosi dei “paradisi fiscali”, evitano i loro doveri fiscali e quindi
sottraggono denaro alle casse degli
Stati che invece potrebbero utilizzare quei fondi per promuove piani di
tanza con l’apertura dell’annuale
vertice di Davos organizzato dal
World Economic Forum.
Il fatto è all’apparenza semplice: a
causa della crisi lo squilibrio nella
distribuzione della ricchezza aumenta, la polarizzazione dei redditi mina
le basi della crescita per i ceti medi,
creando sacche di povertà e disoccupazione. Ma è proprio così? Davvero la colpa delle crescenti disuguaglianze va data esclusivamente al
mercato, alle speculazioni selvagge,
alla globalizzazione e alle rivoluzio-
protezione sociale, formazione, reinserimento, ecc. In altre parole,
l’Oxfam propone un cambiamento
di ottica: non bisogna più guardare
ai movimenti dei mercati (titoli,
prezzi, concorrenza dei Paesi in via
di sviluppo, svalutazioni competitive, ecc.) ma alla responsabilità sociale e finanziaria delle multinazionali e alla rete di interessi che proteggono. La mancanza di responsabilità e di scelte coraggiose da parte
di queste grandi imprese è la radice
delle difficoltà dei mercati e delle
Incontro
con una delegazione
musulmana
Papa Francesco ha ricevuto nella
mattina di mercoledì 20 gennaio,
nello studio dell’aula Paolo VI, la
delegazione del consiglio di amministrazione del Centro islamico
culturale d’Italia, che gli ha presentato l’invito a visitare la moschea di Roma. All’incontro era
presente l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio
Consiglio per la promozione della
nuova evangelizzazione. La delegazione musulmana era composta
dal presidente Rayed Khaled A.
Krimly, ambasciatore del Regno
dell’Arabia Saudita; dal primo vicepresidente, Amr Mostafa Kamal
Helmy, ambasciatore della Repubblica Araba d’Egitto; dal secondo
vicepresidente Hassan Abouyoub,
ambasciatore del Regno del Marocco; dal segretario generale Abdellah Redouane e dall’imam
Yahya Pallavicini.
disuguaglianze dei redditi. La denuncia dell’Oxfam è significativa
per due ragioni. La prima è che, come detto, arriva proprio alla vigilia
dell’apertura del vertice di Davos,
tradizionale summit che vede tra i
partecipanti alcuni dei massimi
esponenti dell’élite politico-economica del mondo. Tra l’altro — fanno
notare molti analisti — molte delle
multinazionali nel mirino dell’Oxfam sono sponsor della manifestazione. La seconda ragione è che il
rapporto esce proprio in un momento critico per i mercati. Dalle Borse
asiatiche è partita una nuova onda
anomala che sta travolgendo i listini
dell’occidente. Il nuovo scossone —
dopo la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti e quella dei debiti sovrani in Europa — partirebbe dalla
Cina, che sta registrando il peggior
rallentamento della crescita negli ultimi 25 anni. E se rallenta un Paese
da quasi un miliardo e mezzo di
persone, a farne le spese sono tutti
gli altri, nessuno escluso. A ciò si
aggiunge poi il crollo dei titoli bancari e del prezzo del petrolio, ormai
molto al di sotto della quota psicologica dei trenta dollari.
Di fronte a un simile scenario diventa essenziale il richiamo a una
forma di sviluppo più integrale e sostenibile, come ha sottolineato il cardinale Pietro Parolin, segretario di
Stato, nel suo intervento, ieri a Roma, alla tavola rotonda organizzata
dal Global Foundation. È necessario
— ha detto Parolin — «mettere il potere creativo dell’intelligenza umana
al servizio del bene comune, con
spirito di solidarietà e misericordia».
In tal senso, ricordando le parole di
Papa Francesco, il cardinale ha indicato soprattutto la necessità della
«corretta applicazione della tecnologia» e del «controllo dello spirito
d’impresa» quali «elementi essenziali di un’economia che vuole essere
moderna, inclusiva e sostenibile».
DA PAGINA 17
polazione mondiale possedere più
del restante 99 per cento. In particolare 62 persone nel mondo detengono 1760 miliardi di dollari,
vale a dire la stessa ricchezza posseduta dalla metà più povera della
popolazione mondiale. Ma questo
sbilanciamento non è dovuto solo
alle storture del mercato o a manovre speculative senza scrupoli.
Spesso si tratta del frutto di scelte
ben precise miranti ad aggirare gli
obblighi fiscali, vanificando sul
nascere ogni politica ridistributiva.
Il trenta per cento della ricchezza
dell’intero continente africano, ad
esempio, è depositato su conti offshore per un ammontare complessivo di circa 14 miliardi di dollari
all’anno in mancate entrate fiscali.
Con una tale somma in Africa si
potrebbero assicurare servizi sanitari che salverebbero 4 milioni di
bambini ogni anno e retribuire un
numero di insegnanti sufficienti
per tutti i bambini del continente.
Con queste premesse il messaggio rivolto da Papa Francesco ai
partecipanti all’incontro nella cittadina svizzera, suona come una
chiamata alla realtà. Non bisogna
permettere «che la cultura del benessere ci anestetizzi», dimenticando i poveri che lottano per il proprio futuro e trascurando l’ambiente, troppo spesso sacrificato in
nome del profitto. E bisogna scongiurare la minaccia di un progresso tecnologico che porti «alla distruzione della persona umana» e
alla sua sostituzione con una macchina senz’anima. È ora, invece, di
dare il giusto rilievo alla migliore
vocazione dell’attività imprenditoriale, che è poi quella di «creare
ricchezza per tutti». Solo così, rileva il Pontefice, potranno realizzarsi politiche inclusive, veramente
aderenti all’unica realtà che conta
davvero: l’uomo.
Udienza ai vescovi del Sudan e del Sud Sudan
Accanto a un popolo provato
Prima dell’udienza generale del 20
gennaio, in una saletta dell’aula Paolo
VI, Francesco ha voluto ascoltare il
punto sulla realtà del Sudan e del
Sud Sudan direttamente dai vescovi
di quella regione che, dal 12 gennaio,
si sono incontrati a Roma per partecipare all’incontro promosso dalla Congregazione per l’evangelizzazione dei
popoli. «Dopo cinque giorni di esercizi spirituali, abbiamo vissuto tre intense giornate di riunioni per affrontare sistematicamente le tante questioni
aperte per un popolo provato da
guerra, povertà e migrazioni» ha detto al nostro giornale il cardinale prefetto Fernando Filoni. A guidare il
gruppo di presuli, con il cardinale
Gabriel Zubeir Wako, originario del
Sud Sudan, arcivescovo di Khartoum
e presidente della Conferenza episcopale sudanese, c’erano anche i rappresentanti pontifici nei due Paesi, gli arcivescovi Hubertus Matheus Maria
van Megen e Charles Daniel Balvo.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 24
giovedì 21 gennaio 2016, numero 3
In un libro di Aldo Schiavone
Gesù visto da Pilato
di LUCETTA SCARAFFIA
on è la prima volta che succede, e forse in questi ultimi
anni succede perfino più
spesso, che gli occhi di un laico, di
uno scrittore non “esperto” di esegesi, riescano a vedere nella narrazione
evangelica e nei suoi personaggi
aspetti nuovi e ipotesi interpretative
sfuggite a chi li studia professionalmente. E riescano, soprattutto, a farli rivivere con una forza viva, vera e
particolarmente coinvolgente. Questo è senza dubbio l’effetto immediato dell’ultimo libro che Aldo
Schiavone, uno fra i più grandi studiosi di diritto romano, ha dedicato
a Ponzio Pilato.
È un testo audace e spiazzante,
non solo per la sapienza con cui ha
saputo fondere la sua profonda co-
N
noscenza storica e giuridica del periodo con la materia incandescente
che tratta, non solo per la scrittura
veramente appassionante, che coinvolge in una suspense il lettore anche quando sa già benissimo come
andrà a finire.
Il libro è bellissimo perché ha capito che si poteva indagare su Pilato, e raccontare chi era il prefetto
della Giudea, solo raccontando chi
era Gesù. Anche se Schiavone ha
dato di Gesù un’interpretazione certo approfondita sul piano storico —
splendidi sono i passi sulla legge
giudaica e sul modo diverso e rivoluzionario di Gesù di intendere il
rapporto con il potere — ma in fondo riduttiva, perché lo studioso evita
volutamente di toccare il tema teologico della salvezza.
Enigma tra storia e memoria
Un libro in cui la passione,
controllatissima ma evidente, e
la storia, indagata con metodo
rigoroso, si alimentano
reciprocamente. È questa
in estrema sintesi l’opera,
non estesa ma molto densa
(Ponzio Pilato. Un enigma
tra storia e memoria, Torino,
Einaudi, 2016, pagine V, 176,
euro 22), in cui Aldo Schiavone
affronta il tratto principale
della vicenda storica del quinto
prefetto della Giudea. Nel tempo
i contorni della sua figura
sembrano dissolversi, ma il nome
di Pilato, pur nell’assuefazione
rituale del culto cristiano, resta
e viene pronunciato ogni volta
che si recita il Credo, sia
nella forma detta degli apostoli
sia in quella nicenocostantinopolitana. Corredata
da un apparato puntuale
di riferimenti e indicazioni
bibliografiche, la narrazione
si svolge in modo avvincente,
dal momento in cui entra
in scena nei vangeli il governatore
romano all’ombra in cui
la sua figura viene inghiottita.
Anche se la letteratura biblica
apocrifa e apologeti come
Giustino e Tertulliano fondano
poi una tradizione sfaccettata
sino a farne un cristiano (g.m.v.)
Le ragioni di questa lacuna si possono cogliere in una frase dell’introduzione: «La verità dei Vangeli risiede ormai molto di più nella potenza
millenaria del cristianesimo che nella
riscontrabilità oggettiva del loro racconto». Affermazione che in realtà
viene smentita proprio da questo libro e dalla sua trascinante bellezza:
il racconto è così bello perché l’autore si è lasciato prendere da quelle
parole, è entrato in quella scena, ha
assistito a quel confronto nel momento in cui si svolgeva. Il libro è
splendido perché Schiavone ha “visto” Gesù. Certo, l’ha “visto” attraverso gli occhi di Pilato, ma ha capito — e in questo sta la principale
grandezza del testo — che Pilato lo
aveva “visto”.
Nel libro si spiega bene chi è Pilato, chi sono Caifa e Anna, chi sono
gli evangelisti, ma noi non “vediamo” nessuno di loro: vediamo solo
Gesù. Da questo si capisce che l’autore ha trasmesso un’esperienza vera.
E vedere Gesù cambia la vita in senso profondo: questo rende il libro
grandissimo, diverso da tutti gli altri. Anche di ricerche importanti sui
vangeli scritte da cristiani convinti.
È in questo “vedere” che sta l’interpretazione di Pilato sostenuta da
Schiavone, la stessa già avanzata —
ma grazie all’accesso a fonti oggi
scomparse — da Tertulliano: e cioè
che Pilato avesse capito che il condannato voleva farsi condannare. Gesù sapeva bene che questo era il suo
destino e vi stava andando incontro.
In un crescendo: prima intuisce «la
presenza dell’ignoto davanti a lui»,
poi capisce che il suo comportamento
come prefetto e la sua posizione di
comando «sono ricompresi in un disegno che li oltrepassa completamente», infine arriva alla consapevolezza
che tra lui e Gesù «si sia stretto come
un tacito e indicibile patto».
È un’interpretazione che va contro
la tradizione condivisa che Pilato sia
colui che non decide, che “se ne lava
le mani”, immagine a cui rimanda
anche — in questo caso fuori luogo
— la copertina del libro. Forse invece
Pilato è stato veramente, come ha
scritto Tertulliano, pro sua conscientia
Christianus. In ogni caso, come sottolinea Schiavone, il suo nome doveva restare unito per sempre a quello
di Gesù.
Anche le farfalle
Meditazione come antidoto alla fuga da se stessi
di PABLO D’ORS
l lavoro, l’agitazione, le chiamate, gli impegni. Tutto sembra
cospirare per distoglierci da noi
stessi. Alla fine, ovunque siamo, la
domanda «chi sono?», che risuona
di continuo, non ottiene risposta. Ci
affanniamo allora per riempirci di
più lavoro e più agitazione, di più
impegni e più corse, di più andirivieni, messaggi, chiamate, commissioni, appuntamenti. Facciamo di
tutto pur di non ascoltare quella domanda insopportabile e insistente:
chi sono? dove vado? che senso ha il
mondo? Ma quella domanda, comunque la formuliamo, sta sempre
lì, palpitando costantemente, nascosta dietro l’angolo.
In un volto che incrociamo. In un
secondo che sembra non passare mai.
Nel rumore del termosifone, nel gocciolio di un rubinetto, o in una sveglia che suona. «Chi sei? Dove vai?
Che fai qui? Che stai facendo della
tua vita?». Tutto per sapere una sola
cosa: «Sono amato? Ho diritto a esistere?». Infine accade qualcosa.
Infine ci fermiamo. Forse solo per
un minuto. Forse per due o tre o
I
per pochi secondi. Allora la domanda risuona chiaramente e alla fine ci
arrendiamo. Che bello è il momento
della resa! Che bello quando gettiamo le armi e, nudi, ci arrendiamo a
quell’evidenza che è la vita e che ci
ostiniamo tanto a coprire!
La vita, è questo tutto il mistero.
La paura, è questo tutto il nostro
problema. Meditiamo per non sfug-
gire dalla vita. Per ascoltare quella
domanda. Per lasciarla palpitare, come se fosse viva. Meditiamo per imparare a fermare la macchina dei desideri e il motore dei pensieri. Per
fare una sosta nella corsa. Per entrare in sintonia con l’universo, questa
sì che è una bella definizione di meditazione. Per renderci conto che
facciamo parte di un tutto, di una
realtà superiore.
Meditiamo per sapere che non
siamo soli, per capire che anche nella più profonda solitudine siamo in
comunione. Per unirci al canto del
Creato, inudibile e insieme fragoroso, per comprendere che la paura è
un fantasma e che non ha nessuna
motivazione. Meditiamo anche per
ricomporre i frammenti in cui ci siamo dispersi nel corso del giorno. O
della notte. E per vedere e ascoltare
il mistero, discreto e insieme potente. E per sperimentare una gioia
profonda, immotivata. Meditiamo
per risvegliarci dal sonno, per scoprire che siamo luminosi. Per tirar
fuori il meglio di noi stessi. Per essere quello che siamo. Per non stare
separati e percepire che tutto, anche
ciò che ci appare peggiore, è buono.
Meditiamo per rendere culto alla fiducia, per abitare serenamente
nell’oscurità, per contemplare quel
«chi sono?» come chi vede volare
una farfalla. Il lavoro, l’agitazione, le
chiamate sì… Ma anche le farfalle.