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POLITICAL
AND
SECURITY
REVIEW
Libia
Egitto
Siria
Iraq
6 Gennaio
12 Gennaio
LIBIA
Sommario
Il 4 gennaio, le milizie affiliate allo Stato Islamico
(Islamic State - IS) hanno lanciato in Libia una
serie di attacchi contro i terminal petroliferi ad
est della loro roccaforte, Sirte. Finora, le forze che
difendono gli impianti sono riuscite a respingere
gli attacchi, pur subendo alcune perdite.
Tuttavia, l’IS si à impadronito della località di
Bin Jawad, che può essere utilizzata come base
per nuove operazioni nella regione.
Tali attacchi rientrano in una strategia eversiva
che mira a mettere in pericolo la sopravvivenza
stessa delle istituzioni libiche. L’obiettivo è di
privarle dell’unica fonte di reddito di cui
dispongono, l’esportazione di idrocarburi. Il calo
della produzione dovuto ai blocchi degli impianti
(conseguenza di scontri armati, ma anche di
proteste sindacali o rivendicazioni tribali) sta
costringendo le autorità a utilizzare le riserve in
valuta accumulate nei decenni scorsi per far
funzionare l’apparato statale e provvedere alle esigenze di base della popolazione. Ma tali riserve si stanno assottigliando e
potrebbero con il tempo esaurirsi.
L’IS all’attacco
Agli inizi di gennaio 2016, l’IS ha lanciato la cosiddetta “Battaglia di Abu Mugharia al-Qahtani”, una operazione
finalizzata all’acquisizione del controllo della cosiddetta Mezzaluna Petrolifera della Libia. Si tratta di una
regione che si estende per circa 200 km da Sirte ad Ajdabiya e comprende quattro terminal petroliferi. È un’area
di grande importanza economica e politica, come confermato sia dai precedenti tentativi dell’IS (e di altri gruppi
armati) di occupare infrastrutture locali considerate vitali per l’industria energetica del Paese sia dalla notizia
che gli sviluppi di sicurezza nella regione sarebbero attentamente monitorati da elementi delle forze speciali
britanniche e francesi, in vista di possibili interventi militari occidentali per impedire che le installazioni
petrolifere cadano nelle mani dell’IS.
Secondo la stampa libica, il primo attacco è stato compiuto il 4 gennaio contro le strutture di Es Sidr: quattro
attentatori suicidi (alcuni di essi sudanesi), a bordo di due veicoli imbottiti di esplosivo, hanno cercato di aprire
un varco nel sistema di difesa presidiato dalle Petroleum Facilities Guards (PGF) per consentire ai miliziani che
li seguivano di occupare e distruggere gli impianti. Nei giorni successivi i terminal di Es Sidr e Ras Lanuf hanno
subito bombardamenti di artiglieria e attacchi di mezzi corazzati. Il 3 gennaio, l’IS aveva distrutto la torre delle
telecomunicazioni nella città di Ajdabiya, interrompendo i collegamenti a mezzo telefonia mobile e Internet.
L’obiettivo era quello di impedire alle PFG di manovrare, spostando uomini e mezzi nei settori in pericolo. A
Ras Lanuf, il 7 gennaio, un’autobomba è esplosa a un checkpoint controllato dalle PFG. Secondo i dati
preliminari, negli scontri sono morti 30 militanti mentre le PFG avrebbero perso nove uomini; altri 40 sono stati
feriti. Almeno sette depositi di petrolio (cinque a Es Sidr e due a Ras Lanuf) hanno preso fuoco in seguito ai
combattimenti. La compagnia petrolifera pubblica National Oil Corporation (NOC) ha lanciato appelli alla
comunità internazionale chiedendo aiuto per spegnere gli incendi.
Il 10 gennaio presunti militanti dell’IS a bordo di tre imbarcazioni hanno cercato di raggiungere il porto
petrolifero di Zueitina, nei pressi di Ajdabiya, ma sono stati intercettati e costretti a fuggire: una imbarcazione,
colpita dal fuoco delle PFG, ha preso fuoco. Secondo il quotidiano The Libya Observer, si è trattato del primo
attacco dal mare compiuto dai jihadisti. Le PFG sono riuscite a respingere l’offensiva contro la Mezzaluna
Petrolifera lanciata dall'IS, che tuttavia ha preso il controllo di Bin Jawad, da dove può sviluppare altri attacchi
in futuro. Va detto che a Bin Jawad era stata segnalata da diverso tempo la presenza di elementi dell’IS.
In alcune fasi dei combattimenti, le milizie jihadiste sarebbero state fatte oggetto di raid aerei dell’Esercito
Nazionale Libico (ENL), comandato dal Generale Khalifa Haftar, che dipende formalmente dal Parlamento di
Tobruk e dal governo di Beida. Tuttavia, il capo delle PFG, Ibrahim Jadran, ha accusato le due istituzioni di non
aver appoggiato le sue milizie. Egli si è spinto fino a paragonare l’ENL all’IS, affermando che sono “le due facce
di una stessa medaglia”.
L’offensiva contro le
installazioni petrolifere è
stata accompagnata da
attacchi in altre parti del
Paese. Il 7 gennaio, l’IS ha
rivendicato
l’attentato
compiuto con un camion
bomba, condotto da un
individuo di nazionalità
tunisina, contro il centro
di addestramento della
polizia al-Jahfal, nel
quartiere di Souq Tulata a
Zliten.
Nell’azione
sarebbero rimaste uccise
almeno 74 persone e altre
100 sono state ferite. Si è
trattato del più grave
attentato verificatosi in
Libia dalla fine del
regime del Colonnello
Gheddafi. Nel centro di
I resti del camion bomba utilizzato nell’attentato di Zliten. Fonte: the Libya Observer
addestramento,
sono
formati
gli
agenti
impegnati nella lotta contro il traffico internazionale di esseri umani. Non è esclusa quindi la complicità delle
organizzazioni di trafficanti nell’attacco. La stessa giornata, un altro tunisino sospettato di appartenere all’IS è
stato fermato mentre cercava di far detonare un giubbetto esplosivo in un mercato del quartiere di Jameel, a
Sabratha. Altri due episodi si sono verificati il giorno 9 gennaio. A Misurata, un’ambulanza imbottita di
esplosivo è saltata in aria nel quartiere di Dafniya, nella parte nord-orientale della città, dopo essere stata
bloccata dalle milizie locali. A Tripoli, una autobomba è esplosa nella via Omar al-Mukhtar.
Con questi attacchi, peraltro non tutti rivendicati, l’IS mirava verosimilmente a impegnare le forze avversarie,
costringendole a disperdersi per proteggere obiettivi e aree diverse e impedendo loro di concentrarsi per
un’azione coordinata contro le milizie jihadiste che stavano partecipando alla campagna militare contro la
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Mezzaluna Petrolifera. Secondo alcuni osservatori, l’IS ha voluto giocare d’anticipo per prevenire un’offensiva
che poteva bloccare definitivamente i suoi piani di espansione. Rimangono ancora da accertare la matrice e la
responsabilità dell’attacco verificatosi nella notte fra l’11 e il 12 gennaio contro gli impianti della società Mellitah
Oil & Gas, concluso senza provocare vittime.
La strategia dei jihadisti
Nel dicembre 2015, il Presidente della NOC, Mustafa Sanallah, aveva lanciato un allarme riguardo possibili
attacchi dell’IS contro gli impianti di estrazione e i terminal petroliferi. Per Sanallah, l’obiettivo dei jihadisti non
è di prendere il controllo delle strutture, ma di distruggerle in modo da privare le istituzioni e la popolazione
libiche della loro unica fonte di reddito. L’opinione di Sanalla è condivisa da molti osservatori. La diminuzione
delle esportazioni di idrocarburi dopo la caduta di Gheddafi, dovuta sia all’insicurezza sia a agitazioni sindacali
e contrasti tribali, ha costretto le autorità a far ricorso alle riserve di valuta straniera accumulate in passato, che
però si stanno riducendo e in futuro potrebbero addirittura esaurirsi. Il blocco totale dei pozzi e dei terminal
rischierebbe di portare il Paese alla definitiva bancarotta. La Libia ha le più grandi riserve di petrolio del
continente africano e una capacità produttiva stimata in oltre 1.5 milioni di barili di petrolio al giorno. Tuttavia
la produzione media è attualmente inferiore a 400.000 barili al giorno e nel 2015 il PIL ha registrato una
contrazione del 6%, a causa dell’instabilità crescente. Va notato che era già calato di circa il 13% nel 2013 e di
quasi il 20% nel 2014.
Riserve certe di petrolio (miliardi di barili)
350
300
297,74
268,35
250
200
150
100
173,625
157,3
140,3
104 97,8
50
80
48,014
37,2 36,42 30,002
25,58525,382
13,986 10,47 10,364 9,94
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0
Fonte: US Energy Information Administration.
Alcuni giornali hanno scritto, tuttavia, che l’IS potrebbe utilizzare in Libia la strategia adottata in Iraq e Siria.
Con una serie di attacchi e sabotaggio contro i campi petroliferi e le condotte presenti nell’ovest iracheno, il
gruppo jihadista ha impedito di utilizzare le strutture, facendo diminuire il loro valore e aumentando i rischi
generali per la sicurezza. Ne ha allora preso il controllo e ha cominciato a utilizzarle alimentando un traffico
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internazionale di petrolio. È da rilevare, tuttavia, che appare assai improbabile che l’IS possa esportare il greggio
libico all’estero perché sarà assai difficile per le petroliere che eventualmente riusciranno ad attraccare nei
terminal riprendere il mare e superare il blocco delle marine occidentali. Nello stesso tempo, a meno che non
prenda il controllo di tutto il Paese e non ottenga la collaborazione delle tribù che gestiscono questi traffici, sarà
praticamente impossibile per l’IS organizzare un contrabbando via terra di prodotti raffinati verso le nazioni
vicine (Tunisia, Egitto, Sudan, Ciad e Niger): in ogni caso, i vantaggi economici saranno molto inferiori, anche
se sarebbero più concrete le possibilità di destabilizzare questi Paesi.
Il ruolo di Sirte
La città di Sirte è la roccaforte dell’IS in Libia. Il gruppo l’ha scelta come propria base principale dopo
l’allontanamento da Derna, situata più ad ovest, da cui è stato cacciato da una coalizione di formazioni islamiste.
Tra l’aprile 2014 e il giugno 2015, l’IS aveva cercato di governare Derna sulla base della sua interpretazione
radicale della legislazione islamica (sharia), prima che il malcontento spingesse la popolazione locale a ribellarsi
appoggiando una coalizione di milizie islamiste nota come Consiglio della Shura dei Mujahideen di Derna.
Dopo questa sconfitta il gruppo si è spostato a Sirte, dove esistevano condizioni favorevoli per il suo
insediamento. Quella località, innanzitutto, è lontana dai confini orientali e ciò riduce il rischio di raid aerei
egiziani, che almeno due volte hanno colpito obiettivi jihadisti a Derna. In secondo luogo, è al momento ai limiti
del raggio di azione dell’ENL e della sua aviazione. In terzo luogo, nella località non erano presenti milizie in
grado di opporsi all’ingresso dell’IS, che ha anche saputo sfruttare le divisioni tra le formazioni islamiste che
appoggiano il Governo e il Parlamento di Tripoli. Sirte si trova poi in una posizione geograficamente strategica,
vicino fra l’altro ad alcune delle principali infrastrutture energetiche.
L’analisi delle possibilità di espansione dell’IS non può prescindere da una valutazione degli aspetti religiosi e
confessionali che caratterizzano la società libica. In questo momento si assiste ad uno scontro all’interno della
corrente salafita, alla quale appartiene l’IS. Alcuni imam libici che facevano parte di questa corrente si sono
espressi pubblicamente contro l’IS ma sono stati oggetto di una campagna sistematica di omicidi mirati. Nella
popolazione libica è diffusa una visione conservatrice dell’islam che, pur essendo diversa da quella dell’IS, non
è però totalmente opposta a essa. Tuttavia, l’IS viene al momento percepito come un elemento estraneo alla
società libica non tanto per la sua impostazione dottrinaria ma perché nelle sue fila combattono soprattutto
militanti stranieri e perché le sue strutture locali prendono ordini direttamente dai vertici del gruppo, che si
trovano in Siria e Iraq.
Nelle ultime settimane alcuni mass media occidentali, spesso citando fonti intelligence, hanno ipotizzato che
l’IS intenda fare di Sirte la nuova capitale del califfato, al posto di Raqqa, dopo che le offensive internazionali
in Siria e Iraq avranno costretto il gruppo diretto da Abu Bakr al-Baghdadi a ritirarsi da molte delle sue attuali
posizioni. È stato fatto notare al riguardo che l’IS starebbe dirottando in Libia i volontari che non riesce a far
arrivare in Siria e in Iraq. Inoltre, in Iraq, il gruppo non controlla più giacimenti petroliferi e quelli che si trovano
in aree contese non sono più operativi. In Siria, controlla ancora circa l’80% dei pozzi ma la produzione sta
calando giorno dopo giorno. Per l’IS si sta determinando una situazione di seria difficoltà finanziaria dovuta
principalmente a tre fattori:
-
-
diminuzione dei quantitativi di petrolio venduto a causa dell’intensificazione dei bombardamenti sulle
infrastrutture di produzione e di trasformazione e sulle cisterne utilizzate per portare i prodotti
all’estero;
aumento sia delle spese necessarie per mantenere in funzione gli impianti danneggiati dai raid aerei sia
degli stipendi da pagare ai tecnici per convincerli a continuare a lavorare nonostante l’accresciuto livello
del rischio;
5
-
forte calo delle quotazioni del greggio sui mercati internazionali, che hanno costretto ad abbassare
ulteriormente i prezzi di vendita del petrolio contrabbandato all’estero, peraltro già sensibilmente
inferiori a quelli ufficiali.
Tale opinione non è però condivisa da tutti. Il quotidiano egiziano Al Ahram sottolinea che in Siria e in Iraq l’IS
continua ad avere una notevole forza militare e a controllare rilevanti parti di territorio e quindi non si vede
perché esso dovrebbe abbandonare tale teatro d’operazioni per trasferirsi in Libia, nonostante le recenti
sconfitte. Il fronte che lo combatte, soprattutto in Siria, è tutt’altro che unito e quindi le sue chance di
sopravvivenza non si sono esaurite. Le sfide che l’IS deve affrontare in Siria e Iraq non sembrano essere quindi
così grandi da giustificare un trasferimento del suo vertice in Libia.
Secondo molti osservatori, l’IS può utilizzare la Libia per espandersi verso l’Europa e l’Africa. In questo quadro,
tuttavia, anche se più volte i social media controllati dal gruppo jihadista hanno cercato di intimidire o
terrorizzare gli avversari o di motivare i sostenitori rappresentando il braccio del califfato che si estende dalla
costa libica verso Roma, il centro della Cristianità, l’ipotesi di una espansione dell’IS verso il Nord Africa e
l’Africa sub-sahariana appare assai più concreta di quella di una espansione verso l’Italia e gli altri paesi
europei. Sirte può diventare un polo di attrazione per i giovani del continente attirati dall’ideologia del califfato.
I Paesi più vulnerabili a questi richiami sono la Tunisia, dove sono frequenti gli arresti di giovani che cercano
di attraversare il confine con la Libia per unirsi alle milizie dell’IS, il Mali e la Nigeria. In Mali, l’intervento
militare francese, prima, e di una missione dell’Unione Africana, passata poi sotto l’egida dell’ONU, non è
riuscito a debellare la minaccia jihadista, che anzi si è estesa dalle regioni del nord verso il resto del Paese,
inclusa la capitale. In Nigeria, il gruppo jihadista Boko Haram, che nel marzo 2015 aveva giurato fedeltà allo
stato Islamico, sta resistendo, grazie anche all’aiuto dell’IS, all’offensiva delle truppe governative e di una forza
multinazionale (MNJTF) di 8.700 uomini autorizzata dall’Unione Africana. Consolidando la propria presenza
in Africa Occidentale, l’IS può sperare di acquisire maggiore prestigio, da utilizzare nella lotta con gli altri
gruppi jihadisti, specialmente quelli appartenenti alla galassia qaedista, per la supremazia nella regione.
Fonti utilizzate: Libya Herald, The Libya Observer, Libya Security Monitor, Libya Analysis, Voice of America, al Ahram,
Wall Street Journal.
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EGITTO
Sommario
Prosegue la campagna di attentati condotta dal
gruppo jihadista Stato Islamico. Oltre ad obiettivi
direttamente riconducibili al Governo egiziano e
alle forze di sicurezza, gli estremisti prendono di
mira anche alberghi e altre strutture turistiche
(nonché siti archeologici). Il loro scopo è di
danneggiare l’economia del Paese portando al
collasso il settore turistico, già penalizzato dalla
instabilità e dalla insicurezza degli ultimi anni.
Nonostante le operazioni antiterrorismo condotte
in tutto il paese, e in particolare nel Sinai, e le
misure prese dalle autorità per proteggere gli
obiettivi più esposti, sono possibili nuovi attacchi
che potrebbero essere diretti anche contro turisti
e uomini d’affari stranieri.
Al momento il fenomeno terroristico non mette in
pericolo il funzionamento delle istituzioni
egiziane, che stanno uscendo dalla fase di
transizione iniziata dopo la caduta del regime di
Hosni Mubarak. Resta però lo scollamento fra la popolazione e la classe politica.
Un nuovo Parlamento
Il Presidente del Parlamento Ali Abdel-Al. Fonte: Ahramonline
Il 10 gennaio, il nuovo
Parlamento egiziano ha scelto il
professore emerito di diritto
costituzionale e già insegnante
all’Università Ain Shams de Il
Cairo, Ali Abdel-Al, come suo
Presidente. Abdel-Al è stato
eletto nel collegio dell’Alto
Egitto all’interno della lista Per
Amore dell’Egitto che, dopo il
successo elettorale, ha cambiato
il suo nome in Coalizione in
Favore dello Stato Egiziano. Nel
recente passato, Abdel-Al ha
fatto parte di comitati creati per
elaborare testi legislativi, fra i
quali la nuova costituzione e le
leggi elettorali.
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L’attuale Parlamento è entrato in carica in seguito le elezioni del 2015 e viene a colmare un vuoto istituzionale
che durava da anni. Le due precedenti assemblee, infatti, erano state sciolte: una nel febbraio 2011, dopo la
rivoluzione che ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak, e l’altra nel giugno 2012, dopo che era
stata sancita l’incostituzionalità della legge elettorale sulla base della quale era stata votata. Tra i primi impegni
dei deputati è quello di ratificare i provvedimenti legislativi entrati in vigore per decreto del capo dello stato.
Va detto che alle legislative del 2015 si sono affermati i partiti vicini al presidente al-Sisi (fra i quali vi era anche
la lista Per Amore dell’Egitto), e quindi è prevedibile che gli atti da lui firmati verranno confermati. Tuttavia,
l’elevato tasso di astensione registrato durante il voto è un sintomo del distacco fra la popolazione e la classe
politica.
Lo Stato Islamico rimane una minaccia
Continuano gli attacchi contro le istituzioni egiziane (e in particolare le forze di sicurezza) e le infrastrutture
produttive del Paese. Un fenomeno sempre più preoccupante è costituito dagli attentati che prendono di mira
l’industria turistica, una delle principali fonti di entrate per l’Egitto. La maggior parte di tali episodi è
riconducibile allo Stato Islamico (Islamic State - IS), ma alcune azioni possono avere una matrice diversa.
La penisola del Sinai (e in particolare il governatorato del Nord Sinai) resta il principale teatro di operazioni per
i militanti jihadisti. Il 7 gennaio, nei pressi di El-Midan, l’IS ha danneggiato il gasdotto che collega l’Egitto alla
Giordania. Il gruppo voleva colpire anche questo paese che è uno dei partner principali nella campagna
internazionale contro l’IS in Siria e Iraq. L’8 gennaio, tre agenti sono rimasti feriti per l’esplosione di un ordigno
artigianale nell’area di Abu Shanar, a Rafah, nel Nord Sinai. Questi attacchi sono avvenuti nonostante da alcuni
mesi le forze armate stiano conducendo nella penisola l’operazione “Il Diritto dei Martiri”, nel corso della quale
hanno neutralizzato numerose cellule e ucciso centinaia di militanti.
Attentati si verificano tuttavia anche in altre parti del Paese. Il 9 gennaio, un ufficiale di polizia e un agente sono
stati uccisi nel governatorato di Giza da uomini armati che hanno teso loro un’imboscata all’uscita dalla fattoria
dell’ufficiale. Un altro agente era
stato ucciso il 5 gennaio nel
governatorato di Beni Suef: due
assalitori gli hanno sparato
mentre tornava a casa in
motocicletta. Va detto, tuttavia,
che non sempre è possibile
individuare la matrice di episodi
del genere, che possono essere
compiuti anche
da criminali
comuni.
Hanno avuto grande risalto sui
mass
media,
anche
internazionali,
due
azioni
distinte che hanno preso di mira
L’esterno dell’albergo di Hurgada dove si è veriificato l’attacco. Fonte: Ahramonline
alberghi o località turistiche. L’8
gennaio tre turisti stranieri (due
austriaci e uno svedese) sono stati feriti in modo non grave in un attacco contro il Bella Vista Hotel a Hurgada,
località balneare del governatorato del Mar Rosso. La dinamica dei fatti resta ancora da accertare. Le autorità
attribuiscono il ferimento dei tre stranieri a due egiziani che sotto l’effetto di stupefacenti sono entrati
nell’albergo con coltelli e armi giocattolo. Gli assalitori sono stati fermati rapidamente dalle guardie di sicurezza
dell’albergo e dagli agenti di polizia. I primi resoconti parlavano di un commando di terroristi, uno dei quali
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portava addosso una cintura esplosiva. La polizia ha smentito questa versione, anche se gli attaccanti hanno
lanciato slogan in favore dell’IS. Il fatto stesso che abbiano utilizzato dei coltelli è, per i funzionari governativi,
la conferma che si è trattata di una azione compiuta da criminali comuni, non collegati a gruppi jihadisti.
Stando alla versione ufficiale, il 7 gennaio vi sono stati tafferugli fra le forze di sicurezza e attivisti della
Fratellanza Musulmana (movimento di ispirazione religiosa messo fuorilegge) nei pressi del Barcelò Cairo
Pyramids Hotel. Nel corso degli scontri sono stati lanciati petardi e bombe carta che hanno colpito l’albergo e
un pullman parcheggiato davanti alla struttura, riservato ad una comitiva di turisti israeliani. I danni sono stati
limitati e nessuno è rimasto ferito, poiché l’automezzo era vuoto. Il giorno successivo, tuttavia, è apparso un
comunicato dell’IS che si è assunto la responsabilità di quanto avvenuto, parlando di un attacco di suoi militanti
contro gli israeliani.
Questi due ultimi episodi, al di là degli aspetti da chiarire, sono un segnale preoccupante per l’Egitto, ma non
solo. Innanzitutto, sono la prova che il settore turistico, nonostante l’impegno delle forze di sicurezza, resta
vulnerabile agli attacchi dei jihadisti. Questi continueranno a prendere di mira siti archeologici, resort, alberghi
ed altre infrastrutture dal momento che si tratta di obiettivi generalmente meno presidiati rispetto a quelli
istituzionali e che le azioni contro di essi hanno una risonanza mediatica più elevata, soprattutto se sono
coinvolti degli stranieri. L’impatto di questi attacchi è profondo e può essere conseguito con un impiego ridotto
di uomini e mezzi. L’attacco di Hurgada, inoltre, potrebbe essere la spia di un trend ancora più preoccupante:
la diffusione nella società egiziana del fenomeno dell’emulazione, per cui piccoli gruppi o singoli individui
compiono azioni contro le istituzioni o obbiettivi riconducibili ad interessi stranieri, ispirati dalla propaganda
dell’IS senza avere nessun collegamento con il gruppo stesso.
Le conseguenze al momento sono evidenti: secondo le autorità, lo scorso mese di novembre, dopo il disastro
aereo avvenuto nel Sinai e attribuito da molti governi stranieri ad un’azione del SI, il numero dei turisti giunti
in Egitto è stato inferiore del 38% a quello dello stesso mese dell’anno precedente. Prevedendo una riduzione
delle entrate derivanti da questo settore, la Banca Mondiale ha ridotto le stime di crescita per l’anno fiscale 20152016 al 3,8% (lo 0,7 in meno rispetto a quanto comunicato in precedenza).
Fonti utilizzate: Ahramonline, Daily News Egypt, Jeune Afrique, New York Times
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SIRIA
Sommario
L’aumento delle tensioni tra Iran e Arabia Saudita rischia di provocare il fallimento dei colloqui di pace, il cui inizio è
fissato al 25 gennaio. Sebbene sia Riyadh che
Teheran abbiano dichiarato il proprio sostegno
ai negoziati, non sembrano sussistere, per ora,
le condizioni necessarie affinché il dialogo
politico sfoci in un accordo tra le parti per la
formazione di un governo di unità nazionale.
La situazione è stata aggravata dai raid russi
che, l’11 gennaio, hanno colpito almeno una
scuola nella città di Aleppo, provocando
diverse vittime tra gli studenti.
Intanto, le forze governative, grazie al
sostegno di Mosca e delle milizie di Hezbollah,
hanno ottenuto un importante successo
nell’ovest del Paese, conquistando alcune aree
della località di Salma, nella provincia di
Latakia (roccaforte della comunità alauita).
L’11 gennaio, è iniziata un’operazione
umanitaria nelle località assediate di Madaya
(nei pressi di Damasco), Fuaa e Kafraya (a
Idlib), ove migliaia di persone soffrono di
malnutrizione acuta. In totale, circa 400.000 siriani vivono in aree assediate, ove non è possibile l’accesso ad aiuti
umanitari.
Negoziati a rischio?
La rottura dei rapporti diplomatici tra Iran e Arabia Saudita (seguita all’esecuzione del religioso sciita Nimr alNimr e al successivo attacco
contro l’Ambasciata di Riyadh
a Teheran) getta molte ombre
sui negoziati di pace, il cui
inizio è stato fissato al 25
gennaio. Una risoluzione sulla
Siria adottata, il 18 dicembre,
dal Consiglio di Sicurezza
dell’ONU,
prevede
la
creazione, entro la metà del
2017, di un governo di unità
nazionale e lo svolgimento di
elezioni libere e trasparenti.
Tuttavia, l’escalation delle
Bashar al-Assad a colloquio con l’Ayatollah Khamenei. Fonte: Huffington Post.
tensioni tra Teheran e Riyadh,
due tra i principali sostenitori,
rispettivamente, del governo e dell’opposizione siriana, rischia di ridurre ulteriormente le già scarse possibilità
10
che si giunga a un accordo nelle prossime settimane, nonostante le rassicurazioni giunte proprio dai governi
dei due Paesi circa il loro sostegno ai negoziati.
Forte scetticismo è stato espresso anche dai leader di alcuni gruppi di opposizione, i quali hanno subordinato
l’avvio dei colloqui alla liberazione dei detenuti politici e alla cessazione dei bombardamenti sulle zone abitate
dai civili. Essi hanno, inoltre, criticato la mancata risoluzione del nodo relativo al ruolo di Bashar al-Assad in
un eventuale futuro governo di unità nazionale. Da parte sua, il Presidente siriano, pur dicendosi pronto a
prendere parte ai negoziati, ha chiesto la lista dei gruppi che vi parteciperanno, ribadendo la sua opposizione a
talune formazioni considerate terroristiche (alcune delle quali sostenute dall’Arabia Saudita e da altri paesi del
Golfo). Intanto, anche il Consiglio Democratico Siriano (CDS), organo politico delle Forze Democratiche Siriane,
coalizione di gruppi curdi e sunniti (sostenuta dagli Stati Uniti e dai loro alleati), che nelle ultime settimane ha
ottenuto importanti successi territoriali nel nord del Paese, spesso a detrimento dello Stato Islamico (Islamic
State - IS) ha chiesto un seggio al tavolo dei negoziati. Il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per la
Siria, Staffan de Mistura, ha auspicato l’integrazione del CDS nella coalizione delle forze di opposizione
riunitasi a Riyadh il mese scorso. Il gruppo, tuttavia, ha ribadito la richiesta di un seggio distinto, mettendo in
dubbio l’effettiva volontà degli altri gruppi di opposizione di impegnarsi per favorire il successo dei negoziati.
L’uccisione di dodici ragazzi siriani e di altre tre persone (compreso un insegnante) durante i bombardamenti
russi su una scuola nella città di Aleppo (11 gennaio) ha messo ancor più in discussione l’ipotesi di colloqui
politici. L’ex-Primo Ministro Riad Hijab, oggi coordinatore delle forze di opposizione, ha dichiarato la necessità
di instaurare di un clima favorevole ai negoziati, condizione oggi non esistente.
Secondo fonti americane, solo il 30% dei raid sinora effettuati dai russi avrebbero preso di mira obiettivi dello
Stato Islamico. Questi dati sembrano, dunque, confermare l’ipotesi di un intervento russo teso più a garantire
la sopravvivenza del governo di Bashar al-Assad che a contrastare l’avanzata delle milizie jihadiste nel Paese.
Inoltre, volontari e attivisti per i diritti umani denunciano la presunta imprecisione dei raid russi che, secondo
le stime diffuse da Amnesty International, avrebbero provocato la morte di oltre 200 civili tra il 30 settembre e
il 29 novembre.
Gli sviluppi sul terreno
Le forze regolari, coadiuvate dalle milizie del movimento sciita libanese Hezbollah e dai raid aerei russi, hanno
ottenuto successi militari nella provincia di Latakia, nell’ovest del Paese, roccaforte della comunità alauita (alla
quale appartiene il Presidente Bashar al-Assad). L’11 gennaio, hanno fatto il proprio ingresso nella località di
Salma, scontrandosi con le milizie ribelli, in particolare con Ahrar al-Sham e con Jabhat al-Nusra (gruppo
affiliato ad Al Qaeda). Salma era controllata dall’opposizione dal luglio 2012; la sua conquista consentirebbe
alle forze governative di estendere l’offensiva sino a Jabal Akrad, ove si concentra la presenza dei ribelli.
Operazioni umanitarie a Madaya e in altre località della Siria
L’11 gennaio, scorte di cibo, acqua e medicinali hanno cominciato ad essere distribuite in tre località siriane
assediate, compresa quella Madaya, cittadina a circa 25 chilometri a nord-ovest di Damasco, da alcune settimane
oggetto delle attenzioni dell’opinione pubblica internazionale, in seguito alla diffusione di numerose fotografie
di persone ridotte alla fame. Due convogli umanitari organizzati dalla Mezzaluna rossa hanno raggiunto nel
pomeriggio Madaya, popolata in maggioranza da sunniti e circondata da forze governative e dalle milizie di
Hezbollah, e Fuaa e Kafraya, nella provincia nord-occidentale di Idlib, dove la popolazione sciita è assediata da
ribelli sunniti dal marzo 2015. Gli aiuti verranno distribuiti in totale a circa 60.000 persone, una piccola quota
dei 400.000 civili che, secondo le Nazioni Unite, si troverebbero in varie aree del Paese poste sotto assedio
dall'una o dall'altra parte, senza poter avere accesso ad aiuti umanitari internazionali.
Fonti utilizzate: Syrian Arab News Agency; Syrian Observatory for Human Rights; Syria Deeply; al-Arabiya; al-Jazeera; Institute
for the Study of War; Reuters; New York Times; Nazioni Unite; Syria Comment.
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IRAQ
Sommario
L’escalation delle tensioni tra Iran e Arabia Saudita sta avendo riflessi negativi anche sul quadro politico e di sicurezza
iracheno. I principali gruppi sciiti premono
sul governo guidato da al-Abadi, affinché
interrompa le relazioni con Riyadh,
schierandosi apertamente con Teheran.
Sinora, l’esecutivo ha resistito a tali pressioni,
proponendosi come mediatore tra i due Paesi,
ma il protrarsi della crisi rischierebbe di
indebolire ulteriormente la posizione del
Primo Ministro iracheno.
Risulta in aumento la tensione tra le autorità
di Bassora, ove si concentra la produzione
petrolifera nazionale, e il governo centrale,
incapace di garantire adeguati servizi alla
popolazione locale. La situazione nel
governatorato è aggravata dalle rivalità
esistenti tra alcuni dei principali gruppi sciiti
ivi presenti, interessati ad accrescere la loro
influenza sul piano economico e politico.
Nella Regione Autonoma del Kurdistan
continua lo stallo a livello istituzionale, per il rifiuto del Presidente Barzani (il cui mandato è scaduto lo scorso agosto) di
lasciare il potere. Persistono dubbi sulla capacità delle principali forze politiche di raggiungere un accordo in grado di
risolvere l’attuale crisi.
Escalation delle tensioni tra sunniti e sciiti
Proteste degli sciiti a Baghdad. Fonte: Reuters
L’esecuzione in Arabia Saudita,
il 2 gennaio, del religioso sciita
Nimr al-Nimr, ha determinato
un ulteriore aumento delle
tensioni settarie in tutto il Medio
Oriente, Iraq compreso. Definito
un “martire” dalla massima
autorità religiosa di Baghdad, il
Grande Ayatollah Ali al-Sistani,
al-Nimr era considerato una
sorta di icona dalla popolazione
irachena, a causa del suo aperto
sostegno alle proteste antigovernative nella Provincia
orientale,
area
dell’Arabia
Saudita a maggioranza sciita,
ricca di risorse petrolifere. Nei
giorni successivi all’esecuzione,
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proteste contro Riyadh si sono svolte nella capitale e in altre località dell’Iraq, in particolare nel sud del Paese.
Il 4 gennaio, in una presunta azione di rappresaglia, tre moschee sunnite sono state attaccate (due nella regione
di Hilla, a sud di Baghdad, e una a Sinjar) e due persone sono state uccise. Il 6 gennaio, le principali milizie
sciite, comprese Asa’ib Ahl al-Haq, l’Organizzazione Badr e Kata’ib Hezbollah (tutte, in varia misura, sostenute
dall’Iran), oltre a vari gruppi affiliati al Supremo Consiglio Islamico Iracheno, guidato da Ammar al-Hakim,
hanno organizzato una grande manifestazione, che ha coinciso con le celebrazioni per la Giornata delle Forze
Armate Irachene, di fatto distraendo l’attenzione dell’opinione pubblica da quest’ultimo evento. Scopo delle
proteste era spingere il governo guidato da Haydar al-Abadi a interrompere i rapporti diplomatici con l’Arabia
Saudita, schierandosi apertamente con l’Iran (Paese con il quale, nel 2015, l’interscambio commerciale ha
raggiunto il valore di 18 miliardi di dollari). Tuttavia, nonostante le crescenti pressioni degli ambienti sciiti,
l’esecutivo iracheno si è sinora mostrato molto cauto nella gestione dei rapporti con Riyadh, consapevole delle
gravi conseguenze che un’eventuale rottura avrebbe sulla lotta contro lo Stato Islamico e, più in generale, sui
rapporti con la comunità sunnita, già frustrata da anni di percepita emarginazione politica ed economica.
Pertanto, al-Abadi si è proposto come mediatore nella crisi tra i due vicini regionali, iniziativa che, al momento,
non ha portato a risultati.
Bassora protesta contro il governo centrale
Come già avvenuto nel 2015, le autorità del governatorato di Bassora hanno minacciato di chiedere lo status di
regione autonoma (con quel che esso comporta a livello di gestione degli affari interni e delle risorse naturali),
in caso di mancato miglioramento della qualità dei servizi offerti. La Costituzione irachena prevede che due o
più province possano ottenere lo status di regione tramite referendum (perché sia indetto, sono necessarie le
firme di almeno il 10% degli elettori delle province interessate o di 1/3 dei membri dei consigli provinciali).
Durante la scorsa estate, migliaia di persone erano scese in piazza, lamentando la mancata realizzazione di una
serie di progetti infrastrutturali, in particolare degli impianti di purificazione dell’acqua. Il governatorato di
Bassora ha una popolazione di circa 2,5 milioni di abitanti e contribuisce per una quota estremamente
significativa al bilancio statale, grazie allo sfruttamento dei più importanti giacimenti petroliferi del Paese. Negli
ultimi anni, in particolare in seguito al trasferimento, in altre zone del Paese, di migliaia di soldati (impiegati
nella lotta contro lo Stato Islamico), il quadro di sicurezza nel governatorato ha subìto un forte peggioramento,
con un aumento della criminalità e delle violenze tra tribù rivali. I principali gruppi sciiti stanno tentando di
sfruttare tale situazione per accrescere la propria influenza: un esponente di spicco del Movimento sadrista,
Hakim al-Zamili (presidente della commissione Sicurezza e Difesa del Consiglio dei Rappresentanti), ha
accusato di incompetenza il capo della polizia locale, membro della rivale Organizzazione di al-Badr. Il leader
di Asa’ib Ahl al-Haq, Qais al-Khazali, ha annunciato di recente la creazione di un nuovo quartier generale a
Bassora e, in tale occasione, ha chiesto l’impiego delle milizie sciite del Fronte di Mobilitazione Popolare per
ripristinare l’ordine pubblico. Un’ulteriore escalation delle violenze in quest’area avrebbe conseguenze
estremamente negative per il settore petrolifero iracheno e, di conseguenza, per l’economia e la stabilità del
Paese.
Verso un accordo nel Kurdistan?
Nelle ultime settimane, si è registrata una intensificazione dei contatti tra alcuni esponenti dei principali partiti
della Regione Autonoma del Kurdistan ove, ormai da alcuni mesi, si sta consumando una crisi politica che ha,
di fatto, determinato una situazione di stallo a livello istituzionale. Essa è dovuta, in primo luogo, alla posizione
del Presidente Massoud Barzani, leader del Partito Democratico Curdo (PDC), al potere dal 2005. Il suo secondo
mandato, scaduto nel 2013, era stato prorogato per altri due anni (sino al 26 agosto 2015), a causa della
situazione di conflitto esistente nella regione. Le altre principali forze politiche curde chiedono che venga
ripristinata una situazione di legalità costituzionale e, più in generale, che venga rafforzato il ruolo del
Parlamento, a discapito di quello del presidente. La crisi si è aggravata lo scorso ottobre, quando le forze di
sicurezza controllate dal PDC (il Kurdistan manca di un apparato di sicurezza unitario e centralizzato) hanno
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impedito allo speaker del Parlamento locale, Yusuf Mohamed (leader del movimento Gorran), recatosi all’estero
per ricevere cure mediche, di fare ritorno a Erbil. In occasione di un incontro con una delegazione diplomatica
italiana, il vice-Presidente iracheno, Kosrat Rasul (di etnia curda, leader dell’Unione Patriottica del Kurdistan),
ha confermato i progressi compiuti negli ultimi giorni, dicendosi ottimista circa la possibile risoluzione della
crisi. Secondo fonti locali, sarebbe stato raggiunto un accordo che prevederebbe, tra le altre cose, il
reinsediamento di Mohamed come speaker del Parlamento; non sono, per ora, noti ulteriori dettagli. Persistono,
tuttavia, divergenze che appaiono tuttora suscettibili di determinare il fallimento dei negoziati, favorendo il
protrarsi di questa situazione di stallo.
Le tensioni politiche nel Kurdistan sono aggravate dalle difficoltà economiche attraversate dalla regione e dal
resto del Paese, dovute soprattutto al calo del prezzo del petrolio (risorsa che costituisce il 90% delle
esportazioni irachene). Di recente, fonti locali hanno comunicato che il governo di Erbil potrebbe ricavare, nei
prossimi due anni, circa 20 miliardi di dollari dalla vendita di gas naturale alla Turchia. Secondo i dati del locale
Ministero per le Risorse Naturali, la regione possiederebbe riserve pari a circa 200 trilioni di metri cubi di gas.
A dicembre, in occasione di una visita in Turchia del Primo Ministro curdo, Njirvan Barzani, le due parti hanno
siglato un accordo per l’esportazione di gas: la costruzione delle condutture sarebbe già stata avviata e i lavori
potrebbero concludersi entro la fine del 2016.
Fonti utilizzate: Iraqi News; Rudaw; Shafaq News; Reuters; NRT; Iraqi News; Iraq Trade Link News Agency; Iraq-Business News;
al-Jazeera; Middle East Eye.
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