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SECONDA DOMENICA DI NATALE
3.1.2016
1. SACRA PAGINA
Dal libro del Siràcide
24,1-4.12-16
1La sapienza fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto, in mezzo al suo
popolo proclama la sua gloria. 2Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca,
dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria, 3in mezzo al suo popolo viene
esaltata, 4nella santa assemblea viene ammirata, nella moltitudine degli eletti
trova la sua lode e tra i benedetti è benedetta, mentre dice: 8«Allora il creatore
dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e
mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue
radici tra i miei eletti”. 9Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per
tutta l’eternità non verrò meno. 10Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così
mi sono stabilita in Sion. 11Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in
Gerusalemme è il mio potere. 12Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso,
nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho preso
dimora». Parola di Dio.
Il Verbo si è fatto carne
e ha posto la sua dimora in mezzo a noi.
Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.
Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.
Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.
Salmo 147
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini
1,3-6.15-18
3Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con
ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. 4In lui ci ha scelti prima della
creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, 6secondo il
disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui
ci ha gratificati nel Figlio amato. 15Perciò anch’io [Paolo], avendo avuto notizia
della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi,
16continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, 17affinché il
Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di
sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; 18illumini gli occhi
del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale
tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi. Parola di Dio.
5
Alleluia, alleluia.
Gloria a te, o Cristo, annunziato a tutte le genti;
gloria a te, o Cristo, creduto nel mondo.
1Tm 3,16
Dal Vangelo secondo Giovanni
1,1-18
1In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2Egli era, in
principio, presso Dio: 3tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è
stato fatto di ciò che esiste. 4In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5la
luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. 6Venne un uomo
mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone per dare
testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era lui la
luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. 9Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo. 10Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo
di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11Venne fra i suoi, e i suoi non lo
hanno accolto. 12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di
Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13i quali, non da sangue né da volere di
carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14E il Verbo si fece
carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
15Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che
viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». 16Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. 17Perché la Legge fu data per mezzo
di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 18Dio, nessuno lo
ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha
rivelato. Parola del Signore.
2. LECTIO
Questa domenica si presenta come atipica nella globalità del ciclo
natalizio, nel senso che essa non sempre consegna il proprio messaggio
dovendo cedere, in alcuni anni, il proprio posto alla festa dell’Epifania. Non
per questo essa manca di una propria individualità, la quale è così indicata
dai “Praenotanda” (n. 95) della nuova edizione del Lezionario festivo: «Le
letture [bibliche] trattano del mistero dell’incarnazione”. È questa una
prima chiave di lettura del messaggio biblico-liturgico. Un’altra e più
appropriata chiave di lettura viene offerta dalla colletta proposta per
questa domenica dall’ultima edizione del messale: in essa viene ribadito il
mistero del Natale come presenza di Gesù quale “sapienza incarnata” (cf
1a lettura) e come realtà fattuale per la quale il Padre, per mezzo di lui,
“ha piantato in mezzo a noi la sua tenda” (cf 3a lettura, v. 14). In questa
presenza di Gesù si manifesta la grande «benedizione spirituale con la
quale Dio ci ha benedetti in Cristo» (2a lettura, v. 3) in un disegno d’amore
in cui “ci ha scelti prima della creazione del mondo” (v. 4), da sempre
volendoci suoi «figli» (v. 5) ed eredi del regno in Cristo Gesù.
È sulla scorta di queste indicazioni che ascoltiamo il messaggio
che la liturgia legge nei testi biblici proposti in questa domenica.
La
liturgia
a/ LA «TENDA» DI DIO NEL VERBO INCARNATO E NELL’UOMO
ripropone l’utilizzo per questa domenica del medesimo brano evangelico (il
«prologo» del IV Vangelo) della «messa del giorno» di Natale. Di esso
abbiamo già dato una lettura in AsP C/1, pp. 101-107, rilevando che esso
annuncia nel contempo la divinità e l’umanità di Gesù, il quale ci ha
rivelato l’amore e la parola del Padre, in tal modo facendosi «luce» e
«vita» dell’uomo. La colletta di oggi invita ad approfondire l’affermazione
evangelica: “Il verbo venne ad abitare in mezzo a noi” (v. 14b), un testo
nel quale l’inno giovanneo al Logos raggiunge il suo vertice teologico.
Tale testo esprime al meglio il proprio significato se vengono
messe a frutto tutte le valenze del greco «eskenosen». Il quale è tradotto
correttamente con «venne ad abitare», ma ancor più significativamente
esplicitando la sua valenza etimologica: «Venne a porre la sua tenda»;
inoltre, la forma verbale utilizzata indica un’azione che si è compiuta nel
passato, ma il cui effetto perdura nel presente e dunque il senso è: “Venne
a porre la sua tenda e la sua tenda rimane tuttora in mezzo a noi”.
L’immagine della «tenda» rinvia automaticamente all’AT e anzitutto
alla «tenda di convegno», il luogo che in origine serviva all’incontro di
Jhwh con Mosè per dare a lui e al popolo istruzioni e direttive (Es 26,1-14;
33,7-11). Tale “tenda” era anche il luogo dove Dio si rendeva presente nel
segno della “nube” e faceva risiedere la sua «gloria» (cf Es 40,34-35); era
altresì il luogo dell’”abitazione” di Dio in quanto ospitava l’«arca
dell’alleanza», la quale era immaginata come il trono in cui si assideva Dio
(2Sam 6,2). Israele, però, non ebbe mai l’idea d’una presenza reale, fisica,
di Dio in mezzo a lui: la stessa «shekinah» consisteva in una sorta di
presenza incorporea, tanto che nel tardo giudaismo il termine veniva
adoperato come sostitutivo del nome divino: «Se due si riuniscono insieme
per dedicarsi alle parole della Torah, la shekinah è presente» (Pirke Abot,
III, 3; cf Mt 18,20). Il profetismo annuncia una più realistica abitazione di
Dio in Sion (Gl 4,21), nel tempio (Ez 43,7) e anche in mezzo al popolo (Zc
2,14), ma il suo avveramento è annunciato per un indefinito «giorno del
Signore» (Gl 4,15.17).
Ciò che l’ebraismo aveva intuito ma non conosciuto, il Vangelo (v.
15) lo annuncia avverato in Gesù. La persona del Verbo incarnato è la
nuova tenda della nuova alleanza, il vero luogo della presenza di Dio: in
Gesù «abita corporalmente la pienezza della divinità» (Col 1,9). Gesù è
«l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), «l’impronta della sua sostanza»
(Eb 1,3); perciò il «Dio che nessuno ha mai visto» (Gv 1,18) può essere
veduto da ogni uomo in Gesù. Inoltre, “nascendo da Maria Vergine, egli si
è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi, tranne che nel peccato”.
“Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”
(Gaudium et spes del Vaticano II, n. 22, che forse interpreta così il greco
«pose la sua tenda “in noi”»). «Il Figlio di Dio ha percorso la via di una
reale incarnazione per rendere tutti gli uomini partecipi della vita
divina» (Ad gentes, n. 3).
Sono, questi, alcuni aspetti del realismo del modo con il quale Dio
in Cristo ha posto e mantiene la sua “tenda”. Il Padre l’ha collocata nel
Verbo che si è incarnato. Questi, a sua volta, l’ha collocata nel nuovo
popolo dell’alleanza. A coloro che accolgono il Verbo così incarnato è dato
di «potere diventare figli di Dio» (v. 12; cf antifona dopo la comunione). C’è
in questo - come in nuce - l’intero mistero e tutta la verità del Natale.
b/ LA «SAPIENZA» DI DIO E IL VERBO INCARNATO
La 1a lettura riferisce, sia pure parzialmente, il «discorso» che la
Sapienza fa riguardo a se stessa. Questo testo costituisce il punto centrale
del libro del Siracide e presenta, più di altri brani sapienziali (cf Pro 8,1-3;
Bar 3,9-4,4; Sap cc. 6-9), molteplici raccordi con l’odierno brano
evangelico, in particolare circa l’esistenza ab aeterno del Verbo e della
Sapienza (rispettivamente Gv 1,1 e Sir 24,9), la funzione illuminatrice di
entrambi (Gv 1,4 e Sir 24,32) e il loro «porre la tenda» nell’uomo (Gv 1,14
e Sir 24,8.10). Per questi motivi gli esegeti sono soliti ritenere che Sir c. 24
conferisca una connotazione sapienziale all’odierno brano evangelico. È in
questa prospettiva che la liturgia di questa domenica propone i due brani
accostati l’uno all’altro.
La teologia veterotestamentaria riguardante la «sapienza» è una
delle più difficili a sintetizzare perché si è evoluta all’interno dello stesso
AT sia nei libri storici che in quelli profetici prima di esplicitarsi e precisarsi
in quelli propriamente sapienziali (di composizione più tardiva).
Inizialmente la sapienza fu intesa come abilità manuale (Es 31,5), poi
come astuzia (2Sam 13,3), in seguito come riflessione sull’agire dell’uomo,
per finire per rimbalzare su Dio, «il solo sapiente» e “creatore della
sapienza” (Sir 1,6.7). Il raccordo tra la Sapienza e Dio è delicato anche
perché essa viene concepita nel contempo come unita intimamente a Dio
e da lui distinta: perciò il NT vi riconosce sia lo Spirito Santo che il Verbo,
come ritiene anche il prologo del Vangelo di Giovanni.
Particolarmente significativo è nella liturgia odierna il parallelo
dell’«abitazione» della Sapienza: essa “pianta la tenda in Giacobbe” (v. 8),
capostipite del popolo di Dio, esercita il culto nella “tenda santa” (v. 10),
dimora stabilmente “nella città amata” da Dio (v. 11) e si radica nel
«popolo, eredità del Signore» (v. 12). Queste affermazioni della 1a lettura
sarebbero meglio comprese se ricollocate nel contesto dell’intero
“discorso” che la Sapienza tiene in Sir c. 24 - ove essa dichiara di essersi
“radicata” in tutto il popolo (dal nord al sud, dalla montagna alla pianura,
vv. 13-14) - e della riflessione dell’autore che identifica la Sapienza con la
legge di Mosè (vv. 22ss).
Se, dunque, la Sapienza può, sotto alcuni aspetti, essere
identificata con il Verbo di Dio, sotto altri se ne diversifica, così lasciando
aperta la via alla pienezza della rivelazione neotestamentaria, da quella
antica annunciata e avviata. La “legge di Mosè” fu, nel suo tempo “santa e
santo e giusto e buono” fu il suo “comandamento” (Rm 7,12), e tuttavia
essa esercitò soltanto il ruolo di “pedagogo che conduce a Cristo”, “in
attesa della rivelazione della fede” (Gal 3,23-24), per la quale «la grazia e
la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo» (3a lettura, v. 17). E
Gesù, “il Figlio unigenito che è nel seno del Padre”, «ci ha rivelato» quel
“Dio che nessuno aveva mai visto” (v. 18) prima di lui, in tal modo
portando a pienezza la funzione rivelatrice della Sapienza
veterotestamentaria.
L’”illuminazione” portata da Gesù non consiste né in una serie di
cognizioni né, tanto meno, di precetti, ma appunto nella “rivelazione” della
realtà di Dio nel quale Cristo rende visibile «l’immagine» (2Cor 4,4). Gesù
è “uscito dal Padre e venuto nel mondo” (Gv 16,28) con maggior realismo
di quanto la Sapienza non sia “uscita dalla bocca dell’Altissimo”, (v. 3) e
costituisce l’«immagine» adeguata di Dio perché è “l’Unigenito del Padre,
pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
Parimenti a motivo della consustanzialità con il Padre, Gesù porta
ad esaurimento e nel contempo conduce a verità l’opera illuminatrice della
legge di Mosè e dà inizio al tempo della «grazia» e della «verità» (Gv
1,17). Ormai soltanto Gesù è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Il
«salmo responsoriale» canta questa novità, che dà gloria a Dio e gioia
all’uomo.
Il movimento - insieme profetico ed escatologico della teologia
veterotestamentaria della Sapienza - arricchisce, così, di ulteriore
illuminazione il mistero della nascita di Gesù.
c/ LA NOSTRA “BENEDIZIONE SPIRITUALE” IN CRISTO
La 2a lettura riferisce la più estesa e articolata delle «benedizioni»
(= eulogie) del NT, formulata nello stile di quelle dell’AT e del giudaismo. Il
testo della «benedizione» deve, probabilmente, la sua origine alle chiese
protocristiane giudeo-ellenistiche, dove Paolo l’apprese e da dove lo
trasferì nella lettera (quella «agli Efesini») indirizzata alle chiese paganoellenistiche. Anche questo testo (come quello del «discorso» della
Sapienza) viene riferito dalla liturgia in forma abbreviata, recuperandone
tuttavia il tema fondamentale - il disegno divino della salvezza- e le
articolazioni essenziali: la «benedizione» (vv. 3-6), il “ringraziamento” (vv.
15-16) e la “preghiera” (vv. 17-18). La nostra lettura considera soprattutto
il testo proposto dalla liturgia, ma non può trascurare l’interezza della
pericope.
Essa, infatti, si articola (secondo la «Bibbia di Gerusalemme») in
sei «benedizioni» le quali, mentre esprimono la motivazione per la quale
Dio viene benedetto, esplicitano l’opera da lui compiuta: 1/ Dio ci ha eletti
perché fossimo santi mediante l’amore ricevuto dal Padre e donato ai
fratelli (v. 4); 2/ Dio ci ha da sempre destinati a diventare, così, suoi «figli
adottivi» (vv. 5-6); 3/ Dio ha realizzato nella storia quest’opera salvifica
mediante la croce di Gesù (vv. 7-8); 4/ in Gesù ci è stato rivelato «il
mistero della volontà» divina, che è la salvezza dell’uomo, anzi del cosmo,
in lui (vv. 9-10); 5/ in Cristo viene salvato Israele, ora sì davvero “erede”
dei beni di Dio (vv. 11-12); 6/ in Cristo vengono salvati perfino i pagani
(Rm 16,25-26; Ef 3,5.9-10; Col 1,26-27), i quali diventano anch’essi
«eredi» per il «suggello dello Spirito Santo» (vv. 13-14).
Questa epifania salvifica viene chiamata da Paolo «benedizione
spirituale» (v. 3), cioè conforme a ciò che è lo Spirito Santo dal quale
proviene. Nello Spirito Santo sono tutti i beni e i doni di Dio, i quali venendo a noi - danno corpo alla “benedizione” di Dio e ci conducono alla
«rivelazione», alla “conoscenza”, alla «illuminazione» e alla “sapienza” (vv.
17-18). Più che in singoli doni o carismi, la «benedizione spirituale»
consiste nel dono dello stesso Pneuma (H. Schlier), per il quale i cristiani
ottengono con verità e pienezza la promessa fatta da Dio ad Abramo (cf.
Gal 3,14).
Il testo della pericope evidenzia ripetutamente che tale
“benedizione spirituale» dataci da “Dio Padre” (v. 1) si realizza mediante
Cristo, anzi “in Cristo”, come Paolo ama esprimersi per indicare Cristo
come il luogo - fisico e storico - di ogni opera del Padre. «In lui» il Padre ci
ha scelti (v. 4); “in lui abbiamo la redenzione” (v. 7); “in lui” ci è rivelato «il
mistero della volontà» di Dio (v. 9); “in lui siamo stati fatti eredi” (v. 11); «in
lui» anche i pagani hanno “ascoltato il Vangelo, parola di verità” (v. 13).
C’è, dunque, una concentrazione del disegno del Padre e dell’opera dello
Spirito Santo in Cristo. In Cristo tutto giunge a verità, a realizzazione e a
compimento: a “ricapitolazione” (v. 10). Quanto Giovanni afferma con il
linguaggio teologico-raffigurativo della «tenda» viene esplicitato da Paolo
in linguaggio teologico-espositivo in questa “benedizione”.
E come si presenta la triade della realtà divina Padre-Figlio-Spirito
Santo, così si presenta la triade dell’essenza cristiana: «la fede nel
Signore Gesù” (vv. 15.13), “l’amore” (vv. 4.15) e la “speranza alla quale
siamo stati chiamati” (vv. 18.12). L’atteggiamento cristiano nei confronti
del piano divino di salvezza si esprime nell’accoglienza di esso mediante
la fede, nell’inserimento in esso mediante l’amore e nell’affidamento ad
esso mediante la speranza. Si ripete, così, nella vita del cristiano il mistero
trinitario: la fede nel Padre, l’amore dello Spirito, la speranza in Cristo (v.
12). Si ripete altresì il mistero del Natale riproclamato dal “Credo”: Gesù,
«unigenito Figlio di Dio», “per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel
seno della Vergine Maria e si è fatto uomo (...) per noi e per la nostra
salvezza”.
A partire dal Natale “abita” definitivamente “in noi” Cristo,
“sapienza” che ci rivela il Padre e dona la “benedizione” dello Spirito
Santo.
3. MEDITATIO
a/ IL SENSO DELL’ANNUNCIO
“Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e
fondati nell’amore, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia
l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di
Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate colmati di tutta la
pienezza di Dio» (Eb 3,17-19).
In Cristo, infatti, come ci annuncia la 2a lettura, Dio “ci ha scelti
prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo
cospetto nell’amore” (v. 4), un amore reso possibile, creato da Dio stesso,
mediante il suo Spirito che fa dimorare nell’uomo il Verbo fatto carne.
Giungiamo così alla pienezza rivelativa dell’odierno testo evangelico. Un
apice che Giovanni ripropone nella sua prima lettera:
«Ciò che era fin da principio, ciò che abbiamo udito... ossia il Verbo
della vita (poiché la vita si è manifestata, noi l’abbiamo veduta e di ciò
rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre
e si è manifestata a noi), quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunziamo
anche a voi, perché siate in comunione con noi. La nostra comunione è col
Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1,1-3).
E come Gesù- dopo aver dato ai discepoli il comandamento di
amare come lui stesso ci ha amati e dopo aver detto che proprio
l’obbedienza a questo suo comandamento consente l’inabitazione in lui e
nel Padre e viceversa - dice: «Questo vi ho detto perché la gioia che è in
me sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11), così anche Giovanni
continua la sua lettera dicendo subito dopo: “Queste cose vi scriviamo
perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,4). Essere nell’allegrezza a
motivo della comunione con il Padre e con il Figlio nello Spirito “koinonia”
che fonda l’amore reciproco e verso ogni creatura, equivale a vivere in
pienezza una vita che neppure la morte può sopprimere.
b/ IL FONDAMENTO DELL’ANNUNCIO
Il comunicare che «la Parola si è fatta carne ed ha posto la sua
tenda in noi» (3a lettura, v. 14) indica non soltanto l’abbassamento di Dio,
la sua “condiscendenza” verso l’uomo, ma riconduce la comunità dei
credenti a prendere coscienza di essere comunità amata da Dio, così
come nella 1a lettura (v. 11) la Sapienza stessa dice di Dio: “Nella città
amata mi ha fatto abitare”, riferendosi però in Giovanni non più solo a
Gerusalemme e a Israele, ma all’intera umanità.
E come coloro che hanno creduto in Cristo hanno potuto
contemplare la sua gloria, così Gerusalemme ha potuto vedere in questa
presenza amante di Dio in essa la gloria della Sapienza, la gloria di Dio
stesso. Per questo, ancora, «la grazia e la verità» che vennero per mezzo
di Gesù Cristo (3a lettura, v. 17) non sono altro se non quella “grazia
riservata ai suoi eletti”, i quali sono coloro che «confidando in lui
comprenderanno la verità; coloro che, essendogli fedeli, vivranno presso
di lui nell’amore» (Sap 3,9). Il mistero dell’«inabitazione» è dunque un
evento di amore da parte di Dio, ma solo l’adesione vitale alle parole di
Gesù consente alla comunità dei credenti di divenire dimora trinitaria
abilitata a vivere nella carità fraterna e nell’amore del Signore che ricrea e
che salva.
Adesione ad un amore preveniente che unico costituisce la
comunità umana quale comunità di fratelli, figli di Dio. Non un legame di
sangue o affinità o simpatie o comunanza di ideali costituiscono la
comunità del Signore, ma solo Dio e Dio stesso. In tale vita di comunione,
anche ciò che è “nostro” diventa non più nostro se non è anche di Dio,
generato da lui (cf Mt 12,48-50). Pertanto non i legami umani sono il
criterio dell’appartenenza al Signore e della solidità e autenticità della vita
evangelica delle comunità cristiane e della chiesa, ma l’accogliere l’amore
del Padre nella sua Parola che si è fatta fragile, debole, in mezzo a noi,
uno di noi, carne come noi.
Proprio e solo se non ci scandalizziamo di questa umana, sua e
nostra, fragilità, potremo contemplare la sua gloria, vale a dire il suo
spessore di amante fino al dono totale di sé. Ecco perché la croce è il
luogo della compiuta manifestazione della gloria del Figlio e del Padre.
Solo così, lasciandosi amare, le tenebre potranno lasciarsi rischiarare
dalla Luce che è venuta per illuminare ogni uomo; solo così il mondo può
riconoscere per mezzo della Parola, da cui esso ha preso forma, Colui che
lo ha creato, e coloro che credono nel suo nome possono diventare in lui
figli di Dio, «figli nel Figlio».
A lui Giovanni Battista rende testimonianza, accettando di vedere
nella fragilità della carne di Gesù «l’Agnello che porta e toglie i peccati del
mondo» (Gv 1,29), ritrovando nel Figlio di Dio che si è rivestito di
debolezza e che per la sua debolezza è stato crocifisso (cf 2Cor 13,4) la
sua stessa fragilità, ma assunta e salvata. Come Giovanni Battista, il
credente è colui che accetta con gioia di diminuire affinché Cristo cresca
(cf Gv 3,29-30) fino a partorire in sé il Verbo.
c/ NELLA VITA DEL CRISTIANO
I Padri della chiesa, da Origene e Agostino fino a Bernardo e
Lutero, hanno per questo esclamato unanimi: «Cosa giova a me che Cristo
sia nato una volta a Betlemme da Maria se non nasce oggi nel mio cuore?». E S.
Agostino scrive: «La Madre lo portò nel grembo, noi portiamolo nel cuore; la
Vergine divenne gravida per l’incarnazione di Cristo, divenga gravido il nostro
cuore per la fede in Cristo; ella partorì il Salvatore, partorisca la nostra anima
la salvezza e la lode. Non siano sterili le nostre anime, ma siano feconde per
Dio”. Questo è possibile per ciascuno, perché «la Parola si è fatta carne ed
ha posto la sua tenda in noi», fino a che possiamo esclamare con Paolo:
“Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io
la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso
per me” (Gal 2,20).
Anche l’epilogo del IV Vangelo (21,20ss) è segnato dalla presenza
del “discepolo che Gesù amava”, destinato a restare sempre, fino al
ritorno del Signore: l’evangelo della salvezza annunciato da Giovanni si
apre e si chiude, da un lato, con l’immagine dell’umanità amata da Dio e
perciò fatta dimora del Verbo, da cui riceve la luce e la vita, e dall’altro con
quella del discepolo amato, figura di ogni discepolo, e proprio in quanto
amato destinato a restare sempre, fino al ritorno di Cristo e, se avrà
vissuto nell’amore, per l’eternità, perché “la carità non avrà mai fine” (1Cor
13,8).
In tale prospettiva Gesù è presentato da Giovanni come “luce che
splende nelle tenebre” (v. 5), ma nella sua prima lettera Giovanni afferma
che questa luce è l’amore stesso di Cristo, che ci purifica da ogni peccato
e ci fa essere in comunione gli uni con gli altri (1Gv 1.7). Questa è la
pienezza di cui il credente è chiamato ad essere colmato e “la pienezza da
cui abbiamo ricevuto grazia su grazia” (3a lettura, v. 16). L’orizzonte però
si restringe: dall’umanità alla comunità dei discepoli, che, avendo creduto
all’amore di Dio in Cristo, sono chiamati a testimoniare e portare agli
uomini con il loro amore l’amore stesso di Dio (Gv 13,35).
Dio, infatti (come l’odierno testo evangelico sottolinea), è
comprensibile solo a partire dalle opere che egli compie nel mondo e nella
storia degli uomini: egli è colui che ha “creato tutto ciò che esiste”, è «la
vita» e “la luce degli uomini”, è colui in cui tutti sono chiamati a credere,
che è venuto nel mondo ma che «il mondo non ha riconosciuto», che “è
venuto tra i suoi ma che i suoi non hanno accolto”, che “a coloro che lo
hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”... Dio, cioè, è un Diocon l’uomo, è l’Emmanuele, ed è conoscibile soltanto se lo si accoglie
nella nostra povera vita e storia umana, in cui egli agisce e opera sempre,
in questo mondo che Dio ama e in questa terra che ha dato il suo frutto
proprio generando il Figlio, che ricapitola in sé tutte le cose.
Oggi, dunque, il giorno della salvezza; oggi il giorno in cui il
Signore rivela nel Verbo incarnato il suo amore per gli uomini; oggi il
giorno in cui, poiché la Parola si è fatta carne, si adempie per noi la
profezia che “ogni carne vedrà la salvezza di Dio” (Is 40,5 e Lc 3,6).
COLLATIO
Oggi siamo chiamati a contemplare:
1/ L’amore del Padre nel farsi carne del Verbo suo Figlio.
2/ La mendicità di un Padre che nel «Figlio non ha dove posare il
capo» (Lc 9,58), e bussa di porta in porta. A chi apre, a quanti accolgono è
dato diventare dimora di Dio.
3/ Un Dio che nel Figlio si rivela al nostro profondo e alla nostra
fragilità come amore, come Presenza che depone in noi lo Spirito
dell’amore divenendo così creature e comunità agapiche verso tutti.
Questo è essere nella luce e nella vita.
4/ Non resta che il “sì” accompagnato da una ininterrotta
narrazione fra gli uomini di questo grande mistero d’amore: il sogno divino
di fare di ogni carne la sua tenda per rischiararla e dilatarla con il suo
sconfinato amore.
a/ “SAPIENZA”
«O Sapienza che esci dalla bocca dell’Altissimo e tutto disponi con forza e
dolcezza, vieni a insegnarci la via della vita».
“Ho visto brillare la stella luminosa, che mi indicava la culla del mio Re.
Nella pace e nel mistero della notte verso di me sembrava camminare. Poi
colma di incanto, udii la voce dell’Angelo di Dio che mi diceva: “Raccogliti, il
mistero si è compiuto, proprio dentro di te, nella tua anima. Gesù, splendore
del Padre, in te si è incarnato, stringiti il tuo Diletto insieme alla Vergine
Maria “.
(B. Elisabetta della Trinità)
b/ NEL CUORE DELLA NOTTE
Cristo è nato: Dio dal Padre, uomo dalla madre; dall’immortalità del Padre,
dalla verginità della Madre; dal Padre senza madre, dalla madre senza padre;
dal Padre al di fuori del tempo, dalla madre senza seme; dal Padre come
principio di vita, dalla madre per porre fine alla morte.
Non possiamo ancora contemplare la sua generazione dal Padre prima della
stella del mattino; celebriamo la sua nascita, nel cuore della notte, dalla
Vergine. (S. Agostino)
c/ “IL SIGNORE È IN MEZZO A TE”
Gioisci, figlia di Sion, esulta Israele,
rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!
Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele
è il Signore in mezzo a te, Tu non vedrai più la sventura.
Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per
te, ti rinnoverà col suo amore, e si rallegrerà per te con grida di gioia. (Sof
3,14-18a)
d/ IN NOI LA SUA DIMORA
Viene detto in generale per la chiesa, in modo speciale per Maria,
in particolare anche per l’anima fedele dalla stessa Sapienza di Dio che è
il Verbo del Padre: «Fra tutti questi cercai un luogo di riposo e nell’eredità
del Signore mi stabilii» (1a lettura, v. 12).
“Eredità» del Signore in modo universale è la chiesa, in modo speciale è Maria,
in modo particolare ogni anima fedele. Nel tabernacolo della fede della chiesa
sino alla fine del mondo, nella conoscenza e nell’amore dell’anima fedele per
l’eternità. (B. Isacco della Stella)
Dolcezza degli angeli, gioia degli afflitti,
avvocata dei cristiani, Vergine Madre del Signore,
proteggimi e salvami dalle sofferenze eterne.
Maria, il purissimo turibolo d’oro, ha contenuto l’eccelsa Trinità!
In lei il Padre si è compiaciuto, il Figlio ha abitato e lo Spirito Santo,
avendoti adombrata, o Vergine,
ti ha resa Madre di Dio.
(Anonimo del VII sec.)
e/ «PROFONDO, INEFFABILE MISTERO»
Per mostrare la piena del suo amore discende fino a noi l’Onnipotente
e un cuore cerca che voglia comprenderlo per stabilire in lui la sua dimora. Per
attuare il sogno suo d’unione con le creature
annulla ogni distanza ed ecco balza dal fondo del cielo
per fondersi con noi in ogni istante.
O profondo ineffabile mistero! A me s’appressa l’essere increato
sì che fin da ora posso contemplarlo
al chiaror della fede, in ogni cosa.
(B. Elisabetta della Trinità)
“Come potremo ricambiare nel modo dovuto
una degnazione così grande? E così piena d’amore?...
Colui per mezzo del quale l’uomo è stato fatto
non aveva bisogno di divenire uomo;
mentre noi avevamo la necessità
che Dio diventasse uomo e abitasse in noi,
cioè assumendo l’umanità vivesse dentro di noi”. (S. Ilario di Poitiers)
f/ PREGHIERA
O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi completamente
per stabilirmi in te, immobile e tranquilla, come se l’anima mia già fosse
nell’eternità! Che nulla possa turbar la mia pace, né ritrarmi da te, o mio
immutabile, anzi che ogni istante mi porti più addentro nella profondità del
tuo mistero!
Pacifica la mia anima, fanne il tuo cielo, la tua dimora gradita e il luogo
del tuo riposo: che io non ti lasci mai solo, ma che vi stia tutta intera, sempre
desta nella fede, sempre adorandoti, tutta abbandonata alla tua azione
creatrice.
O mio Cristo amato, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per
il tuo cuore, vorrei colmarti di gloria, vorrei amarti tanto... da morirne. Ma
sento la mia impotenza e ti chiedo di rivestirmi di te stesso, di identificare
l’anima mia a tutti i movimenti della tua. Vieni in me come adoratore, come
riparatore e come salvatore.
O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la vita ad ascoltarti,
voglio rendermi perfettamente docile per apprender tutto da te; poi,
attraverso tutte le notti dello spirito, tutti i vuoti, tutte le impotenze, voglio
fissarti sempre e rimanere nella tua luce immensa. O Astro mio amato,
affascinami, così ch’io non possa più ritrarmi dal tuo chiarore.
Fuoco consumante, Spirito d’amore, discendi in me affinché nell’anima
mia si faccia come un’altra incarnazione del Verbo: che io gli sia umanità
aggiunta nella quale egli rinnovi tutto il suo mistero.
E tu, o Padre, degna curvarti su questa povera piccola creatura,
coprirla con la tua ombra: non vedere in essa che il tuo diletto nel quale hai
posto tutte le compiacenze.
O miei “Tre”, mio tutto, mia beatitudine, solitudine infinita, immensità
in cui mi perdo, mi abbandono a voi, nell’attesa di giungere a contemplare nel
vostro splendore l’abisso delle vostre grandezze. (B. Elisabetta della Trinità)
5. OPERATIO
La liturgia di oggi vuole aiutarci a rimeditare il mistero del Natale, in
termini forse meno emotivi e più sapienziali. Vengono adoperati, infatti,
testi biblici pacati e solenni, frutto essi stessi di elaborate sedimentazioni
teologiche. Sembra quasi che la chiesa, preoccupata che le feste natalizie
abbiano preso una piega un tantino più allegra del dovuto, voglia
provocarci a supplementi di riflessione, a scavi interiori e a più esigenti
prese di posizione.
Non possiamo, ovviamente, consumare tutte le vivande che oggi ci
vengono approntate sulla tavola della Parola. Ce ne sono in abbondanza
come non mai: non per nulla siamo ancora nel clima del Natale! Faremo
perciò una selezione, resa obbligatoria dall’esigenza di dovercene andare,
al termine della messa, con un forte tema generatore nella mente, che non
ci lasci disorientati in mezzo a tanta ricchezza e ci nutra per l’intera
settimana.
Svilupperemo, allora, questo messaggio: “Gente, Dio ha posto la
sua tenda in mezzo a noi. Siamo liberi di accoglierlo o di rifiutarlo. Se lo
accogliamo, però, la vita finalmente acquisterà senso per tutti!”.
a/ DIO HA POSTO LA SUA TENDA IN MEZZO A NOI
È un messaggio che, se non ci fa trasalire più, è perché non scorre
sulle coordinate del coinvolgimento esistenziale, della carica emotiva e
dell’intuizione del dono. Diciamocelo con franchezza: quello della
coabitazione, anzi della “inabitazione” di Dio tra gli uomini, è un annuncio
spento anche per molti cristiani.
Se una comunità di sieropositivi si insedia tra i palazzi dei ricchi, si
scatena il rifiuto. Un centro di accoglienza per tossicodipendenti provoca
reazioni per chi vi abita accanto. Quando una famiglia di marocchini viene
ad abitare in un condominio, spesso è tutto il palazzo che si ribella.
Quando gli zingari impiantano i carrozzoni nelle adiacenze di ville
appartenenti a persone “perbene”, è un’iradiddio generale.
Per il verso contrario, si fa a gara per accaparrarsi, accanto alle
proprie abitazioni, i servizi più importanti, si specula al limite della illegalità
pur di avere un impianto che valorizzi la zona dove si abita. A chi chiede
l’indirizzo di casa si aggiunge con fierezza che a pochi metri di distanza
c’è la villa di Gianni Morandi o il residence di Maradona.
Ma la notizia che Dio diventa nostro coinquilino non ci fa
organizzare né cortei di protesta né fuochi d’artificio per la gioia. Perché
questa apatìa? Come ricogliere lo stupore dell’annuncio che Dio «ha posto
la sua tenda in mezzo a noi?» (3a lettura, v. 14).
Oggi è il momento buono per far comprendere tutto lo spessore di
questa notizia che rasenta l’assurdo, anzi lo sorpassa.
b/ LIBERI DI ACCOGLIERLO O DI RIFIUTARLO
Ecco che all’improvviso questa domenica, che sembrava innocua,
ci mette con le spalle al muro, nella crocifissione della scelta più radicale
della nostra vita: accogliere o rifiutare che Dio collochi la sua «tenda in
mezzo a noi». Stringi stringi, è il vero “caso serio” dell’esistenza.
Che fare di fronte a questa provocazione? Denunciare Gesù come
abusivo? Aizzargli contro il malumore popolare perché disturba la quiete
pubblica? Rimetterlo in croce o metterlo in ridicolo? Far finta di niente,
tanto prima o poi si stancherà e andrà via?
Oppure accoglierlo con i segni della festa e sperimentare con lui i
misteri gaudiosi, gloriosi e dolorosi della vita?
Oggi, in questa messa, di fronte al macigno che ci ruzzola addosso
con le parole di Giovanni: “Venne tra la sua gente, ma i suoi non lo hanno
accolto” (v. 11), tutto ci è permesso fuorché rimanere neutrali.
c/ SE LO SI ACCOGLIE, LA VITA ACQUISTERA SENSO
“A quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio»
(v. 12). È in questa accoglienza che si gioca il senso del vivere.
Più che “senso”, è meglio dire «sapienza». Cioè sapore, gusto. Il
sale nella minestra: quello che manca oggi. Se Maria presenziasse con
Gesù, come un giorno in Cana di Galilea, ai nostri banchetti, non direbbe
più: «Figlio, non hanno più vino» (Gv 2,3), ma direbbe: «Figlio, non hanno
più sale».
Si recupera a questo punto tutto il messaggio della la lettura sulla
“sapienza”. Essa è un dono che Dio manda sulla terra perché, «dopo aver
officiato nella tenda santa davanti a lui», venga finalmente a fare
compagnia agli uomini e «fissi la tenda in Giacobbe» (vv. 10.8).
Di questo senso, di questo orientamento decisivo, di questo intimo
significato delle cose, di questo profondo «perché», oggi sentiamo tutti un
incredibile bisogno.
Scoprire, sotto lo scorrere dei grani del tempo, il filo nascosto che
articola i giorni, senza frantumarli in monadi chiuse. Leggere sotto la
scorza degli avvenimenti, tristi o luttuosi, la tensione ultima che li lega al
Regno. Udire la voce segreta che geme nell’universo, sofferente per i
travagli del parto. Intuire che i frammenti di gioia che si sperimentano
quaggiù fanno parte di un mare di felicità, in cui un giorno faremo tutti
naufragio. Percepire che il nostro vuoto può essere riempito solo “dalla
sua pienezza” (3a lettura, v. 16).
È così grande il dono, che S. Paolo sente il bisogno di chiedere per
tutti da Dio questo “spirito di sapienza” (2a lettura, v. 17). A noi non resta
che augurarci che “possa egli davvero illuminare gli occhi della nostra
mente per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati” (v. 18).
Se le cose stanno così, benvenuta “tenda di Dio in mezzo a noi”!
DIO NESSUNO MAI L’HA VISTO: L’UNIGENITO DIO,
CHE È VERSO IL GREMBO DEL PADRE, EGLI L’HA NARRATO 1,1-18
1,1 In principio era la Parola e la Parola era verso Dio
e la Parola era Dio.
2 Questa era in principio verso Dio
3 Tutte le cose furono (fatte) per mezzo di lei e senza di lei
neppure una cosa fu (fatta), in ciò che è stato (fatto)
4 (essa) era vita e la vita era la luce degli uomini;
5 e la luce splende nella tenebra
e la tenebra non la afferrò.
6 Ci fu un uomo inviato da Dio, Giovanni il suo nome.
7 Questi venne per una testimonianza,
per testimoniare sulla luce,
affinché tutti credessero Per mezzo di lui.
8 Non era lui la luce, ma per testimoniare suila luce.
9 (La parola) era la luce vera
che ìlìumìna ognì uomo venendo nel mondo.
10 Nel mondo era
e il mondo fu (fatto) per mezzo di lei-,
e il mondo non la (rì)conobbe.
11 Venne nella sua proprietà e i suoi non la presero.
12 Ma a quanti la accolsero
ad essi diede il potere di diventare fìgìì dì Dìo,
a coloro che credono nel suo nome;
13 i quali non da sangue, né da volontà dì carne,
né da volontà di uomo, ma da Dio furono generati
14 E la Parola divenne carne e sì attendò tra noi;
e contemplammo la sua gloria,
gloria di Unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
15 Giovanni testìrnohìa di ìui e ha gridato dicendo:
Questi era colui dei quale dissi:
Colui che viene dopo di me
è diventato davanti a me perché era prima di me.
16 Infatti dalla pienezza di lui
noi tutti accogliemmo grazia su grazia;
17 poiché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità fu per mezzo di Gesù Cristo.
18 Dio nessuno mai l’ha visto:
l’unigenito Dio, che è verso il grembo dei Padre,
egli l’ha narrato.
1. Messaggio nel contesto
«Dio nessuno mai l’ha visto: l’unigenito Dio, che è verso il grembo del
Padre, egli l’ha narrato». Vedere la madre è nascere, vedere Dio è venire alla
luce del proprio volto. Nostalgia di colui davanti al quale è se stesso, l’uomo è
desiderio di vedere Dio, suo volto nascosto. Ma nessuno l’ha mai visto,
perché, fin dall’inizio, Adamo gli ha voltato le spalle.
Non abbiamo di lui nessuna immagine, perché l’unica sua immagine e
somiglianza siamo noi, se stiamo davanti a lui. È lui il nostro «luogo naturale»:
altrove siamo fuori posto, doloranti come un osso slogato, estranei a noi stessi
e a tutto.
Gesù Cristo, l’unigenito Dio, che è verso il seno del Padre, con le sue
opere e parole, con la sua vita e morte, ci ha mostrato Dio, sino a dire: «Chi
ha visto me ha visto il Padre» (14,9). È infatti la Parola, che per questo è
diventata «carne».
Nel prologo l’evangelista, che secondo la tradizione chiameremo
Giovanni, dice che, come e perché Gesù è venuto a manifestarci questo Dio.
Lo fa solo annunciando i temi che saranno sviluppati nel seguito del libro.
L’inizio del Vangelo di Giovanni ci porta, con un colpo d’ala, sopra lo
spazio e oltre il tempo, al di là di ogni creatura, per mostrarci chi è Gesù,
l’uomo abilitato a pieno titolo a narrarci l’invisibile. Con sorpresa scopriamo
che colui che amava chiamarsi Figlio dell’uomo e si proclamò Figlio di Dio, è
la Parola che da sempre è presso il Padre ed è Dio. Essa, testimoniata,da
sapienti e profeti e mai conosciuta, divenne carne in Gesù, per rivelarci e
donarci la sua stessa gloria di Unigenito dal Padre, in modo che, in lui,
possiamo scoprire di essere figli di Dio.
Il prologo è come l’inizio di una sinfonia, in cui si preludono i motivi.
Nella storia della teologia è come una miniera di pietre preziose, da cui sono
state attinte le più importanti riflessioni sulla Trinità e sull’incarnazione. Si
tratta di un inno alla Parola, luce e vita di tutto, dove ciò che si dice apre alle
armonie dell’indicibile. Le sue radici, più che nella tradizione greca, pur
presente all’autore, affondano nell’AT, in quei testi che cantano la Parola e la
Sapienza creatrice, personificazioni di Dio all’opera nella natura e nella storia.
Leggendo questo inno si ha l’impressione di essere trasportati a volo
d’aquila verso un luogo elevatissimo eppure domestico; quasi fosse il nostro
nido, dove ci sentiamo a nostro agio,come a casa. È infatti nella Parola rivolta
al Padre che troviamo la nostra patria: il Padre stesso.
Solo alla fine del Vangelo si può capire pienamente il senso del
prologo: la prima parola di ogni discorso è comprensibile dopo l’ultima.
Tuttavia, come ogni libro, anche questo comincia e va letto dall’inizio, dove,
per farsi capire, l’autore usa parole note a tutti e altamente evocative, che nel
seguito saranno giocate in racconti nei quali esplicano le loro potenzialità
inesplorate. I termini del prologo, secondo l’ordine della loro prima comparsa,
sono: principio, essere, parola, Dio, tutto, nulla, essere fatto/divenire, vita,
luce, uomo, tenebra, afferrare, inviare, testimoniare, credere, mondo,
riconoscere, proprietà, prendere, accogliere, figli, sangue, carne, volontà,
generare, attendarsi, contemplare, gloria, unigenito, Padre, grazia, verità,
venire dopo/avanti/prima, legge, Mosè, Gesù Cristo, grembo, narrare.
L’argomento, del prologo è, dunque la «Parola», origine di ogni divenire, che a
sua volta divenne carne in Gesù Cristo, per farci divenire figli di Dio,
rivelandoci l’invisibile. L’azione di questa Parola sarà l’argomento di tutto il
Vangelo, nel corso del quale saranno svolti i temi qui accennati.
Nel Vangelo il termine Lógos (= Parola), personificato, esce solo nel
prologo, sino al v. 14, dove si dice che diviene carne per manifestarci la sua
gloria di Figlio unigenito. In seguito si parla di Gesù, dicendo perché e come si
fa nostro fratello.
Il testo si può articolare in molti modi secondo diversi criteri e
prospettive. Numerosissimi autori si sono cimentati ad analizzarlo, scoprendo
strutture concentriche, parallele, spiraliformi, discendenti/ascendenti o altro
ancora, evidenziando conseguenti divisioni. È bene comunque tenere
presente che ogni testo è sempre un textus, un tessuto, un intreccio, anzi
un’unità organica, un corpo vivo, dove ogni singolo elemento ha senso per la
sua funzione nell’insieme, in connessione con ciò che precede e ciò che
segue. Per questo è meglio parlare di articolazioni invece che di divisioni.
Senza entrare in merito al complesso problema, ciò che il prologo dice
è sufficientemente chiaro. L’inizio parla del Lógos presso Dio e del suo ruolo
nella creazione e nella redenzione, il centro del suo diventare carne in Gesù, il
finale del suo narrarci il Padre. Lo scopo di tutto è che noi, ascoltandolo e
accogliendolo, possiamo diventare figli di Dio.
Quel Gesù, che con segni e discorsi si manifesta a noi nel Vangelo, ci
potrà rac contare quel Dio che nessuno mai ha visto perché è la parola di Dio,
Dio stesso, che è diventato carne per dimorare tra noi. È autorizzato a
presentarci il Padre perché è «il» Figlio. Aderire o meno alla sua persona,
significa per noi accettare - o rifiutare la nostra verità di figli. Questo è il
giudizio che ogni uomo è chiamato a pronunciare sulla propria vita.
Come si vede, Giovanni presenta una «cristologia alta», che contiene
il vertice della comprensione che la prima Chiesa ha avuto di Gesù.
Accostandosi a questo testo, si ha l’impressione di aggirarsi ai piedi di
un massiccio altissimo, che va oltre le nubi, oltre il cielo stesso. È una
montagna inaccessibile: è il Dio ignoto, la Gloria invisibile, il Nome ineffabile.
Ci coglie un senso di stupore infinito, di vertigine abissale. Ma ci colma subito
di gioia il fatto che il monte è sceso a noi, l’indicibile è Parola, la Gloria ha il
volto del Figlio dell’uomo, il Nome si chiama Gesù. Tutto il Vangelo esporrà e
offrirà il dono di sé che Dio ci fa nella carne dei Figlio, nella quale vediamo la
Gloria di cui siamo il riflesso.
Quando conosceremo come siamo da lui conosciuti - ciò che ora
avviene solo imperfettamente, in specchio e per enigma (cf 1Cor 13,12) -,
allora lo vedremo faccia a faccia; il nostro volto risplenderà della sua luce e
saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è (cf. 1Gv 3,2b). Allora
«vedrò te nella tua bellezza e io mi vedrò in te nella tua bellezza. Che io
appaia te nella tua bellezza e tu appaia me nella tua bellezza, e la mia
bellezza sia la tua e la tua sia la mia; cosi io sarò te nella tua bellezza e tu
sarai me nella tua bellezza, poiché la tua stessa bellezza sarà la mia»
(Giovanni della Croce).
Gesù è la Parola che è presso il Padre, Dio stesso, vita e luce del
creato, che ha posto la sua tenda in mezzo a noi. È il Figlio unigenito,
diventato «carne» per narrarci il Padre e restituirci nel suo, il nostro volto di
figli.
La Chiesa è rappresentata dal «noi» di coloro che hanno visto la
Gloria, creduto nel suo nome, accolto la dignità di diventare figli e ricevuto
grazia su grazia.
2. Lettura del testo
v. 1: In principio era la Parola. «parola», in greco Lógos, era il termine
corrente per indicare la «ragione immanente del mondo». L’evangelista ne
arricchisce e specifica il contenuto, attribuendogli le caratteristiche della
«Parola» e della «Sapienza» di Dio, proprie della tradizione biblica.
La parola distingue l’uomo dall’animale. Principio di conoscenza e
comunicazione, di lavoro e trasformazione, di amore e libertà, può essere
volta in menzogna e inganno, distruzione e regressione, egoismo e
schiavitù.
Essa informa l’intelligenza e la volontà dell’uomo, determinandone
l’essere e l’agire. Sia nel bene che nel male, l’uomo diventa la parola che
ascolta. Essa è come un seme, che genera secondo la sua specie: la
parola di Dio ci genera figli di Dio.
La parola suppone uno che parla, si esprime e si dona, e un altro
che lo ascolta, lo imprime e lo accoglie dentro di sé. La parola implica due
persone che entrano in relazione, in dialogo. Essa nasce dall’amore di chi
parla, corrisposto da chi ascolta: è generata dall’amore e genera amore.
Per questo Dio, che è amore (cf 1Gv 4,8), è anche Parola.
L’inizio del Vangelo richiama Gen 1,1ss, dove si dice che «in
principio» Dio disse e ogni cosa «divenne». Qui l’evangelista afferma che,
quando il mondo ebbe inizio, la Parola già c’era; essa esiste già prima dei
mondo, da sempre: è Dio.
All’origine di tutto non sta la necessità o il caso, la costrizione o la
fatalità, l’azione o la produttività: c’è la Parola, che è volontà e razionalità,
amore e libertà, comunicazione e ascolto, domanda e risposta. Ciò che
c’era in principio caratterizza ciò che c’è ora e sarà in seguito: un modo
diverso di vedere Dio comporta un modo diverso di vedere l’uomo, e
viceversa.
e la Parola era verso Dio. In greco c’è un avverbio (prós), che significa
«presso», come di solito si traduce, ma anche «verso», che suggerisce
qualcosa di dinamico, tipico di ogni relazione. Preferiamo questa seconda
traduzione, più adatta al contesto. La parola, infatti, è sempre rivolta a
qualcuno.
Inoltre nel testo greco, davanti alla parola «Dio», c’è l’articolo «il»,
che in italiano non abbiamo tradotto. Nel NT «il Dio» indica «il Padre»,
mentre senza articolo è predicato (come nell’espressione seguente: «la
Parola era Dio»). La Parola, che si rivolgerà al mondo per crearlo e
salvarlo, è la medesima che da sempre è rivolta verso il Padre. Nell’unità
di Dio c’è alterità e distinzione, che si fa comunicazione e comunione nel
dialogo ineffabile Padre/Figlio.
e la Parola era Dio. Il Lógos, che poi sarà chiamato l’unigenito Figlio, è
Dio, uguale al Padre e distinto da lui. Si dice che la Parola è Dio, non che
Dio è la Parola. Infatti Dio non è solo Parola (= Figlio), ma anche Padre e
Amore tra i due.
Nell’AT la Parola e la Sapienza sono personificazioni da Dio, suoi
modi di essere. Qui la Parola è distinta da Dio, che è Padre: è rivolta a lui
e insieme uguale a lui. Dio è uno, ma non solo. Ancor prima della
fondazione del mondo, egli è relazione e dialogo; per questo la creazione,
da lui compiuta, avrà le sue stesse caratteristiche.
v. 2: questa era in principio verso Dio. Si ribadisce quanto già detto al v. 1
sulla Parola prima della creazione; si dirà subito dopo il suo ruolo nella
creazione.
v. 3a: tutte le cose furono (fatte) per mezzo di lei. «Tutte le cose» indica
l’universo, sottolineando che ogni singola realtà viene all’esistenza
mediante la Parola e ritrova in lei il proprio principio.
Il Lógos, come già detto, indicava per i lettori di Giovanni la
«ragione immanente del mondo», che lo tiene insieme e lo ordina: la
parola, oltre che distintivo dell’uomo, è il principio che regge l’universo.
Usando questo termine, l’evangelista entra in dialogo con la cultura greca;
ma nello stesso tempo lo arricchisce attribuendogli le caratteristiche
ebraiche della Parola (cf. Gen 1,1ss; Is 55,10s) e della Sapienza che sta
all’origine del creato (cf. Pr 8,22-31; Gb 28; Bar 3,9-4,4; Sir 24; Sap 6-9).
Il mondo è creato dalla Parola e dalla Sapienza che lo precede, lo
progetta e lo fa, dandogli il suo «imprinting» di alterità e relazione, di
ascolto e risposta, di accoglienza e responsabilità, di intelligenza e libertà.
Solo in quest’ottica l’universo è positivamente sensato, destinato alla vita e
alla felicità.
Si dice che Dio creò con le lettere dell’alfabeto. Questo vuol dire
che ogni realtà è comprensibile e comunicabile in parole. Chi sa «leggere»
può capire, interagire e portare tutto al suo senso pieno. Dio, che con la
Parola è principio di tutto, diventa il fine di tutto con l’uomo che la
comprende. Solo in lui, creato al sesto giorno, la Parola, all’opera sin dal
primo giorno, trova ascolto. Egli, con la sua risposta, porta il creato al
settimo giorno, al riposo di Dio, diventando lui stesso come la Parola.
La Parola creatrice non è un demiurgo o un’entità astratta, un Dio
dimezzato o un’idea: è Dio stesso, che fa ogni cosa mediante la sua
Parola, diventata carne in Gesù. «Tutte le cose sono state create per
mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose, e tutte sussistono
in lui» (Col 1,16b-17). Infatti è il Figlio, irradiazione della sua gloria e
impronta della sua sostanza (cf Eb 1,3a). Mentre del mondo si dice che
«fu fatto/divenne», perché ebbe un inizio, del Lógos si dice per ben quattro
volte che già «era». Tra l’essere e il nulla c’è il divenire o essere fatto.
e senza di lei neppure una cosa fu (fatta). Si ribadisce in negativo quanto
è stato appena detto, secondo un procedimento tipico dello stile ebraico.
«Tutte le cose furono (fatte) per mezzo di lei» corrisponde a: «Senza di lei
neppure una cosa fu (fatta)». La Parola è, dall’eternità, vita di ciò che
esiste nel tempo; «senza di lei», ogni realtà torna nell’abisso dei nulla di
sé, regredisce dall’essere al non essere (interessante l’interpretazione di
Origene: «Separato da lei, divenne nulla ciò che era stato fatto»).
Unico creatore è Dio: non c’è un principio buono e uno cattivo, uno
dello spirito e uno della materia, uno del bene e uno del male. Il bene e il
male non stanno nella creazione, ma nell’ascolto/risposta che l’uomo
accorda o nega alla Parola di cui essa è portatrice. All’origine tutto è
«buono» e l’uomo stesso «molto buono», perché depositario della Parola
(cf. Gen 1,4.10.12.18.21.25.31).
vv. 3b.4a: in ciò che è stato (fatto), (essa) era vita. La finale del v. 3 e l’inizio
del v. 4 presentano tre possibili divisioni del testo: «e senza di lei non fu
(fatta) nessuna cosa di ciò che è stato (fatto). In lei era la vita, ecc.»,
oppure: «e senza di lei non fu (fatta) nessuna cosa di ciò che in lei è stato
(fatto); era vita, ecc.», oppure: «senza di lei nessuna cosa fu (fatta). Ciò
che è stato (fatto), in lei era vita». Ognuna si presta a una interpretazione
propria. Scegliamo, con la maggior parte degli esegeti attuali, l’ultima
divisione, proponendo però la traduzione di X. Léon-Dufour: «In ciò che è
stato (fatto), (essa, ossia la Parola) era vita».
Il termine «vita» esce 37 volte nel Vangelo di Giovanni su un totale
di 133 nel NT, di cui 13 in 1Gv e 17 in Ap. Qui non significa la vita
biologica, che cessa con la morte. La vita è Dio stesso, dal cui soffio viene
l’esistenza dell’uomo (cf. Gen 2,7). Egli ha creato tutto per l’esistenza e
non c’è veleno di morte nelle creature (cf. Sap 1,14). La morte, fatta dalle
nostre mani e provocata dai nostri errori (cf Sap 1,12), è entrata nel
mondo per l’invidia del diavolo (cf. Sap 2,24), la cui bocca menzognera
uccide l’anima (cf, Sap. 1,11).
Già al centro dell’Eden Dio aveva posto «l’albero della vita» (cf.
Gen 2,9). Questa è legata fin dall’inizio all’ascolto della Parola (cf. Gen
2,16), come verrà esplicitato nell’alleanza con Israele (cf Dt 30,20).
Ascoltando Dio, siamo in comunione con lui e partecipiamo alla pienezza
della sua vita.
La Parola è rivolta non solo al Padre, ma anche al mondo: come è
amore e vita all’interno di Dio, è anche sorgente di amore e vita per ogni
creatura.
Gesù, Parola diventata carne, dispone della vita allo stesso modo
del Padre (cf. 5,26). Essa è infatti il dono pieno dei Padre al Figlio, che per
questo dirà: «Io Sono la vita» (14,6) e: «Sono venuto perché gli uomini
abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (10,10).
La vita, desiderio supremo dell’uomo, non è qualcosa da rapire: è
da ricevere come dono, che il padre dà al figlio. Possedere la vita in
proprio, staccandola dalla comunione con il padre, è negarne la sorgente:
è distruggere la propria identità di figli.
v. 4b: e la vita era la luce degli uomini. La Parola, ancora prima di diventare
carne in Gesù, come è vita in ogni creatura, è luce per l’uomo. In lui,
capace di ascoltare e rispondere, la Parola stessa viene alla luce nel
mondo.
Vita e luce si richiamano a vicenda. La luce rende possibile la vita
fisica. Ma c’è anche una luce interiore, propria della Parola, che rende
possibile la vita spirituale e dà senso all’esistenza. La medesima Parola,
che in tutto è vita, si fa luce nell’uomo che la capisce.
La vita non è un dato automatico: è dialogo con Dio, in
un’esistenza responsabile, che liberamente ascolta e risponde. La Parola
«è lampada per i miei passi, luce sul mio cammino» (cf. Sal 119,105). Ma,
ancor prima di farsi legge esplicita in Israele, illumina già da sempre il
cuore di ogni uomo, che è amore di verità, della verità dell’amore. Per
questo è possibile il dialogo con ogni religione e con tutti quelli che
pensano: ogni pensiero e ogni religione è desiderio di vita e di luce. Da qui
anche la possibilità, e la necessità, di annunciare a tutti la Parola. Infatti
chiunque ascolta, senza pregiudizi, la riconosce: il suono della sua voce
risveglia la luce che è nel cuore di ciascuno.
Il prologo non dice che la luce (= la legge) è vita, ma che la vita è
luce (= legge) degli uomini. Contro ogni legalismo si dice non che la legge
è principio di vita, ma che la vita è principio di ogni legge.
Gesù dirà: «Io-Sono la luce del mondo: chi segue me non cammina
nella tenebra, ma avrà la luce della vita» (cf. 8,12). Ogni religione cerca di
scoprire la luce divina che è nell’uomo. L’illuminazione, per Giovanni, non
è frutto di particolari tecniche o ascesi che liberino dall’opacità del corpo: è
quell’ascolto e quella risposta alla Parola del Padre che costituisce
l’essenza del Figlio. L’illuminazione non è un, monologo spiritualistico, ma
un dialogo con il Padre nella carne del Figlio, che è anche la nostra.
v. 5: e la luce splende nella tenebra. Nel libro della Genesi la creazione è
presentata come vittoria della luce sulla tenebra (cf. Gen 1,24): Dio con la
Parola trae tutto dal nulla all’esistenza.
All’origine del mondo sta la Parola di luce del Padre, che niente
può arrestare: né tenebre né morte, neppure il nulla. La creazione è
essenzialmente e tutta «buona», come colui che l’ha fatta. E tale resterà,
anche se l’uomo, ingannato, si è temporaneamente sottratto alla sua
vocazione di rispondere alla Parola.
e la tenebra non la afferrò. È il primo dei doppi sensi di cui è pieno il
Vangelo di Giovanni. Per l’uomo ogni realtà ha un senso doppio. Ciò che
si vede indica sempre un invisibile, che va capito: è un segno di cui va
letto il significato. Da qui nascono gli equivoci, che caratterizzano la nostra
comunicazione. Giovanni usa spesso parole a doppio senso, per chiarire il
malinteso in cui cadiamo. Qui «afferrare» significa sia comprendere che
catturare. La tenebra non può comprendere nè catturare la luce: è
incapace di accoglierla, ma anche di distruggerla, divorarla e ridurla a sé,
Se la prende, ne è presa e illuminata.
v. 6: ci fu un uomo inviato da Dio, Giovanni il suo nome. I vv. 6-8
interrompono il ritmo dell’inno. Perché,si parla di Giovanni in questo punto,
dove si canta il Logos creatore? Questi versetti anticipano il v. 15 e
saranno sviluppati nei vv. 19-34: se da sempre «la Parola era verso Dio»,
ci fu e ci sarà, sempre «un uomo inviato da Dio» che la testimonia agli
altri.
v. 7: venne per una testimonianza, per testimoniare sulla luce. Giovanni è
figura dei sapienti e dei profeti che, ovunque e sempre, hanno risvegliato i
fratelli alla luce. In nessuna epoca e in nessuna parte del mondo sono
mancati e mancheranno uomini liberi ed illuminati, che sono come dei fari
nella notte.
affinché tutti credessero. Il fine della loro testimonianza è che «tutti»
riconoscano la luce della vita ed entrino nel misterioso dialogo con Dio che
li porta a vivere la loro verità. Diversamente, anche se la tenebra non
arresta la luce, c’è solo un’esistenza spenta e crepuscolare, che tende alla
morte.
v. 8: non era lui la luce, ma per testimoniare sulla luce. Si sottolinea che i
sapienti e i profeti, di Israele e di tutti i popoli, non sonò la luce: sono
illuminati dalla Parola e la testimoniano agli altri, affinché tutti accolgano la
luce della vita. Un illuminato che si crede luce, è nella notte più profonda.
Nei vv. 6-8 per tre volte si parla di «testimonianza». Testimone (in
greco si dice «martire») è colui che «ri-corda»: ha nel cuore e vive la
Parola, che proclama anche agli altri, perché non cada in oblio quella che
è la vita di tutto.
v. 9: (la Parola) era la luce vera. Il soggetto implicito è sempre la Parola,
che è la luce «vera», diversa dalla falsa luce di parole ingannatrici che
portano alla morte.
che illumina ogni uomo. Ogni uomo ha dentro di sé la luce della Parola.
Nonostante il dis-ascolto, è fatto per lei, perché fatto da lei e di lei. Nel suo
cuore brilla una luce interiore, inestinguibile. È il desiderio di verità e di
amore, che lo lascia inquieto, fino a quando non ha la gioia di trovare ciò
che cerca.
venendo nel mondo. Può riferirsi a «ogni uomo» - specificazione inutile oppure, meglio, alla luce che viene nel mondo.
La Parola, che è verso il Padre, viene nel mondo come sua vita e
luce. Ancor prima della promessa ad Abramo e della venuta del Messia, la
luce della Parola è tra gli uomini come sapienza che li ispira al bene,
illuminando dal di dentro la loro mente e liberando il loro cuore.
Questa luce, che è in ciascuno, è il bene più inalienabile dell’uomo
e offre a tutti, anche per le vie più personali e misteriose, di entrare in
dialogo con il Padre. Nonostante le false luci, le menzogne e le schiavitù,
ogni uomo è sedotto da una «bellezza antica e sempre nuova», che
almeno vagamente presagisce e della quale è incurabilmente malato. Per
questo subito la riconosce quando gli si presenta, in qualunque modo,
come la luce della sua vita. Ogni uomo è «molto bello» (cf Gen 1,31),
perché nella sua essenza più profonda è ascolto della Parola. E se
risponde, il suo volto si accende della luce di Dio.
v. 10: nel mondo era. La Parola, come era rivolta al Padre prima della
creazione, dopo di essa è rivolta anche al mondo, per rivolgerlo al Padre,
ancor prima del suo farsi carne.
e il mondo fu (fatto) per mezzo di lei. Ribadisce quanto già detto al v. 3,
per sottolineare il controsenso di quanto segue.
e il mondo non la (ri)conobbe. Il Vangelo di Giovanni, oltre che di doppi
sensi, è pieno anche di controsensi. Questo è il primo: dopo aver detto
che tutto viene dalla Parola e che essa è rivolta a tutti come luce di vita, ci
si aspetterebbe un suo riconoscimento spontaneo. Invece avviene
esattamente il contrario.
Il controsenso è un assurdo: qualcosa che non ci dovrebbe essere,
eppure c’è. I doppi sensi, i controsensi e i fraintendimenti del Vangelo di
Giovanni evidenziano con ironia la situazione tragica dell’uomo davanti
alla Parola. Il lettore vede descritte le sue reazioni davanti ad essa: quanto
è scritto gli fa da specchio, facendo esplodere le sue contraddizioni, per
portarlo a una comprensione superiore, già familiare a chi scrive.
v. 11: venne nella sua proprietà e i suoi non la presero. Nel contesto la
proprietà della Parola è il mondo intero, come poi lo sarà Israele. Infatti
«del Signore è la terra e quanto contiene» (cf. Sal 24,1). Nonostante sia
desiderata come vita e manifesta come luce, non è né riconosciuta né
accolta; non è accolta proprio perché non riconosciuta. Il prologo presenta
in greco un gioco di parole (kata-lambàno, paralambàno e lambàno) che in
italiano non si può conservare; abbiamo tradotto con «afferrare» (v. 5),
«prendere» (v. 11) e «accogliere» (vv. 12.16). L’accoglienza o meno della
Parola, che fin dall’Eden è per l’uomo questione di vita o di morte,
costituisce il tema fondamentale del Vangelo di Giovanni.
Qui si parla probabilmente della sorte della Parola tra gli uomini in
generale, prescindendo dalla Parola rivolta a Israele e dal suo farsi carne
in Gesù.
v. 12: a quanti la accolsero, diede il potere di diventare figli di Dio. Chi
accetta la Parola ha la «dignità» (il potere) della Parola stessa: «diviene»
ciò che essa è. Si tratta di un processo di trasformazione: la Parola ci fa
«diventare figli», mettendoci in dialogo con il Padre. Se infatti la Parola è
Dio, il suo ascolto fa essere come Dio, perché uno diventa la Parola che
ascolta: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli
di Dio, e lo siamo realmente!» (cf. 1Gv 3,la).
Anche fuori di Israele e della Chiesa, si dà la possibilità di ascoltare
e rispondere alla Parola, che è misteriosamente presente nel cuore di
ciascuno, attirandolo a ciò che è buono e bello. La «potentia
oboedientialis», la possibilità della fede, che mette in comunione con Dio,
è per ogni uomo.
a coloro che credono nel suo nome. Credere nel Nome (= Signore)
significa affidare la propria vita a Dio. Il «Nome» sarà poi, subito dopo,
quel Gesù di cui tutto il Vangelo parla.
v. 13: i quali non da sangue, ecc. La nostra generazione a figli di Dio è
opera di Dio stesso mediante la sua Parola. Non sarà sangue, carne o
volontà di uomo a generarci figli di Dio, ma la carne e il sangue del Figlio
dell’uomo, che fa la volontà del Padre.
Qualche Padre della Chiesa legge il testo al singolare: «Il quale
non da sangue, ecc.». Allora questo versetto sarebbe da attribuire alla
Parola e adombrerebbe la concezione verginale di Gesù, contro coloro
che ne negano la divinità (ai tempi di Giovanni si chiamavano «ebioniti»).
La forma al plurale invece è contro quegli gnostici che pretendono di
carpire la figliolanza attraverso l’esercizio delle loro facoltà (allora si
chiamavano «valentiniani»).
v. 14: e la Parola divenne carne. In greco c’è un termine che significa
«divenire, nascere, essere fatto, accadere». «Divenire» è diverso da
«essere»: è un «essere fatto», come per lo più abbiamo tradotto. Il
divenire carne della Parola è il punto di arrivo della storia di Dio che si
comunica all’uomo. La Parola eterna, che era rivolta a Dio ed è Dio, in un
momento preciso «divenne» carne. Cambia il modo in cui Dio comunica
con noi: ciò che da sempre era ed è, «divenne» uomo, partecipe della
nostra condizione mortale. L’amore o trova o rende simili. Dio è amore e
chi ama si dona totalmente. Nel divenire carne, il suo dono è completo e
definitivo.
La Parola non prende «apparenza» umana, non indossa la nostra
carne con un vestito: «diviene carne», uomo, corpo. Dio assume con la
sua creatura una nuova relazione, che è quella di mettersi alla pari con lei
per comunicare pienamente con lei. Dio è «un» uomo! Non un uomo
«divino e universale», con un corpo etereo, fatto di luce. Dio è un uomo
reale e concreto: Gesù. Ogni fragilità, debolezza e limite, l’essere-per-lamorte della nostra condizione, diviene la sua. E proprio la sua carne, e
non altro, rivela la Gloria.
Noi vogliamo essere come quel Dio che pensiamo noi. Facciamo
fatica a pensare un Dio che vuol essere come siamo noi. Se ci fa paura un
pensiero debole, un Dio debole decisamente ci scandalizza. Quale
sicurezza e affidabilità può offrire a noi, sempre in cerca di una roccia
stabile su cui fondare la nostra esistenza? Dio è totalmente altro, altro
anche dal nostro concetto di altro: talmente altro da essere come noi.
La carne di Gesù - questo è lo scandalo - è quella di Dio, della
Parola creatrice, della Sapienza che ci rende figli dell’Altissimo. Noi
concepiamo Parola e carne in contrapposizione. In realtà ogni carne viene
dalla Parola; a sua volta la Parola è vita e luce di ogni carne.
si attendò. In greco c’è «eskénosen» piantò la tenda) che richiama
l’ebraico «shekina», la dimora di Dio con il suo popolo. La Sapienza trova
casa tra noi non solo nella Parola e nella legge (cf. Sir 24,22ss), ma
addirittura nella «carne» di un uomo, che è la Sapienza e la Parola stessa.
tra noi. Nel contesto universalistico del prologo, questo «noi» abbraccia
tutti gli uomini.
e contemplammo. Questo secondo «noi», implicito, è la comunità di chi ha
accolto Gesù. Sono i primi testimoni che hanno udito, visto, contemplato e
toccato la Parola di vita che era fin da principio (cf. 1Gv 1,1). Nella sua
carne infatti la vita eterna, che era presso il Padre, è diventata visibile (cf.
1Gv 1,2). Ora possiamo vedere la carne e i suoi limiti con occhio diverso e
positivo: possiamo accettare finalmente ciò che siamo.
la sua gloria. La «gloria» è Dio stesso che si manifesta nella sua bellezza
unica. Questa gloria è la «sua», quella della Parola, che contempliamo
nella «carne», nell’uomo Gesù. Giovanni non racconta la trasfigurazione
(cf. però l’accenno in 12,28-30): tutto il suo Vangelo è una trasfigurazione,
un’epifania di Dio, una contemplazione della Gloria nella-carne del Figlio.
gloria di Unigenito dal Padre. D’ora in poi Giovanni non parlerà più del
Lógos, ma del Figlio, e Dio sarà chiamato Padre. Uuomo Gesù è per noi la
visibilità della gloria del Figlio, che è la stessa del Padre: vive pienamente
da figlio del Padre la nostra condizione umana. Lui è l’Unigenito; noi
diventiamo figli accogliendo lui.
pieno di grazia e di verità. C’è chi traduce: «pieno della grazia della
verità». Il Figlio è pieno del dono (= grazia) della conoscenza del Padre (=
verità). Per questo è il Figlio, che vuole e può comunicare il Padre ai
fratelli.
v. 15: Giovanni testimonia di lui. Giovanni, che nei vv. 6-7 rappresentava i
sapienti e i profeti che hanno testimoniato la luce della Parola creatrice,
ora è il testimone diretto della Parola diventata carne (cf. brano seguente).
La sua testimonianza è qui messa al presente: vale ancora per noi oggi.
ha gridato. Il suo grido, cominciato allora, continua ancora per chiunque
voglia diventare discepolo di Gesù.
questi era colui del quale dissi (cf. v. 30). La testimonianza di Giovanni è
già avvenuta quando è raccontata nel Vangelo; ma il Vangelo la rende
presente a chi l’ascolta. Giovanni è assunto a emblema dei testimone
della Parola, sia prima, sia durante, sia dopo il suo essere diventata carne.
È figura di quella testimonianza, sempre presente nella storia, che
permette a tutti di accogliere la Parola di verità.
colui che viene dopo di me, ecc. (= v. 30). Giovanni riconosce in Gesù,
che viene dopo di lui, colui che sta davanti, o meglio sopra di lui, e che era
prima di lui: la Parola stessa di Dio.
v. 16. infatti dalla pienezza di lui noi tutti accogliemmo. È la testimonianza,
per noi lettori, del «noi» di quanti, accogliendo la testimonianza di
Giovanni, hanno seguito l’invito di Gesù che disse: «Venite e vedrete» (v.
39).
Cosa hanno ricevuto dalla Parola divenuta carne? È il mistero che
racconterà il Vangelo. Già sappiamo però, fin dal prologo, che da essa
riceviamo in dono tutto: il creato, il nostro io e Dio stesso.
grazia su grazia. Significa una grazia dopo l’altra. La storia è tutta sotto il
segno grazioso della Parola, che è comunicazione di Dio all’uomo, sino
alla comunione piena con lui nella carne di Gesù.
v. 17: poiché la legge fu data per mezzo di Mosè. La legge, data a Israele
per mezzo di Mosè, è il punto d’arrivo della comunicazione di Dio prima
che la Parola diventasse carne.
la grazia e la verità fu per mezzo di Gesù Cristo. La Parola diventata carne
ci fa vedere la gloria del Figlio, «pieno di grazia e di verità», dal quale
riceviamo il dono della conoscenza del Padre. Questa grazia della verità
«fu» per mezzo di Gesù Cristo: «accadde» nella sua carne.
Il prologo di Giovanni presenta l’autodonazione progressiva di Dio:
dalla creazione alla sapienza, dalla sapienza alla legge, dalla legge alla
libertà del Figlio, donata a noi nella carne di Gesù. Ad essa accediamo per
mezzo della «testimonianza» di chi l’ha riconosciuta, dei sapienti, di Mosé,
dei profeti, ed infine di Giovanni, prototipo di tutti, compreso il «noi» della
comunità che ha visto Gesù. È sempre la «voce» del testimone che porta
ad accogliere la «Parola». La «testimonianza», principio e fondamento
della storia della salvezza, ci rende partecipi della vita del Figlio, il primo
testimone che narra ciò che ha udito e visto dal Padre.
Testimonianza, storia e salvezza stanno sempre insieme. La storia
infatti non è altro che ricordo e racconto di esperienze precedenti, che
rende possibile all’uomo di crescere e progredire. Non esiste cultura senza
la testimonianza. Essa è la comunicazione, attraverso il tempo e lo spazio,
del passato con il presente e dei singoli presenti tra di loro. Senza di essa
non ci sarebbero né passato né futuro; anche il presente sarebbe
inesistente, ridotto a puro punto di passaggio tra un vuoto e un altro.
v. 18 Dio nessuno mai l’ha visto. La scintilla divina dell’uomo è il «desiderio
di vedere Dio». La Bibbia è pervasa dall’anelito di «vedere il Volto», luce
del nostro volto e nostro Dio. In lui troviamo la realtà di cui siamo
immagine. Ma vedere Dio è impossibile. Non solo perché siamo peccatori
(cf. Is 6,5), ma anche perché siamo limitati e mortali. Come può il limitato
accogliere l’illimitato, senza esplodere? Tra noi e Dio, che è vita, c’è un
velo: la morte. Questo velo sarà strappato e la morte distrutta (cf. Is 25,78) proprio attraverso la carne di Cristo. È vietato farsi immagini di Dio. Ma
ne udiamo la Parola e possiamo vederne il volto in chi lo ascolta: nel
Figlio, Parola diventata carne.
l’unigenito Dio. Gesù, che è appena stato nominato per la prima volta (v.
17),
è l’unigenito Dio, il Figlio unico di Dio (v. 14). Ciò che conosciamo di Dio, è
quanto vediamo nell’uomo Gesù. Dalla sua carne impariamo chi è Dio.
C’è sempre il pericolo di dire che Gesù è Dio, applicando a lui le
nostre immaginazioni; bisogna invece dire che Dio, che nessuno mai ha
visto, è Gesù. In ogni affermazione del Vangelo Dio è sempre il soggetto,
Gesù il predicato. Il soggetto è qualcosa che cerchiamo di conoscere, il
predicato è ciò che di esso conosciamo. Dio è il «soggetto», lo
sconosciuto che nessuno mai ha visto; Gesù è il «predicato» che ce lo fa
conoscere con la sua vita, i suoi gesti e le sue parole. La sua carne è
l’unica notizia di Dio, criterio sicuro di verità del suo Spirito (1Gv 4,2s). La
tentazione costante del nostro parlare di Dio è mettere Gesù come
soggetto invece che come predicato, riducendolo a un attaccapanni delle
nostre credenze religiose.
che è verso il grembo del Padre. Il Figlio è in intimità assoluta con il Padre:
«Io e il Padre siamo uno» (10,30). Il prologo termina riferendo a Gesù,
Parola divenuta carne, quanto il v. 1 dice della Parola rivolta verso Dio.
egli l’ha narrato. Il verbo «narrare» in greco (ex-egéomai) significa portarfuori, esporre, spiegare, descrivere, interpretare, fare esegesi. L’uomo
Gesù è pienamente abilitato a narrare il Dio invisibile: lo porta-fuori,
espone, spiega, descrive, interpreta, perché è il Figlio, l’ermeneuta e
l’esegeta del Padre. Al centro di ogni teologia cristiana c’è la «carne» del
Figlio, l’umanità, la debolezza e l’umiltà di Dio.
Qui Giovanni evita termini connessi con il «vedere», quali sono:
rivelare, mostrare, manifestare, ecc. Usa invece un termine connesso con
l’ascoltare: Dio è «narrato». Il Vangelo, che racconta la storia di Gesù,
narra l’invisibile Dio: coloro che l’hanno incontrato, lo raccontano a noi,
perché partecipiamo della loro esperienza. Anche noi oggi, come loro
prima di noi, possiamo vederlo e toccarlo se ascoltiamo la Parola di chi lo
testimonia.
La Parola, che era al principio, è e sarà sempre principio di
comunione con Dio. Essa è autocomunicazione totale, sempre aperta ad
altra comunicazione, in un dialogo di ascolto e risposta senza fine.
L’evangelista Giovanni è chiamato il «teologo». La sua «teo-logia» è un
«parlare-di-Dio» in senso forte: chi parla di Dio è Dio stesso che parla.
Ciò che Gesù farà, nel seguito del Vangelo, è «narrare» il Padre,
per donarci la sua stessa comunione con lui. Ciò che lui fa è «segno»,
raccontato a noi, della gloria del Figlio,e del Padre. Questo segno è per
noi il testo del Vangelo, sempre disponibile a chiunque lo legge. Si può
affermare che il Vangelo di Giovanni è la drammatizzazione dell’incontro
della Parola con l’uomo, suo interlocutore. Chi lo legge si accorge che
racconta esattamente ciò che accade in lui: mentre lo legge, ne è letto, e
in modo nuovo.
3. Pregare il testo
a. Entro in preghiera.
b. Mi raccolgo immaginando il cammino di Dio per rendersi presente all’uomo e
donarsi a lui: la creazione, la sapienza, la legge, la testimonianza, la carne della
Parola.
c. Chiedo al Signore ciò che voglio: qui chiedo e voglio comprendere quanto Dio
ha amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque lo accoglie
abbia la vita eterna. Chiedo di comprendere l’umanità, la debolezza e l’umiltà di
Dio, sua vera gloria.
d. Medito e/o contemplo la scena: qui c’è da contemplare Dio che attraverso il
Figlio, si dona all’universo come vita di tutto nella creazione, all’uomo come luce
nella sapienza, a Israele come legge di vita nella Parola, a ogni uomo come
grazia nella carne di Gesù.
Da notare.
• la testimonianza/grido perenne di Giovanni
• la testimonianza del «noi» che l’hanno accolta
• la legge fu data per mezzo di Mosè
• la grazia della verità per mezzo di Gesù
• Dio nessuno l’ha mai visto
• l’unigenito Dio che è verso il seno dei Padre ce l’ha narrato
• Gesù, Parola divenuta carne, ci «narra» il Padre.
• in principio era la Parola •
la Parola era rivolta a Dio
• la Parola era Dio • tutto per mezzo di lei
• la Parola è vita in tutto ciò che esiste
• la vita è la luce degli uomini la tenebra non arresta la luce
• Giovanni prototipo di chi accoglie e testimonia la Parola
• il mondo non riconosce la Parola;
• i suoi non la accolgono
• accettare la Parola dà la dignità di diventare figli di Dio
• la Parola divenne carne, un uomo concreto:
• Gesù noi contempliamo la sua gloria
• la gloria di Unigenito dal Padre, pieno del dono della sua conoscenza
4. Testi utili
Alla luce di quanto il prologo dice sulla «Parola» leggere: Sal 119; Gen 1;
Is 55,10s; Pr 8,22-31; Gb 28; Bar 3,94,4; Sir 24; Sap 6-9, tenendo presente che la
Parola, o Sapienza, è il Figlio eterno dei Padre che diviene un figlio d’uomo e si
chiama Gesù.