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NUMERO 3 AUTUNNO 2013
Il Vuoto (in)colore
Sommario
www.rivistadiwali.it
Contatti:
facebook.it/diwalirivistacontaminata
[email protected]
Direttore Editoriale : Maria Carla Trapani
Direttore Responsabile: Flavio Scaloni
Redazione: Pietro Bomba, Alessandra Carnovale, Laura Di
Marco, Valerio Francola, Fabiana Frascà, Giulio Gonella,
Letizia Leone
Ufficio Stampa: Federica Venni
Technical Consulting: Pierluigi Stifanelli
Diwali - Rivista Contaminata
Trimestrale di Arte - Poesia - Letteratura
In copertina: fotografia di Miloje Savic
2
L’Editorial
InSistenze
Finestre come crinali sul vuoto di
Fabrizio Migliorati
Vacazio di Alessandra Carnovale
InVerso
Alessandra Carnovale
Valeriano Forte
Roberto Marzano
Monia Minnucci
Eleonora Pozzuoli
Meth Sambiase
Marino Santalucia
Antonietta Tiberia
Focus: Gli Haiku di Dona Amati
Antonio Contoli
Eugenia Serafini
InStante
Rebecca Cataldo
Claudia Chianese
Miloje Savic
Leopoldo Garcia Castellanos
InMobile
Un battito al centro del cuore vuoto
cosmo di Rajanish Pandili
InDicazioni
L’autunno di Montebuio
Oltre l’incerto limite
Ritorno alla Mary Celeste
InChina
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del
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L’Editorial
Il vuoto (in)colore
Ci sono parole che sono indissolubilmente paroleimmagini-suoni, che seducono ma non significano,
che avvolgono ma non parlano. Il vuoto. Risultato
di un’azione o condizione primordiale, origine
del mondo o figura della catastrofe?
Come lo spazio che non può accogliere
niente, il bianco nel quale tutto si dissolve,
ma anche il luogo, il solo, in cui qualcosa può
darsi. Il creato, se non in Dio, è nell’assenza
di ogni cosa. Se non è nel vuoto, la
nascita non è che generazione: il
creato presuppone…il nulla. Possibilità
assoluta del pieno, allora, non solo come
suo opposto: il vuoto è del pieno anche
origine…e fine.
La fine è nel vuoto, come l’origine è senza
dei. E le nostre vite…
Il vuoto è ciò che si ricava, quando si elimina
per ricominciare, e si purificano i peccati e si
assolvono i peccatori. Farsi vuoto intorno per
esistere di nuovo. Vuoto come ricominciamento
assoluto. E infatti, vuota è la mente che si appresta
a raccogliersi, vuota la testa senza interrogazione
possibile. Ma anche punto di innesco del vortice
dei pensieri. È l’assenza di malattia, perché la
precede nella nascita e la segue nella morte.
I colori sono costretti all’impurità della superficie
che colorano. Alle sue pieghe, come al colore che
già-da-sempre le colora. Solo nel vuoto il rosso è
se stesso, e il nero è proprio nero, come il giallo,
e il verde, e ogni colore a nostro piacimento.
Un tripudio di colori liberi, incondizionati, non
costretti a sommarsi tra loro. E i suoni?
No, nel vuoto non si propagano, ci hanno insegnato.
E come chiamare allora la vertigine che attraversa
le nostre gambe, ora roboante ora melodiosa,
ora armonica ora scomposta? Qual è il nome
del monstrum che ci separa da dio, mentre noi,
umani nonostante tutto, sgomberiamo l’occhio
dalle vecchie forme che ci condannano a ripeterci
all’infinito, in mezzo tra cielo e terra? Forse vuoto
è il suo nome, condizione per riappropriarsi del
mondo e renderlo casa per nuove tonalità, solo
nostre. Infine pienamente individui, insieme
affacciati sull’abisso della creazione.
stesso tempo divini e secolari, lineare e circolari.
Diwali - Rivista Contaminata
3
Vedere il vuoto a colori. Sembra una delle
grandi sfide dell’uomo e della scienza, al pari
della conquista della luna o della scoperta del
bosone di Higgs. Un sfida, certo, che vogliamo
affrontare con gli strumenti dell’arte. Nasce da
qui il percorso visivo che vogliamo proporre
nelle nostre InSistenze. Fabrizio Migliorati
indaga sulle ‘finestre’ come aperture sul vuoto,
al di là della prospettiva reale che esse offrono
ad un primo sguardo. In un excursus puntuale
e ricco nella storia dell’arte ci affacciamo alle
finestre costruite da Friedrich nell ‘800 fino
ai recenti esperimenti del contemporaneo De
Alexandris. Migliorati ci invita a sporgerci, a non
aver paura di davanzali o parapetti, a seguirlo
negli ambienti studiati da Matisse, Delaunay,
Magritte, Duchamp ed altri illustri maestri della
pittura. La finestra è una possibilità, di una
‘presenza’ all’esterno che può essere ‘assenza’.
Alessandra Carnovale, curatrice della
rubrica e nostra affezionata collaboratrice,
ha visitato per Diwali la mostra fotografica
‘Vacatio’ allestita al museo Macro di Roma
nell’ambito del XII festival internazionale di
fotografia. Il vuoto interpretato in maniera
intimista e soggettiva da diversi autori
che hanno messo a fuoco attimi sospesi,
rarefatti, vuoti eppure pieni di significato.
Flavio Scaloni
InSistenze
Finestre come crinali sul vuoto
di Fabrizio Migliorati
Principio, dove io debbo dipingere uno quadrangolo
di retti angoli quanto grande io voglio, el quale
reputo essere una finestra aperta per donde io
miri quello che qui sarà dipinto1
La pittura fonda essenzialmente il suo farsi
in maniera metaforica: è “finestra nel reale”,
costruzione che ritaglia uno spazio, mondando
l’interno da ogni passato. Quel luogo pulito, vuoto,
dovrà accogliere l’historia, un racconto, cioè, che
dalla realtà si stacca e che ad essa si rivolge solo
in seguito, e solo passivamente. L’arte illustra
qualcosa: solo così, con questa produzione di un
grado di logos, è possibile proseguire facendo
parlare l’opera stessa, attuando una critica sulle
immagini, sia essa poetica che poietica.
In questa finestra aperta agisce però l’immagine:
ecco l’irrealtà. Di fronte a qualsivoglia immagine
di tipo artistico, noi siamo spinti a credere che ciò
che vediamo non sia reale, ma appartenga ad un
mondo che non viviamo e, per quanto possiamo
sentire vicino, esso non sia agibile: un’altra sorta di
“mondo delle idee” (ma svalutato platonicamente e
lontano in egual misura da noi e dalla perfezione):
è il mondo dell’arte, copia di copia.
In questa miopia ermeneutica si cela l’errore (o
grado di logos, è possibile proseguire facendo
parlare l’opera stessa, attuando una critica sulle
immagini, sia essa poetica che poietica.
In questa finestra aperta agisce però l’immagine:
ecco l’irrealtà. Di fronte a qualsivoglia immagine
di tipo artistico, noi siamo spinti a credere che ciò
che vediamo non sia reale, ma appartenga ad un
mondo che non viviamo e, per quanto possiamo
sentire vicino, esso non sia agibile: un’altra sorta di
“mondo delle idee” (ma svalutato platonicamente e
lontano in egual misura da noi e dalla perfezione):
è il mondo dell’arte, copia di copia.
In questa miopia ermeneutica si cela l’errore (o
grado di logos, è possibile proseguire facendo
parlare l’opera stessa, attuando una critica sulle
immagini, sia essa poetica che poietica.
In questa finestra aperta agisce però l’immagine:
ecco l’irrealtà. Di fronte a qualsivoglia immagine
di tipo artistico, noi siamo spinti a credere che ciò
che vediamo non sia reale, ma appartenga ad un
mondo che non viviamo e, per quanto possiamo
sentire vicino, esso non sia agibile: un’altra sorta di
“mondo delle idee” (ma svalutato platonicamente e
lontano in egual misura da noi e dalla perfezione):
è il mondo dell’arte, copia di copia.
In questa miopia ermeneutica si cela l’errore (o
il pericolo) più grave quando si parla di arte:
che essa sia irreale. L’arte infatti non ha nulla di
irreale, a meno che questo termine sia declinato
alla maniera di Eugen Fink:
l’irréalité est une «apparence» réelle2
Il mondo dell’immagine è un universo che mantiene
il suo coefficiente d’irrealtà solo a condizione di
scagliarlo sul presente, sull’immediata effettività
del tempo reale.
L’irréalité d’un monde d’image n’est qu’aussi
longtemps qu’elle est cernée par la réalité totale
de l’image qui est l’unité médiatrice […] du monde
d’image et du support3
InSistenze
5
Finestre come crinali sul vuoto
Finestre come crinali sul vuoto
L’arte parla a tutti noi perché parla con noi e di
noi. Nulla vi è di un distacco elitario in essa: l’arte
è nella realtà poiché la modifica e ne è modificata.
Fenomeni come il mercato o la critica, lo scandalo
e l’estasi sono propri dell’arte e della vita: sentire
il peso dell’arte4 vuol dire viverlo allo stesso modo
di come si conduce una vita. Questa necessaria
specificazione è utile per aggiustare il tiro sulla
metafora finestra-arte: l’arte è finestra nel mondo,
più che sul mondo. Essa si incide nella carne, a
tratti viva e pulsante a tratti putrefatta, del reale.
Cosa avviene quando si apre una finestra in questa
finestra? Gli artisti qui trattati sono tutti creatori
o cesellatori di queste aperture. Originariamente
ogni finestra è concepita come un mezzo per
aumentare l’illuminazione in una stanza. Da
questo debutto ecologico, innumerevoli sono stati
gli utilizzi nella storia, fosse essa dell’edilizia o del
pensiero. Consci della pregnanza della “finestrità
dell’immagine”5 (o detto altrimenti, dell’essere–
finestra di un’immagine) supponiamo che ogni
immagine si apra proprio all’interno del mondo
effettivo. Creare un’opera d’arte è costruire una
particella che media l’aprirsi, esponendolo ai
nostri occhi.
Qualsivoglia finestra si apre all’esterno e noi
vediamo in quel rettangolo l’immagine del fuori,
che detiene una capacità di attrazione incredibile.
Lo sguardo si fissa sul fuori ed è una vera via di
fuga, che ci fa costruire mondi che vanno al di là
della realtà in cui siamo presi. È quindi visivo e
visione: visivo poiché ciò che vediamo è veramente
lì, ad una certa distanza da noi, ma riquadrato
dalle due coppie di parallele fisiche che rendono
il fuori un vero e proprio “quadro”; visione poiché
ciò che vediamo non è solo questo, ma molto di
più. È un deposito delle nostre angosce, paure e
di segni che si sono incarnati nel nostro vedere
del momento. Ma il vuoto non è lì, è tutto intorno
a quella finestra. Ed è un vuoto angosciante,
tenebroso, eminentemente occidentale. È il vuoto
della stanza. La finestra è lì a ricordarcelo.
6
Con Caspar David Friedrich non entriamo nell’arte
contemporanea, ma ci situiamo poco prima, in
una zona (soglia) di indiscernibilità che potremmo
chiamare “prodromi dell’arte contemporanea”.
Due suoi lavori giovanili (Veduta dalla finestra
sinistra dell’atelier, 1805–1806 e Veduta dalla
finestra destra dell’atelier, 1805–1806) non
rappresentano altro che due finestre del suo
atelier: è in quel luogo che l’artista pensa e
proprio da quel luogo egli guarda l’esterno. Una
libertà scopica che si muove senza indugi, senza
incontrare ostacoli.
Pochi listelli di legno sostengono vetri privi di difetti.
Un paesaggio tranquillo, marino, estremamente
piatto: non è difficile rapportare questa vista a
quella che è la tipologia paradigmatica della sua
arte.
Caspar David Friedrich: Veduta dalla finestra sinistra
dell’atelier, 1805–1806; Veduta dalla finestra destra
dell’atelier, 1805–1806.
InSistenze
Friedrich vede e riproduce ciò che vede: modus
tautologicus. In questa partenza c’è un’immediata
sensazione di cosmicità diffusa. La pittura
dell’artista è letteralmente prospettica:
solitamente si fa derivare il termine “prospettiva”
dal latino pro-spicere, guardare innanzi, ma
un’etimologia ed una traduzione più radicale è
proposta da Erwin Panofsky che, citando Dürer,
fa derivare il termine moderno da per-spicere,
cioè “vedere attraverso”, ma anche “vedere
distintamente”6. Infatti noi attraversiamo quei
vetri molto facilmente, e la veduta esterna è
facilitata anche dal fatto che, quasi inutilmente,
le finestre sono aperte. Nulla si frappone tra noi,
osservatori esterni ai dipinti, ed il paesaggio che
è rappresentato oltre quella soglia. Attraversiamo
l’apertura e distinguiamo le forme.
La scelta tematica di Friedrich metaforizza la
navigatio vitae con le sue navi in partenza verso
lidi lontani. Rimanere in quella stanza sarebbe
insopportabile. Donna alla finestra, 1822 è
l’incarnazione di questa insopportabilità, di questa
staticità sognante. Questo corpo visto da tergo,
impassibile, è così fisicamente presente eppure
non più lì, dove crediamo di vederlo. Come il corpo
del Cristo nel Noli me tangere, visibile ma “già
partito”. Il suo sguardo si abbandona alla propria
deriva7, si lascia catturare dall’immensità che gli
si para innanzi. Ma noi non possiamo vivere tutto
questo; lo possiamo solamente intuire. Oltre alla
porzione di cielo, noi riusciamo a riconoscere gli
alberi maestri delle navi: deduciamo che questa
finestra si apre su di un porto dal quale partono le
imbarcazioni per un altrove, lontano e (a noi e a lei)
sconosciuto. Essa sogna, ma noi, interrompendo
la vettorializzazione dello sguardo che abbiamo
fin qua ricostruito, siamo appesantiti dalla sua
presenza corporea che, per quanto minuta, è
aggravata dal duro panneggio che assume la sua
veste. Il suo corpo è un ostacolo imprescindibile,
che obnubila il godimento di una vista sul porto
(esaltato, invece, nei due lavori precedenti) ed
impedisce l’uscita. La gravità carnale e quella
monocromatica dell’ambiente scarno e modesto,
arresta un vitale saut dans le vide. La donna
probabilmente, di lì a poco, chiuderà la finestra
e tornerà alla sua quotidianità, inabissandosi nel
vuoto della stanza dopo aver percorso migliaia di
chilometri. E noi con lei.
Caspar David Friedrich, Donna alla finestra, 1822
InSistenze
7
Finestre come crinali sul vuoto
Finestre come crinali sul vuoto
Le monumentali pareti monocrome di Henri
Matisse acuiscono questa sensazione e, anche
se vivificate di arabeschi, le pareti sono ancora
l’agente oppressivo: le aperture diventano sempre
più grandi e, anche visivamente, nutriamo una
sensazione di maggiore libertà. La finestra blu,
1912 è il punto più chiaro di questo movimento.
Il blu intenso del cielo invade (anche se è difficile
dire se la sua sia una azione violenta attiva, oppure
una costrizione dovuta alla potenza attrattiva
della camera) la stanza, tale che non vi è più
differenza tra interno ed esterno poiché tutto
diventa uniforme, ma non monotono. La parete
crolla sotto le stesure insistenti dell’artista, e non
ci sentiamo più oppressi da quel vuoto stanziale,
ma liberi, di vedere e di “vedere”8. Matisse applica
una pellicola monocroma, sulla quale appoggia
degli oggetti. Il colore della stanza trova il
connubio temporaneo con il cielo notturno: per
poche ore la fisicità della stanza e l’intangibile
sostanza celeste uniscono le diverse esistenze per
ricreare un’atmosfera simile a quella della volta
della cappella degli Scrovegni. Questo erede di
Giotto inserisce una nota di giallo, costituita
dalla scultura dalla forma inquietante proprio
al centro del dipinto, calamitando l’attenzione e
sottolineando l’osmosi di interno ed esterno, mai
così vicini. Matisse costringe l’esterno ad entrare,
formando un ibrido che non è né dentro né fuori,
ma qualcosa di più.
proprio così? Le nostre certezze basate sul titolo
dell’opera si scioglierebbero come neve al sole e
dalla negazione della corposità si arriverebbe alla
negazione della corporalità.
La porta–finestra è puramente devota al
passaggio dei corpi: una praticità che lascia
da parte l’illuminazione. La scelta dell’artista
non è casuale: anche qui la luce acquista poca
importanza, se non proprio nella negazione. La
campitura bruna riempie il vuoto a tal punto
che noi non possiamo far altro che sbattere
violentemente contro quel muro, così vuoto
di finiture ma così insopportabilmente pieno.
Se la finestra blu rappresentava una piacevole
pellicola invalidante ogni tipo di divisione
interno–esterno, con questo dipinto siamo
fortemente coscienti di essere all’interno:
nessuna fuga è possibile.
La porta è una figura dell’apertura – ma
dell’apertura condizionale, minacciata o
minacciosa, capace di dare tutto o di prendere
tutto11
Henri Matisse, Porta–finestra a Collioure, 1914
Henri Matisse, La finestra blu, 1912
Se ho potuto riunire nel mio quadro quello che sta
all’esterno […] e l’interno, è perché l’atmosfera
del paesaggio e quella della mia camera sono una
sola… Non mi tocca accostare l’interno e l’esterno,
tutt’e due sono riuniti nella mia sensazione9
Contrappunto di tutto ciò è la celeberrima Porta–
finestra a Collioure del 1914, dove l’apertura che
dovrebbe farci sognare o liberare dall’oppressione,
si dimostra nient’altro che insondabile.
L’osmosi di dentro e fuori, senza inutili gerarchie
obsolete, è indotta dalla sensazione, causa
primigenia e conseguenza del procedere artistico.
L’appiattimento così eccessivo, insinua in noi il
dubbio che l’immagine del fuori che vediamo sia
in realtà un dipinto appeso alla parete. E se fosse
Consideriamo ora la storia degli elementi
architettonici: muri, porte, finestre, caminetti,
ecc. La prima finestra è la porta, la porta–finestra,
necessaria all’accesso e dunque alla realtà della
dimora, poiché dopo non si potrebbero concepire
case prive d’accesso. Nei primi habitat, l’apertura
8
per la presa di luce non esiste, non c’è l’ingresso
e, talvolta, il camino10
InSistenze
Matisse dichiara la generalità del soggetto
dipinto (una porta–finestra) e, nonostante
l’eccessivo geometrismo, ci suggerisce una
latente fenomenicità, cioè la piccola fuga della
parete in basso. Siamo in una stanza, quindi, e
la fascia scura centrale è una porta (il vetro, se
esistente, è stato annerito). Una porta ridotta
al minimo in una foga riduzionistica. Sembra
anticipare fenomeni come la pattern painting
o il Concettuale di Sol Le Witt, ma con una
depressione viscerale. Rinchiusi in quello spazio
familiare, il muro che ci si para innanzi parla di
un’angoscia ineffabile. Questa pioggia verticale
di colori ben compartiti è il vero ostacolo a tutto,
sia alla libertà scopica che la finestra libera
e agevola, sia a quella fisica che una porta è
incline ad assicurare.
Si è spenta la luce, i sogni che proiettavamo in
precedenza si sono dileguati, ed ora rimane solo
lo schermo vuoto, riempito soltanto dalla nostra
angoscia. Claustrofobia.
InSistenze
9
Finestre come crinali sul vuoto
Con Robert Delaunay ci troviamo nel bel mezzo
di un’orfica giostra coloristica, dove apertura ed
interno perdono le loro connotazioni tipologiche,
annullando la separazione, qualsiasi separazione.
Siamo presi totalmente in “scaglie” di Parigi (La città
n.2, 1912; Finestre aperte simultaneamente prima
parte, secondo motivo, 1912–1913) che si insinuano
nelle maglie del disco coloristico dell’artista,
e sono riconoscibili dalle sferzate che danno ai
colori, al ritmo che impongono, dolcemente, alla
composizione. Il quadro non è più quello spazio
dove accade qualcosa, ma è l’accadimento stesso.
Proprio per questo si libera dalla forma della tela
riquadrata (Finestre aperte simultaneamente
prima parte, secondo motivo, prima replica, 1912–
1913), conclusa da una cornice, e continua nel
suo gioco sulla cornice stessa. L’artista fa saltare
ogni distinzione tra un dentro ed un fuori e, in
questa sua radicalizzazione, non può far altro
che negare lo statuto di estraneità ad un oggetto
come la cornice, elemento che monumentalizza
e conclude un dipinto. Delaunay percepisce
questa insopportabilità e decide di destituire il
potere conclusivo della cornice inglobandola,
come se nulla fosse, nella sua composizione12. Il
ritmo “finestrifero” non si lascia opprimere ma si
allunga anche là, proprio là, dove le imposizioni
richiederebbero un freno, un limite. In questo
modus operandi non stupisce vedere quadri
ovoidali, ellissoidali (Finestre, 1912–1913). Poiché
è proprio ciò che vediamo. La nostra vista non
si ritaglia rettangoli visivi, ma coni ottici con le
relative sfumature e zone cieche. La tela ovoidale
riproduce la forma dell’occhio, un’apertura quindi,
che vede ciò che è inscritto nella sua materia, le
forme ed i colori, in cui leggiamo altre aperture ed
altri vuoti. Ma non ci sono mai dati i vuoti nella
loro sostanza: si interviene sempre per inoculare
vie di fuga, possibilità di relazione e relazioni
effettuate. Delaunay parla della sua pittura come
costituita di “puro colore”, colore che è :
forma e soggetto; è il puro tema che si svolge e si
trasforma13.
10
Finestre come crinali sul vuoto
Robert Delaunay, Finestra, 1913
Tutta la grammatica della pittura viene a mancare,
poiché questa si auto–sostiene: è pura pittura,
come nella definizione di Apollinaire. In questo
mondo, l’apertura della finestra finisce per essere
uno spalancarsi di simultaneismo coloristico
e vitale. Il vuoto occidentale angosciante della
stanza viene spazzato via dall’ondata di gioia
parigina senza precedenti. La città risulta perfino
esagerata, ma il respirare la sua atmosfera ci
invita galantemente a danzare nel colore14. Per
questo artista, aprire la finestra significa calarsi
pienamente nella città che palpita davanti agli
occhi. La stanza viene inficiata della propria
fenomenicità di chiusura: movimento, luce, colore
sono i termini delaunayani che aprono alla vita. Ma
la negazione dell’angoscia del vuoto occidentale è
possibile solo se costruita su esso. Ecco schiudersi
il pericolo della sua pittura: quello di essere pura
nube luminosa, apparenza funzionale ad una
clinica della depressione, sempre gravata di un
peso infimo: quello del nulla.
Robert Delaunay, Finestre aperte simultaneamente,1912–1913
11
Finestre come crinali sul vuoto
Finestre come crinali sul vuoto
Marcel Duchamp è sempre stato un artista
inquietante, proprio per il suo uso costante
di materiali comuni, “già fatti”, pronti all’uso
quotidiano, ma delocati. Proprio nella quotidianità
l’artista colpisce e affonda la lama. E non è diverso
ciò che accade riguardo ai suoi lavori inerenti il
nostro tema della finestra–vuoto. Innanzitutto
notiamo che la finestra non è là dove dovrebbe
essere. Dal vuoto, dall’incisione della parete si passa
alla concrezione materiale, fisica posta in mezzo
alla stanza. Le due opere qui in questione sono
Fresh widow del 1920 e La bagarre d’Austerlitz del
1921. Dichiarando la sua volontà non–mimetica,
l’artista ci vuole dire qualcos’altro. E ci dice
proprio che quello che noi credevamo fosse un
vuoto, è in verità un pieno, troppo pieno, tale da
essere insondabile. La delocazione ci disorienta
ed infrange la nostra idea di “come devono essere
le cose”, la nostra condotta e quella che vorremmo
fosse degli altri. L’immagine ci attacca (come
tutte le opere fondamentalmente “terroristiche”
di Duchamp) e noi possiamo renderci neutrali,
contrattaccare con i nostri pregiudizi, o capitolare.
E forse solo grazie a quest’ultima azione–
inazione possiamo avvicinarci un poco alla sua
arte. Duchamp vuole dirci che la finestra non ci
fa vedere nulla, non è onesta. La finestra è un
supporto su cui noi proiettiamo le nostre visioni.
Oscurare i vetri è questo. Duchamp impedisce la
curiosità voyeuristica, aggravando il gradiente
claustrofobico della stanza. Il “luogo” adibito a
farci vedere è il momento in cui siamo obbligati
a non–vedere. Ed è qui che possiamo ”vedere”,
veramente. Come Friedrich, come Rimbaud, come,
quindi, dei profeti. Queste opere richiedono uno
sguardo profetico. L’immagine è coercitiva, istiga
alla complicità. Vi è una fiducia richiesta ma,
precedentemente a questa, vi è la fiducia che noi
infondiamo naturalmente nelle immagini, ancora
prima di ogni interpellanza o di ogni persuasione.
Un sorta di rapporto pre–coercitivo si instaura
prima di ogni accordo: noi crediamo all’immagine,
indistintamente.
12
I titoli delle opere possono, in seguito, farci cogliere
particolari aspetti o provocare un ripensamento
riguardo alle nostre iniziali certezze; ma il loro
arrivo è sempre tardivo.
InSistenze
Marcel Duchamp, Fresh widow, 1920
L’immagine sembra avere una sua unità, correlata
ad una propria “calma”. Ciò che viene riquadrato
da una finestra è un vuoto così pieno da poter
trovare una sua solidificazione su di una lastra,
come avviene nel processo meccanico della
fotografia. È René Magritte. Le immagini del fuori
sono così potenti, così piene che nemmeno un
vetro, che dovrebbe essere trasparente, riesce a
lasciarsi trapassare dall’immagine ed è costretto a
trattenerla. Il vetro si volge in materiale sensibile
che riporta ciò che l’otturatore, per una minima
frazione di secondo, ha deciso di “far vedere”.
Magritte gioca, certo, e le sue immagini sono
anche piacevoli da godere, ma esprimono, allo
stesso tempo, una forte riflessione. I pezzi di vetro
appoggiati per terra (La chiave dei campi, 1936;
La sera che cade, 1964; Il dominio di Arnheim,
1949) sono funzionali al suo discorso. La pittura
finge, ma qui la finzione è dichiarata in tutta
la sua ipocrisia. Il pittore figurativo ci può far
vedere quello che vuole, la sua è una creazione
e, in quanto tale, una costruzione. Magritte
ne è ben conscio e, pur rimanendo fedele alla
finzione pittorica (non potrebbe farne a meno)
lancia un’ipotetica palla da tennis che frantuma
quella finestra, rivelandone il carattere pittorico
(potremmo perfino dire “pittorialista”) della
presunta trasparenza del vetro (e quindi della
pittura): ci svela la menzogna. L’azione violenta
dell’artista, che abbiamo ipotizzato bambino
trasgredente le “regole di casa”, potrebbe essere
solamente una delle letture, e probabilmente
la più “giocosa”, avanzate sui dipinti di questa
tipologia. L’immagine magrittiana possiede,
inoltre, una temperatura estremamente elevata: i
colori così netti sono dovuti al fuoco ipodermico.
È un’immagine incandescente, consacrata alla
propria auto–distruzione, all’esplosione del vetro
che svelerà la realtà fenomenica sopita.
René Magritte: La chiave dei campi, 1936;
Il dominio di Arnheim, 1949
InSistenze
13
Finestre come crinali sul vuoto
Finestre come crinali sul vuoto
Dietro a quell’immagine che irrompe dopo la
rottura, c’è qualcos’altro? La mise en abîme
potrebbe essere solo all’inizio (e la dialettica–
scontro tra interno ed esterno, tra pieno e
vuoto potrebbe continuare, quasi senza requie,
come suggerisce proprio un’altra sua opera
eminentemente hegeliana, Elogio della dialettica,
1936), e la caduta in quell’abisso, in quel vuoto,
terremota il nostro pensare lineare.
Omologo di Magritte è il regista Jacques Tati.
Nel 1967 esce Playtime e, in una delle ultime scene
del film, si vede un lavavetri intento a pulire la
superficie di una finestra sulla quale si rispecchia
la comitiva di gitanti americane sedute all’interno
di un autobus. Gli spostamenti della finestra
danno la sensazione che le turiste siano su di un
ottovolante; infatti loro stesse commentano con
gridolini estasiati. La potenza dell’immagine si
imprime sul vetro trasparente–riflettente della
finestra, a tal punto che la modificazione della
posizione della finestra sconvolge la realtà esterna.
L’americano Robert Irwin torna ad un rispetto
naturale del giorno astronomico15: è un ritorno
alla funzione originaria del nostro oggetto. Egli
infatti opera (e qui mi riferisco all’accezione
eminentemente cerusica del termine) le sue pareti,
incidendole nella loro carne adamantina, pulita,
asettica, aprendoci a panorami naturali. A Villa
Panza di Biumo vicino a Varese, dalle aperture
sulla parete possiamo godere del movimento delle
foglie, degli alberi imponenti che il giardino della
villa possiede. L’opera è la finestra materiale, non
la mimesis della stessa. Egli aggira la riproduzione
artistica andando a lavorare direttamente sulla
parete, eliminando la materia, creando un vuoto
in quella parete. Ma, ancora una volta, quel vuoto
si dimostra essere intorno al vuoto scavato, e ciò
riecheggia nelle parole di Giuseppe Panza:
Dalla stanza che è solo bianca e neutra, vedere la
natura piena di vita, crea una forte opposizione tra
l’interno che è vuoto e l’esterno che è visto come
un quadro, dove la finestra diventa una cornice,
uno strano quadro reale e non immaginario.
Questo genere di scambio di percezioni è molto
importante causa della natura che è fuori. È molto
bello vedere un muro verde, se si vedesse il muro
di una casa tutto sarebbe perso16
La parete si dimostra, ancora una volta, luogo povero
ed angoscia stanziale: è vitale volgere lo sguardo
altrove, in un altrove all’interno di quel vuoto. Si
scava all’interno di un muro interno, alla ricerca di
un’esteriorità che è fuga, proprio come essa è vita.
La “natura piena di vita” contrasta con l’assenza,
con la privazione della stanza “bianca e neutra”.
Ci si volge quindi verso una vita, noi che siamo
vita palpitante ma inclini ad un’autodistruzione
fatale. Il modus operandi tipico della Land art si
esprime in forme squisitamente eleganti e sobrie,
effettuando un anacronistico ritorno al passato
che dimentica (cioè, tralascia coscienziosamente)
quella che Virilio chiama la terza finestra17, cioè
lo schermo televisivo. La finestra torna ad essere
finestra (di luce).
Un altro americano, James Turrell può essere
accostato a Irwin, sia tematicamente che
topologicamente. Turrell, infatti, decide di
eliminare direttamente il soffitto (Skyspace I, 1976).
L’oppressione del vuoto si sposta dalle quattro pareti
a quella sovrastante. Radicalizzando l’operazione
di Irwin, Turrell elimina direttamente il soffitto
per farci sentire lo skyspace durante tutti i momenti
della giornata, e per tutti i periodi dell’anno. Solo
nell’apertura, nel vuoto architettonico, possiamo
renderci conto del vuoto che abbiamo intorno e,
ancora di più, del vuoto che siamo. È un vuoto
illuminante il vuoto angosciante, che è quello
della stanza, non a caso insistentemente dipinta
di un bianco glaciale. Oltre a tutto ciò, il cielo che
si dischiude ai nostri occhi, si rivela essere uno
sguardo che ci (ri)guarda.
René Magritte, La sera che cade, 1964
14
InSistenze
InSistenze
15
Finestre come crinali sul vuoto
Finestre come crinali sul vuoto
Turrell sait bien qu’être sur terre signifie être sous
le regard du ciel18
Questo sguardo è qualcosa che ci riguarda. Non
è necessario ricorrere ad una divinizzazione
degli astri o ad una metafisica di qualche tipo;
questo sguardo che ci guarda e che ci tocca non
è altro che il nostro sguardo che si rivolge ad
esso (i suoi Skyspaces non sono altro che oculi
architettonici19).
Turrell scoperchia una stanza, obbligandoci a
indietreggiare il capo mentre i nostri occhi fissano
una distanza non colmabile. La contraddizione di
fissare qualcosa che non riusciamo a raggiungere,
nemmeno con la vista, lascia intatto il vuoto che
separa il punto in cui la nostra vista arriva e
l’effettiva realtà del cielo. In quello spazio, vuoto,
avviene un cambio direzionale visivo, dove il nostro
sguardo, oramai distaccato dalla nostra persona,
inizia a ritornare a noi. Sentiamo effettivamente
di essere guardati, sentiamo un’osservazione che
spesso riconosciamo di natura divina, ma che
fondamentalmente è nostra.
Siamo noi che ci guardiamo fuori–di–noi e non ci
riconosciamo. Ma il nostro sguardo è implacabile:
infatti ci vediamo minuscoli esseri spaesati,
rinchiusi in una trappola per topi, anonima come
il bianco che ci schiaccia in quel luogo. La fuga
che Turrell ha aperto si dimostra essere soltanto
un’altra modalità di farci percepire la nostra
volgarità di esseri timorosi dello sguardo celeste.
Sollecitare la direzionalità del nostro sguardo
verso l’immensità di una inconoscibile grandezza
ripropone le domande fondamentali dell’esistenza,
mentre il vuoto racchiuso in noi si appesantisce
sempre di più.
16
James Turrell, Skyspace I, 1976
testa sporta nello spazio, e con un vento di etere
che soffia a chi sa quanti kilometri al secondo
attraverso ogni interstizio del mio corpo. La tavola
non ha solidità di sostanza. Camminarci sopra è
come camminare su uno sciame di mosche. Non
vi passerò attraverso? No; se faccio la prova,
una delle mosche mi colpisce e mi dà una spinta
verso l’alto; cado ancora, e di nuovo un’altra
mosca mi manda su, e così via. Posso sperare che
il risultato sarà che resterò quasi fermo: ma se
sfortunatamente cadessi attraverso il pavimento o
fossi spinto troppo violentemente fino al soffitto,
l’avvenimento non sarebbe una violazione delle
leggi della Natura, ma una rara coincidenza
[…] Effettivamente è più facile per un cammello
passare attraverso la cruna di un ago che per uno
scienziato passare attraverso una porta!21
Con il lavoro del torinese Sandro de Alexandris
noi ci situiamo in una ben differente temperatura
artistico–riflessiva. Il vuoto rappresentato (ma
sarebbe più corretto dire “suggerito”) dalle sue tele,
è un vuoto diverso dalle visioni fin qui analizzate.
È un vuoto di matrice orientale, riflessivo, visto
non come un’assenza di presenza, ma come
una presenza dell’assente, una cavità ricolma
di nulla. Nelle sue serie intitolate Stanza, Luogo
evocato, Fermagli dell’ombra, Dell’Aurora, siamo
costantemente posizionati in luoghi liminari20, di
passaggio, scevri da definizioni date una volte per
tutte. Varcare quella soglia non è semplice.
Sto sulla soglia d’una porta, pronto ad entrare
nella stanza. È una faccenda complicata. Per prima
cosa devo vincere una pressione atmosferica che
preme con la forza di 1,33 kg su ogni centimetro
quadrato del mio corpo. Debbo assicurarmi
poi di poggiare bene il piede su una tavola che
viaggia a 30 kilometri al secondo intorno al Sole:
una frazione di secondo di anticipo o di ritardo
e la tavola è lontana molti kilometri! Devo far
questo mentre pendo da un pianeta rotondo, la
InSistenze
Come la protagonista de La finestra della
biblioteca22, noi siamo ipnotizzati dalla massa
visiva che abbiamo dinanzi, che non ci permette
un’agnizione immediata di forme a noi note. Una
lettura più approfondita rivela, all’interno delle
rughe pittoriche, cunicoli che vanno a formare
una mappa visibile leggibile, nonostante questa sia
molto flebile. Iniziamo quindi a vedere qualcosa,
ma questo afflato vitalistico è sia conscio che
inconscio. Nel testo della Oliphant, la mania visiva
della protagonista vedrà, infine, un palesarsi
oggettivo percepito anche da altre persone.
Davanti ad un dipinto di de Alexandris anche noi
siamo in attesa di quel “grande evento”, di quel
momento dell’affiorare di un vero e proprio luogo,
ma sempre imprigionato in quella massa informe.
Questo guardare ossessivo si volge quindi in un
vedere illusorio: mondi e stanze iniziano a vivere
sotto i nostri occhi, loro creatori.
Vediamo ciò che “vediamo”: ma questa illusione
non si oppone alla realtà, bensì “ne costituisce
un’altra più sottile che avvolge la prima del segno
della sua scomparsa”23. Questa scorza visiva si
modula sulla realtà e, allo stesso tempo, la modifica
mentre si costituisce. Misticizzare il reale non
vuol dire tradirlo o elevarlo in una sfera non sua;
vuol dire intensificare l’esperienza diretta con
esso, coglierne il senso più profondo, percepire
il nucleo recondito che rimbalza sul velo esterno
che è la “visione”.
È difficile il dialogo con la parete: c’è un senso
di vuoto, talora emerge una vocazione quasi
intrinseca al nulla24
Sandro de Alexandris, Stanza, 1999
Non sappiamo esattamente dove ci troviamo,
non vi sono appigli fenomenici denotanti che
potrebbero svelare i nostri dubbi topologici. Tutto
è stemperato (e le eleganti tinte pastello aiutano
ancora di più questo movimento). Possiamo
quindi avviare un processo immaginativo, volto
alla creazioni di mondi, di visioni, di storie.
Di fronte a questo vuoto ci rendiamo conto che
siamo in presenza di un vuoto come “possibilità
di esistenza”, un vuoto di matrice taoista che
attende di essere riempito. Il vuoto che sembrava
essere sterile, inizia invece a popolarsi, proprio
per quella sua eminente peculiarità di non essere
mai privato della possibilità di ciò che lo rende
possibile. La vita.
InSistenze
17
Finestre come crinali sul vuoto
Il Vuoto Fotografato
1 L. B. Alberti, De pictura, Laterza, Roma-Bari, 1975, p. 15.
2 “L’irrealtà è una ‘parvenza’ effettiva” (E. Fink, De la phénoménologie, Minuit, Paris, 1974, p. 91).
3 “L’irrealtà di un mondo di immagini è soltanto finché essa è ricompresa all’interno della realtà complessiva
dell’immagine, che è l’unità mediatrice […] del mondo dell’immagine e del supporto” (Ivi, p. 90).
4 Cfr. F. Ferrari, Sub specie aeternitatis. Arte ed etica, Diabasis, Reggio Emilia, 2008, pp. 16-17.
5 “«Fenestrité» (Fensterhaftigkeit) d’une image” (E. Fink, cit., p. 92).
6 Cfr. E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, Abscondita, Milano, 2007, pp. 11, 55-56.
7 S. Pegoraro, Nel solitario cerchio. L’infinito e la pittura di C. D. Friedrich, Pendragon, Bologna, 1994, pp. 82-84.
8 Questo “vedere” riecheggia nella parole di Friedrich e in quelle di Wols. “Chiudi il tuo occhio fisico così da vedere
l’immagine principalmente con l’occhio dello spirito. Poi porta alla luce quanto hai visto nell’oscurità, affinché si
rifletta sugli altri, dall’esterno verso l’interno” in C. D. Friedrich, Scritti sull’arte, SE, Milano, 1989, p. 2.
9 H. Matisse, Scritti e pensieri sull’arte, Abscondita, Milano, 2003, p. 93, nota 54.
10 P. Virilio, Lo spazio critico, Dedalo, Bari, 1998, p. 80.
11 G. Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, Fazi, Roma, 2008,
p. 167.
12 Il procedimento della cornice dipinta era già presente in Seurat, Balla, Severini e Kandinsky. Cfr. J. Nigro Covre,
Una fenêtre di Delaunay in una “finta” cornice, in Studi Medievali e Moderni. Arte Letteratura Storia, 1/1997, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli, 1997, pp. 178-179.
13 R. Delaunay, Scritti sull’arte, Amadeus, Treviso, 1986, p. 44.
14 “Sappiate che non mi sento imbarazzato a danzare in cerchio. Amo molto danzare nella luce” da una lettera a Macke
(1912), Ivi, p. 67.
15 P. Virilio, cit., p. 84.
16 C. Knight e G. Panza (a cura di), L’arte degli anni ’50, ’60, ’70. Collezione Panza, Jaca Book, Milano, 1999, pp. 49-50.
17 P. Virilio, cit., pp. 80-81, 100. Questa finestra catodica viene utilizzata come “finestra sulla realtà”, autorevole ed
indiscutibile lettura del reale. Considerando attendibile ciò che passa sullo schermo di questa finestra, si dona alla
televisione un’autorità che non ha modo di esser discussa, anche in forza della propria unidirezionalità.
18 “Turrell sa bene che essere sulla Terra significa essere sotto lo sguardo del cielo” (G Didi-Huberman, L’homme qui
marchait dans la couleur, Minuit, Paris, 2001, p. 65). È necessario ricordare che la locuzione “être sur terre” in francese
vuol dire, ben inteso, “essere sulla Terra”, ma anche, più in generale “esistere”, “vivere”.
19 Ivi, p. 68.
20 “La soglia è la condizione della pittura” (A. Madesani, Indocile pittura, p. 25 in Sandro De Alexandris, Nicolodi,
Rovereto, 2007).
21 A. Eddington, La natura del mondo fisico, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 282. Cfr. sul brano anche W. Benjamin,
Lettera a Gerhard Scholem, in Id., Lettere 1913-1940, Einaudi, Torino, 1978, pp. 345-346.
22 M. Oliphant, La finestra della biblioteca, Marsilio, Venezia, 1996.
23 J. Baudrillard, Patafisica e arte del vedere, Giunti, Firenze, 2006, p. 89.
24 R. Pasini, La forma interminabile della pittura, p. 12 in Sandro De Alexandris. Catalogo della mostra, De Ferrari,
Genova, 1997.
Il Vuoto Fotografato
XII Festival Internazionale Di Fotografia
di Alessandra Carnovale
Fotografare l’assenza, il vuoto, la mancanza.
Semplificare, contrarre, asciugare le immagini al
massimo per coglierne l’essenza.
Questa è la sfida che si propone il XII festival
internazionale di Fotografia in corso al MACRO
di Roma dal 5 ottobre all’8 dicembre 2013, con
una collettiva che comprende il lavoro di artisti
internazionali quali Aline Diépois (1973, Svizzera)
& Thomas Gizolme (1967, Francia), Elger Esser
(1967, Stuttgart, Germania), Patrick Faigenbaum
(1954, Parigi), Gaston Zvi Ickowicz (1974, Buenos
Aires), Guy Tillim (1962, Johannesburg) e Jeff Wall
(1946, Vancouver).
Tema di quest’anno, forse tra i più estremi della
storia di questo evento è, infatti, la VACATIO, intesa
come sospensione e assenza, in contrapposizione
ai tradizionali valori fotografici di riempimento
e di rappresentazione nei confronti del soggetto
fotografato. Un tentativo, quindi, di riduzione, di
arrivare all’assenza come essenza, rielaborando
il soggetto e completandolo con visioni interiori
e proiezioni.
“Vacatio” soprattutto come stato mentale, che ogni
artista tende a interpretare in base alla propria
soggettività. È pertanto la vicinanza tra fotografia
e psicologia d essere messa in evidenza in questa
mostra, che punta altresì a riflettere su come sia
mutato il ruolo della fotografia stessa, tra le arti
forse quella maggiormente influenzata dal contesto
sociale, sia per la sua velocità di produzione – oggi
accentuata dallo sviluppo tecnologico –, sia per
il ruolo di testimonianza che le viene attribuito.
Un’emotività che, secondo Marco Delogu, il
direttore artistico del festival, è aumentata con
l’utilizzo delle nuove tecniche digitali, “ora ci si
interroga maggiormente sull’atto della fotografia
e non solo sul soggetto in sé”.
Si tratta, infine, in una riflessione sul bisogno
di fotografare e sui cambiamenti di identità,
sull’assenza stessa del mezzo fotografico o del
fotografo durante la fotografia.
Tutto questo si traduce in un ribaltamento di
priorità nel rapporto tra fotografante e fotografato,
nel non cercare soggetti in un’epoca di incertezze
strutturali e sociali. Un rispettare la condizione
individuale e di solitudine; e su questi nuovi scenari
labili, ricostruire un tessuto forte della fotografia
d’autore ricominciando a lavorare sulle singole
identità, lottare per la secca estetica di ognuno di
noi, la profondità.
*[Fabrizio Migliorati è il direttore della Civica Raccolta d’Arte di Medole (MN). Critico d’arte, curatore di numerose mostre e pubblicazioni,
collabora attivamente con riviste di arti visive. In queste settimane sta curando l’allestimento della mostra: ‘Il dinamismo dell’essere
- Sabrina Ferrari alla Torre Civica di Medole’, dal 15 dicembre al12 gennaio 2014 presso presso la Torre Civica di Piazza Castello di
Medole (MN). Per ulteriori informazioni: http://www.comune.medole.mn.it/]
18
InSistenze
InSistenze
19
Il Vuoto Fotografato
Il Vuoto Fotografato
A Number of Angles, di Fleur van Dodewaard a
cura di Claudia Caprotti e Alessandro Dandini
de Sylva, dove vengono messe in scena una
serie di composizioni, sculture, dipinti, disegni e
allestimenti, realizzate in studio per esplorare la
natura evocativa della geometria e del colore.
La visita della mostra
‘Vacatio’ e della mostra
parallela
‘Wounded
cities’ ha spinto il
nostro collaboratore
Miloje Savic (vedi
rubrica InStante) a
proporre alcuni suoi
recenti lavori in linea
con il tema ‘Il Vuoto
(in)colore’. Si tratta di
vedute dello skyline
di New York City
prese dalle sponde di
Brooklyn in occasione
del 12° anniversario
dell’attentato al World
Trade Center. Le torri
di luce si elevano dalla
terra al cielo riempiendo
di colore il vuoto di
Ground Zero. Senza
dubbio il grattacielo
più significativo del
mondo.
Another Country di Paolo Pellegrin a cura di
Marco Delogu, storie di vacatio e marginalità, di
costante e quotidiana violenza alla periferia di una
società, quella americana, che tenta di colmare un
vuoto enorme attraverso la mania del controllo.
Lo spunto per questa tematica è da ricondursi, a
quanto riferisce lo stesso Delogu, alla situazione
particolare che nei mesi passati si è trovata a vivere
questo paese, uno stato di vuoto istituzionale
(governo, presidente della Repubblica) che ha
generato sensazioni di incertezza e abbandono a
se stessi. Una condizione, quindi, di liminalità, per
riprendere un concetto mutuato dall’antropologia
culturale, sospesa tra un non più e un non ancora,
di transizione tra un “vecchio” ormai tramontato
e un “nuovo” informe ed ignoto e che, per la
sua propria condizione, può lasciare aperte
all’immaginario molteplici possibilità.
È nato quindi dall’attualità questo progetto
artistico che esprime il bisogno di testimoniare, di
combattere nuove e vecchie assenze nel mondo,
interrogandosi su quanto la fotografia possa
spaziare anche in terreni non reali.
Predominano allora in questa mostra, immagini
di paesaggi “estremi”: deserto, cespuglieti di
macchia mediterranea, visioni marine; in sostanza
tutti scenari poco ospitali o abitabili per l’uomo
contemporaneo.
Alla collettiva fanno da corollario numerose altre
esposizioni, tra le quali ricordiamo:
Wounded cities, di Leo Rubinfien, a cura di Joshua
Chuang una serie di ritratti che prende spunto
dalla “ferita” ancora aperta causata dell’attentato
di New York del settembre 2001, per estendersi
anche ad altri luoghi del mondo.
20
From the Background to the Foreground, di Sergio
Zavattieri, a cura di S.A.C.S, Riso, Museo d’Arte
Contemporanea della Sicilia, che travalica la
dimensione classica della fotografia, intesa come
superficie bidimensionale, per esplorare quella
spaziale e installativa.
1. Vacatio ‹vakàzzio› s. f., lat. – Vacazione, cioè vacanza,
sospensione di qualche cosa, esenzione da qualche obbligo.
Fonte: Treccani.it
2. Il concetto di limen (che significa “soglia”, “margine”
in latino) è traslato da Victor Turner dal lavoro di Arnold
Van Gennep, che nel 1909 pubblicò in Francia il libro Les
rites de passage (trad. italiana: I riti di passaggio).
InSistenze
*[Alessandra Carnovale vive e lavora a Roma. Si divide tra manualità (modellazione, principalmente) e scrittura (poesia). Ha partecipato
a mostre e concorsi letterari, ottenendo premi e riconoscimenti.]
InSistenze
21
Già un poeta, Lucrezio, aveva anticipato
intuitivamente (e motivato logicamente) che
la materia è fatta essenzialmente di vuoto: Nec
tamen undique corporea stipata tenetur / omnia
natura; “Nè, d’altronde, sono tenute tutte le cose
ammassate dalla loro natura corporea”, scriveva
infatti nel De rerum natura, poema didascalico,
filosofico ed epistemologico, esempio
modernissimo di poesia coniugata alla scienza.
Certo il poeta riprendeva la dottrina atomista
ed Epicurea della natura ma la filtrava
attraverso una grande visio poetica:”...esiste,
infatti, il vuoto nelle cose, / e conoscere ciò, in
molte cose ti sarà utile...Il vuoto è dunque luogo
intangibile, privo di cose.” (Libro I - vv. 329-334)
Iniziamo da qui, mettendo sotto l’ala
protettrice della Poesia più grande la nostra
esplorazione in versi sul vuoto, tema
vasto e inesauribile tanto quanto le filosofie
orientali e occidentali che vi si innestano.
Iniziamo dunque dal vuoto che, come la
morte, ogni vero poeta porta sempre con sé
“come il prete il suo breviario” direbbe Böll.
La poesia sa bene cosa sia il vuoto perchè
in primis è segno iconico che elabora una
struttura in versi e “versus è il solco, il
filare, ciò che va per un pò, poi s’arresta
e, o torna indietro bustrofedicamente,
o riprende da dove era partito, ma una
riga sotto”, ci sollecita Umberto Eco.
La partitura poetica è organizzazione iconica
e acustica nello spazio, è sollecitazione
sensitiva dal bianco di una pagina.
InVerso
Per questo proponiamo gli haiku, nati come
labile traccia d’acciaio di tre versi nel vuoto,
e diamo spazio a tante suggestioni tematiche
che i poeti portano radicate nell’anima:
la vertigine che si spalanca a fine verso,
la cesura, la spezzatura del ritmo e del
senso, il precipizio del nulla per un attimo:
Alessandra Carnovale
Dopo un susseguirsi di disillusioni e sofferenze, quello di Alessandra Carnovale é un saluto ultimo,
privo di qualsiasi forma parola o colore, un addio quasi inteso come parto di unico ed ultimo genito,
che é conseguenza non di un atto d’amore, bensì dell’ indifferenza altrui e che scivola via dal nostro
corpo anestetizzato, lasciandoci svuotati. (Laura Di Marco)
...il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco...
La poesia e il vuoto recitati da Montale, ad
esempio.
Uno stesso dolore del vuoto che ci stringe
tutti:
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni
gradino.
Letizia Leone
ADDIO
Senza desideri ascolto il vuoto che mi
colma. (C. Wolf, Medea)
Spenderò una lacrima,
distillato di sangue e rabbia,
per ogni istante
trascorso
dal nostro incontro.
Una lacrima
per tutte le volte
che il pensiero
è volato
a rannicchiarsi
dietro la tua ombra.
Una lacrima per le parole dette
e per quelle inespresse.
Una lacrima
per tutte le notti
di sabbia, pioggia o neve,
insonni, ad aspettarti.
E una lacrima per questo addio
muto, incolore, assente
partorito dal ventre
dalla tua indifferenza.
Creazione in terracotta di Alessandra Carnovale
*[Alessandra Carnovale vive e lavora a Roma. Si divide tra manualità (modellazione, principalmente) e scrittura (poesia). Ha partecipato
a mostre e concorsi letterari, ottenendo premi e riconoscimenti.]
InVerso
23
Valeriano Forte
Piccoli occhi quelli attraverso i quali ci fa guardare Valeriano Forte, che faticano a contenere la vita,
ma che la stessa vita spesso lascia stanchi, come piccoli otri di vetro da trascinare giorno dopo giorno,
gli stessi occhi che notano le piccole tracce che l’esistenza passando ci dimentica addosso e ci fanno
chiedere se rimarrà di noi qualcosa o se invece siamo tutti vuoti a perdere. (Laura Di Marco)
Occhi pieni
Tracce
Così piccoli occhi ma pieni a volte
di vuoto di mare e d’anima
di encresciadum
Tracce
lasciate o perdute che importa
strade percorse andate già
Occhi di vetro rotto
che faticano a guardare il mondo
Occhi a volte stanchi
di sopportare il peso dell’anima
Tracce
per non dire di essere invisibili
o che il sole non lasci impronte
Occhi che parlano afoni specchi
spargetevi intorno in frammenti
d’Amore e luce.
Tracce
sparse o riapparse
è libertà seguirle o meno
Tracce
canti perenni di rivoluzione
o riga continua della mia penna
Tracce di braccia il sudore
nel duro lavoro sfruttato ogni giorno
Tracce di sogni nei miei occhi al mattino
e note di pezzi Jazz tra le lenzuola pregne
Tracce
lettere sotto il cuscino al ritorno dal bar
Tracce di te
i capelli sulla giacca
unghie sulla schiena
una tazza lasciata sul camino
Tracce
cristalli di percorsi
dietro il guscio la lumaca
Tracce
chimica nei cieli è mistero?
Tracce
nei solchi provinciali della mia città
Tracce di tacchi
sulla scia del silenzio
e in lontananza una sagoma
Tracce di suoni
che conducono nella parte
più profonda di Noi
24
InVerso
*[Valeriano Forte è nato a Siena ma vive a Salerno. Ha alle spalle una formazione al conservatorio in pianoforte e in architettura. Dal
2004 al 2007 è tra i fondatori del collettivo artisti “Macunaìma”, diretto dall’artista brasiliano Marcos Pacoli. Dal 2011 cura per il Free
Press on-line “Kayenna.net” la rubrica poetica “la Biro Labirinto” raggiungendo in meno di un anno 50.000 lettori. È vice-presidente
dell’Associazione “Felix cultura onlus”, che promuove la piccola e media editoria campana. Pubblica nel 2012 con Aletti editore, per
la collana “Orizzonti”, nell’antologia poetica ”Poesie per ricordare vol.10”. Invitato dal grande poeta statunitense Jack Hirschman nel
2011, entra a far parte del (WPM) “World Poetry Movement”, per cercare con una cooperazione poetico - globale la promozione dei
valori di fratellanza e cooperazione tra popoli.]
InVerso
25
Roberto Marzano
Monia Minnucci
Un abisso, il baratro delle coscienze. Il colore è il nero, del torbido, del liquame, dei vermi che penetrano
nel cervello. Un testo forte, di grande impatto visivo. Immaginifico, pulp, provocatorio fino ad essere
angosciante. È forse questa l’eredità lasciata dalla beat-generation statunitense e dalla letteratura
gotica europea, fino ad arrivare agli scenari di un sempre più apprezzato Tim Burton. (Flavio Scaloni).
Il doppio vuoto di una madre-Medea descritta dai suoi figli e di una bambina lasciata sola; uno scenario
apocalittico scatenato da forze aspre e feroci. Monia Minnucci ci guida attraverso le sue visioni tutte
al femminile di Vuoti emotivi ed affettivi in cui i colori si mescolano tra il bianco e il nero in una
tavolozza di grigi. (Alessandra Carnovale)
SULL’ABISSO
Medea
Tunnel profondi di tele nere, vele del buio
sfilacciati percorsi duodenali contorti
cervelli bacati da increduli vermi
prendono per mano inermi dispersi
nel precipizio ingordo che abbaglia
fosforo offeso da quisquilie inguardabili
inguaribili ferite al buonsenso
al bisogno di nient’altro, che aria...
Dietro le orme,
il tuo volto si spegne,
sento ancora il profumo delle campane.
Spesse volte t’ho lasciata andare,
ancor più spesso t’ho vista tornare,
senza capire cosa vuol dire amare.
La luce del sole era nuda
e le parole non esistevano.
Povera Medea!
I figli che hai perso,
sono le pagine di chi ti ha descritto.
Gocce inclementi di nauseanti liquami
sgorgano dai muri putridi in grumi crudi
torbidano l’ampolla del silenzio afflitto
dall’incalzare pulsante dei tonfi sordi
scaraventato a calci in trappole truci
flebili legami di “lego” trasparenti
sinapsi assenti, per malattia senza rimedio.
Bocche aperte appiccicate a teste vuote
zucche rinsecchite, tutt’occhi spalancati
costantemente sintonizzate sull’abisso
di amichevoli consigli “smacchia-acquista-decidi-adesso”
nei declini inarrestabili che conducono a un sonno brullo
anche chi di loro giura e spergiura d’essere ben sveglio...
La tua fronte,
un labirinto d’amore,
troppi solchi e paure
nell’ignoranti favole anziane che,
tic – tac,
segnavano le ore.
Ti parlo ogni sera,
ma non odo il palpito dei tuoi lutti,
il fragore degli occhi rossi e affranti
a schermo degli affanni.
L’impronunciabile attrazione per la vita Immagine dal set del film ‘Medea’ (1969) di
di quartiere
Pierpaolo Pasolini. Maria Callas interpreta la
e tu che mi lasciavi sola,
maga della Colchide.
sulle giostre a singhiozzare.
*[Roberto Marzano, Genova 7 marzo 1959, narratore, poeta “senza cravatta”, chitarrista, cantautore naif e bidello “alternativo”. Barcollando
tra sentimento e visioni, verseggia di vagabondi e di prostitute, di amori folli, di ubriachi e dei quartieri ultrapopolari dov’è vissuto.
Meditabondo, si arrabatta tra città arrugginite, bar chiusi, televisori diabolici, supermercati metafisici, operai, nottambuli… e oggetti
inanimati ai quali dà viva voce. Una poetare pregno di originalità e dell’ironia pungente che lo ha già contraddistinto nel campo della
canzone d’autore. Come musicista (Roberto Marzano & gli “Ugolotti” e “Small Fair Band”) si è esibito in centinaia di concerti.]
26
InVerso
InVerso
27
Eleonora Pozzuoli
Vuoto d’ombra
Ho ancora un cuore
che traccia coordinate incomplete,
ferisce la linea buia d’orizzonte
e stipula contratti a breve o media scadenza.
Ho ancora una gradinata da salire,
un’altra farsa da interpretare,
un tappeto di sangue da stendere,
una mano da riverire e molte sagome in
azione.
Due parallele di pensiero,
due linee di condotta,
molti marchi di fabbrica,
qualche buona intenzione,
molte più sepolture
… Dimmi, ho ancora un cuore?
Ho visto qualcosa di aspro e feroce come
l’amore.
Ho dovuto uccidermi sulla soglia per poter
entrare
e quando il mio doppio ha vagito,
Il mare è impazzito nell’occhio di fuoco
e molteplici mali si sono sgranchiti le ossa,
un corvo nero volteggiava nella testa.
Quando vidi quel cielo di gesso e sudore
saggiai le nuvole della dannazione,
brucavano fiere sulla mia inanità
crocifissa a terra
come una lotta inutile e nascosta,
come spegnere una voce,
neanche esistevo.
Le lame senza pietà di questo componimento di Eleonora Pozzuoli triturano la coscienza dell’individuo.
L’autrice cerca riparo nell’occhio del ciclione, nel vuoto della centrifuga, per salvaguardare la propria
identità. Poi un cambio di scenario. Agli arrivi e partenze dell’aeroporto siamo in sospeso, come nel
sali-scendi degli ascensori. Ritroviamo lo stile fresco e al tempo stesso pungente di una delle nostre
più care collaboratrici. (Flavio Scaloni)
Possibilità di vuoto
C’è qualcuno che
ha acceso il
frullatore e non
trovo più pace né
equilibrio.
Passo i giorni a
schivare le
lame per
restare intatta.
Incartiamo i
pensieri e prepariamo la
valigia per
un viaggio sfumato,
sospesi e improvvisi
come il vuoto
degli ascensori in
aeroporto.
*[Monia Minnucci nasce a Sora e, attualmente, risiede a Frosinone. Sin da bambina coltiva la sua passione per le arti in generale, con
una particolare attitudine per la scrittura. La poesia, nello specifico, è utilizzata dall’autrice come una sorta di auto-terapia per sublimare
gli stati tensivi e le sofferenze, una catarsi rigenerativa, ove l’aspetto autobiografico non manca di tingersi d’universalità. I suoi testi
sono stati selezionati in numerosi concorsi indetti dalle case editrici e pubblicati su svariate antologie poetiche. Vince il primo premio
del concorso nazionale Virella A. Granese di Bellizzi con la poesia “Il libro degli spersi”; il racconto “Il bastardo” è primo classificato al
concorso nazionale “I racconti dell’agenzia del perdono”, promosso dalla casa editrice Livello4. Pubblica la sua prima opera poetica “La
bambola rotta” nel 2010 e, in attesa di pubblicare il suo secondo libro “Senza pelle”, prosegue con gli studi per specializzarsi nel campo
delle relazioni umane.]
*[Eleonora Pozzuoli è una poetessa. Ama il vento,sua figlia Greta, il suo uomo, l’heavy metal e la danza orientale. In ordine fuso e
confuso. Scrive poesie solo quando ne sente il viscerale bisogno perchè, attraverso le parole, ritrova i suoi spazi e definisce i suoi
contorni. Ama cucinare per i suoi cari. Ama le peonie e le etimologie. I suoi riferimenti maggiori sono Frida Kahlo, Billie Holiday, gli
Iron Maiden, la poesia della Plath e di Montale. Ha pubblicato una silloge di poesie, ‘’Ovale’’, nell’antologia ‘’Ladri di emozioni’’ per la
Bel Ami edizioni. Attualmente legge con cura le poesie di Antonio Veneziani e quelle di Helle Busacca. Vive nel suo mondo.]
InVerso
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Meth Sambiase
Marino Santalucia
L’autrice, al suo debutto per Diwali ma con alle spalle un curriculum letterario e poetico importante, ci
propone per il tema sul Vuoto (in)colore una sua visione spaziale. Come in una tela di Mario Fontana
guardiamo attraverso lo squarcio che l’autrice fende lungo la tela. (Flavio Scaloni)
Con versi sobri ed equilibrati, Marino Santalucia ci parla di appartenenze e apparenze attraverso il
vuoto e i colori. (Alessandra Carnovale)
Il ritrovo dei luoghi è grande
ma solo se ci si ferma
verso l’opposto
tutto si contrae, la polvere che imbianca
un letargo di silenzio
è la maledizione dell’oceano d’occidente
che corre da quando è nato
fin quando siamo nati e (s)corriamo
cataloghi a pagine di vene minori
città irregolari, folle eterne
desideri di vette immobili e transumanze
come saturnali vorremmo essere
impossessati e possedute anche a pezzi
fino a filtrarsi attraverso il tutto dell’inizio.
Non cerco apparenze
ma le appartenenze delle apparenze
visibili, che il vuoto incerto
avverte nei colori.
*[Meth è Simonetta Sambiase. Studi artistici (MIchele Sovente come docente di Letteratura contemporanea) e la passione della scrittura.
Lavori editi: Coniugazione singolare con la postfazione di Milo De Angelis, vincitore del Woman in Art 2011 e del XX premio Poesia
e Donna di Roma. Plaquette I quaderni dell’agnizione, con il contributo dell’associazione Lucaniart e la prefazione di Lorenzo Mari;
Leporis (in)canti matrigni, 2° posto al premio Città di Fucecchio 2012 e 5°nel Premio Polverini 2012. Il libro d’esordio è stato Una
clessidra di grazia, 3° posto del premio Polverini 2011. E’ stata segnalata al premio Giorgi, al premio San Vitale di Bologna e al Premio
Fortini (II ed). Finalista di Verba Agrestia 2012 e 2013, è stata scelta nel concorso per la V edizione di 8 poetesse per l’8 marzo.]
*[Marino Santalucia fa parte dell’ONG “Emergency” dal 2004. Nel 2010 ha pubblicato la silloge poetica Versi Riversi, Giulio Perrone
Editore. Suoi testi sono inseriti in diverse antologie (Edizioni Progetto Cultura, Edizioni Ursini, Opposto.net, Fusibilia Libri, e Lietocolle
Editore). Nel 2011 partecipa a “Teatri di Vetro Festival Ammaro Amore”, alla “Settimana della Poesia di Eboli” ed alla “Prima Edizione
Mare in Vista Cultura”.]
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Antonietta Tiberia
Accentuare le potenzialità della parola attravaverso la costruzione visiva del verso: gli haiku ‘liberi’ sul
vuoto di Antonietta Tiberia sono una dimostrazione esemplare di come si possa cesellare il significante
sul significato. Un movimento repentino e deciso, quasi una perdita di equilibrio a passo di danza.
(Letizia Leone)
Il focus di InVerso: Gli Haiku
Il pugile
Sconfortato cade
il pugile al tappeto
dopo un paio di ganci
sparati a vuoto
Haiku tra meridiani e paralleli
di Dona Amati
La trottola
Come trottola stupida
giro e rigiro
nel silenzio abitato
da un ingombrante vuoto
e sconfortata cado
schiantata come albero dal fulmine
*[Ciociara di origine e romana di adozione, vive tra Roma e Ceccano. Si destreggia tra narrativa, poesia e traduzioni. Ha pubblicato
nel 2012 I racconti del ponte (Ed. Progetto Cultura) e nel 2010 un libro di racconti e versi, Calpestando le aiuole (Ed. Progetto Cultura).
È redattrice della rivista línfera, fondata nel 2006 presso il Café Notegen di Roma dal Movimento della Neo-rinascenza letteraria. Ha
pubblicato articoli, racconti, poesie, prefazioni, traduzioni su quotidiani, riviste cartacee e on-line e su varie antologie.]
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InVerso
Il progetto editoriale di FusibiliaLibri
sugli haiku, i componimenti di antica
origine giapponese, dopo il felice esito
del precedente concorso concretizzatosi
nell’antologia “Haiku tra meridiani e
paralleli” (volume prefato dal poeta,
cultore di haiku e critico Francesco De
Girolamo, e corredato delle splendide
istantanee di Hitoshi Shirota dalle quali
emerge la suggestione dei paesaggi
giapponesi, e che è stato presentato in
diverse sedi tra cui quelle del Museo di
Roma in Trastevere e di Milano), si avvia
alla realizzazione del secondo volume
“Haiku tra meridiani e paralleli – Seconda
stagione”, nella medesima raffinata veste
grafica che ha contribuito al successo
del primo volume. Con questo secondo
invito di partecipazione al concorso, la
casa editrice intende realizzare un volume
che comprenda haiku di più ‘maturata
stagione’ rispetto al precedente, cioè con
un’aderenza più formale a quelle che sono
le regole e gli elementi costitutivi dell’haiku
la cui resa espressiva è paragonabile a
quella di una istantanea fotografica, di un
quadro: l’haijin descrive l’attimo nella sua
immediatezza, trasponendo nelle parole
la percezione profonda della vita, quasi
il misticismo della sua osservazione, del
resto le regole tradizionali di composizione
dell’haiku rimandano direttamente al
minimalismo della filosofia Zen, allo
spirito della essenzialità.
Inoltre, grazie all’interesse e all’impegno
dell’insegnante e poeta Antonella Rizzo,
FusibiliaLibri estenderà questa particolare
forma poetica dall’ambito editoriale a
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quello didattico mediante un progetto
scolastico che coinvolgerà gli allievi, dai
più piccoli agli adolescenti, dell’istituto
comprensivo E. Majorana di Lanuvio
(Rm).
“Haiku – Come ciliegi in fiore” è il
titolo di questa iniziativa, che rimanda
a un’immagine simbolo del Giappone, il
sakura, e alla sua fioritura, intesa come
crescita rigogliosa dei ragazzi, cui viene
suggerita la poesia come una risorsa in più
per decifrare il mondo. Insieme dunque,
per parlare di scrittura e creatività, di
stagioni, di immagini composte dalle
parole attraverso regole che raccordano
equilibrio e armonia del significato,
fondamenti che si ritrovano nella natura
e nei suoi linguaggi. Nuovamente in
squadra per entrambi i progetti, Dona
Amati, Francesco De Girolamo e Hitoshi
Shirota.
InVerso
http://www.fusibilia.it/?p=2411
Haiku tratti dal volume “Haiku - Tra meridiani e paralleli”, FusibiliaLibri ed. 2013
DONA AMATI
Acqua di stagno
indurita dal gelo
tutto si ferma
DENIS CORNACCHIA
Piogge umide
nubi grigie violano
terre aride.
ROSANNA FONTANA
Fiori di pesco
una cascata rosa
scende dai rami.
rorido prato
nuovo giorno che viene ~
nido si sveglia
Luna calante
tempo della semina
terra capace.
Brezza marina
come mano di bimbo
sfiori leggera.
serra le chele
sulla preda che guizza
granchio affamato
Il sole brucia
sulla sabbia velata
notti gelide.
Mi sdraio stanca
su morbidi tappeti
di foglie morte.
GUIDO BASILE
Ammiro il mare
navigo del blu l’onda,
come nel cielo.
ADA CRIPPA
Porta la luna
arabeschi sul viso
fiori d’acacia.
ANTONIETTA LOSITO
Sulla collina
velata nel mattino
pelo patate.
Lentamente mi
segue muto un cane,
cosi mi parla.
Oh! Nella testa
saltellano parole
qualcuna cade.
Gelida luna.
Cipolle e rape rosse
sopra il braciere.
Al fondo di mia
vita arriverò, ma
non sarà sera.
Calmi i rami
un ghiro rumoreggia.
Coltre di foglie.
In riva al fiume
tra l’erba verdeggiante
sguardi di bimbi.
GIULIA CHERUBINI
S’allunga l’ombra
dei passanti d’inverno.
Una ruga in più.
ANTONELLA FACCHINELLI
Zucche mature
al sole si gonfiano
teste spettrali.
UGO MAGNANTI
Equatoriale
sogno delle cicale
oltre il cancello.
Un cormorano
a pelo d’acqua. Fresche
note d’autunno.
Alberi stanchi
al mondo regalano
ultime ombre.
Di una formica
spiata sotto un agosto
tragitto impuro.
Una sera per
caso qualcuno corre
alta marea.
Ricci maturi
cadono tra morbido
muschio bagnato.
Senza memoria
un’ape inanimata
sepolta al sole.
InVerso
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Haiku tratti dal volume “Haiku - Tra meridiani e paralleli”, FusibiliaLibri ed. 2013
Antonio
Contoli
cammino impervio
ANGELA MARANO
L’oro del prato
fra i covoni imbastito
falcia settembre.
PAOLA VENEZIA
Stufa accesa,
bucce di mandarino.
E tu disegni.
foglie d’autunno
sono nell’ombra
che riveste ogni cosa
foglie d’autunno
passione
Rosso dell’Elba
le nostre labbra accese
fino al mattino
solo attraverso
corruzione e degrado
scorgo la luce
Nella notte blu
il silenzio dell’onda
muove la luna.
Sul mio balcone
crescono ranuncoli.
Ne farò canto.
Trine d’inverno
fra l’incontro dei ghiacci
fiorisce il prato.
Gioco di perle
tra i rami di caco.
Sogni di gatto.
lutto
un po’ più solo
in questa lunga notte
su questo mare
l’addio
bevemmo Ansonica
l’ultima cena insieme,
bionda pirite
nuvole
pioggia d’ottobre
avvolgono le nuvole
ciò che ho di tuo
Ostia
vecchio pontile
teatro della luna
ombre di amanti
memorie
dolce Aleatico
memorie di un’estate
dentro al suo abbraccio
il passerotto
viene l’inverno
ha smesso di cantare
il passerotto
vino bianco e frittura
era d’estate
vino bianco e frittura
sul terrazzino
solo le stelle
solo le stelle
quando la terra trema
restano immobili
Inediti per Diwali
il sentiero
lungo il sentiero
a farmi compagnia
sassi e cespugli
scogli di Chiaia
scogli di Chiaia
vagabondi calpestano
frasi d’amore
l’incontro
come il Rosato
nettare di Marciana
le nostre guance...
talmente bravo
talmente bravo
che ogni tanto si sbaglia
nel lavorare
innamorarsi
dall’Elba Bianco
ci lasciammo ingannare
e dall’amore
gennaio
zuppa di ceci
oltre il vetro appannato
corrono nubi
GIACOMO SOLDA
Hanno il sorriso
inciso sulle labbra
le caldarroste.
Solca l’azzurro
con ali di cristallo
la libellula.
Strade di fumo
dai camini s’alzano.
Torna l’inverno.
MARIA GRAZIA TATA
Il nuovo caldo
ed ecco che ritorna
la tenda gonfia.
Da dove viene
la neve, bianca, sola,
straniera luna.
Albero cavo
un respiro, di nuovo
sa che fiorirà.
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[sol]tanto
tutto finisce
noi possiamo sol[tanto]
coglierne l’attimo
fiori [già] secchi
cosa diremo
di questo autunno in fiamme?
fiori [già] secchi...
paradiso perduto
fragole rosse
l’ultimo breve giorno
di primavera
*[Antonio Contoli, in arte Fiorenero, nasce a Roma dove tuttora vive. Di giorno lavora coi numeri per un’importante network satellitare.
Di notte scrive poesie, racconti, articoli e canzoni che talvolta riaffiorano dal suo privato. Questa è una di quelle volte, con sua grande
soddisfazione.]
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Eugenia Serafini
Haiku di primavera
Haiku del fiore
teneramente
sì dolcemente
luce di primavera
Profuma l’aria
Bocciolo biAnco
Porta ci cielo
stecchi d’alberi
linfa silente
aspettano la vita
Giglio rOSato
Donna velata
Cela riso di perle
eccolo il fremito
ali nel vento
volo d’uccelli
Trottola nel cielo
Fiore divino
Il sOle rOsso
mi basta quest’incanto
fiorite gemme
profumo salso
Spuma di mare
Fiore salato
Libera sOgni
senza parole
cantano venti
parlano di carezze
Gelsomino notturno
Respiro d’ambra
Canto d’amore
gioiosamente
elena ride
vita che sgorga fresca
Ginestra e rOse
Nel sole dell’estate
Sonata in mi
fiori sui campi
a primavera
profumo d’infinito
volo di primavera
guizza di luce
la rondinella
*[Eugenia Serafini dice di sé: ‘Amo le farfalle e le nuvole, amo scrivere, recitare e dipingere. Giro il mondo per confrontarmi con gli
altri artisti, mi affascinano la loro creatività, i colori, i luoghi dove esprimono la loro cultura. Innamorata pazza dei miei nipotini,sono
una viandante della fantasia.’]
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Il concetto di vuoto nasce da un’aspettativa.
Un bicchiere è un bicchiere, contenere è il suo
scopo, la funzione determina l’assenza e il
contesto nutre l’aspettativa. Il vuoto allora è
il ‘non ancora’ o il ‘non più’, è un brontolìo
assordante, un ‘senza’ opprimente, oppure
pulizia, semplicità, silenzio. Nel vuoto i rumori
non parlano, gli equilibri vacillano. Il vuoto
è un risucchio, un anelito ingabbiato in un
contenitore che ridonda ogni minimo lamento,
ogni grido, dove anche il ridere diventa un’eco
inquietante. Il vuoto è anche riposo, pace,
meditazione. È una spiaggia assolata fuori
stagione. È un concetto che richiama il suo
opposto, è un’attesa di risposta a una domanda
non posta. È quella sensazione assurda che
aggredisce nella perdita improvvisa e d’un
tratto le cose non hanno più sapore né colore
oppure ne hanno inspiegabilmente di più.
Lasciano il segno queste sospensioni di
coscienza e ciò che manca ha una capacità
straordinaria di riempire in modo denso lo
spazio fotografico e le immagini rappresentano
l’unico mezzo per comunicare là dove il
silenzio assorbente impedisce la trasmissione
e il propagarsi di ogni messaggio che non
sia semplicemente ed unicamente visivo.
Allora la fotografia riesce a vincere il vuoto
esaltandolo,
rendendolo
protagonista.
Rebecca Cataldo
Il vuoto lo devi sentire dentro, perché è solo nella nostra emotività che questo
si può esperire, che può avere molteplici sfaccettature; a volte lo si riempie per
non sentirlo, per non starci a contatto perché doloroso, ma fondamentalmente
riempire questo vuoto significa non starci, ed è forse ancora più deleterio che
sentirlo, poiché se è presente evidentemente ha un suo significato, forse anche
funzionale per la persona. Dovremmo aprire la porta a quel vuoto, accoglierlo,
accudirlo, dovremmo farne una risorsa, una ricchezza e comprendere da cosa derivi.
Pietro Bomba
InStante
*[Rebecca Cataldo, di professione psicologa, si è spinta verso il mondo della fotografia per piacere personale. Con il passare del tempo
si è sempre più appassionata al “linguaggio” fotografico ed ha scoperto come questa forma d’arte la aiutasse a riscoprire se stessa
attraverso l’osservazione dei suoi scatti e alla lettura degli stessi. La fotografia e la psicologia sono molto più connesse di quanto non
si possa immaginare: rappresentano un connubio, un’integrazione tra le parti, dove entrambe esprimono emozioni che vanno “oltre”
l’apparenza stessa delle cose.]
InStante
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Claudia Chianese
La bellezza è un’esperienza fisica, mentale e spirituale. È nutrimento per l’anima, benessere per
la mente e per il corpo. Può soddisfare il desiderio di cose immateriali e farci conquistare la pura
presenza della vita, la sua semplicità, la sua chiarezza. È salute, equilibrio, appagamento profondo
che riverbera in dimensioni spirituali, in quel luogo sicuro dove possiamo abbassare le difese e
goderci l’essenza del momento, abbandonare tutti i pesi che ci portiamo dentro e goderci la vita.
*[Claudia Chianese è nata nel 1969. Nel 1990 inizia come graphic designer nello studio Convertino di Roma. Nel 1994, approda in
pubblicità in saachi & saachi e in dolci Roma.
Come direttore creativo del reparto, cura la coorporate identity di molti clienti dell’agenzia come Nomination, Auditorium Conciliazione,
Renault, Medusa, Fendi, Bulgari.
Ha vinto un leone di bronzo a cannes, due argenti all’adCi, due argenti al New York Press and Poster Festival e un premio per la miglior
sceneggiatura al Mezzo Minuto d’Oro.
Ha collaborato con l’Istituto Superiore di Fotografia di Roma e con l’Istituto Europeo del Design come docente. Artista da sempre, nel
2008 lascia i suoi impegni pubblicitari per dedicarsi a tempo pieno alla ricerca creativa. Attraverso la meditazione, praticata per lunghi
anni, fa confluire nelle sue opere il mondo della creatività e quello della spiritualità.]]
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Francesca Di Vaio
Miloje Savic
Queste foto sono state scattate appositamente per Diwali e per il tema ‘Il Vuoto (in)
colore’. Nascono da una riflessione sull’arte contemporanea, sull’utilizzo del vuoto
negli spazi museali e su come l’uomo si integri nel vuoto, lo faccia suo, lo occupi
transitoriamente pur lasciando, dans l’espace d’un instant, una traccia di colore indelebile.
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InStante
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Léopoldo Garcia-Castellanos
De-composizione
“La natura ti invita ad una pietrificazione profumata e aerea, a un’estasi senza lacrime,
ad una voluttuosità di ricordi di un altro mondo. E non ti senti più legato a nessun
oggetto, e non puoi più credere in niente se non nel tuo distacco dal mondo”.
da ‘Nichilismo e natura’ di Emil Cioran
“Vedere è un’azione a distanza. E ciascuna delle arti adopera un apparecchio di
proiezione che allontana le cose e le trasfigura. Nel suo schermo magico le contempliamo
come esiliate, inquiline di un astro irraggiungibile e assolutamente remote. Quando
manca questa “disirealizzazione”, si determina dentro di noi un’esitazione fatale: e
non sappiamo se viverle, le cose, o contemplarle”.
da ‘La disumannizzazione dell’arte’ di José Ortega y Gasset
Sono esattamente questi concetti che ispirano questa serie. La serie vuole avvicinarsi
alla pittura astratta, senza giungere agli estremi di saturazione e de-specificazione
del soggetto del lavoro di Franco Fontana né alla magniloquenza bucolica che è
propria della fotografia di paesaggio. Partendo dalla natura come soggetto della
fotografia, si cerca di astrarla e ridurla attraverso la composizione. Si pretende così
di instaurare una fuga dall’elemento naturale tale come ci si offre a prima vista: il
paesaggio arciconosciuto; la direzione di questa fuga è completamente opposta a
quella che ci porterebbe all’oggetto naturale per interporre fra lei e lo spettatore una
distanza contemplativa che obblighi ad una approssimazione diversa dal semplice e
diretto riconoscimento. Se Cioran dice il vero, la contemplazione del mondo finirà
con l’allontanarci da lui in un processo di oblio di ciò che è presente e di eliminazione
dell’accessorio che si contempla e da questo distanziamento della dimensione evidente,
l’unico modo possibile di contemplare l’opera sarà a partire dalla dimensione intuitiva.
È una ricerca del sublime e dello spirituale attraverso l’immagine.
*[Miloje Savic nasce in Serbia, studia in UK, diventa cittadino del mondo. Si muove tra Stati Uniti ed Europa, la macchina fotografica
sempre al seguito. L’Italia è uno dei suoi paesi d’elezione ed è spesso a Roma. Ha all’attivo mostre fotografiche a NYC, Belgrado,
Manchester. È membro dell’Associazione Americana Haiku.]
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*[Leopoldo A. García Castellanos è un umanista messicano trasferitosi in Spagna, dove tuttora risiede e lavora presso l’Università di
Salamanca. Si occupa prevalentemente di estetica e semeiotica, con un un forte interesse per la retorica dell’immagine. Negli anni si è
confrontato anche con altre discipline, dalle scienze sociali alla psicologia, dalla letteratura alla cinematografia. È direttore artistico e
membro del comitato editoriale per diverse riviste, spagnole e non. Il suo lavoro lo ha portato a viaggiare attraverso più di 15 paesi e
oltre 200 città, occasioni che hanno arricchito il suo percorso fotografico, iniziato nel 1998. Ha all’attivo diverse mostre e pubblicazioni
uscite per il pubblico latino-americano e attualmente sta preparando il libro ‘Rapire l’Europa’.]
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Un battito. Un punto.
Il punto è il centro, dimensione senza
dimensioni, manifestazione non richiesta,
mai necessaria, apparsa per la gioia di
essere. Esplosione di colore, galleggiante
nel vuoto meditativo di un suono che
accompagna la coscienza: canto, preghiera,
litania. Giorni e giorni nell’immersione
del gesto tanto piccolo da essere in
grado di costruire la rievocazione della
manifestazione del mondo stesso, degli Dei,
della danza cosmica della vita.
Il vuoto (in)colore.
Si appropria di materia, corpi, spazi, luoghi.
E il percorso video di Diwali avanza di
presenza in assenza, scartando la parola,
privilegiando il gesto, il suono, l’apparizione.
Polvere, tessere, palazzi, teatri delle ombre.
Case vuote.
Non diamo e non cerchiamo definizioni:
solo un battito, al centro del cuore vuoto del
cosmo.
Maria Carla Trapani
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Un battito al centro del cuore vuoto
del cosmo
di Rajanish Pandili
Mandala: senza distruzione non esiste rinascita.
Tutto si condensa in un’azione che agli occhi del mondo osservante può sembrare
quasi un affronto: spazzare via la polvere che compone il Cerchio, disperdere la
condensazione delle forme, soffiare via giorni e giorni di lavoro.
Ma così è il ciclo delle esistenze, delle ere, delle cosmogonie.
Perché restare attaccati a ciò che è compiuto, a quanto ha esaurito il suo compito?
E nel vuoto tutto ricomincia.
Il vuoto della volta stellata, vuoto silenzioso ricolmo di luce, in cui i punti luminosi
delle stelle non sono altro che spie della luminosità senza confini che il manto blu
nasconde.
Lanterne luminose che, nel silenzio vuoto del respiro trattenuto, si innalzano,
riempiono il vuoto di colore della notte con la lentezza di una danza cosmica, con il
pieno assoluto di milioni di piccoli fuochi danzanti.
Ancora, lasciar andare, non trattenere.
Vuoto, luminoso, (in)colore.
Silenziosamente, Loi Krathong
FLOATING LANTERNS
MAKING OF A MANDALA
Oggetti nel vuoto, persone nel vuoto.
Il corpo, il vuoto neutro iniziale: movimenti che diventano il pretesto per esplorare
dimensioni, colori, forme. Il colore diventa corpo-materia, il vuoto riempito, l’essenzapersona manifestazione di possibilità di fusione.
*[Rajanish Pandili nasce in India, non quella conosciuta dei percorsi turistici ma quella sperduta e povera delle piantagioni di thè. Si
forma in cinema a Nuova Delhi e lavora per diversi anni nel circuito di Bollywood. Approda in Italia negli anni ‘90 per perfezionarsi
in regia, attratto dalla storia e dalla bellezza del neorealismo italiano. Cultore di discipline orientali esplora le possibilità di incontro e
di fusione tra Oriente e Occidente.]
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InMobile
InMobile
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CONFERENZA SUL COLORE
Vuoto che inghiotte, che permane, resiste.
Il vuoto spaventa, aggredisce.
E allora riempirlo, che sia per gioco o per ribadire una presenza. Presenza del colore,
della vita. La sua distruzione, al contrario che nel Mandala, ci fa pensare all’angoscia,
alla desolazione desolante dell’azione vana, del lavoro perduto.
Domino, come riflessione.
DOMINOES
Vuotoepieno,
bianco e nero.
Il teatro delle ombre, scenari occupati da personaggi senza corpo, evanescenti
eppur pieni di presenza.
Mistero (in)colore, inghiottito il colore dal nero dell’ombra, che il bianco solenne
della luce rimanifesta nella sua vera essenza.
Vuoto?
(in)colore?
L’IMPERO DELLA LUCE
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CITY BLOCKS EXPERIMENT
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Vuoto, occidente: fa paura?
Scompare il colore, resta il grigio, del cemento.
Il grigio, indossato dai maghi, perché neutro, perché capace di rifrangere senza
intervenire le vibrazioni di ogni colore. Il grigio degli edifici che crollano, instabili,
che vengono fatti crollare per costruirne di nuovi, affinché di vuoto non resti nulla.
Vuoto incolore, transitorio, strumentale.
Mai fine a se stesso.
Vuoto sentimentale.
La casa vuota, svuotata degli oggetti, degli affetti.
The empty house, colonna sonora scritta dagli Air per il film Il giardino delle vergini
suicide di Sofia Coppola, nella reinterpretazione visiva di Pasaporte.
Vuoto svuotato del colore.
KEVA PLANKS BUILDING
EMPTY HOUSE
SKYSCRAPER IMPLOSION
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InMobile
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Con questo numero abbiamo il piacere di
aprire una collaborazione con la squadra
di Daniele Picciuti (http://danielepicciuti.
com), presidente dell’associazione Nero Cafè
(http://nerocafe.net). Daniele ci suggerisce
alcune letture già recensite nei suoi canali di
divulgazione letteraria e siamo lieti di dare
notizia anche della sua ultima fatica editoriale.
Ci auguriamo che i consigli di lettura
presentati possano incontrare il favore dei
nostri lettori e che questo sodalizio possa
continuare nei prossimi numeri di Diwali.
Diwali – Rivista ContaminataVerdinti
onequam in tam ina, defachuit, nitimiu
rsulintes num diem ve, sendam ubis
L’Autunno di Montebuio
di Danilo Arona e Micol Des Gouges
Nero Press Edizioni è lieta di presentare
un titolo che molti di voi riconosceranno.
Dopo L’Estate di Montebuio, di qualche
anno fa, è in arrivo l’Autunno! Si torna
a parlare dei misteri del Monte Buio
e, ancora una volta, la penna è quella
di Danilo Arona, maestro indiscusso
dell’horror italiano, stavolta coadiuvato
dalla giovane Micol Des Gouges.
Leggiamo dalla scheda de L’Autunno di
Montebuio:
InDicazioni
Montebuio è un piccolo paese a novecento
metri di altitudine sull’Appennino Ligure.
Trentadue abitanti che si conoscono
da sempre. E, per qualche motivo
incomprensibile, trentadue da sempre.
Una minuscola comunità, all’apparenza
tranquilla.
Dopo una stranissima estate, quella del
1962, che lascia ancora dietro sé misteri
non spiegati, i tre bambini protagonisti –
la voce narrante Lisetta, l’irritabile Ettore
e il pauroso Santino – ricominciano la
vita di sempre: scuola, giochi in piazza,
missioni esplorative nei dintorni di
Montebuio. Ma quello che vivono non è
un autunno come tutti gli altri. Perché, a
partire da sabato 20 ottobre, le giornate
dei ragazzini iniziano a essere scandite
da terribili telegiornali, da gravi notizie
provenienti dall’altra parte del pianeta,
dal silenzio tetro degli adulti e da false
rassicurazioni.
Il trio sente parlare di missili, di ordigni,
di America, Russia e Cuba, di capitalisti
e comunisti. Notizie di distruzione e di
morte, minacce dello scoppio imminente
di un conflitto mondiale.
Ma non è solo questo clima di paura che
devono affrontare i tre amici. Cose ben più
strane e terrificanti accadranno nel paese.
Perché la paura, al suo picco, è in grado di
materializzare i terrori del mondo. Quello
esterno e quello interno.
E i missili voleranno in direzione di
Montebuio. E con loro altre cose che
nessuno mai dovrebbe vedere.
Titolo: L’Autunno di Montebuio
Autori: Micol Des Gouges e Danilo Arona
Editore: Nero Press Edizioni
Prezzo di copertina: 15 euro (brossura) – 2,99
(ebook)
Pagine: 250 circa
Isbn: 978-88-907259-6-8
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Oltre l’incerto limite
di Tina Caramanico
Oltre le colonne d’Ercole c’è il resto del
mondo!
Molto tempo fa erano arrivati a credere
che l’eroe forzuto si fosse preso la briga
di sistemare due colonne ai confini del
mondo per… fare cosa? Non l’ho mai
scoperto, ma prendo per buona la teoria
secondo cui fossero qualcosa di simile al
moderno cartello di “divieto d’accesso”.
Insomma, un bell’invito a rimanere
tranquilli entro i sicuri confini del noto e
a non avventurarsi oltre, in quell’ignoto
di cui nulla si sa.
Cristoforo Colombo, quella testa dura di
un genovese, ha pensato che oltrepassarle
fosse una buona idea e grazie alla sua
trovata ci siamo ritrovati con un continente
in più. Che poi, a quanto pare, non aveva
ben capito contro quale terra fosse andato
a sbattere, ma aveva scoperto il resto
del mondo. Da questa piccola avventura
all’italiana noi possiamo tirare le somme e
capire che non tutti i limiti ci proteggono,
talvolta ci intrappolano e basta.
Oltre l’incerto limite è il nuovo libro
di Tina Caramanico, edita da Runa
Editrice, in cui l’autrice affronta il tema
dello sconfinamento, dell’andare oltre al
limite, attraverso i suoi dodici racconti
che spaziano nei diversi generi letterari.
Oltrepassare la soglia per i protagonisti
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può essere una scelta cosciente o il frutto
di una serie di eventi, così come possono
iniziare il loro cammino spinti dall’amore
o per trovare uno sfogo alla propria rabbia.
Molti approderanno a un altrove che li
cambierà per sempre, mentre altri non
faranno quell’ultimo passo necessario
e rimarranno intrappolati, seppure già
trasformati da ciò che hanno intravisto.
Una falsa geisha sul duomo di Milano,
un figlio adottivo in crisi, un’adolescente
obesa e una gemella stanca di essere
eternamente accoppiata alla sorella
identica, questi sono alcuni dei personaggi
nati dalla fantasia dell’autrice.
Mirko Giacchetti
Titolo: Oltre l’incerto limite
Autore: Tina Caramanico
Editore: Runa Editrice
Prezzo di copertina: 10 euro (brossura) – 1,99
(ebook)
Pagine: 134
Isbn: 9788897674207
Ritorno alla Mary Celeste
di Daniele Picciuti
Segnaliamo con piacere l’uscita del nuovo
libro di Daniele Picciuti, presidente
dell’associazione Nero Cafè e instancabile
scribacchino dai contenuti foschi.
Ritorno alla Mary Celeste, realizzata come
fosse una novella, è un dichiarato omaggio
ad alcuni racconti gotici del Novecento. In
particolare ci riferiamo a I pirati fantasmi
di William Hope Hodgson e La nave
fantasma di Oliver Onions. Allo stesso
tempo essa propone una rivisitazione
in chiave moderna, sviluppandosi da un
mistero reale e mai del tutto chiaramente
spiegato – la scomparsa dell’equipaggio
della Mary Celeste avvenuto nel 1872 – ed
allacciandosi alla moda attuale dei reality.
All’interno del volume troviamo altri
quattro racconti.
Il primo, di media lunghezza, vede
contrapporsi vampiri e cacciatori degli
stessi in una lotta senza esclusione di colpi.
Il sangue delle tenebre, questo il titolo, nel
lontano 2000 si classificò quinto al Premio
Courmayeur di Letteratura Fantastica, e
lo ritroviamo qui riadattato e rimpolpato
per l’occasione.
A seguire, L’occhio di Arge, racconto
già pubblicato nella raccolta Mistero (Il
mondo Digitale Editore, 2010), che parte
da un mito greco classico per inoltrarsi
in una Sicilia dal sapore lovecraftiano.
Reliquia è invece una sorta di med-fantasy
a forti tinte horror, che segue le vicende
di un pugno di Crociati la cui missione
è portare in salvo una preziosa, quanto
letale, reliquia.
A chiudere la raccolta è Dove muore
il giorno, racconto piazzatosi terzo al
Premio Algernon Blackwood nel 2011, un
pezzo capace di mettere a confronto Bene
e Male unendo insieme angeli e demoni a
un forte tema sociale.
Ritorno alla Mary Celeste, Dunwich
Edizioni. Disponibile in brossura e formato
ebook su tutti i principali portali e librerie
online.
Titolo: Ritorno alla Mary Celeste
Autore: Daniele Picciuti
Editore: Dunwich Edizioni
Prezzo di copertina: 9,90 euro (brossura) – 1,99
(ebook)
Pagine: 184
Isbn: 9788898361083
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InChina
di Mario Lucio Falcone
*[Mario Lucio “the Marius” Falcone nasce a Napoli ma cresce tra le migliaia di pagine dei fumetti che custodisce gelosamente e che
hanno dato una direzione alla sua voglia di disegnare, manifestatasi all’età di tre anni. Probabilmente vi ricorderete di lui per Violet
l’eroina anticamorrra, per la webstrip Advanced Nerds o per la fanzine telematica PippaMentis.]
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www.rivistadiwali.it