Sul Brigantaggio meridionale dal 1799 al 1900

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LICEO CLASSICO “TOMMASO CAMPANELLA” DI REGGIO DI CALABRIA
RICERCA SUL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE
DAL 1799 AL 1900
CLASSE II liceo SEZIONE F
ANNO SCOLASTICO 2010-2011
PREMESSA
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La presente ricerca fa parte del progetto Fare gli italiani, culture a
confronto ed è stata condotta nell'anno scolastico 2010-2011, sulla
base di alcune letture critiche, dagli alunni della classe II sezione F
del Liceo Classico “Tommaso Campanella”di Reggio di Calabria,
coordinati dal Prof. Giuseppe Licandro.
L'intento è stato quello di approfondire la conoscenza del fenomeno
del brigantaggio nel Mezzogiorno, con particolare riferimento alla
Calabria, esaminando le ragioni politiche che spinsero una massa non
indifferente di contadini e di proletari del Sud ad opporsi dapprima al
dominio francese, poi alla restaurazione borbonica e, infine, alla
legislazione imposta dallo Stato italiano.
Il lavoro è diviso in sette parti e spazia dalle origini del brigantaggio
antifrancese, subito dopo il 1799, fino alla definitiva repressione del
fenomeno intorno al 1870 , descrivendone alcuni dei più noti briganti
della Calabria e facendo riferimento anche alle origini della
“picciotteria” nel Reggino, nonché all'ultimo, per molti versi atipico,
bandito calabrese, Giuseppe Musolino. In appendice è inserita una
nota bibliografica con l'indicazione dei principali testi consultati dagli
allievi.
IL BRIGANTAGGIO NELLA PRIMA META' DELL'800
A leggere gli storici o gli scrittori che si sono espressi sul
fenomeno del brigantaggio, emergono continuamente
sentimenti, posizioni e valutazioni quasi mai concordi ed
univoci; infatti il brigante è visto una volta come bandito
feroce, un'altra come eroe leggendario in difesa dei deboli,
oppure ad volte viene visto come un personaggio
marginale della storia o come figura di grande rilevanza
storico sociale.
Sorvolando sul fatto che il fenomeno, come scrive lo storico
francese Fernand Braudel, affondi le sue radici molto
indietro nel tempo, e superando le molte generalizzazioni o
le mode che pure hanno influenzato i giudizi sui briganti,
questi ultimi devono essere considerati comunque,
protagonisti di un momento organico della lunga “tragedia
meridionale”.
FERNAND BRAUDEL è
stato un illustre storico
francese. (1902-1985)
Durante tutto il periodo in cui si sviluppò, i briganti furono utilizzati
contro i baroni dai sovrani e contro questi dai baroni. Ma cominciamo
il nostro studio da due momenti storici particolari:
il 1779 e il 1806.In entrambi, il brigantaggio ebbe un ruolo decisivo
nella lotta contro i francesi: in funzione reazionaria con l'irruzione
delle masse contadine contro la borghesia giacobina e riformatrice nel
1799 e come protagonista della rivolta più ampia e drammatica nel
1806.
La sua organizzazione irregolare ed anarchica non fu mai stimata
come una vera e propria struttura militare anche perché,si diceva ,
composta da persone di origine “abbiette” e molto spesso da criminali
e assassini che avevano raggiunto,in alcuni casi,anche i più elevati
gradi dell'esercito,ma solo grazie ai favori dei Borboni, che li
sfruttavano nella causa antifrancese.
Altre volte furono confusi nel più vasto popolo amato,i cui obbiettivi
secondo alcuni storici (Il Colletta ad esempio) erano ben diversi da
quelli dei briganti. Insomma, districarsi tra il carattere socio-politico e
quello criminale, tra vera insurrezione e brigantaggio è stato – e
ancora oggi se ne discute – il tema che ha diviso e divide la
storiografia su questo fenomeno.
Le truppe francesi entrano in Napoli il 21 gennaio 1799 Museo di Versailles
Comunque si deve pur dire che, nel decennio di
inizio '800 i briganti avevano formato una
estesa rete di piccoli e grandi “masse”,
uscendo dall'isolamento individuale o di
gruppi esigui. Infatti, il Ruffo, fu artefice della
prima grande levata di massa di popolo e
briganti, per arrivare fino a Napoli a
combattere i francesi,levata risultata
indispensabile alla Monarchia per
riconquistare il Regno. Questo però significò
anche aver posto delle pesanti ipoteche per il
sovrano ed il suo potere politico, per cui le
bande di briganti inglobate nell'esercito,dopo il
periodo eccezionale del 1806 faticarono non
poco ad accettare la loro emarginazione.
Card. Fabrizio Dionigi RUFFO,dei
duchi di Baranello e Bagnara (17441827)
A livello locale il loro potere era enorme e
sovrastante e la monarchia, non riuscendo a
reprimerne la potenza, fu costretta a
conquistarsi le sue simpatie.
Il brigante Mammone, uno dei più feroci
briganti,fu ucciso perché tra i più ostili e
refrattari a cedere. Tuttavia il brigantaggio e i
suoi effetti nella società divennero col tempo
“normali” e, poiché non fu vinto,venne spesso
usato e strumentalizzato. Episodi di violenza,
omicidi, stragi e saccheggi da parte di briganti
come Fra Diavolo, Sciarpa e Sciabolone si
susseguirono successivamente.
Ma, tornando all'analisi del fenomeno,ci si
continua a chiedere da dove sia nato e come si
sia sviluppato un così esteso moto di ribellione.
Molti concordano sul fatto che le cause più
profonde siano da ricercare nel sistema
economico e sociale che aveva creato miseria,
precarietà e forti squilibri delle risorse.
Fra Diavolo [Michele Arcangelo
Pezza] (1771-1806) è stato un
noto brigante italiano
Il caso più drammatico è rappresentato proprio dal brigantaggio in
Calabria. Alcuni tentativi di ridistribuzione delle ricchezze e delle
proprietà erano miseramente falliti e il conseguente rancore popolare
si manifestò sotto forma di Sanfedismo o brigantaggio,talora
strettamente intrecciati tra loro, sfociando in una vera e propria guerra.
Stabilire se nel 1806 ci fu una vera insurrezione o fu solo un
fenomeno di brigantaggio rimane controverso perché i due aspetti
sono spesso mescolati e per giudicare la reale portata del fenomeno si
devono considerare le conseguenze e gli effetti sull'assetto
complessivo della società meridionale .Una svolta si ebbe con la
discesa al Sud dell'esercito di Murat , allorché la polizia murattiana
individuò 5400 briganti in Calabria rispetto ai 472 della Campania:
cominciò allora una feroce repressione con un drammatico bagno di
sangue. Ridotto nei numeri, nel ruolo e nella forza il brigantaggio
rimase,tuttavia, vivo e mescolato all'opposizione dei contadini e della
nuova borghesia agraria e manifestò la sua presenza con atti criminosi
e di guerriglia.
La Calabria Ulteriore in una mappa settecentesca
La fine del sistema feudale, nel 1806, aprì nuovi scenari e le forze in
campo si combatterono con nuovi obiettivi e nuove aspirazioni :i
baroni persero la giurisdizione ed altri diritti connessi al feudo, la
borghesia rafforzò l'assetto della grande proprietà ma i contadini, pur
acquistando piccole quote di proprietà persero però molti diritti
comunitari per cui la loro condizione rimaneva precaria. Sullo sfondo
il fenomeno del brigantaggio persistette e, pur non assumendo mai il
carattere rivoluzionario come afferma qualche storico,teneva sveglio
nel popolo lo spirito di vendetta e di rivolta.
In seguito tre furono i momenti di reviviscenza del fenomeno del
brigantaggio:
1) nel quinquennio 1815-1820;
2) in coincidenza con il ritorno di Francesco I;
3) negli anni’40.
Tutti e tre questi momenti coincidono con congiunture economiche
avverse e si innestano con acute crisi politiche: la rivoluzione carbonara, i
moti del ‘28 e la rivoluzione del ‘48. Forse non esistono veri collegamenti,
ma non è senza importanza se in quei momenti il brigantaggio endemico
acquistò nuovo vigore e rilievo politico. Insomma le mutate condizioni
sociali scaturite dal regime di Murat, come si è detto, ridisegnano una
società completamente diversa in cui i rancori della plebe si riaccendono.
Nel 1814 Murat dichiara finito il
brigantaggio e con esso decadute le
leggi speciali per cui i delitti
vennero condonati o ridotti. Il
brigante tornava ad essere il
delinquente abituale e con la
restaurazione del 1815 Ferdinando
dichiarava abolita l’azione penale
nei loro confronti: la lotta al
brigantaggio divenne una questione
di reati comuni.
Gioacchino Murat (1767-1815) è stato un
generale francese, re di Napoli e maresciallo
dell'Impero con Napoleone Bonaparte
Ma qualche anno più tardi con la carestia dovuta agli scarsi raccolti e al forte
aumento del prezzo del grano tornò la miseria la fame e con esse le lotte
interne al ceto politico che, pur non essendo una causa diretta,alimentò il
risveglio briganti che in questa fase si affiancò alla carboneria e al
calderarismo, si diffuse cioè un perpetuo conflitto intrecciato alla situazione
economica consentendo un reclutamento di nuove forze di briganti. In
questo contesto emergono le figure di due capi di briganti: Gaetano
Meomartino detto Vardarelli e don Ciro Annicchiaro, detto Papa Ciro, prete
brigante. Diversissimi tra loro, rappresentano, tuttavia, molto bene la
fenomenologia di questa fase del brigantaggio politico. Guerrigliero il
primo, fuggiasco il secondo: i due briganti hanno in comune la loro
provenienza filo borbonica, sono stati entrambi carbonari e attuano un
brigantaggio di tipo populista a favore dei contadini. Operano in un ampio
territorio tra Capitanata, Molise e Puglia. S’incontrano molto poco, agendo
invece in maniera del tutto autonoma, anche se entrambi avevano però una
forte componente popolare che spiega la simpatia e la solidarietà delle plebi
rurali.
Di fronte ad un così grave movimento brigantesco, che coinvolgeva
più province ed era avviluppato al mondo settario in tempi di
profonda crisi, il governo/dopo il fallito tentativo di repressione, venne
a patti coi briganti. Il caso Vardarelli fu clamoroso e portò fino alla
firma solenne di una “convenzione” tra brigante e amministrazione
politico-militare e si concluse dopo le stragi di Ururi e di Foggia, con
la morte di Vardarelli, dei suoi fratelli e di 20 uomini della sua banda.
Con Annicchiaro, il brigante prete, non si scese mai a patti, egli fu
arrestato, dopo due mesi di lotta e fucilato sulla piazza di Francavilla
Fontana. Dopo la fallita rivoluzione del 1820, crollato il “colosso”
carbonaro, gli effetti, come la rottura tra borghesia e ceti rurali, furono
durevoli e irreversibili anche quando salirono al potere prima
Francesco I e poi Ferdinando II.
Il brigantaggio fu in questo periodo poco diffuso
anche in Calabria, regione dove il fenomeno è
presente, ma ridotto a poche bande di 10-15
uomini. Ovviamente un fenomeno di così vaste
radici nel costume e nella società era tutt’altro
che spento. Esso negli anni a seguire rinasceva
ogni qualvolta la conflittualità di base si
riacutizzava e quando s’entrava in fasi di crisi
politica ed economica.
Si sviluppò, quindi, una nuova fase di brigantaggio criminale e sociale che trovava
appoggi nelle campagne, anche se non si legava ad un preciso fermento politico
diffuso. Le cause della reviviscenza di questo periodo furono da un lato, lo sviluppo
demografico del Meridione, con tassi di crescita elevati rispetto al passato, senza un
correlato aumento delle risorse; dall’altro, la crisi finanziaria seguita allo sforzo della
rivoluzione del ‘20 e i raccolti magri del periodo che va dal 1821 al 1827. Se si
aggiunge poi che il sovrano Francesco I aveva riaperto la crisi politica anziché
risolverla, con la sua risposta reazionaria alla domanda riformista, il terreno per un
risveglio di ribellione era bello e pronto e il brigantaggio ritrovava quasi naturalmente
lo spazio perduto.
Seguì come prevista una forte reazione militare con
esecuzioni e arresti spesso indiscriminati che
testimoniavano un sentimento di paura nel potere e di
ribellione nei ceti popolari. Se si guarda poi all’età di
Ferdinando II e soprattutto agli anni 1830-1848
colpisce il fatto che quella fase di progresso
economico e civile si chiuse non solo con una pagina
rivoluzionaria nel 1848, ma con una altrettanto
pericolosa fase di brigantaggio che precedette e seguì
la crisi politica stessa. Per cui, in un certo qual modo,
risultò ancora più complessa e controversa la terza
fase di reviviscenza del brigantaggio, almeno fino alla
rivoluzione del ‘48, alla quale sopravvisse. Non più
solo come conseguenza del conflitto a sfondo sociale
o effetto di crisi economiche: anche quando la
situazione è in forte crescita e si registrano evidenti
evoluzioni della società, ad alimentare il risveglio del
fenomeno del brigantaggio è la nuova struttura delle
classi sociali che via via andava formandosi negli
anni.
Ferdinando Carlo Maria di Borbone
(1810 -1859) è stato re del Regno delle
Due Sicilie
Il tipo di sviluppo economico aveva prodotto una nuova fase, più grave, di
miseria delle plebi rurali, palpabile fino alla sussistenza. Molte zone del sud
avevano visto crescere la produttività, ma si era spostato ulteriormente il
reddito a favore della borghesia agraria e dei gruppi commerciali
monopolistici a danno della media e della piccola proprietà, mentre si
registrava la proletarizzazione dei ceti contadini, che fruivano, insieme ai
bracciantili salar! reali sempre più bassi. Insomma si stava creando un
miscuglio pericoloso di nuovi e vecchi rancori e rivendicazioni mal
soddisfatte. Una miscela esplosiva che porterà fino ed oltre il ‘48, ma che in
certe zone, e in Calabria in particolare, si legherà al mai sopito fenomeno del
brigantaggio che rialza la testa: mentre i moti fallivano (vedi i tentativi dei
fratelli Bandiera o di Mosciaro e Mauro), in Calabria restava la sostanza
della guerriglia e nasceva il mito romantico del brigante rivoluzionario.
Il caso di Talarico, nuovo capo della Sila, ripeteva m qualche modo quello del
Vardarelli: brigante e potere politico venivano a patti. Talarico godeva di una
forte solidarietà e contava molto più delle autorità costituite. Finì la sua
esistenza con una pensione dello Stato. Il brigantaggio era comunque più che
vivo e rigoglioso e ricostruì la fitta rete delle sue bande e delle scorrerie. Per
arginarla fu necessario molto tempo e un gran dispiego di forze militari, nonché
di leggi speciali. In conclusione dell’analisi di questo periodo, la prima meta
dell’800, si può affermare che il brigantaggio esprimeva, a suo modo, il
profondo malessere delle plebi rurali ed era una risposta primordiale e violenta
alla progressiva espropriazione dei diritti contadini.
Qualche mese più tardi, allo scoppio
della rivoluzione del 1848, contadini
e braccianti lasceranno i loro tuguri
per andare ad occupare le terre e più
avanti si creerà un forte movimento
che metterà in crisi la stessa
borghesia, impedendo ad essa la sua
rivoluzione, quella borghese,appunto.
Sofia Speranza
I CARATTERI GENERALI DEL BRIGANTAGGIO DOPO L’UNITÀ D’ITALIA
L’Unità d’Italia costituisce la più importante conquista
storico-politica conseguita negli ultimi secoli dalle
popolazioni della penisola. Tale conquista non
avvenne però grazie a un corale impegno di tutti i ceti
e di tutte le popolazioni, fu voluta e ottenuta da una
minoranza ed è rimasta a lungo incompiuta e
incompresa per vasti strati della popolazione. L’Unità
non si è raggiunta facilmente, ma è costata lacrime e
sangue. L’incontro fra il Nord e il Sud del Paese è
stato particolarmente difficile. La retorica
risorgimentale e la carità di patria hanno fatto passare
sotto silenzio che per più di un decennio dopo la
proclamazione del Regno d’Italia si è combattuta nel
Mezzogiorno una vera e propria guerra civile. Il
fenomeno del brigantaggio, diffuso nel Meridione
della penisola italica, non nasce nella metà dell’800;
questo ebbe, però, modo di intensificarsi proprio in
quegli anni, a causa dell’Unità d’Italia.
Tra il 1860 e il 1870 fu dichiarata una guerra contro questo fenomeno, che finì per
indebolire le già precarie condizioni del Sud. Si distinguono due grandi fasi nelle
vicende del brigantaggio: una prima, che va dal 1860-1861 al 1864-1865, nella
quale appare più seria la minaccia politica e militare al nuovo Stato unitario; la
seconda, che si protrarrà fino 1869-1870, nella quale l’azione dei briganti costituirà
l’espressione di un disagio circoscritto, incapace di mettere in pericolo l’assetto
istituzionale. Carmine Crocco, Cosimo Giordano, i fratelli Giona e il sergente
Romano, erano solo alcuni tra i principali briganti, che imperversavano in quel
periodo, commettendo i più efferati ed illeciti atti. Pensare che costoro agivano
spinti dal desiderio del ritorno dei Borbone, non è affatto sbagliato. Franceschiello,
per esempio, dovette abbandonare Napoli, il 6 settembre del 1860, a causa dello
sbarco di Garibaldi e, in seguito, sostenne la lotta brigantesca. È pertanto naturale
che i briganti vedessero di buon occhio i sovrani delle Due Sicilie, piuttosto che il re
di Sardegna.
Francesco II di Borbone,
Il brigante Carmine Crocco
Pasquale Domenico Romano,
noto come Sergente Romano
.
Ma come nel caso del brigante Crocco, a volte erano loro stessi restii ad attaccare
grandi centri urbani, dal momento che ciò avrebbe fatto sì che il potere militare
venisse ceduto a terzi, potere che per un preciso calcolo politico era preferibile
mantenere circoscritto nei boschi. In più con il ritorno dei Borbone sarebbe venuta
meno, anche, la causa per la quale commettere le suddette scorrerie, limitando gli
introiti di varia natura, ma soprattutto “il prestigio”, di cui costoro tanto andavano
fieri. Il Regno d’Italia rispose in maniera ferma e feroce. Furono inviati fanti,
carabinieri e bersaglieri, i quali però non erano adatti agli scontri con i “malandrini”.
Quest’ultimi, infatti, agivano liberamente e, anche se in numero minore ai repressori,
avevamo il vantaggio di conoscere la morfologia del territorio e le cavità naturali.
Per tale motivo le forze armate, non riuscendo a contrastare i principali esponenti di
questo fenomeno, colpivano a volte paesi inermi, ove i briganti compivano gesti
deplorevoli, al fine di ristabilire l’ordine.
È doveroso fare, però, una netta distinzione tra briganti neoborbonici, a cui
prima si accennava, e quelli delle Calabrie; costoro infatti erano inizialmente
spinti dalla mancata risposta alla questione agraria. Ai contadini non furono dati
a prezzi modici quelle parti dei territori demaniali ed ecclesiastici che
legalmente spettavano loro, bensì questi terreni finirono per ingrassare i
guadagni, già opulenti, dei borghesi e degli ex feudatari. Sia i Borbone sia i
Savoia non posero la giusta attenzione verso questo annoso problema, che fu
una delle cause principali delle scorrerie brigantesche. Nonostante Francesco II
fosse a Roma (fuggì da Gaeta il 13 febbraio 1861), egli tentò ugualmente la
presa del Meridione attraverso alcuni personaggi, che diedero vita al
legittimismo borbonico. Le bande borboniche avevano quasi la stessa
consistenza di quelle della Santa Fede del cardinale Ruffo. Siffatte bande
miravano a “riportare in vita” il trono duosiciliano per consegnarlo,
nuovamente, nelle mani di Francesco II, utilizzando metodologie del tutto simili
a quelle garibaldine. La cattiva organizzazione, dovuta soprattutto alle
ristrettezze economiche del sovrano, finì per portare verso il fallimento alcuni
tentativi.
Josè Borjes e Rafael Tristany, che sull’esempio di Garibaldi volevano
effettuare uno sbarco seguito dall’arruolamento di truppe che avrebbe
amplificato l’insurrezione, non portarono a buon fine le loro operazioni. Con
il passare del tempo si perse anche quello spirito che spingeva a compiere
tali azioni e, conseguentemente, ci fu un aumento della criminalità comune,
più congeniale al brigantaggio. Aumentarono, così, i reati, a causa della
creazione di decine di bande (i cui componenti non ebbero mai la pretesa di
farsi passare per filo-borbonici), responsabili delle più atroci nefandezze.
Antonino Suraci
Angelo Ventura
José Borjes, nome in catalano Josep Borges è stato un generale spagnolo, inviato
da re Francesco II di Borbone per riconquistare il perduto Regno delle Due Sicilie
dopo l'unità d'Italia, cercando di sfruttare il fenomeno del brigantaggio.
LE FORME DI BRIGANTAGGIO DOPO IL 1860
Franco Molfese, nel saggio Storia del brigantaggio dopo l’Unità d’Italia (Feltrinelli), con la piena
consapevolezza del grave spreco di risorse economiche-umane, si chiede se era possibile evitare la
rivoluzione borghese-liberale nel Sud e avere dei rapporti diversi con le masse contadine.
La risposta del Molfese è che il grande dramma del brigantaggio sarebbe potuto esser di molto ridotto nel
tempo, nello spazio e nell’intensità da una differente politica dei governi unitari moderati, anche perché
era un fenomeno inevitabilmente sorto a causa del crollo della monarchia borbonica, della crisi
economico-sociale, di fattori strutturali e contingenti e per le sollecitazioni di carattere politico e
tradizionale. La grande “reazione” del 1861 rappresentò la matrice del grande brigantaggio durato tino al
1864, mentre il brigantaggio in generale durò fino al 1870. Il consenso popolare e borghese, che nel 1860
aveva accolto l’avanzata garibaldina delle provincie meridionali e aveva reso possibile la caduta della
monarchia si era trasformata in malcontento a causa della politica dei moderati che vollero solo
reprimere, centralizzare, addossare carichi all’economia meridionale e monopolizzare il potere. Il clero
venne vessato e spaventato senza che il suo potere economico venisse scalfito. Ai contadini fu promessa
la ripresa delle operazioni demaniali che non avvenne mai. I moderati vollero reprimere fin da subito
l’anarchia del Mezzogiorno con la forza ma al momento critico non ebbero forze militari a sufficienza
per domare la situazione. Erano poi caratterizzati dal timore di complicazioni internazionali e dal
conservatorismo politico e sociale.
I loro timori erano validi fino al 1860 quando ancora la dittatura dell’esercito garibaldino poteva
provocare potenziali pericoli. I moderati avrebbero potuto ottenere nel momento risolutivo della crisi la
collaborazione dei democratici e dei garibaldini, ma essi respinsero questa possibilità e procurarono
quella rottura che approfondirono successivamente con la discriminazione retta a sistema di governo. Ma
comunque una forma di dialogo fra le parti ci fu lo stesso, perché il brigantaggio era un problema che
riguardava tutti e in qualche modo doveva essere risolto.
Per poter esaminare meglio tale fenomeno bisogna vedere come il potere nel Meridione era conteso tra moderati,
democratici e reazione borbonico-clericale. I moderati lottarono su due fronti con molta più energia e continuità dei
democratici e dei reazionari, ma questo tipo di lotta non solo non permetteva di combattere il brigantaggio ma lasciava
la possibilità di una restaurazione legittimistica. resa possibile da eventi internazionali o da cambi di posizione
politiche. Il successo finale l’ottennero i moderati ma a un prezzo altissimo sul piano costituzionale-politico.
La repressione del brigantaggio contribuì ad imprimere all’apparato dello stato unitario un’impronta burocraticopoliziesca in funzione anti-contadina e anti-popolare ed instaurò in esso la forte influenza del potere militare. In questo
modo venne meno la fiducia nelle istituzioni rappresentative e nelle garanzie costituzionali. La Destra attuò una vera e
propria dittatura escludendo dai benefici statutari quasi tutto il Mezzogiorno e le correnti politiche avversarie. Il
brigantaggio nasce dalla crisi generale della società meridionale ed ha anche uno stretto legame con i tre gruppi politici
presenti. Lo scopo dei contadini che sostenevano il brigantaggio era di ottenere quotizzazioni demaniali e la
conservazione degli usi civici. I salariati-briganti aspiravano al pane, alla libertà, anche alle vendette come forma di
rozza giustizia, dibattendosi nelle strette del carovita, della disoccupazione, dei redditi insufficienti. Il brigantaggio
perciò è la manifestazione estrema ed armata di un movimento di protesta di una massa contadina e arretrata .
Le uniche motivazioni politiche che giustificano queste lotte
armate erano quelle della restaurazione borbonico - clericale
che però dopo il 1861 perdono di significato e diventano solo il
“pretesto” all’azione delle bande brigantesche. Il brigantaggio
non è solo una reazione alla pressione statale ma anche ai
gravami imposti dallo Stato unitario. I contadini meridionali
furono molto attivi soprattutto nel contrastare, armati, la
rivoluzione borghese liberale e a stabilirne i limiti, anche se la
grande protesta venne repressa con la forza.
Secondo Francesco Saverio Nitti. il brigantaggio era un fenomeno sociale
attraverso il quale la borghesia rurale sottometteva i contadini. Massari, deputato
del collegio di Bari, ebbe modo di completare e di sviluppare il suo pensiero
sull’argomento grazie alle analisi e ai giudizi raccolti nel corso di un indagine
svolta nel Mezzogiorno dalla Commissione parlamentare d’inchiesta del 1863.
Nella famosa relazione del maggio del 1863 Massari spiegò che tra le cause del
brigantaggio vi è lo stato di estrema miseria in cui versava il proletariato. Tale
affermazione fu confermata dal fatto che nelle provincie dove i contadini
possedevano le terre, risultava minore il flagello del brigantaggio. Le zone
maggiormente colpite erano: Capitanata, Basilicata e Vastese dove il brigantaggio
appariva come un fenomeno inestirpabile mentre nelle tre Calabrie, Puglia, Terra
di Lavoro e Abruzzo i rapporti tra contadini e proprietari erano posti su base più
equa e quindi il brigantaggio non riusciva a porre basi solide. Le testimonianze dei
militari che parteciparono alla repressione del brigantaggio mirarono a stabilire il
carattere fondamentale della rivolta sociale ponendo l’attenzione sulla piaga dei
bassi salari. Il generale Covone, che comandò la zone militare di Gaeta dall’estate
del 1861. mise in evidenza il fatto che la crisi politica del Mezzogiorno era
soltanto “la causa determinante e occasionale” del brigantaggio.
Francesco Saverio Nitti (1868-1953)
Il capitano Alessandro Bianco raccolse in un suo volume delle statistiche che testimoniano l’aumento dei salari in
rapporto ai crescenti prezzi dei generi alimentari essenziali. Egli documentò la concentrazione della proprietà terriera
nella provincia dell’Aquila e lanciò invettive contro la corruzione e l’intera prepotenza dell’intera classe dei
“gentiluomini”. Secondo Vialardi, le cause del brigantaggio calabro riguardano il “rapporto sociale” tra ricco e
proletario: essendo quest’ultimo lasciato senza lavoro, si trova privo di ogni mezzo di sussistenza per se e per la
propria famiglia. L’analisi del Covone punta su una riorganizzazione amministrativa affidata a pochi onesti
commissari governativi. Antonio Mosca aveva accennato ad un atroce “antagonismo” fra i proletari e i proprietari
della campagna napoletane, ponendo in rilievo il carattere politico più di quello sociale. Secondo Mosca, i proletari
ritenevano il governo unitario un governo della classe proprietaria e pensavano che i loro interessi e i loro veri
rappresentanti erano stati sconfitti insieme alla dinastia borbonica.
Una posizione particolare spetta agli autonomisti moderati, Roberto Savarese e Enrico Cenni,
i quali formularono acute osservazione sulle conseguenze del cattivo funzionamento delle
amministrazioni locali elettive, sul fomite di contrasti da esse costituito e sulle “reazioni”
scaturite. Ma le loro analisti limitarono agli aspetti politico-giuridici della generale crisi
meridionale, trascurando di approfondire i motivi degli schieramenti delle varie classi. Il
barone Alfonso Barrasco, senatore e grande latifondista calabrese, fece osservare che il
brigantaggio ricorreva a mezzi che nessun partito politico avrebbe usato per “accattivarsi lo
spirito politico” e ammise le cattive condizioni generali dei “nullatenenti” pur ritenendo
migliore la condizione dei contadini calabresi rispetto a quelli lucani. Il risentimento dei
proprietari terrieri verso la scarsa sensibilità del governo nei confronti dei ceti possidenti
emerge in uno scritto indirizzato alla Commissione d’inchiesta sul brigantaggio da un
proprietario di Trani, Fabio Carcani. il quale denunciava la delusione per gli errori
governativi e i contrasti fra lavoratori agrari. Contrario alle precipitose divisioni dei beni ex
feudali, suggeriva concessioni graduali e discriminate ad ex garibaldini poveri, guardie
campestri, contadini e “artigiani infelici” in modo da promuovere la loro partecipazione attiva
alla repressione del brigantaggio. Il gruppo ristretto degli esponenti della nobiltà latifondista e
della borghesia agraria appare compatto, composti da conservatori tenaci e prammatici
passati al regime unitario. La media e la piccola borghesia seguiva Libero Romano
condividendo il parere che la sollevazione contadina dovesse esser sventata con lavori
pubblici e con le quotizzazioni demaniali da condurre contemporaneamente alla repressione
armata. I contadini del Sud combatterono per anni, contro forze preponderanti, una lotta
senza speranza, condannata all’insuccesso.
Gli esigui e isolati gruppi democratici del Mezzogiorno non pervennero a costituire una corrente
centralizzata di opinione o tanto meno un partito politico definito. L’accentuazione della richiesta di
una quotizzazione e di una censuazione dei beni ecclesiastici distingue i democratici e liberali
progressisti dai gruppi liberali più moderati. Le testimonianze di elementi democratici delle provincie
meridionali individuano la classe dei contadini senza terra come protagonista del brigantaggio.
Malgrado i limiti posti dal governo e la tattica elusiva delle autorità militari, la commissione raccolse
materiale documentario e uno dei suoi membri, Aurelio Saffi, adempì al compito di ricevere,
esaminare e protocollare le informazioni circa tale fenomeno.
L’analisi formulata da quest’ultimo si differenzia da quella svolta da Massari
per un accento più critico verso la politica governativa, di cui attaccava
l’acquiescenza nei confronti della politica francese a Roma, ossia la
discriminazione anti-democratica e la tolleranza verso i borbonici praticate
nelle provincie meridionali. Saffi inoltre collegò aspetti politici a quelli sociali
riuscendo a comprendere le posizioni dei diversi strati cittadini. Il
brigantaggio non presupponeva alcun carattere di protesta sociale e politica
ma i briganti miravano ad impossessarsi dei viveri di tutti senza distinzione
assalendo e usando violenza. I1 brigantaggio post-unitario viene invece inteso
come una particolare forma delle rivolte contadine contro l’oppressione
economico-sociale della borghesia agraria. Per quanto riguarda la questione
demaniale essa si collega ai moti sociali contadini e al brigantaggio dei primi Aurelio Saffi ( 1819anni successivi all’unificazione. La nobiltà latifondista e la maggior parte 1890)Importante figura del
Risorgimento italiano, Saffi
della borghesia agraria del Mezzogiorno continentale furono borboniche fu un politico di spicco
repubblicana
finché il regime assolutistico non crollò improvvisamente. Tale crollo, dell'ala
radicale incarnata da
Mazzini, di cui è
provocato dall’impresa garibaldina, fu accompagnato in tutte le provincie Giuseppe
considerato l'erede
meridionali da forti movimenti contadini che riaprivano in forma violenta la politico.
questione demaniale.
Questi moti imposero un riassestamento politico ai ceti possidenti obbligando la parte
borbonica ad una conversione che si protrasse nel tempo. Una parte della nobiltà latifondista
rimase legittimista mentre la maggior parte della borghesia agraria aderì al regime unitario
per salvare privilegi della classe. La questione demaniale nei primi anni dopo l’unificazione
costituì un motivo di agitazione e di mobilitazione locale sfruttato dai partiti liberale e
borbonico a seconda delle situazione contingenti e municipali. La ripresa delle operazioni
demaniali, che erano circa 2600 e che furono avviate nel gennaio del 1861, fu una
conseguenza diretta dei moti contadini e delle “reazioni” del Mezzogiorno nell’autunno del
1860: però solo in dieci provincie (meridionali) su sedici i prefetti avevano provveduto ad
organizzare gli uffici delle ripartizioni demaniali. Si può dunque affermare che una mancata
attuazione delle operazioni demaniali mancò praticamente per tutto il 1861 e fu irrilevante per
tutto il 1862. Il fatto che tali operazioni erano troppo tardate aveva determinato l’estirpazione
violenta del brigantaggio prima delle quotizzazioni. È difficile stabilire quali strati contadini
parteciparono al brigantaggio armato o al favoreggiamento di esso perché le statistiche
giudiziarie dell’epoca raramente precisarono le categorie professionali degli imputati
contadini. Fra le varie forme d’appoggio contadino al brigantaggio l’aspetto più rilevante fu
quello delle informazioni fomite alle bande e negate alle forze repressive. Per quanto riguarda
i briganti del periodo post-unitario, questi ultimi avevano un’umile estrazione sociale o erano
ex soldati dell’esercito delle Due Sicilie. Le masse contadine si erano poste in movimento per
cause economiche ma non erano ancora in grado di organizzare il Mezzogiorno d’Italia
similmente alla Vandea controrivoluzionaria o alla guerriglia anti-napoleonica,/in quanto
mancavano veri e propri capi legittimisti “napoletani” alla testa delle bande. I capi per
emanare proclami s’avvalevano delle legalità impersonata da Francesco II. Questo sosteneva
una parte dei briganti, la cui speranza in una restaurazione borbonica era continuamente
alimentata dai comitati borbonici, dal clero reazionario e dai capibanda.
Il passaggio dei contadini del Meridione al brigantaggio fu un fenomeno di massa che nasceva sia dalla
miseria sia dalla povertà e non trovava altro mezzo che la violenza per la lotta contro l’ingiustizia,
l’oppressione e lo sfruttamento. Il movente economico-sociale era dato da due principali sollecitazioni:
l’impulso anarchico alla vendetta e la sete d’avventura
I fattori “morali” e materiali che spingevano i
contadini al brigantaggio erano sia il modo
di guerreggiare alla partigiana, che risultava
esser l’unico modo possibile contro le forze
repressive regolari superiori, sia un coraggio
particolare a cui era estraneo ogni timore
della morte. La violenza contadina stimolata
dalla repressione assunse un carattere
indiscriminato colpendo i possidenti senza
distinzione con carneficine di greggi e di
armenti, incendi di raccolti e di masserie.
Dopo il 186 i briganti attaccavano sempre
più indistintamente in misura maggiore o
minore a seconda dei tempi e luoghi. Le
bande erano suddivise in: bande grosse
(1861 al 1864) e bande piccole (dopo il
1861).
Le bande grosse presentavano una struttura militare e si sforzavano di mantenere buoni i rapporti con le
popolazioni mentre le bande piccole erano composte da ladri, assassini e praticavano il brigantaggio
comune.
Inoltre le bande presentavano basi stabili nei folti boschi dell’Appennino meridionale e ricevevano la
paga dal loro capo: i danari venivano tratti dalle contribuzioni imposte ai proprietari oppure provenivano
dal ricavato della vendita degli animali più grossi razziati e di altri oggetti rapinati. I briganti indossavano
vestiti di panno nero con cappelli a larghe tese ornati di nastri rossi con calzoni a gamba e mantelli di lana
di color bigio o nero ed erano armati della doppietta da caccia dei contadini. I sistemi di segnalazione
erano multiformi e adeguati all’ambiente rurale, con colonne di fumo durante il giorno e falò la notte.
Questo regime di vita comportava pernottamenti all’addiaccio, veglie, fame, marce, scontri ripetuti anche
d’inverno. Si richiedeva grande robustezze fisica e una non comune resistenza alle privazioni. I feriti
meno gravi venivano trasportati via, i più gravi venivano uccisi e cremati per impedirne il
riconoscimento. Uno dei principali fattori fu l’eccezionale mobilità delle grosse bande che permetteva
loro di correre fino a 50 miglia in una notte. Mentre i collegamenti che vi erano fra le bande permettevano
loro adunate fulminee sotto il comando del capobanda. Il modo migliore di combattere contro la forza
regolare era la guerriglia che consisteva nell’attaccare da varie direzioni, presso località dominanti
accuratamente scelte, con vie di ritirata sempre aperte per i boschi o verso i monti.
Erika Brancia
Angela Cuzzocrea
Ludovica Mangione
Caterina Motta
LA RELAZIONE MASSARI E LA LEGGE PICA
II sedici dicembre dell’anno 1862 la Camera del neonato (“minorenne”) Regno d’Italia, nomina una
commissione d’inchiesta al fine di studiare il brigantaggio nelle cosiddette “province napolitane”
ossia nei territori dell’ex reame borbonico. Essa ha anche il compito, di accertare la reale
responsabilità dell’esercito italiano che si oppone ai “malandrini” in maniera efferata. Nel maggio
dell’anno successivo si concludono i lavori concernenti lo studio del fenomeno brigantesco e i
risultati, raccolti in una relazione ad opera di Giuseppe Massari, vengono letti alla Camera.
La Relazione sulle cause del brigantaggio meridionale (1863) è divisa in sei capitoli e illustra le
cause e il carattere del brigantaggio. Essa si propone di attuare dei rimedi davvero onerosi per le
popolazioni meridionali, quali la concessione di premi per chiunque denunci i briganti, la
chiusura di forni, di masserie e di industrie ecc., e in più auspica che «la cognizione dei reati di
brigantaggio deve essere deferita ad una giurisdizione che non sia quella dei tribunali ordinari»
(G. Massari, Relazione sulle cause del brigantaggio meridionale (1863), in S. Castagnola - G.
Massari, Il brigantaggio nelle province napoletane, Forni, 1989, p. 155). Con l’affermazione
sopra citata s’intende mirare alla promulgazione di una legge che decreti un vero, e proprio “stato
d’assedio”: «Il brigantaggio è la guerra contro la società, praticando dunque a suo riguardo la
giurisdizione che si pratica in tempo di guerra, non si offende nessun principio, non si lede
nessuna guarentigia, non si manca a nessuna norma di equità» (Ivi, p. 156) . Ciò finisce per far
approvare una legge deleteria ai massimo per le province dell’ex Regno Duosiciliano, ossia la
Legge 1409 del 1863, meglio nota come “Legge Pica”, della quale si parlerà di seguito.
Nella relazione, inoltre, viene apertamente fuori l’odio e la supponenza dei
“piemontesi”, anche se Massari, oltre a definire in modo davvero colorito i
meridionali («orde di masnadieri», «contadiname», «crudele flagello»), accenna
ai disordini cagionati dall’esercito governativo, ma attribuisce comunque la
colpa del brigantaggio a Roma e, pertanto, alla parte clericale. Egli si guarda
bene dall’inimicarsi i potenti signori meridionali, che facevano vivere i
braccianti in maniera disumana, limitandosi a parlare del malgoverno dei
precedenti re borbonici. Nella loro indagine, inoltre, i nove membri del governo
non si premurano neppure di ascoltare i briganti che si trovano nelle patrie
galere, mentre viene ascoltata soltanto la voce dei signori filo-governativi.
La legge, presentata dal deputato Giuseppe Pica, viene promulgata da Vittorio
Emanuele II il 15 agosto del 1863 e rimane in vigore sino al 31 dicembre del
1865. Essa è denominata Procedura per la repressione del brigantaggio e dei
camorristi nelle Province infette e costituisce un mezzo tanto eccezionale,
quanto brutale, di difesa contro il brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno,
attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza. La legge è
costituita da nove articoli, coi quali vengono creati i tribunali militari, a cui
passa la competenza in materia di reati riconducibili al brigantaggio stesso
Giuseppe Massari (1821-1884)
Ai sensi del primo articolo del provvedimento legislativo è dichiarato brigante chiunque sia trovato armato,
in gruppo di tre persone. La legge, in più, contempla, per la prima volta il provvedimento restrittivo del
domicilio coatto che si attribuisce al reato di eccitamento al brigantaggio. Vengono anche istituiti i Consigli
inquisitori, ai quali viene deputato il compito di redigere le liste con i nominativi dei briganti.
Probabilmente, però, la più importante peculiarità delle Legge Pica è il suo valore retroattivo, per cui essa
può essere applicata anche ai reati contestati prima della sua promulgazione.
Già al tempo dell’approvazione viene largamente contestata (ad esempio, da Giuseppe Ferrari e Luigi
Menabrea), in quanto sospende la garanzia dei diritti costituzionali presenti nello Statuto Albertino, a tal
punto che nel 1864 Vincenzo Padula, nelle note di un suo dramma teatrale, giunge a scrivere quanto
segue: «II brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione» (V. Padula, Antonello
capobrigante calabrese: dramma in cinque atti, Feltrinelli, 1952). Sotto il comando del generale Enrico
Cialdini, come ricorda Pasquale Amato, «il governo fu costretto ad inviare un esercito di 120.000 soldati,
cui si aggiunsero 90.000 componenti della Guardia Nazionale» (Pasquale Amato, Il risorgimento oltre i
limiti e i revisionismi, Città del Sole, p.152).
Nonostante il rigore che la caratterizza, la Legge Pica non sortisce subito gli effetti sperati dal governo,
infatti l’attività insurrezionale si protrae sino al 1870. Anche se nel 1869 vengono catturati i guerriglieri
delle ultime bande e, nel gennaio del 1870, il governo sopprime le zone militari nelle province
meridionali, sancendo così la fine ufficiale del brigantaggio, ancora negli anni Settanta del Secolo
Decimonono, si continuano a perpetrare omicidi, furti ed estorsioni, grassazioni. Tra il 1876 e 1877 si
annoverano, nel circondario di Gerace 111 omicidi, 693 furti e 522 arresti. Secondo Isabella Loschiavo
Prete, infatti, «il brigantaggio si trasformerà successivamente in male endemico, deviando in forme più
violente e prendendo la denominazione di mafia. La sua virulenza, attraverso i secoli, dimostra
l’inefficienza del potere statale, che non ha risolto la questione meridionale, incrementando la
disoccupazione» (I. Loschiavo Prete, II Brigantaggio nella Prima Calabria Ultra, Città del Sole Edizioni,
2010, p. 130).
Tommaso Fragomeni
Marta Laurendi
Claudia Merenda
Antonino Suraci
Angelo Ventura
\
LE STRAGI DIMENTICATE DEL 1861
Secondo quanto sostiene Pino Aprile, autore di Terroni (Piemme, 2010), accanto alla storia ufficiale del
Risorgimento ve n’è un’altra, rimasta a lungo semiclandestina perché giudicata poco rispettosa delle
“patrie memorie”. Solo da poco si è avviato un processo di revisione critica, a cui molti hanno
contribuito e contribuiscono. Il brigantaggio in realtà fu, agli inizi, un movimento di vera e propria
“resistenza “ contro liberatori rivelatisi ben presto degli oppressori; non fu lotta di classe per il
possesso delle terre, ma guerra di difesa contro l’invasore, in nome di Dio e del re Borbone. «Per le
plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia
stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere
di vere e selvagge rivolte proletarie.
Ciò spiega quello che ad altri e a me è accaduto tante volte di constatare; il popolo
delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei
fondatori dell’unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell’abate Cesare
e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori». Questo è quello che riporta
Francesco Saverio Nitti in Scritti sulla questione meridionale (Laterza, 1958, p.
44). Ma sono tanti gli autori che si sono interessati della situazione risorgimentale
e del brigantaggio, così come tanti personaggi del mondo culturale e politico non
solo italiano hanno scritto rimostranze su quello che stava succedendo al Sud
Anche Benedetto Croce, nella sua Storia del Regno di Napoli, ipotizza come poter risolvere il problema:
«Una buona legge sul censimento, a piccoli lotti dei beni della Cassa ecclesiastica e demanio pubblico ad
esclusivo vantaggio dei contadini nullatenenti, e il fucile scappa di mano al brigante. Date una moggiata al
contadino e si farà scannare per voi, e difenderà la sua terra contro tutte le orde straniere e barbariche» (B.
Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, 1966, p. 338).
Le stragi che vennero perpetrate ai danni della popolazione inerme, e spesso solo per
rappresaglia, furono innumerevoli, e in tutto il territorio del Regno delle Due Sicilie, ma
vennero per lungo tempo celate. Le più tremende avvennero il 14 agosto 1861: due paesi
campani, Casalduni e Pontelandolfo, furono rasi al suolo dall’esercito italiano, su ordine del
generale Enrico Cialdini. A Pontelandolfo tre case rimasero, di Casalduni nulla. Né si sa
quanti furono uccisi per ritorsione, per aver appoggiato un’azione brigantesca contro una
colonna piemontese, che venne annientata. Ma il male eccede sempre, e anche Campolattaro,
un paese vicino, fu incluso nella ritorsione, con qualche fucilazione, così, en passant. Antonio
Ciano, in Savoia e il massacro del Sud (Grandmelò, 1997) riporta stime di oltre 900 vittime,
ma c’è chi parla di molte di più. Giuseppe Ferrari, deputato del nuovo stato, parla anche di
3000 profughi, e riferisce in diverse relazioni al nuovo governo le sue perplessità su quanto
visto: «Non potete negare che intere famiglie vengano arrestate senza il minimo pretesto; che
vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici che sono ancora in carcere. Si è
introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene
fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non
vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi». E ancora: «Potete
chiamarli briganti ma combattono sotto la loro bandiera nazionale. Potete chiamarli briganti
ma i padri di quei briganti hanno riportato per due volte i Barboni sul trono di Napoli. È
possibile, come il mal governo vuole far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre
vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120.000 uomini? Ho visto una città di 5
mila abitanti completamente rasa al suolo non dai briganti» (cfr. Patrick Keyes O’Clery, La
rivoluzione italiana, Ares, 2000, passim).
La storia del massacro di Pontelandolfo negli anni ‘70 è diventata una
canzone degli Stormy Six: Pontelandolfo. Eccone il testo: «Era il giorno
della festa del patrono / E la gente se ne andava in processione /
L’arciprete in testa ai suoi fedeli / Predicava che il governo italiano era
senza religione / Ed ecco da lontano / Un manipolo con la bandiera bianca
/ Incline ad inneggiare a re Francesco / Ed ecco tutti quanti Ti a gridare /
Poi si corre furibondi al municipio / E si bruciano gli archivi / E gli
stemmi dei Savoia // Pontelandolfo la campana suona per te / Per tutta la
tua gente / Per i vivi e gli ammazzati / Per le donne ed i soldati / Per
l’Italia e per il re.// Per sedare disordine al paese / Arrivano
quarantacinque soldati / Sventolando fazzoletti bianchi / In segno di pace,
ma non trovano nessuno. / Poi mentre si preparano a mangiare / II rumore
di colpi di fucile / Li spinge ad uscire allo scoperto / E son presi tutti
quanti prigionieri / Poi li portano legati sulla piazza / E li ammazzano a
sassate /Bastonate e fucilate.
Pontelandolfo la campana suona per te / Per tutta la tua gente / Per i vivi e gli ammazzati / Per le
donne ed i soldati / Per l’Italia e per il re. // La notizia arriva al comando / E immediatamente il
generale d’aldini / Ordina che di Pontelandolfo / Non rimanga pietra su pietra / Arrivano all’alba i
bersaglieri / E le case sono tutte incendiate / Le dispense saccheggiate, le donne violentate, / Le porte
della chiesa strappate, bruciate / Ma prima che un infame piemontese / Rimetta piede qui, lo giuro su
mia madre, / Dovrà passare sul mio corpo. // Pontelandolfo la campana suona per te / Per tutta la tua
gente / Per i vivi e gli ammazzati / Per le donne ed i soldati / Per l’Italia e per il re». (Pontelandolfo,
ne L’unità, First, 1972).
La storia della fine del Regno delle Due Sicilie è una storia matrigna, e spesso ciò che è stato
scritto sui libri ha avuto l’unico scopo di infangare e annullare la memoria storica, di
cancellare le radici di un popolo che aveva osato rifiutare la libertà giacobina e savoiarda.
Guardati con sospetto, tenuti sotto il tallone del più feroce e arbitrario dispotismo, briganti
ieri, camorristi e mafiosi oggi.
Briganti erano le centinaia di migliaia di Duosiciliani uccisi negli scontri con l’esercito
invasore, trucidati nelle loro case, briganti erano gli abitanti di 54 paesi rasi al suolo, briganti
erano le donne violate, i preti crocifissi, i 56.000 soldati borbonici chiusi nei campi di
concentramento di San Maurizio Canavese e di Fenestrelle a morire di fame e stenti. Ma, per
battere quei briganti, il liberale e democratico Piemonte dovette far scendere in campo più di
120.000 soldati di linea, affiancati da quasi 400.000 guardie nazionali. Se questo fu
brigantaggio...
L’esercito piemontese affrontò una guerra interminabile, la più feroce e sanguinosa della sua
storia militare, cercando di mettere la sordina, di far trapelare il meno possibile, arrivando
finanche a nascondere il numero dei soldati caduti. Il governo piemontese, se avesse lasciato
campo libero alla stampa dell’epoca, non avrebbe più potuto invocare la “volontà popolare”
espressa durante i ridicoli plebisciti per legittimare l’annessione del Regno delle Due Sicilie.
Riportiamo, infine, un interessante documento del 1864, Il giuramento
dei “briganti”:
«Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere
fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II
(che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la
nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di
obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che
verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale
residente a Roma, Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la
giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col
ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della
religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che
lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani
degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per
principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro
amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati. Noi promettiamo
anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e
di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici.
Noi lo promettiamo e lo giuriamo» (Marco Monnier, Notizie e
documenti sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbero,1862,
pp. 73-74).
Lavinia Labate
Chiara Parente
Domenico Tripepi
IL BRIGANTAGGIO IN CALABRIA
Il fenomeno del brigantaggio divenne di “massa” in Calabria durante il primo decennio del
XIX secolo e perdurò anche oltre la sconfitta di Napoleone e il ritorno di Ferdinando di
Borbone sul trono di Napoli. Gran parte dei briganti rimasero ancora ribelli dopo la
restaurazione a testimonianza del disagio economico e sociale che percorreva questa terra
da secoli a prescindere dagli occupatori. L’intendente De Thomasis scrisse infatti che la
ragione essenziale che stava alla base del brigantaggio era la terra; esempio di ciò fu una
banda di Gimigliano che durante il periodo francese s’accanì contro i filogiacobini e che al
ritorno dei Borboni saccheggiò Gimigliano stessa assassinando quattro persone, tra cui il
sindaco voluto da Ferdinando I, e la sua testa fu issata al posto della bandiera borbonica.
Nel 1824 il governo borbonico inviò in Calabria il colonnello Del Carretto per arginare il
fenomeno brigantesco, soprattutto contro la banda di Ippolito Crocco di Spezzano e quella
di Giovanni Roma di Caloveto. Nel 1831 Ferdinando II, considerata l’incapacità fino ad
allora mostrata di contrastare efficacemente il fenomeno, nominò un commissario ad hoc
nella persona di Giuseppe de Liguoro. Dai rapporti della polizia emerge che nel biennio
1831-32 in tutta la Calabria furono arrestati 123 briganti e 12 furono uccisi. Da ricordare
Rosario Rotella detto “Terremoto” e le bande di Lappano, Trenta, Celico, San Benedetto
Ullano. La caratteristica delle bande fu che, anche se decimate, in poco tempo si
ricostituivano perché le condizioni di vita erano talmente misere che per sopravvivere
finiva per essere necessario rubare.
Riportiamo di seguito il profilo di alcuni tra i più noti briganti calabresi e le vicende accadute
a Mammola e nel Circondario di Gerace subito dopo l’Unità d’Italia.
Francatrippa
All’inizio dell’800, il capobanda, a nome Francatrippa, infestava i dintorni di
Rogliano e, disponendo di molti partigiani e di spie più fedeli di quelle dei Francesi,
riusciva a sottrarsi a tutti i tentativi fatti per arrestarlo. Verso il settembre 1807
un’intera compagnia di volteggiatori fu distrutta: era seguita e tenuta d’occhio dalla
banda di Francatrippa, che risolse di farli cadere in un’insidia: recatosi a Parenti e
presentatosi a nome della Guardia nazionale, il capobanda disse di venire da parte
del Comune ad offrire ristoro ed ospitalità ai soldati francesi. Imprudenti, i soldati
posero le armi fuori dalle case ospitanti, ma ecco che ad un tratto un colpo di fucile
diede il segno dell’attacco, seguito da una scarica generale: solo sette uomini
scamparono a tanto macello, mentre tutto il resto della compagnia fu trucidato.
Poche settimane dopo fu annunziata la presenza di due esploratori nelle vicinanze
per cercare di sorprendere il brigante. L’ordine di assalto fu deciso all’alba: i soldati
salirono su una collina, ma Francatrippa si era allontanato dalle tre del mattino,
mandando a vuoto il disegno. Sul finire del 1807 Francatrippa cercò rifugio nel
bosco di Sant’Eufemia e, in seguito, salì sopra una nave inglese e raggiunse la Corte
dei Borboni in Sicilia.
Parafante
Un altro brigante, di nome Parafante, supplì Francatrippa, riunendo gli avanzi della
sua banda e ottenendo rinomanza uguale a quella del suo predecessore. Il
comandante della piccola città di Rogliano studiava il modo di prendere quel
formidabile capobanda, quando un ecclesiastico andò a trovarlo, affermando che era
nemico personale di Parafante a causa di un assassinio di un suo congiunto
commesso dal brigante in persona e promettendo di far cadere Parafante nelle mani
dei Francesi, in un modo semplice e ingegnoso. Infatti il brigante aveva catturato un
cittadino di Rogliano e avrebbe dovuto incassare il riscatto in quella stessa notte: il
comandante approvò l’espediente, per cui una colonna di cento militi sarebbe stata
condotta sul luogo del rilascio da una guida. Questa portò i soldati al di fuori della
città, ma poi confessò che il suo padrone non aveva altro scopo all’infuori di quello
di allontanare da Rogliano la maggior parte della guarnigione per dare agio ai
briganti di fare un’incursione in città. La guida fu ammanettata e presto si udì un
rumore confuso che annunziava l’arrivo dei briganti; quando costoro furono a
mezzo tiro di carabina i soldati fecero fuoco: dieci o dodici furono i morti e
altrettanti i feriti, ma Parafante non era con loro. Infatti, i colpi di fucile e le grida
erano giunge sino al brigante che, credendosi tradito da qualcuno dei suoi, passò in
altra parte della Calabria, così le vicinanze di Rogliano furono liberate della sua
presenza.
Gaetano Ricca
Ultimo vero bandito della Sila, vissuto tra la fine del ‘700 e il primo ‘800, fu
costretto a darsi alla macchia in seguito ad un banale malinteso con le autorità;
nonostante fosse stata posta una taglia sulla sua testa, la popolazione era però troppo
intimidita per denunciarlo. Costretto infine ad arrendersi, trascorse in carcere circa
20 anni prima di ritornare in Sila nella sua casa di Parenti (già famosa per il caso di
Francatrippa). Il caso di Ricca è l’esempio tipico di un fuorilegge che sfrutta la
confusa configurazione geografica del paese per i propri scopi.
Giosafatte Talarico
Nessun brigante è stato mitizzato dal popolo come difensore delle classi povere
come Giosafatte Talarico, che vive ancora oggi nella memoria collettiva del suo
paese, Panettieri, come il vendicatore dei torti. Egli fu un brigante solitario e
particolare: uccideva solo per vendetta o per ridare ai poveri quello che l’arroganza
dei baroni aveva loro tolto, era acculturato, abile nel travestirsi, e decise di
accompagnarsi solo a due amici fedeli, Felice Cimicata di Taverna e Benedetto
Sacco di Castagna. Nel 1845 il re Ferdinando II propose a Giosafatte e ad altri
briganti di arrendersi in cambio di una nuova e libera vita lontano dalla Sila.
Talarico fu così esiliato nell’isola di Ischia dove ebbe casa e stipendio per 40 anni.
Dopo l’Unità il deputato napoletano Mariani con un’interrogazione parlamentare
chiese se fosse giusto mantenere a spese dello stato un brigante graziato dai
Borboni, ma non ebbe risposta.
Ferdinando Mittica
Nel settembre 1861 il generale spagnolo Josè Borjes sbarcò sulla spiaggia di Brancaleone, dove iniziò una
spedizione militare al fianco della banda legittimista del brigante Ferdinando Mittica di Platì per
restaurare la deposta monarchia borbonica. In quello stesso mese quelle contrade furono teatro di scontri
che videro sommarie fucilazioni di civili inermi e devastazioni di edifici pubblici e case private.
La spedizione finì tragicamente e due mesi dopo il generale Borjes fu fucilato dai piemontesi in Abruzzo;
non miglior sorte toccò a Ferdinando Mittica, che fu ucciso in un agguato dal “capo urbano” a Galatro.
Finì così il tentativo legittimista di due personaggi della controstoria italiana postunitaria, i cui nomi sono
stati taciuti («Vae victis!») dalla storiografia ufficiale.
Domenico Strafece, detto Palma
Tra i tanti capobriganti della Calabria, uno degli ultimi a morire fu Domenico Strafece, detto Palma.
Originario della Sila, da poverissimo contadino si diede alla macchia nel 1847 a poco più di vent’anni,
muovendosi tra la Sila e la costa ionica fino alla Basilicata. Ormai a capo di una banda propria, Palma
continuò a resistere in latitanza per oltre vent’anni, e, sebbene fosse nel mirino di una caccia spietata e
accanita, non si sottrasse agli scontri. Celebre fu l’episodio che lo vede circondato da 400 carabinieri e in
cui riuscì comunque a filarsela. Ebbe infatti la fama di imprendibile: lo si ritraeva come un brigante di
bella presenza, ardito, che colpiva la fantasia popolare. E morì proprio così, nel suo vile destino di
brigante, per una spiata. Quell’anno la lotta alle bande era affidata al colonnello Bernardino Milon: il
momento giusto arrivò la sera del 12 luglio 1869, quando il brigante imprendibile si era appena inoltrato
nel bosco accompagnato da un solo uomo. Gli si parò davanti un gruppo di carabinieri già appostati ad
attenderlo, di cui uno riuscì a ferirlo, ma non gravemente, costringendolo però a ripararsi in un fosso.
Restò lì tutta la notte, finché colui che l’aveva ferito non riuscì a dargli il colpo di grazia. Quel
coraggioso, Pietro Librandi, ricevette così una fortuna di 10.000 lire e la fama di carnefice
dell’imprendibile brigante.
Maria Oliverio detta Ciccilla e Pietro Monaco
Maria Oliverio detta Ciccilla fu la fuorilegge più celebre di tutto il Sud. Era moglie di Pietro
Monaco, brigante della Sila che per tre anni riuscì a sfuggire alle forze di repressione e fu
ucciso da alcuni suoi compagni corrotti col denaro. Pietro era un sottufficiale borbonico che,
abbracciata la causa della rivoluzione garibaldina, aveva poi combattuto durante l’assedio di
Capua. Il pomeriggio del primo novembre 1860 iniziò il bombardamento della città,
provocando incendi e vittime fra la popolazione civile. Capua dovette arrendersi e Pietro,
come tanti altri volontari, divenne di colpo disoccupato. Tornato a casa, si impelagò nella
lotta politica per il potere nei paesi locali. A capo di una comitiva di ribelli, uccise un
possidente di Serrapedace, piccolo centro alle falde della Sila. La sua guerra fu una lotta
contro baroni e galantuomini che s’erano schierati per interesse coi nuovi governanti. La
storia della Sila è una storia di rivolte e di usurpazioni, di terre e boschi contesi da baroni e
contadini. I primi tendevano ad usurpare le zone demaniali, gli altri difendevano il diritto di
fare legna e di coltivare. La vita dei borghi era caratterizzata da faide e soprusi. Intorno al
1850 il brigantaggio era limitato dall’istituzione, ad opera dei Borboni, delle corti marziali
per gli “scorridori di campagna”. Ma quando ci fu il crollo dei Borboni, si venne a creare una
situazione di disordine e incertezza nella quale il brigantaggio divampò con rinnovata
violenza: tutto il Sud era in rivolta, la stagione era propizia per regolare i conti sospesi. La
banda di Pietro Monaco fu abbastanza numerosa. In poco tempo, egli divenne noto e temuto e
vide aumentare il suo prestigio quando, nel dicembre del 1862, un brigante pentito, Giuseppe
Scrivano tentò di ucciderlo ma il colpo non fu mortale.
Nel dicembre del 1863 tre uomini della stessa
banda Monaco, Marrazzo, Celestino e De Marco,
cercarono di assassinare Pietro ma non seppero
avvelenare l’acqua con della stricnina fornita
dalla banda Falcone. Poco tempo dopo, tirarono
due colpi mortali a Pietro Monaco addormentato
in un pagliaio. Contemporaneamente spararono a
Ciccilla, che rimase ferita a un braccio, e uccisero
un altro uomo della banda, Giacomo Madeo. Gli
assassini di Pietro Monaco furono portati in
trionfo per tutti i paesi, poi però vennero arrestati
e processati, ma la condanna fu mite. Ciccilla
però non si arrese. Assunse il comando della
banda e tenne la campagna per altri 47 giorni,
fino a quando, circondata dalla truppa dovette
arrendersi. Sulla sua fine si hanno notizie
discordanti. Secondo un’annotazione, Ciccilla fu
condannata a morte e fucilata, secondo un’altra le
furono inflitti quindici anni di galera. Ciccilla,
secondo alcune fonti, avrebbe ucciso per gelosia
la sorella Concetta, che le aveva sottratto l’amato
Maria Oliverio, detta Ciccilla (1841-1879)
Giuseppe Musolino
Il brigante più noto della Calabria, vissuto tra la fine
dell’800 e la prima metà del ‘900, fu accusato nel 1898 di
tentato omicidio e condannato a ventuno anni di carcere per
colpa di alcuni testimoni falsi, e da quel momento giurò
vendetta (durante la lettura della sentenza canticchiò il
motivo della canzone del brigante Martino). Riuscito ad
evadere, si vendicò dei suoi accusatori e dei suoi nemici,
compiendo sette omicidi. Fu catturato nel 1901 per un caso
fortuito da due carabinieri in perlustrazione nelle campagne
di Acqualunga (Urbino). Fu successivamente processato e
condannato all’ergastolo. Non riuscì a riprendersi dal
proprio dramma, e in carcere impazzì. Graziato nel 1946, si
stabilì, ormai stanco ed inebetito, a Reggio Calabria, dove
morì nel 1956
“U 'rre dill 'Asprumunti”(soprannome con il quale era meglio
conosciuto il brigante Musolino) .
Fenomeni di brigantaggio a Mammola e nel Circondario di Gerace
Diverse segnalazioni ad opera dell’intendente Spanò-Bolani fecero notare nel 1860 al
Ministero degli Interni i vari disordini che accendevano la zona di Gerace; era chiara la
richiesta di rinforzi che cooperassero al mantenimento dell’ordine pubblico. La causa di tutto
ciò era, secondo Spanò-Bolani, un sentimento di sovversione fomentato da una potente
famiglia di Gioiosa, in grado di influenzare la popolazione più ignorante che veniva facilmente
sedotta. Non era d’accordo il sindaco di Roccella, Giuseppe Cappelieri, che risolse tutte le
accuse in uno stato di calma a suo dire tutt’altro che sovversivo. Dopo il 1861 la rivolta era
capitanata dalle forze ostili all’Unità, come la monarchia borbonica e i gruppi legittimisti di
altri paesi. Lo Stato italiano impiegò ben 120.000 uomini per domare le ribellioni e sottopose a
dure rappresaglie la popolazione delle campagne. A conferma di questo impegno abbiamo la
testimonianza del prefetto Cornero, il quale informò i Sindaci, i Prefetti stessi, i Tesorieri, i
Ricevitori e i Cassieri calabresi che il Ministero dell’interno stava per nominare una
commissione a Napoli con l’incarico di distribuire ed amministrare le somme stabilite per la
lotta contro il brigantaggio.
Nonostante i provvedimenti restrittivi attuati dal generale
d’armata Cialdini, fenomeni di brigantaggio esplosero in tutti i
distretti della Calabria Ultra e Citra: furono segnalati
telegraficamente diversi conflitti, come quello, a Mammola, che
causò un morto, o l’episodio di brigantaggio avvenuto in quelle
stesse montagne che venne fermamente smentito dopo un paio di
giorni e spacciato per un affare da poco. Anzi, quello fu solo uno
dei primi casi di smentita riguardo alla presenza di briganti:
vediamo infatti come la stessa scena si ripete a Catanzaro nel
1864, quando un atto di brigantaggio denunciato precedentemente
venne in seguito spacciato per il gesto criminale di una semplice
comitiva di ladruncoli.Questo fece crescere il sospetto nel
maggiore Pallavicini, che ordinò l’impiego delle Guardie
nazionali, dato che molte milizie cittadine avevano abbandonato la
persecuzione dei briganti. A Mammola si continuò però ad evitare
le segnalazioni di fatti di rilievo come scontri e rappresaglie,
sebbene i contrasti sociali e le diatribe tra opposte fazioni
sussistessero.
Generale Enrico Cialdini (1811-1892) è
stato un generale e politico italiano.
Mirko Malara
Iole Pizzi
Eliana Repaci
Carmela Zavettieri
LE RELAZIONI TRA IL BRIGANTAGGIO E LA PICCIOTTERIA NEL REGGINO
A cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, in Calabria, la criminalità organizzata si è sviluppata
maggiormente nelle zone dove meno si poteva cogliere l’articolazione sociale ed
economica del latifondo, dando origine al fenomeno del “brigantaggio”.
Per brigantaggio si suole definire una forma di banditismo caratterizzata da azioni violente a
scopo di rapina ed estorsione, ma che ha avuto, in altre circostanze, risvolti insurrezionalisti
a sfondo politico e sociale. D’altro canto, le bande dei briganti davano ascolto alle voci dei
contadini oppressi dalle ingiustizie, in particolare nelle zone del Crotonese e del Cosentino,
riscuotendo un forte appoggio tra queste classi maggiormente disagiate.
I briganti, dunque, si battevano anche per porre fine ai soprusi e per impedire al potentato
fondiario di continuare a usurpare i terreni demaniali. Lo Stato iniziava a reagire a questa
presenza radicata nelle campagne meridionali. Se da un lato, però, nel 1874, il procuratore
generale del re Vittorio Emanuele II, Cosimo Ratti, aveva decretato la scomparsa del
brigantaggio, dall’altro, la “picciotteria” cominciava a dilagare, insediandosi, a partire da
Palmi, in tutto il resto del Reggino e, in particolare, nelle zone che costituivano sicure fonti
di guadagno.
Era possibile, dunque, che, debellato il brigantaggio, su quella medesima pianta che l’aveva
generato germogliasse la ’ndrangheta? Molti lo credettero. A rafforzare questa opinione
arrivò, proprio a cavallo fra Ottocento e Novecento, un nuovo episodio che si impose
all’attenzione nazionale, quello del brigante Musolino. Meglio conosciuto come “U rri
ill’Asprumunti” (ovvero “II re dell’Aspromonte”), Musolino si era sempre proclamato reo di
molteplici atti di rivalsa (si parla di sette omicidi compiuti, quattro mancati, ferimenti e
lesioni) scaturiti tutti dalla prima condanna a ventuno anni di reclusione che gli era stata
assegnata nel 1897, a suo dire, ingiustamente. Segnando l’inizio di una ricca mitologia
costruita intorno alla sua figura, egli evaderà del carcere di Gerace nel 1899 e per circa tre
anni si mimetizzerà miracolosamente negli anfratti delle sue amate campagne aspromontane.
Nel frattempo, nelle filande e nelle case reggine non si faceva altro che inneggiare al mito del
brigante, animato, secondo la famiglia, da “un alto senso della libertà”. Paradossalmente, a
detta di tutti e dello stesso interessato, non si trattava di un brigante nel vero senso della
parola, ma di un bandito sui generis che certo nulla aveva avuto a che fare con la
“picciotteria” o con la criminalità dell’epoca.
Secondo lo storico Gaetano Cingari, infatti, Musolino non fu l’erede della tradizione
brigantesca, anche perché il brigantaggio era già finito da tempo e, poi, nel Reggino c’erano
stati solo casi sporadici riconducibili a tale fenomeno, in quanto «ne era mancata la materia
stessa, la grande proprietà latifondistica e i conflitti secolari delle masse contadine per l’uso
delle terre demaniali come nella Sila e nei Casali di Cosenza» (Cingari, Brigantaggio,
proprietari e contadini nel Sud (1799-1900), Editori Meridionali Riuniti, 1976, p. 262).
Fonti dell’epoca attestano come fosse divenuta abituale, a quel
tempo, la confusione tra i termini “’ndrangheta”, “maffìa” o
“picciotteria” con il concetto di brigantaggio. Più appropriata
appare, invece, l’analogia con la criminalità camorristica, che
sarebbe arrivata nella città di Reggio Calabria negli anni 1880-1885,
in seguito ad un imponente approdo di operai emigranti in cerca di
lavoro presso la nuova linea ferroviaria. Le radici di questo
fenomeno criminale sarebbero addirittura ascrivibili al periodo del
dominio spagnolo i cui caratteri filo-baronali avrebbero radicato nei
cittadini meridionali una mentalità del potere come conseguenza
dell’assoggettamento. Tuttavia non risulta neanche trascurabile
l'influenza delle neonate mafia e camorra, sorelle della 'ndrangheta
(secondo il mito di Ostro, Mastrosso e Carcagnosso).Il rapido
radicamento criminale non è unicamente legato a questioni di
mentalità. Esso è un effetto del degrado sociale e della mancanza di
istruzione, propri di queste località. La scuola infatti, vede partecipi
esclusivamente i figli degli esponenti della classe classe media,
mentre i più poveri sono abbandonati all'accattonaggio ed alla mala
vita. Inoltre l'economia attraversa un periodo oscuro per la crisi della
produzione di lavoro. E' questo il contesto in cui si iniziano a
delineare i profili di quelli che saranno i futuri mafiosi ovvero
“picciotti”:calzoni stretti alla coscia e larghi agli estremi inferiori
,fazzoletto al collo,cappellaio tondo con ciuffo a bella vista,
immancabile aria spavalda e provocante,mollettone sempre a portata
di mano.
Alto elemento che emerge da molti processi effettuati durante il corso del ‘900 è il modo
di vestire e le acconciature degli inquisiti: «I distintivi adottati da tutti per riconoscersi erano i
capelli tagliati a farfalla, il berretto con lunghi nastri, in alcuni paesi un neo al volto; e per i
capi un anello ad uno degli orecchi», modelli che ritroviamo anche nel periodo del
brigantaggio del 1806-1815: i briganti ornano i loro indumenti con elementi religiosi, quali
crocifissi, rosari, immagini sacre. Tuttavia, nonostante ciò, l’idea che la ’ndrangheta abbia, in
qualche modo, a che fare con il brigantaggio è opinione diffusa ancora oggi. Come mai una
tale sopravvivenza? La spiegazione è duplice. Da una parte, chi ritiene la ’ndrangheta un
fenomeno puramente delinquenziale si rifà alla valenza negativa del brigantaggio; dall’altra
parte, chi considera la ’ndrangheta – almeno quella dell’Ottocento e dei primi decenni del
Novecento – come fenomeno di protesta o come “onorata società” in grado di amministrare
quella giustizia che lo Stato non riesce a garantire, si rifà alla concezione del brigante ribelle
nei confronti di tutte le ingiustizie. Come si vede, due facce della stessa medaglia, a volte fra
loro confuse e sovrapposte, che fanno riferimento a idee, a sedimentazioni presenti nel
senso comune, a opinioni che hanno avuto, e ancora hanno, una larga circolazione. Ma che
non poggiano su solide basi.
Caterina Crucitti
Claudia Martino
Maria Carmela Nucara
BIBLIOGRAFIA
- Pino Aprile, Terroni, Piemme, 2010;
- Gaetano Cingari, Brigantaggio, proprietari e contadini (1799-1900), Editori
Meridionali Riuniti, 1976;
- Gaetano Cingari, Reggio Calabria, Laterza, 1988;
- Isabella Loschiavo Prete, Il brigantaggio nella Prima Calabria Ultra, Città del
Sole, 2010;
- Giuseppe Massari - Stefano Castagnola, Il brigantaggio nelle province
napoletane, Forni, 1989;
- Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità d’Italia, Feltrinelli, 1964;
- Salvatore Scarpino, Il brigantaggio dopo l’unità d’Italia, Fenice 2000, 1993