da sfida a istituzione Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf

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Transcript da sfida a istituzione Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶27 ottobre 2014¶N. 44
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni
Che cos’è un uomo?
Tra gli aneddoti più noti relativi ai
filosofi dell’antichità classica c’è la
storiella che racconta come Diogene, filosofo cinico, girasse in pieno
giorno con una lanterna accesa: e a chi,
perplesso, gli chiedeva cosa diavolo
facesse con quel lumicino, rispondeva
che cercava l’uomo, ma non lo trovava.
La civiltà, a suo giudizio, aveva alterato
la natura umana al punto da renderla
irriconoscibile.
Dopo d’allora, quante volte, nel corso
della nostra cultura, i filosofi hanno
sospirato e rimpianto la naturalità
perduta? Quanti, come Rousseau,
hanno sognato un ritorno alla natura
originaria, senza i vizi, la corruzione,
l’ipocrisia indotti dalla civiltà?
I rimpianti, oggi, non sono finiti; è
finita invece l’illusione di una natura
umana specifica, al di fuori dell’ambiente culturale. Senza cultura, l’uomo
non è tale. Lo spiega l’etologo Danilo
Mainardi: per capire cosa sia un uomo,
basta privarlo della cultura. Quello che
ne risulta è un animale che ha acquisito
i comportamenti della specie animale
dalla quale è stato allevato. Mainardi
cita casi documentati di bambini-gazzella, bambini-lupo, bambini-scimmia: fanciulli abbandonati e allevati
da un animale, che conseguentemente
avevano plasmato il loro comportamento secondo il modello fornito dai
loro «genitori adottivi». Quando poi
venivano ritrovati, magari adolescenti,
e ricondotti tra gli uomini, in tutti si
manifestava, dopo la cattura, un totale
rifiuto, o forse l’impossibilità, di un
soddisfacente reinserimento nell’ambiente sociale umano.
L’uomo è un essere plastico. Lo si può
modellare come si vuole, se ne può fare
un uomo o una bestia. Certo, ha una
sua specificità morfologica, una dotazione biologica che fin dall’antichità i
filosofi hanno cercato di definire. Tra
le tante definizioni, quella di Plinio
il Vecchio è la più desolante – e forse
anche la più veritiera: l’uomo è l’unico
animale nudo e il solo che venga
al mondo piangendo. Fisicamente
indifeso, dunque: le sue risorse stanno
nella configurazione cerebrale, che
però sono solo predisposizioni. Ogni
neonato, ad esempio, è predisposto ad
acquisire un linguaggio umano, ad
assumere un’andatura bipede, a stabilire relazioni sociali; ma perché queste
competenze si sviluppino l’educazione
è necessaria. L’ambiente in cui un bambino cresce modella l’adulto che sarà.
Negli anni Settanta del secolo scorso prevaleva tra i pedagogisti la tesi
secondo la quale l’ereditarietà genetica
ha un’importanza poco rilevante
rispetto all’ambiente nella formazione
della persona; oggi, in base a studi
recenti, questa tesi va ridimensionata:
l’influenza ambientale e i geni concorrono insieme a costruire l’identità
di un individuo. Ma è pur sempre
vero che senza un’adeguata educazione nessun talento innato e nessuna
predisposizione possono giungere a
maturazione.
È dunque più calzante che mai l’etimologia latina del verbo «educare»
(e-ducere): tirar fuori, portare alla luce
quanto è racchiuso all’interno del
bambino e attende di sbocciare.
Almeno, così è per ora. Ma i rapidi progressi della genetica gettano interrogativi inquietanti sul domani. Già ora,
con la fecondazione assistita, risultano
tecnicamente possibili interventi di
ingegneria genetica che, selezionando l’embrione, possono evitare che il
nascituro sviluppi in seguito malattie
come il morbo di Huntington o la distrofia muscolare; ma è anche teoricamente possibile selezionare l’embrione
che farà nascere un bimbo con gli occhi azzurri e che da adulto sarà magro
e alto. Le leggi, l’opinione pubblica e la
Chiesa si oppongono, per ora, a questa
possibilità di produrre un «bambino su
misura»: ma fino a quando? La Chiesa
cattolica si oppone tuttora al suicidio
assistito che in molti Paesi, compreso il
nostro, è invece accettato; ma la stessa
Chiesa fino a non molto tempo fa
pretendeva l’accanimento terapeutico
e solo recentemente vi ha rinunciato;
fino al 1963 un fedele che scegliesse
d’essere cremato dopo morto veniva
scomunicato: oggi non più. I tempi
cambiano, cambiano le mentalità e
i confini del giusto: forse domani il
bambino su misura sarà la regola.
Ma anche lui, comunque, avrà bisogno
di cultura e di educazione per essere
davvero uomo: e lo sarà nella misura
in cui avrà fatto sua la cultura che gli
viene dal passato. L’ereditarietà genetica va integrata dall’eredità culturale,
come ammonisce Goethe nel Faust:
«Ciò che hai ereditato dai tuoi padri,
devi conquistarlo con le tue forze per
possederlo davvero».
Sono la trasformazione delle verghe usate per flagellarla durante il
tremendo martirio perpetrato dal suo
stesso padre, per due giorni: torturata
inoltre con il fuoco, tagliati i seni,
infine decapitata. Arriva il prosciutto
cotto nell’asfalto che ormai fa parte
del «Patrimonio culinario elvetico»:
servito su un bel piatto demodé con
gratin dauphinois e cornetti. Me lo
serve Brigitte, un donnone energico
che vola tra i tavoli di legno. È suo
marito che immerge i prosciutti
incartati nell’asfalto liquido. Niente
di eccezionale forse, va detto, ma
ottimo, perdipiù oggi ho una fame da
lupi e le fette spesse otto millimetri
vanno a nozze con il gratin. Vino
consigliato: pinot noir neocastellano.
La gerente, dopo il gran daffare, si siede a bere un caffè per darmi qualche
notizia. Mi dice che servono quattro
tonnellate di prosciutto all’anno. I
maiali sono della regione e l’asfalto
dove vengono immersi i prosciutti di
otto chili circa ha una temperatura
di centosessanta gradi. Il prosciutto,
disossato – mi spiega Marge – viene
imballato con parecchi strati di carta
da macellaio; questo pacchetto è a sua
volta avvolto con un sacco da farina
e immerso, attraverso un cestello
di metallo, in quattrocento chili di
asfalto fuso. Il tempo di cottura è di
quattro ore e un quarto. Marge mi
mostra alle mie spalle uno di questi
imballaggi in esposizione. Penso per
un attimo: scherza. Io l’avevo scambiato per una borsa nera della Freitag.
Quando le chiedo se c’è un inventore
in particolare del prosciutto cotto
nell’asfalto, mi dice che è un’idea
collettiva venuta ai minatori, ma è
anche un’usanza degli operai stradali
della zona. Il vero cibo da strada dunque. Prosciutto a parte, è pazzesco
pensare che milioni di persone in
tutto il mondo hanno passeggiato su
strade asfaltate con l’asfalto naturale
ricavato dai fianchi di questa valle
trasversale, proprio qui, sotto i nostri
piedi.
ritmo accelerato, sulla nostra società:
un Ticino che doveva accogliere una
popolazione sempre più diversificata
di immigrati, giovani, prolifici, impegnati nella scalata sociale. E che,
inevitabilmente, avrebbero invaso
le aule delle nostre scuole. Le medie,
ideate e gestite sulla base dell’integrazione, si rivelarono all’altezza
dei compiti attuali. Da questo punto
di vista, la scommessa è stata vinta.
Da sfida, carica di incognite, si è
trasformata ormai in un’istituzione,
accettata e non al riparo dall’autocompiacimento. Come traspare dalle
dichiarazioni degli addetti ai lavori,
in occasione del quarantesimo, un’età cerniera, non solo per le persone:
la gioventù è alle spalle, la maturità
avanza.
Ed è anche il momento dei bilanci, e quindi della consapevolezza e
dell’autocritica, necessari per rendersi
conto che la scelta della media unica
conteneva una parte d’illusione. Tutti
insieme per affrontare un insegna-
mento, il più possibile accessibile,
non è un virtuoso automatismo che
garantisce un buon esito generalizzato. La riuscita scolastica è anche
questione di doti individuali, distribuite secondo criteri imperscrutabili
che, a volte, smentiscono il fattore
sociale e familiare. Capita, e come,
che il primo della classe sia figlio di un
immigrato kosovaro, un ragazzo con
una voglia di conoscere, d’imparare,
di fare affidate proprio alla scuola. E
alle medie, in particolare, per le quali
dovrebbe essere, del resto, il compito
fondamentale.
Ma, in pratica, così non è stato. Nei
suoi primi 40 anni, la SMU ha rischiato di perdersi per strada, inseguendo
ambizioni impossibili del tipo costruire il futuro cittadino a pieno titolo,
scomodando, come succede, filosofi,
sociologi, e persino esperti in affettività ( esistono pure quelli).
Mentre basterebbe limitare, si fa per
dire, il proprio campo a formare gli
allievi di oggi.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf
Il Café des Mines a Travers
C’è solo un posto al mondo dove
potete assaggiare il prosciutto cotto
nell’asfalto: il Café des Mines, in Valde-Travers. Località La Presta, a metà
strada tra Travers e Couvet, villaggi
nel cuore di questa valle non lontana
da Neuchâtel e nota come culla del
mitico assenzio. È un ristorante atipico aperto solo a pranzo, ricavato dal
deposito del legno delle vecchie miniere di asfalto attive dal 1717 al 1986.
Questo raro e prezioso conglomerato
bituminoso viene scoperto nel 1711,
dentro l’anticlinale nord della valle,
dall’enigmatico medico greco-ucraino Eirini d’Eirinis (1630-1730). In
origine, prima dell’impiego stradale
moderno, l’estrazione dell’asfalto
aveva, strano a dirsi, intenti terapeutici. Alle 13.09 scendo dal treno
regionale alla fermata su richiesta La
Presta, mines d’asphalte. Sponda destra dell’Areuse intravista prima dal
finestrino scorrere flemmatica, disinteressata, magica. Episodici banchi di
bruma tra le pinete miste che accen-
nano, qua e là, ad accendersi con le
prime tinte autunnali, tre pullman
posteggiati. Due scritte in stampatello nero stemperato campeggiano,
separate, sulle mura bianche dell’edificio con tre tetti tipo fabbrica: Mines,
Café. Entro così al Café des Mines
(733 m) un giorno di pioggia leggera
a fine ottobre. È strapieno, lunghe
tavolate, un grande camino in ferro
battuto troneggia in fondo alla prima
sala. Pareti di legno, foto in bianco e
nero dei minatori tra le due lavagne
con la lista dei vini. L’ambiente è più
che conviviale e sfocia in un chiacchiericcio assordante: almeno un
centinaio di turisti su di giri che non
vedono l’ora di provare il famoso prosciutto. Specialità inconsueta e forse
discutibile risalente agli anni Trenta,
quando i minatori lo preparavano
nel giorno di Santa Barbara: patrona
dei minatori. Piatto della festa – che
ricorre il quattro dicembre – strameritato per il duro lavoro nelle viscere
della terra, tramutato all’inizio degli
anni Novanta, in attrazione turistica.
Tutti quelli che vengono qui a visitare
i chilometri del labirinto sotterraneo
hanno in testa una cosa sola: questo
benedetto prosciutto. Una tavolata di
turisti svizzerotedeschi brinda non
appena viene servito; il guidatore
del pullman, non troppo felice, beve
acqua e rimane un po’ in disparte
dall’euforia collettiva. Qui potete anche degustare la birra Santa Barbara.
Una birra studiata esclusivamente per
le ex miniere dalla Brasserie des Franches-Montagnes di Saignelégier, nel
Giura. Ambrata, non filtrata, gusto
affumicato, niente male. Sull’etichetta c’è Santa Barbara con una torre in
mano. Infatti, secondo la leggenda, è
stata rinchiusa in una torre a Izmit,
in Turchia, dal padre, per proteggerla dai suoi pretendenti. Nella sala
grande di questo posto stile refettorio
si ritrova invece l’altro elemento della
sua iconografia. Rappresentata su
un grande stendardo sottovetro, in
mano, tiene delle piume di pavone.
Mode e modi di Luciana Caglio
I 40 anni delle medie: da sfida a istituzione
Sembrano appartenere alla preistoria
del nostro costume gli umori, anzi
i malumori, che accompagnarono
la nascita della scuola media unica,
decisa dal governo ticinese nel 1972
e operativa dal 1974. La riforma, che
comportava l’abolizione delle maggiori e dei ginnasi, divise profondamente l’opinione pubblica, sempre
sensibile a tutto ciò che tocca la scuola: un luogo e un periodo che, in modi
diversi, hanno segnato la nostra esperienza, prima come allievi e poi come
genitori o nonni di allievi o magari
docenti. Fatto sta che quel cambiamento, proposto alla stregua di una
primizia e di un progresso educativo
e sociale, non mancò di allarmare
e insospettire. Suscitando scontri
intensi e dai risvolti persino spassosi,
almeno visti a distanza. In proposito,
fu significativa la serata che, nell’autunno del ’73 si svolse al Palazzo dei
congressi di Lugano, da me, e chiedo
venia, più volte rievocata. Ma a ragione. Proprio perché quella sala gremita
da un pubblico, chiaramente ripartito
in gruppi, o addirittura, fazioni opposte, fotografava un momento, tipico di
un’epoca, che recava le impronte del
vicino ’68, insomma era ancora carica
di ideologie e ideologismi. Oggetto
del contendere l’avvento della scuola
media, la SMU, come si chiamava:
difesa dal professor Franco Lepori e
avversata dal professor Salvini, oggi
entrambi scomparsi. Ed entrambi
animati dal cosiddetto fuoco sacro
di una convinzione compatta, senza
possibili sfumature. Il primo, esponente di un socialismo risanatore,
vedeva nelle medie, uguali per tutti, lo
strumento più efficace per assicurare
pari opportunità veramente a tutti, e,
indipendentemente dal ceto o dall’origine nazionale. Il secondo, persuaso
invece dell’impossibilità di abbattere
non tanto gli ostacoli sociali quanto quelli individuali. Cioè, ostacoli
d’ordine naturale, perché come disse
con una battuta rimasta famosa, «la
natura non è democratica».
Ma al di là di questa memorabile
serata, le due prese di posizione continuarono ad animare discussioni e
polemiche, innanzi tutto politiche,
offrendo, per fortuna, anche materia
agli umoristi. La SMU («asinificio»)
diventò un cavallo di battaglia per
Flavio Maspoli, cabarettista di talento, in tempi in cui la Lega era di là
da venire. Con il passare degli anni,
si sono smussati, per forza di cose,
gli spigoli di una contrapposizione
che ha perso i connotati partitici e
ideologici dei primordi. Rimane,
comunque, da chiedersi: chi ha avuto
ragione in quella battaglia? Merita
rimpianto il vecchio ginnasio, affidato a criteri selettivi e meritocratici?
O ha ottenuto una giustificata fiducia
generale la scuola media, capace
di affrontare le incognite di una
nuova società? Domande che possono sembrare retoriche e risposte
scontate. Le medie, è fuori dubbio,
hanno percepito, tempestivamente,
i cambiamenti che incombevano, a