SOCIAL, TROPPO SOCIAL!

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 SOCIAL, TROPPO SOCIAL!
Copertina di Nicola Romagnoli: DECALCOMANIE CONTEMPORANEE Per la realizzazione di queste schede formative a cura dell’équipe nazionale MSAC grazie a: Annalisa Dalla Mora, Gianni Giaccone, Michele Giovanardi, Roberta Lancellotti, Erika Zara
INDICE Introduzione 1. Breve storia dei Social Network Per trovare informazioni su • Facebook • Twitter • Google • Privacy22 2. Narciso è Online pag. 4 pag. 5 pag. 7 pag. 10 pag. 17 Per trovare informazioni su • Concetto di identità • Spettacolarizzazione e Audience (“Like”) • Internet Addiction Disorder (IAD) 3. Internet ci rende stupidi? • Lettura 2.0 Per sommi capi, spezzettata e frettolosa? • Concentrarsi Multitasking, interruzioni e notifiche • Rendimento • Memoria Da divinità greca a memoria digitale • Plasticità La ginnastica mentale online 4. E vissero sempre #Felici e #Connessi Per trovare informazioni su • Addiction o dependence? • 5 dipendenze online 5. Cultura Social pag. 20 6. Comunicazione Social pag. 24 • La cultura della vetrina • Network Individulism • La rete diventa pop: farsi media e pubblici connessi • Dalla lettera a Whatsapp 7. Informazione Social 8. Relazioni 2.0 pag. 27 Da Wikipedia e la dittatura del dilettante all’emblematico caso della rivolta in Egitto e la “sorveillance” pag. 29 Da animale sociale ad animale social Proposte di Attività
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Fuori gli smartphone La piazza è reale Dillo con un tweet Mettiti in vetrina In allegato: Testimonianze •
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Il gioco di Alessandro (sulle Ludopatie) Giulia e Facebook (sul Cyberbullismo) Manuel, il prof 2.0 (sull'utilizzo dei social network a scuola) Provocazioni 2.0 pag. 31 Qual è il confine entro il quale possiamo percepire la realtà? Secondo Magritte, l’unico filtro siamo noi stessi, il nostro io. Ma oggi si pone un nuovo confine tra l’uomo e la realtà: i social network. Questa presa di coscienza deve far riflettere, e spingerci ad un’esperienza del reale diretta, per andare oltre i limiti e i filtri che ci impone la società contemporanea e riprendere in mano quella relazione autentica e spontanea con il mondo che ormai si sta dissolvendo nell'esperienza virtuale. INTRODUZIONE Portare dentro la scuola le pratiche d'uso dei nuovi media così come si presentano nel mondo giovanile significa dare per scontato che il nostro cervello funzioni meglio in questo contesto di stimoli frammentati – anche se non esistono solidi supporti scientifici per questa idea, e quelli che ci sono vanno piuttosto nella direzione opposta. Il ministro Profumo aveva dapprima fissato nel settembre 2013 il termino ultimo per il passaggio di tutti i manuali scolastici alla versione digitale, poi prorogato al settembre 2014. Il successivo ministro Carrozza ha ulteriormente dilazionato i tempi. La procedura, secondo le ultime disposizioni, sarà graduale e ne saranno valutati costantemente gli effetti. Soprattutto due concetti hanno guidato questo approccio pro-­‐innovazione: quello del digital divide e quello dei nativi digitali. Secondo il primo approccio, chi restasse tagliato fuori da internet subirebbe svantaggi di vario genere, anche di tipo culturale e scolastico. Per questo la preoccupazione dominante è stata quella di favorire la diffusione dell'accesso alle rete, a casa e a scuola. Il secondo concetto distingue i “nativi digitali” e i “migranti digitali” e rimanda all'idea che le nuove generazioni mostrino una naturale familiarità con i mezzi digitali e che, per questo, anche un modo di fare didattica che venisse incontro a queste modalità comunicative sarebbe più
efficace. Nella introduzione di queste nuove tecnologie ci sarebbero sicuramente dei vantaggi, come il costo dei libri, il peso degli zaini per gli studenti, la condivisione dei contenuti, etc. Tuttavia non sono state affrontate in profondità le domande rispetto alle implicazioni di questo passaggio sulle pratiche didattiche e sull'apprendimento dei ragazzi, che è l'obiettivo primario della scuola. I Social Network oggi sono per noi “nativi digitali” il modo naturale di comunicare e di rapportarci con i nostri coetanei. Sono state demolite le barriere spazio-­‐temporali e ora il mondo è a portata di clic; o meglio, di touch. Ma in che modo la comunicazione digitale influenza le nostre vite? Se gli effetti positivi dei social network sono impliciti, sotto gli occhi di tutti, esistono davvero dei gravi rischi connessi all'utilizzo di questi potenti mezzi? Nel dibattito su queste tematiche si osserva di frequente l'aspra contrapposizione fra chi, entusiasta, esalta le potenzialità della tecnologia del nuovo millennio e chi invece ne demonizza gli effetti psicosociali sulle giovani generazioni. Come msacchini non possiamo che mantenere il nostro proverbiale spirito critico, e alla luce di questo avviare una riflessione seria e sincera, su noi stessi, sull'uso personale e sociale che facciamo di queste tecnologie. Ben lontani da un atteggiamento di allarmismo o di superficialità, consci del fatto che non esiste studio al mondo che possa eliminare l'intrinseca complessità della realtà, vogliamo analizzare e approfondire queste ricerche per avvicinarci il più possibile a un uso critico, consapevole, responsabile e proficuo dei social media. 4
1. BREVE STORIA DEI SOCIAL NETWORK «Finalmente dopo sei ore di scuola posso riaccendere la mia vita sociale. Non appena suona la campanella prendo il mio Smartphone e apro facebook. Il “buongiorno amici di Fb” che ho postato stamattina ha già
riscosso venti mi piace, ora posso ritenermi felice!! Scorro tra i mi piace e finalmente vedo il suo, mi risale quella sensazione allo stomaco, vorrei che il suo mi piace fosse riferito a me e non al mio stato. Non l’ho mai visto da vicino, ma dalle foto sembra molto carino. Come ogni giorno vedo se è in linea, non c’è, forse ancora non è tornato da scuola. Intanto scorro tra i post dei miei amici, metto un mi piace qua e là. Ecco il link che fa per me, esprime proprio quello che sento, spero che capisca che è dedicato a lui. Eccomi a casa, mentre pranzo ho sempre il cellulare in mano, in attesa del suo mi piace. Finalmente arriva, accompagnato dalla solita fitta allo stomaco. È in linea, spero che mi contatti…» Quante volte ci siamo sentiti come questa ragazza, Facebook e i social network sembrano oggi diventare il mezzo privilegiato per socializzare. MI PIACE, COMMENTA, CONDIVIDI, queste modalità di espressione le conosciamo ormai tutti, stiamo sempre lì ad utilizzarli, forse perché
cliccare su un tasto è molto più semplice che parlare da vicino con qualcuno e dire ciò che si pensa. Ma quanto i social network aiutano e migliorano, oggi, il nostro modo di socializzare? Di lati positivi ce ne sono tanti: innanzitutto il social annulla completamente le distanze, puoi parlare e confrontarti con amici che abitano a km di distanza, come se fossero lì accanto a te; è
possibile condividere e scambiarsi idee e lavori, in modo facile e immediato: scambiarsi l’assegno, farsi dare una mano da un amico su un argomento che si è capito poco; puoi rendere partecipe tutti i tuoi amici delle esperienze tramite foto. Puoi persino dire il punto esatto del mondo in cui sei, immediatamente, con un semplice clic. Ma d’altro canto, quanto i nostri amici, o “seguaci” di Facebook e Twitter sono veramente Amici? Quanti delle centinaia di persone che definiamo ogni giorno amici li sentiamo davvero tali? Forse si è perso quel modo di socializzare dell’“antichità” in cui amico era colui che ti stava accanto, quello con cui ti piaceva parlare, ridere, scherzare, giocare, cose che ormai oggi sono state sostituite con chattare, =), =P. Facebook è la più popolare piattaforma sociale che esiste al mondo che ha contagiato milioni e milioni di persone. Ma non tutti sanno che è nato in un contesto piuttosto ristretto, quello dell'università di Harvard, nel febbraio del 2004. È qui che un piccolo gruppo di studenti, tra cui il fondatore Mark Zuckerberg all'epoca diciannovenne, decisero di creare questa comunità virtuale che permettesse ai giovani studenti di connettersi e darsi appuntamento per il ritrovo in aula o altri ambienti studio, nonché
come mezzo per scambiarsi appunti e dispense. Il nome stesso si riferisce agli annuari con le foto del singolo soggetto: appunto, Facebook. In seguito si è espanso nelle altre università del mondo dalle più importanti a quelle meno popolari. Agli studenti poi si sono aggiunti i componenti delle aziende che utilizzavano questa piattaforma per scambiarsi tracce di lavoro e progetti. Insomma, oggi Facebook è la più popolare comunità virtuale in assoluto: a soli 10 anni dalla sua nascita conta 1,23 miliardi di iscritti al mondo. Facebook piace perché è il social network più semplice da utilizzare: non serve abbellire il tuo profilo, come sui blog, con applicazioni o altro, basta una foto e un nome e fai parte di questa comunità. Potenzialmente non è creato per esprimere le proprie idee, ma semplicemente per ritrovare vecchi amici, o magari conoscerne di nuovi, e questo lo rende meno esclusivo di altri social. Inoltre offre una vasta gamma di attività e cose da fare come giochi e applicazioni che ti permettono di relazionarti in vari modi con i tuoi amici. Insomma, «la mission di Facebook è quella di dare alla gente il potere di creare e condividere un mondo sempre piu aperto e connesso». (M. Zuckerberg). 5
Un altro social in continua espansione è Twitter. Il termine Twitter deriva da un verbo inglese, to tweet, traducibile in italiano con cinguettare. Il nome definisce perfettamente il suo funzionamento: esso è un social che consente di pubblicare, sul proprio profilo, frasi con un massimo di 140 caratteri, immagini, video, audio. Nato negli Stati Uniti nella società Obvious Corporation nel 2006, conta oggi circa 904 milioni di utenti oggi, ed è in continua crescita. Come ogni società, anche Facebook (come tutti gli altri social e piattaforme digitali, compreso Google
Google) ha le proprie strategie di marketing. ad esempio è capace di creare una sorta di profilo, avendo a disposizione i siti che frequenti e che ricerchi, che contiene informazioni su cosa piace, o non piace: così facendo ti propone le pubblicità a te più adatte. Facebook fa ancora meno sforzo a capire quale tipo di pubblicità può attrarti, perché sei tu stesso a dire cosa ti piace, motivo per cui ogni utente vale potenzialmente 100 dollari per i pubblicitari. Potenzialmente Facebook può prevedere anche per chi voterai alle elezioni in base ai contenuti che ti piacciono. Tuttavia Facebook non vende i tuoi dati ai pubblicitari, ma chiunque possieda un profilo può
inviare pubblicità a persone selezionate, per esempio è possibile inviare contenuti a tutti gli utenti di Facebook, maschi, a cui piace la scuola, tra i 14 e i 20 anni, ai quali interessa il calcio (mette mi piace a una squadra, o a un calciatore) e inviare un contenuto, una pubblicità o un invito. In questo modo non solo la pubblicità ha più valore ma è anche relativamente semplice individuarla. Siccome nel sito vengono immessi e immagazzinati una molteplicità di dati personali per ciascun utente registrato, questo ha inevitabilmente comportato problemi in merito all'uso di Facebook come mezzo di controllo e fonte di dati. Tuttavia queste controversie si sono recentemente alleviate: mentre prima non esisteva nessun controllo sul chi-­‐può-­‐vedere-­‐cosa, sono state aggiunte impostazioni di privacy, non solo su proprie informazioni personali ma anche sui propri singoli post o commenti. Insomma tu stesso puoi decidere cosa e a chi mostrare dei tuoi contenuti e delle tue informazioni. Inoltre, mentre inizialmente il sito consentiva esclusivamente di disattivare l'account in modo che non risultasse più visibile nel sito stesso e nei vari motori di ricerca, a partire dal febbraio 2008 l'utente ha anche la possibilità di sfruttare un’opzione che cancella definitivamente e in modo permanente i propri dati dal server del sito. Oggi in Italia il Decreto legislativo che regola il possedimento dei dati personali è quello emanato il 30 giugno 2003, al n. 196 e noto comunemente anche come «Testo unico sulla privacy». All'art.l del testo unico viene riconosciuto il diritto assoluto di ciascuno sui propri dati, in cui si afferma testualmente: «Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano». Tale diritto pertiene i diritti della personalità. La Commissione Europea ha presentato ufficialmente le proposte relative al nuovo quadro giuridico europeo in materia di protezione dei dati. Si tratta di un Regolamento, che andrà a sostituire la direttiva 95/46/CE (http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-­‐
/docweb-­‐display/docweb/432175 ) e di una Direttiva che dovrà disciplinare i trattamenti per finalità di giustizia e di polizia (attualmente esclusi dal campo di applicazione della direttiva 95/46/CE). In esso si stabilisce il diritto degli interessati alla «portabilità del dato» (ad. es. nel caso in cui si intendesse trasferire i propri dati da un social network ad un altro) ma anche il «diritto all'oblio», ossia di decidere quali informazioni possano continuare a circolare (in particolar nel mondo online) dopo un determinato periodo di tempo, fatte salve specifiche esigenze (ad esempio, per rispettare obblighi di legge, per garantire l'esercizio della libertà di espressione, per consentire la ricerca storica). Insomma, condividere contenuti su internet e sui social network è bello, facile, divertente. Ma 6
richiede anche tanta responsabilità, se non altro perchè ogni nostro “clic” viene memorizzato e ci espone, oggi o in futuro, a una “rintracciabilità”. E troppo spesso, forse, di questo ci dimentichiamo. 7
2. NARCISO È ONLINE «Paradossalmente, la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità di amare» Erich Fromm Se l'epoca dell'umanesimo moderno è contrassegnata dalla centralità del lavoro e da una socialità
ricca di senso derivante dal lavoro stesso, l'era del narcisismo è contrassegnata dalla centralità del consumo e da una socialità immersa nel vuoto delle apparenze. Questo “vuoto” nel narcisista si accompagna a un senso d'impotenza, di autosufficienza e di onnipotenza. Queste tendenze narcisiste sono sempre esistite, nella storia dell'umanità, come esperienze isolate, ma oggi possiamo parlare di “era del narcisismo” proprio perché queste sono caratteristiche comuni alla maggioranza degli individui. Sono tendenze sociali, non più devianze personali. Nell'era del narcisismo vige il regime delle apparenze senza sostanza, delle superfici senza profondità, dell'immagine privata di un referente reale. E tutti i mezzi mediali a nostra disposizione alimentano scatto dopo scatto, tweet dopo tweet, post dopo post, questo culto dell'immagine, dell'apparire piuttosto che dell'essere. Il primato dell'immagine viene affermato tramite i messaggi pubblicitari, la preoccupazione ossessiva per il proprio corpo, l'identificazione dello scopo della vita nel raggiungimento della celebrità che si vuole ottenere proiettando un'immagine attraente di se stessi o richiamando in qualche modo l'attenzione su di sé. Il primato dell'immagine, del look, della visibilità, dell'esteriorità sulla parola, sull'astrazione: in sostanza, sulla vita spirituale. Nel mito di Narciso, quello che il giovane vede riflessa nell'acqua non è l'immagine del suo volto, che è la manifestazione esteriore dell'anima, ma l'immagine del suo corpo. Il narcisista esalta dunque la sua corporeità rispetto alla sua vita interiore e spirituale. Nel narcisista il nucleo identitario della persona non è più l'anima, lo spirito o la mente, ma il corpo: l'identità si afferma non tanto acquisendo la consapevolezza di sé stessi, ma piuttosto diventando “padroni del proprio corpo”. L'apparenza fisica dell'Io, ovvero il corpo, è oggi considerata un mezzo importante per acquisire uno status sociale. L'esibizione del corpo nudo è onnipresente nella pubblicità, nei film, sui siti (anche non pornografici). Inutile parlare della centralità che l'esibizione del corpo assume sui social network. Il corpo surroga l'anima anche come medium privilegiato di comunicazione. Ad esempio il rapporto sessuale viene considerato come il mezzo privilegiato di espressione del bisogno di “conoscere” e “comunicare” con il partner o più semplicemente con chiunque ci piace. L'ossessione per i culti igienici, dietetici, terapeutici, rituali di controllo, check up, massaggi, fitness, beauty farm, jogging, palestra, chirurgia plastica, sono tutte espressioni del narcisismo contemporaneo. Insieme alla paura soffocante dell'invecchiamento, che supera nel narcisista la paura della morte. Riguardo a questa tematica consideriamo anche che i disturbi alimentari come anoressia o bulimia, oggi sempre in aumento fra le giovani generazioni, oltre ad avere cause biologiche e psicologiche, hanno anche cause sociali come problemi di autostima legati a feedback negativi e reiterati, determinati dall'appartenenza a determinati gruppi sociali in cui è rilevante la tematica del controllo del peso, dove la magrezza viene enfatizzata come un valore sociale positivo. Infine dobbiamo osservare il modo in cui l'era del narcisismo travolge tutti gli ambiti sociali, 8
attraverso una spettacolarizzazione, che riguarda la maggior parte dei fenomeni culturali. La rete è colma di video in cui i protagonisti compiono gesti eclatanti per ricevere fiumi di like o visualizzazioni (ad esempio la moda della nomination su Facebook). Lo stesso criterio di folle ricerca del like può essere esteso a tutti i processi sociali. Claudio Magris, autorevole scrittore e saggista, osserva come l'audience sia divenuto il criterio e il metro per il successo, come l'immagine del reale sia divenuta essa stessa reale. In questo contesto la presentazione o l'autopresentazione di un libro sostituiscono, secondo Magris, la lettura e la critica dello stesso. L'autore va in tv e presenta il suo libro parlando anche della sua vita e di tante altre cose meno inerenti: il successo è dovuto all'efficacia comunicativa, all'audience di tale presentazione piuttosto che al contenuto del libro stesso. Queste dinamiche si applicano al marketing di qualsiasi prodotto in cui non è importante tanto il prodotto in sé, quanto la strategia di marketing sottesa ad esso, dalla cui efficacia dipenderà il successo del prodotto. Purtroppo questo si estende anche all'ambito della politica. Il primo a parlare di politica spettacolo è Robert-­‐Gerard Schwartzenberg, Docente all'università di Parigi, vecchia di quasi un millennio, studioso di Rousseau e Machiavelli. Scrive così nel suo libro “Lo stato spettacolo”: La politica diviene “l'impero dei segni”. Il linguaggio vi diviene un gioco, uno scambio di segnali in codice. I segni contano più delle idee espresse. Le formule linguistiche prendono a esistere in se stesse, per se stesse. È chiaro che occorre ritrovare un altro linguaggio politico […] un linguaggio meno “spettacolare”, che esprima le cose senza occultarle o travestirle; che chiarifichi le mete e le scelte, per permettere a ciascuno di decidere da sé, come si usa in democrazia. […] Accetteremo ancora per molto tempo questo festival permanente, questo show? Oggi l'azione politica si spettacolarizza e passa dal Parlamento ai salotti televisivi, ai blog, a Facebook, ai colpi di tweet. Tutti luoghi in cui si fa politica parlandone. Lo stesso candidato politico diventa un'icona pubblicitaria e i partiti diventano delle macchine elettorali. Quello che serve per vincere, più che argomentazioni razionali a supporto della propria linea politica, è un'immagine gradevole, rassicurante, accattivante del leader politico. • Riflettiamoci: quanto mi sento narcisista io? Che peso ha l'immagine che do di me stesso rispetto alla mia interiorità, alla mia vita spirituale? È più importante per me essere o apparire? Quanto mi spendo per gli altri senza un reale tornaconto? L'Internet Addiction Disorder (IAD) – disturbo dovuto alla dipendenza da Internet – si fonda sul narcisismo, rappresentato da un sè grandioso che nasconde un sè fragile. Questo risponde a una esigenza, un bisogno di conferma e ricoscimento che si opponga all'angoscia del rifiuto, al desiderio del non desiderio. D'altra parte i bisogni fondamentali dell'uomo sono due: il primo è
quello di perseverare nella sua esistenza e non perire, ovvero l'istinto di sopravvienza che ci accomuna al resto degli esseri viventi, da cui deriva il nutrirsi e la riproduzione della specie. Il secondo bisogno, forse anche più fondamentale del primo, è quello di sentirsi parte di un tutto. È
il bisogno costante di etero-­‐determinazione: l'altro, che è diverso da me, deve continuamente dirmi che esisto e che sono unico. Quando questo viene a mancare l'uomo si sente isolato, abbandonato, rifiutato dal mondo, e in alcuni casi può desiderare razionalmente la morte. In questo senso questo secondo bisogno è maggiore del primo, in quanto può scavalcare l'istinto di 9
sopravvivenza. C'è il grosso rischio che il web sia utilizzato come “specchio collettivo di Narciso”, nella prospettiva di un “isolamento narcisistico” di massa. L'identità su internet e sui social può essere nascosta o mascherata. Manca la vista, l'udito, l'olfatto. Ci si trasforma in puro linguaggio scritto, con la fantasia di poter essere ciò che si vorrebbe. Una vera e propria virtualizzazione dell'identità. • Un “nuovo sè” ricco, ampliato, più estroverso e comunicativo, con nuove potenzialità
emergenti? O un sè demolito, virtuale, inesistente, un sè schizofrenico, frammentato? Quanto la mia identità online corrisponde alla mia più intima, vera e profonda, identità
offline? 10
3. INTERNET CI RENDE STUPIDI? È facile cadere nella retorica per cui gli strumenti tecnologici non sono buoni o cattivi in quanto tali, ma dipende dall'uso che se ne fa. La piattaforma di internet è diventata per i “nativi digitali”
molto più di uno strumento di cui si può scegliere deliberatamente di servirsene o meno. È forse vero il contrario, ovvero che internet ci rende totalmente dipendenti e talvolta quasi disadattati alla realtà non virtuale. C'è chi afferma che è proprio nella capacità di spegnere serenamente lo smartphone, il computer, il tablet, nella capacità di andare serenamente offline, che risiede la sottile differenza tra l'uso funzionale e il disfunzionale. Ma internet per noi non è più un gioco di ruolo per cui a un certo punto possiamo abbandonare il ruolo, spegnere il computer e riprendere la vita reale. Internet si presenta sempre più come un medium universale, un'estensione estremamente versatile dei nostri sensi, della conoscenza e della memoria, un amplificatore neurale particolarmente potente. E le nuove tecnologie vanno tutte in questo senso (basti pensare alla nuova campagna pubblicitaria della ditta Apple). Il computer diventa un'estensione delle capacità di elaborazione del sistema nervoso centrale, il quale si modifica costantemente grazie alla sua plasticità sinaptica. Sarebbe davvero superficiale oggi pensare che le nuove tecnologie digitali e il nostro stato perenne di connessione non modifichino profondamente la nostra psiche e il nostro essere tra gli uomini. Non possiamo vivere in un mondo diverso da quello digitale postmoderno, regredendo e rinunciando alle immense opportunità che esso ci offre. Non possiamo, allo stesso modo, evitare gli effetti che questo ha sul nostro cervello, la nostra psiche, il nostro essere nel mondo e fra gli uomini, i nostri comportamenti sociali, la nostra identità. Dunque non ci resta che conoscere queste dinamiche, per poi riuscire a riconoscerle e controllarle, interrogandoci sull'influenza che esse hanno sulla nostra vita in termini di serenità, opportunità, relazioni, identità, carattere, temperamento. Letture 2.0 Avete presente quando vedete il titolo di un libro che vi interessa, allora lo prendete, guardate la trama, sfogliate qualche pagina – magari la prima e l'ultima – e leggete qualche frase qua e là? Capite di cosa si sta parlando, il significato generale, ma non leggete tutte le parole. In Inglese, per definire questo tipo di lettura per sommi capi, si usa il verbo “to skim”. Ed è esattamente la modalità di lettura che adottiamo sul web. Da link a link scorriamo velocemente le pagine e leggiamo solo i contenuti che ci interessano in modo immediato e selettivo. Questa modalità
selettiva rischia però di essere applicata anche quando lo smartphone è altrove e davanti a noi c'è
un bel libro di 200 pagine da leggere e studiare, per cui è impossibile ottenere quella disponibilità
immediata di informazione che ci regala il web. Nel 2006, Jakob Nielsen, consulente di design per siti web, condusse uno studio basato sulle tecniche di analisi dei movimenti oculari. Quando leggiamo, il focus visivo procede per piccoli salti, chiamati saccadi, fermandosi brevemente in alcuni punti lungo la riga (studi del 1879 dell'oculista francese Louis Emile Javal). Lo schema della pause o “fissazioni dell'occhio” può variare molto a seconda di quello che viene letto e di chi lo sta leggendo. Facendo la registrazione di questi movimenti oculari (eye tracking) scoprì che quasi nessuno leggeva sul web in modo metodico, riga per riga, come avrebbe letto normalmente un foglio stampato. La maggior parte scorreva il testo rapidamente, saltando con gli occhi in fondo alla pagina, secondo uno schema che ricordava vagamente la lettera F. “F” secondo Nielsen stava per Fast. Ecco come si leggono i contenuti sul web, in pochi secondi: gli occhi si muovono a grande velocità, con uno schema molto diverso da 11
quello che si utilizza con i libri di scuola. Nielsen disse ai suoi clienti: “Quando aggiungete verbosità
a una pagina potete presumere che i vostri utenti ne leggano il 18%”. E di sicuro queste sono stime ottimistiche considerato il tempo utilizzato per osservare immagini, video ed altri stimoli. I ricercatori tedeschi asseriscono che la maggior parte della pagine web venga visitata per 10 secondi o anche meno. Ricerche più recenti ci dicono che il 10% dei lettori non effettua nessuno “scroll” sulla pagina. La maggioranza dei lettori non va oltre il 60% dell'articolo e in pochi finiscono realmente di visualizzarlo. Gli articoli che vengono condivisi in rete non sono quelli letti più a fondo, né gli articoli letti fino in fondo sono i più condivisi. Questo significa che la condivisione degli articoli sui social network viene fatta spesso senza averli letti per intero. Nel mondo digitale la lettura risulta dunque più spezzettata e frettolosa. Da una parte perché i pezzi su internet sono brevi. Dall'altra perché i lettori stessi appaiono sempre più impazienti rispetto al fatto di doversi concentrare su un solo testo per più di qualche minuto. «Non potrei più leggere Guerra e Pace. Ho perso la capacità di farlo. Anche un post di più di due o tre paragrafi su un blog è troppo lungo. Gli do soltanto una scorsa». Bruce Friedman – Patologo docente alla University of Michigan Medical School (Migrante Digitale) «Ero sorpreso e irritato dal fatto che una mia amica si fermasse a leggere i testi nei siti su cui capitava. La rimproveravo: -­‐ Non devi leggere le pagine web! Clicca soltanto sui link! Adesso anche io non leggo molto. Do un'occhiata scorro il testo. Ho pochissima pazienza per i ragionamenti lunghi, prolissi, ricchi di sfumature, anche se poi accuso gli altri di dare un'immagine semplicistica del mondo». Philip Davis – Society for Scholarly Publishing «Leggere una quantità di piccoli frammenti collegati fra loro online è un modo più efficace di ampliare i proprio orizzonti mentale che non leggere libri di 250 pagine; anche se ancora non possiamo renderci conto della superiorità di questo processo di pensiero reticolare, perché lo vediamo in rapporto al nostro processo di pensiero lineare». Scott Karp – blogger «Vado su Google e posso assorbire velocemente le informazioni più importanti. Mettersi li a leggere un libro interamente da una copertina all'altra non ha senso. Non è un buon uso del mio tempo, visto che mi posso procurare l'informazione che mi serve molto più velocemente sul Web. Quando impari a diventare un esperto cacciatore online i libri diventano superflui». Joe O'Shea – Florida State University «Calma, concentrata, senza distrazioni, la mente lineare è stata messa da parte da un nuovo tipo di mente che vuole e deve prendere e distribuire con parsimonia le informazioni a piccoli scatti, sconnessi, spesso sovrapposti; più veloce è, meglio è. Da quando la stampa di Gutemberg ha reso popolare la lettura, la mente lineare, letteraria, è stata il fulcro della nostra società, dell'arte e della scienza. Presto potrebbe diventare qualcosa che appartiene solo al passato». Nichola Carr – autore di “Internet ci rende stupidi?” Non c'è nulla di male nel fare browsing e nello scorrere. Lo si è sempre fatto anche con i giornali, e lo facciamo con riviste e libri per coglierne l'essenziale e decidere se meritano una lettura più
accurata. L'abilità di scremare il testo è importante quanto quella di leggere in profondità. Ma l'aspetto preoccupante è che lo scorrere superficialmente sta diventando la modalità principale di lettura, anche offline. Una volta era un mezzo per raggiungere uno scopo. Ora sta diventando una modalità di lettura fine a se stessa, è ormai diventato il nostro sistema preferito per raccogliere informazioni di ogni tipo e dare loro un senso. 12
• E noi? La modalità di lettura digitale, da link a link, con brevi informazioni condensate, e brevi tempi di fruizione, riguarda anche la nostra vita non virtuale? Come questo influenza il nostro apprendimento e il nostro modo di pensare e agire? E il nostro rendimento scolastico? Il nostro rapporto con gli altri? Perché non parlarne con un professore? Concentrarsi “Non è il molto sapere che sazia e soddisfa l'anima, ma il sentire e gustare le cose internamente”. Sant'Ignazio di Loyola Questa riflessione sulle modalità di lettura ci permette di fare un passo ulteriore, andando più a fondo nel domandarci se l'utilizzo di internet, degli strumenti digitali, e la perenne connessione alla rete sociale, hanno realmente degli effetti sulla nostra concentrazione e sul nostro rendimento. Su un qualsiasi apparecchio collegato alla Rete le scappatoie sono tantissime e spesso sono mescolate inestricabilmente ai nostri strumenti di lavoro e di studio. Quante volte ci è capitato di accendere il computer per una determinata ricerca, ma poi ci perdiamo tra le mille distrazioni dei social, degli articoli, dei video, dei post, e ci accorgiamo di aver speso già quindici minuti senza aver ancora iniziato la nostra ricerca. E si ha la sensazione di avere abboccato a tanti ami e si è
vagamente storditi. Il problema è che lo stesso strumento che in alcuni momenti è una distrazione, in altri costituisce un insostituibile strumento di informazione e connessione con il mondo. Innanzitutto va considerato l'importante tema del multitasking, ovvero l'abitudine di compiere più
azioni contemporaneamente. Una ricerca del 2006 della Kaiser Family Foundation su un campione di adolescenti americani rivela che il 26% del tempo speso con i media riguarda più attività in contemporanea. Lo stesso fenomeno, rilevato in Italia da Censis, ci dice che su un campione di 2300 studenti calabresi (11-­‐19 anni) il 68,3% degli intervistati è multitasker. Di questi ragazzi solo il 34,9% crede che le tecnologie digitali contribuiscano ad aumentare la concentrazione e la riflessione. In realtà le nostre capacità cognitive non permettono il multitasking. Il cervello umano è fatto per dare attenzione a una cosa per volta. Sarebbe dunque più corretto parlare di “task switching”, ovvero un continuo spostamento di attenzione da un'attività all'altra. Solo che a ogni passaggio da un focus all'altro il nostro cervello subisce una dispersione di energia che si concretizza in affaticamento e conseguente perdita di profondità, sia nelle attività di analisi che in quelle creative. Gli studi più recenti sugli effetti del multitasking sulle attività cognitive ci dicono che gestire contemporaneamente fonti e canali comunicativi diversi aumenta i tempi di lettura, abbassa le performance di comprensione e memorizzazione dei testi scritti, provoca sul lungo periodo una maggiore suscettibilità alle distrazioni di stimoli irrilevanti. Un altro grande problema, parlando di concentrazione, è rappresentato dalle interruzioni. La connessione alla Rete ci rende un terminale di continui stimoli dall'esterno: chiamate telefoniche, Skype, SMS, WhatsApp, notifiche Facebook, e-­‐mail, etc. Oltre alla tendenza a gestire più attività
contemporaneamente, l'utente dei media deve quindi far fronte a un numero crescente di 13
interruzioni non programmate, che aumentano la quantità di attività da gestire e interrompono ulteriormente il fragile equilibrio della concentrazione. La ricerca ha mostrato che, in media, ogni interruzione causa una sospensione del lavoro di circa 10 minuti prima di tornare all'attività che i soggetti stavano effettuando prima dell'interruzione. Questo va a incidere negativamente sulla produttività lavorativa e sullo studio. In occasione dell'interruzione i soggetti non davano solo attenzione a quello stimolo ma ne “approfittavano”
spesso per visitare altre pagine o applicazioni. Quante volte vi è capitato? Il 27% delle interruzioni causavano addirittura una pausa nel lavoro precedente di due ore o più! Ma perché siamo così vulnerabili a queste interruzioni e quando il lavoro si fa pesante le cerchiamo anche attivamente? Bisogna introdurre qui il concetto di rinforzo positivo in psicologia, riguardo ai meccanismi di condizionamento operante descritti da Skinner. L'esperimento di Skinner si svolge nella famosa Skinner Box. Nel suo interno c'è un topo che necessita di premere un tasto o spingere una leva per aprire una dispensa di cibo. L'animale affamato, in condizione di alta attivazione motivazionale viene spinto alla ricerca del cibo. Per prove ed errori inavvertitamente il topo premerà il giusto meccanismo per arrivare al cibo, che funge da rinforzo positivo. Questo comportamento, rinforzato, tende a essere sempre più
frequente, fino a quando l'animale arriva a premere direttamente la leva giusta. Noi non ci comportiamo in modo molto differente dai topi di Skinner. Nel nostro caso sono le notifiche a costituire il “rinforzo positivo”. Quando arriva una nuova notifica abbiamo una reazione fisiologicamente piacevole dovuta al rilascio di dopamina. Questo ci porta a ripetere il pattern comportamentale di check-­‐up continuo delle notifiche, nella ricerca della sensazione di piacere provocata dalla dopamina. Esattamente come il topo che continua a premere la leva per avere cibo. La dipendenza da internet si basa anche su questa eccitazione provocata dalle informazioni in arrivo (messaggio, notifica o controllo della mail) a cui si finisce per assuefarsi. Rendimento Nelle ricerche più recenti, la relazione tra l'intensità d'uso del computer e di internet e le performance scolastiche è nella maggior parte dei casi negativa. I dati di diverse ricerche mostrano infatti che al crescere della frequenza d'uso le performance di apprendimento crescono solo fino a un certo livello, salvo poi mostrare un veloce decremento: gli studenti con punteggi più alti sono quelli che usano la rete moderatamente, mentre chi non la usa mai e chi la usa molto frequentemente ha performance più basse. Come se ci fosse una soglia di intensità d'uso oltre la quale i risultati degli studenti cominciano a calare. Confrontando un campione di classi partecipanti all'azione Classi 2.0 (equipaggiate con LIM, tablet e computer portatili) con un campione di controllo, si è osservato che le classi equipaggiate con le nuove tecnologie hanno avuto un aumento nelle performance in italiano (le variazioni delle altre materie non sono rilevanti). Analizzando meglio questo dato si vede che il miglioramento riguarda gli studenti con punteggi di partenza più bassi, mentre tra i molto bravi emerge invece un piccolo peggioramento. In quasi tutte le sperimentazioni dei tablet all'interno delle scuole italiane è emerso un problema 14
di distrazione causato dalla multifunzionalità dello strumento. Memoria Adesso che possiamo cercare qualsiasi cosa su Google, memorizzare lunghi brani o avvenimenti storici è obsoleto. La memorizzazione è una perdita di tempo. Per i greci la memoria era una divinità: Mnemosine, madre delle Muse. Per Agostino era un “santuario, vasto e infinito”, un riflesso della signoria di Dio sull'uomo. Le parole di William James pronunciate nel 1892, sembrano oggi fuori moda: «l'arte del ricordo è l'arte del pensiero». La memoria sta perdendo oggi la sua umanità. Mnemosine è diventata una macchina, e di fatto sembriamo accettare naturalmente la metafora del cervello come computer (teoria computazionale della mente). Ma la nostra memoria funziona veramente come quella di un PC? Innanzitutto distinguiamo tre tipi di memoria differenti: memoria a breve termine, memoria a lungo termine, memoria di lavoro. Le impressioni, le sensazioni e i pensieri immediati vengono acquisiti come ricordi a breve termine, che durano soltanto pochi secondi. Tutte le cose che abbiamo appreso riguardo al mondo, sia consciamente che inconsciamente, sono invece conservati come ricordi a lungo termine. Tramite esperimenti condotti negli anni Sessanta su cavie animali si scoprì che i ricordi a lungo termine non sono semplicemente un rafforzamento di quelli a breve termine. I due tipi di memoria implicano processi biologici diversi. Infine la memoria di lavoro è il sistema per l'immagazzinamento temporaneo e la prima gestione/manipolazione dell'informazione, costituente un link funzionale tra percezione sensoriale ed azione controllata. Sono i contenuti della nostra coscienza in ogni specifico momento. Ed è
proprio quando la memoria di lavoro raggiunge un livello di saturazione, favorito dallo stato di connessione digitale, che si hanno degli effetti negativi sulla concentrazione e sulla memorizzazione degli eventi. Dopo aver mostrato negli anni Settanta che le sinapsi cambiano con l'esperienza (plasticità
sinaptica), Erik Kandel, premio Nobel per la medicina nel 2000, continuò per lungo tempo a studiare il sistema nervoso della lumaca di mare. Indagò da un punto di vista fisico e molecolare come avviene il processo di formazione del ricordo nella lumaca di mare. Questo processo implica la formazione e consolidamento di determinate connessioni sinaptiche, tramite la produzione geneticamente regolata di varie sostanze chimiche. Kobin Rosenblum, capo del dipartimento di Neurologia ed Etologia dell'Università di Haifa in Israele sottolinea la differenza tra un cervello artificiale, che assorbe informazioni e le salva immediatamente nella sua memoria, e il cervello umano, che continua a elaborare a lungo dopo averle acquisite e la qualità di quei ricordi dipende proprio da come l'informazione viene elaborata. La memoria biologica è viva. Quella informatica no. La memoria biologica è in uno stato di perenne rinnovamento. Quando richiamiamo alla memoria di lavoro ricordi espliciti a lungo termine, questi tornano a essere ricordi a breve termine. Riparte il processo di consolidamento che coinvolge tutta quella serie di proteine coinvolte nella realizzazione di nuove terminazioni sinaptiche. La quantità di informazioni che possiamo immagazzinare nella memoria è virtualmente infinita. C'è chi in ambito accademico asserisce che l'atto del ricordare modifica il cervello in modo da rendere più facile apprendere idee e abilità nuove nel futuro. Insomma, secondo certa letteratura scientifica, l'atto del ricordare, memorizzare una grande quantità di contenuti, non sovraccarica la 15
nostra mente, penalizzando le nostre capacità cognitive. Al contrario, all'ampliamento della memoria corrisponderebbe un'estensione dell'intelligenza. Mantenendo un atteggiamento critico rispetto a queste considerazioni, possiamo affermare con serenità che il Web, certamente, fornisce un'integrazione opportuna e interessante per la memoria personale, ma quando iniziamo ad utilizzarlo come un sostituto di quest'ultima, penalizziamo i processi interiori di consolidamento, e rischiamo di privare la mente delle sue ricchezze. Prendiamo l'esempio della calcolatrice. Negli Settanta quando si introdussero nelle scuole molti genitori protestarono, spaventatati da un possibile indebolimento della padronanza dei concetti matematici da parte degli studenti. Studi successivi dimostrarono che queste paure erano infondate. Gli studenti appresero sempre meglio i concetti matematici. Avendo diminuito la pressione sulla memoria di lavoro, ci si poteva concentrare meglio sulla elaborazione e memorizzazione a lungo termine dei concetti. Lo stesso ragionamento non può essere però
applicato al Web. Infatti in questo caso si ha l'effetto contrario: esso grava la memoria di lavoro di una maggiore pressione, non soltanto distraendo risorse delle nostre facoltà di pensiero più
elevate ma ostacolando il consolidamento dei ricordi a lungo termine e lo sviluppo degli schemi. Cosa determina ciò che ricordiamo e ciò che dimentichiamo? La chiave per il consolidamento dei ricordi è l'attenzione. Acquisire ricordi espliciti e formare connessioni fra essi, richiede una forte concentrazione mentale, amplificata dalla ripetizione oppure da un intenso coinvolgimento emotivo o intellettuale. Scrive Kandel: «Perché un ricordo persista l'informazione che perviene deve essere elaborata per intero e in maniera profonda. Ciò si ottiene prestando attenzione all'informazione associandola in modo significativo e sistematico alle conoscenze già solidamente fissate in memoria». L'accento viene messo dunque sull'elaborazione, l'associazione concettuale, il coinvolgimento emotivo. Se giochiamo online con lo smartphone mentre prendiamo appunti sul computer riusciremo forse a scrivere la maggior parte dei concetti espressi dal professore. Ma non otterremo mai lo stesso effetto, sulla memoria e sul cervello, che ci può dare un ascolto profondo, totale, che non ci vede implicati in altre vicende. Così mentre il prof spiega, se il nostro cervello non utilizzerà la memoria di lavoro nel gioco, la impiegherà per creare nuove associazioni, mentre ricordi e sensazioni verranno evocati e associati alle parole udite, e tutto questo contribuirà
all'elaborazione e al consolidamento di ricordi a lungo termine. Questo ci permette anche di partecipare attivamente alla lezione, interagendo con docenti e compagni, contribuendo alla lezione con spunti di riflessione e approfondimento. Il rischio del Web è che l'influsso dei molteplici messaggi che arrivano dalla Rete sovraccarichi la nostra memoria di lavoro, rendendo difficile per i lobi frontali concentrare l'attenzione su un unico oggetto, e che il processo di consolidamento del ricordo non possa neanche partire. Si può creare quindi un circolo vizioso in cui diventa sempre più difficile fissare ricordi nella memoria biologica, quindi siamo obbligati ad affidarci alla capiente memoria digitale, anche se questo rende il nostro pensiero più superficiale. Plasticità Se chiedessimo a Seneca un'opinione sul multitasking ci risponderebbe probabilmente che «essere ovunque è non essere da alcuna parte». Schiacciamo i tasti sulla tastiera del pc, spostiamo clicchiamo il mouse a sinistra o a destra e 16
facciamo scorrere la rotella, lasciamo scorrere le dita sul trackpad, usiamo i pollici per scrivere su piccole tastiere reali o simulate, ruotano i pollici sugli iPhone e iPod, scorrono le dita e battono su tablet, iPad, immagini e video in continuo cambiamento, trilli, suoni di notifica, vibrazioni. E questi sono solo alcuni esempi. Mentre siamo in Rete un flusso continuo di stimoli arriva alle nostre cortecce visive, somatosensoriali e auditive. Gary Small, Psichiatra all'UCLA e direttore del Memory and Aging Center, ha compiuto degli studi riguardanti gli effetti fisiologici e neurologici dell'uso dei media digitali. È autore del libro “iBrain”
in cui vengono illustrati interessanti esperimenti effettuati con MRI (Magnetic Resonance Imaging – Neuroimaging fatto con la Risonanza Magnetica) che mettono in luce il modo in cui i social contribuiscono a modificare il nostro sistema nervoso, con l'attivazione di specifiche aree in soggetti che fanno frequente utilizzo di internet rispetto a soggetti estrani al web, in cui non si rileva l'attivazione di questo circuito (si tratta dell'attivazione di uno specifico circuito neurale nella regione del lobo frontale sinistro del cervello, nella corteccia prefrontale dorsolaterale). Questi esperimenti ci dicono molto sulla plasticità del nostro cervello, la capacità del sistema nervoso di modificare l'intensità delle relazioni interneuronali (sinapsi), di instaurarne di nuove e di eliminarne alcune. Questa proprietà permette al sistema nervoso di modificare la sua struttura e la sua funzionalità. La ricerca mostra che alcune abilità cognitive vengono rafforzate, a volte in modo rilevante, dal nostro uso dei computer e della Rete. In genere si tratta di funzioni mentali di basso livello, o più
semplici, come la coordinazione oculo-­‐manuale, i riflessi involontari, l'elaborazione degli stimoli visivi. La ginnastica mentale online potrebbe portare a una leggera espansione delle capacità della memoria di lavoro, particolarmente utile a soggetti anziani, che di consueto utilizzano le parole crociate per questo tipo di allenamento. I nostri “cervelli online” imparano a concentrare rapidamente l'attenzione, ad analizzare l'informazione e a decidere quasi istantaneamente se qualcosa funziona o no, se un contenuto è utile o meno. Tanto più pratichiamo la navigazione, l'analisi veloce e il multitasking, tanto più i nostri cervelli plastici sono in grado di svolgere quei compiti. L'importanza di tali abilità non va sottovalutata. Jordan Grafman, capo del reparto di Neuroscienze cognitive del National Institute of Neurological Disorders and Stroke, spiega che quando siamo online il continuo spostamento dell'attenzione può rendere i nostri cervelli più svelti nel multitasking, ma questo di fatto ostacola la nostra capacità di pensare in modo approfondito e creativo. In un articolo di Science del 2009, Patricia Greenfield, insigne psicologa dell'età evolutiva e docente alla UCLA, passava in rassegna cinquanta studi sugli effetti dei diversi media concludendo che ogni medium sviluppa alcune abilità cognitive a discapito di altre. Le attuali tecnologie spingono verso un significativo e ampio sviluppo delle abilità visivo-­‐spaziali, di pari passo con l'indebolimento della predisposizione all'elaborazione profonda che è alla base dell'acquisizione attenta di conoscenze, dell'analisi induttiva, del pensiero critico, dell'immaginazione, della riflessione. La Rete ci rende più intelligenti, in altri termini, se definiamo l'intelligenza con gli standard della Rete stessa. Vista la plasticità del cervello, rilevabile molto semplicemente anche nei citati esperimenti di Gary Small, sappiamo che le nostre abitudini online continuano ad avere ripercussioni sul 17
funzionamento delle sinapsi anche quando non siamo connessi. Lasciamoci dunque con questo interrogativo: possiamo presumere che i circuiti utilizzati per la scansione veloce, la scrematura e il multitasking si stiano ampliando e rafforzando mentre quelli dedicati alla lettura e alla riflessione approfondita si stiano indebolendo e consumando? Effettivamente esperimenti condotti a riguardo ci possono far propendere verso una risposta affermativa. Ma forse la vicenda è ancora più complessa. La realtà è sempre più complessa. Coclusioni Gli strumenti di comunicazione digitale così come sono fatti oggi, rendono più difficile la concentrazione dell'attenzione per lungo tempo su un solo oggetto a causa della loro multifunzionalità. Fra le problematiche principali la tendenza al multitasking incontrollato e le interruzioni non volute. Le evidenze empiriche ormai abbastanza solide mostrano che il continuo spostamento dell'attenzione da un focus all'altro peggiora le performance cognitive degli individui. La frammentazione è un elemento strutturale nel mondo digitale. Marco Gui, docente di Sociologia all'Università di Milano-­‐Bicocca propone nel libro “A dieta di media” lo sviluppo di una nuova frontiera della tecnologia per la didattica, che permetta di passare da una modalità “navigazione” a una di “approfondimento”, a seconda delle necessità, sfruttando le opportunità di entrambe. • E voi cosa ne pensate? Per un approfondimento su come i social network e la tecnologia possono essere utili in classe e a scuola, puoi leggere la testimonianza di Manuel che trovi fra gli allegati. 18
4. E VISSERO PER SEMPRE #FELICI E #CONNESSI Talvolta l'innocuo connettersi per rimanere in contatto con gli amici (veri e virtuali), per rimanere aggiornati rispetto a quello che succede nel mondo (reale e virtuale), può sfociare in una vera e propria dipendenza da internet e avere delle derive patologiche. Esiste fra i clinici psichiatrici uno strumento chiamato “Manuale Diagnostico e Statistico dci Disturbi Mentali” (DSM -­‐ Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder) in cui sono elencate tutte le patologie psichiatriche secondo un linguaggio e una classificazione che costituiscono un piano comune di intesa per i clinici in tutto il mondo. Nella quarta versione DMS-­‐
IV del 2000 conteneva al suo interno l'IAD -­‐ “Internet Addiction Disorder” -­‐ ovvero il disturbo psicopatologico causato dalla dipendenza da internet. (Per approfondire, vedi anche la testimonianza di Alessandro che si trova negli allegati) Come è facile intuire quando si parla di patologie psichiatriche è importante capire che vi è un livello borderline in cui non si può distinguere esattamente se si è affetti o meno da patologia. Nel nostro caso se si è dipendenti o meno dalle dinamiche virtuali di internet. Esistono altresì degli strumenti diagnostici psicometrici, test e questionari per comprendere statisticamente e numericamente la gravità della situazione. Per dipendenza si intende un comportamento che viene ripetuto in modo incontrollato perchè
dettato da un bisogno urgente che richiede soddisfacimento. È inevitabile l'indebolimento del legame autentico con la realtà, in quanto si dipende totalmente dalle reazioni emotive che ci creano queste attività. Gli anglossassoni distinguono il termine addiction da dependence. La prima riguarda la sfera psicologica, la seconda indica una dipendenza fisica o chimica dell'organismo (ad esempio da sostanze). Il termine inglese addiction deriva dal latino addictio, sostantivo del verbo addicere che significa dedicarsi, abbandonarsi a qualcosa. Addictus era un termine giuridico latino che indicava la condizione di schiavitù per debito. In italiano posiamo tradurre questa addictio come una dedizione, una inclinazione verso qualcosa. Questa addiction è caratterizzata dal craving, tendenza a ripetere un determinato comportamento compulsivamente, e dal drug-­‐seeking-­‐behavior, comportamento compulsivo della ricerca della sostanza. Altre caratteristiche della dipendenza classica sono la dominanza, l'attività domina il pensiero e il comportamento, il valore primario dell'oggetto di dipendenza rispetto agli altri interessi; la tolleranza, bisogno di aumentare la quantità per ottenere l'effetto desiderato; l'astinenza; l'alterazione del tono dell'umore, il conflitto, tra il soggetto e coloro che gli stanno vicino; la ricaduta. Potete esercitarvi nel declinare questi aspetti per la dipendenza da internet (IAD). Vi sono elementi consci e inconsci sottesi alle compulsioni da dipendenza, ed essa rappresenta l'unica soluzione in quel momento disponibile al soggetto per affrontare la sofferenza mentale che può derivare dalle più variegate vicissitudini della vita. L'insorgere di queste dipendenze patologiche non dipende soltanto dalle persone o dallo strumento – oggetto della dipendenza, ma da una interazione complessa tra persona, strumento e contesti di vita. Internet non è stato pensato per essere uno strumento pericoloso e il suo uso corrisponde a molteplici funzioni positive, come il soddisfacimento della dimensione ludica dell'esistenza (il 19
bisogno di giocare e divertirsi), la dimensione partecipativa (appartenere a gruppi, partecipare a iniziative politiche, culturali, sociali), la dimensione utilitaristica (informazioni, consultazione di esperti, servizi e acquisti online), e non ultima, la dimensione intima (il bisogno rimanere in contatto con le persone a cui siamo affettivamente legate). Eppure persone sviluppano dipendenze da internet e manifestano comportamenti che mettono a repentaglio i loro rapporti con gli altri, il loro futuro emotivo-­‐lavorativo e la loro salute psichica. Nella dipendenza da Internet accade che una persona si lasci talmente assorbire da alcune delle possibilità della rete da concentrarvi gran parte delle sue energie, trascurando progressivamente gli altri ambiti della propria vita (famiglia, amici, studio, lavoro, alimentazione, etc.). Nella realtà
virtuale non vi è più distinzione fra soggetto e oggetto. Lo schermo diventa un luogo di immersione e interattività. Il rischio ovvio è la confusione tra il sé e le identità in cui ci si immerge, e il rischio maggiore riguarda gli adolescenti. Internet ci introduce al paradosso che consiste nell'essere connessi in tempo reale con tutto il mondo e di percepire contemporaneamente un distacco da quel mondo a cui ci stiamo connettendo, un allontanamento dalla vita vissuta e sperimentata dai nostri sensi. Nella realtà virtuale non esiste il linguaggio non verbale, perchè non esiste il corpo concretamente inteso. Neanche una webcam può sostituire la fisicità in un rapporto umano. Si perde dunque tutto quel patrimonio comunicativo tipico della comunicazione non verbale. I vincoli spaziali e temporali impostati dal reale vengono superati e si ha l'impressione di essere lì senza esserci veramente. Una connessione prolungata può causare il distacco dall'esperienza quotidiana, concreta e sensoriale del nostro corpo. Ci sono persone dipendenti che raccontano di aver smesso di mangiare per giorni interi non avendo alcuna sensazione legata alla fame. Per i “migranti digitali”, il tempo dell'attesa era il tempo della fantasia e procrastinare significava fare i conti con il proprio desiderio più che con l'assenza dell'altro. Oggi internet elimina questa attesa, e con essa la capacità di attendere, nell'illusione che tutto sia facilmente raggiungibile e ottenibile. Uno degli importanti pericoli del cyberspazio è quello della dissociazione. La dissociazione rappresenta la naturale tendenza di ogni individuo di ritirarsi in modo transitorio in rifugi della mente alternativi alla coscienza ordinaria. Una persona che si dissocia si immerge in una realtà
parallela più favorevole nella quale trova rifugio. Ritirarsi temporaneamente non ha nulla di patologico ma, là dove si trasforma in un comportamento eccessivo e reiterato, rischia di condurre all'isolamento contribuendo a far distorcere il senso di sé e delle relazioni con gli altri. Secondo Kimberly Young, che ha fondato il Center for Online Addiction statunitense, sono stati infatti riconosciuti 5 tipi specifici di dipendenza online: 1. Dipendenza cyber-­‐sessuale (o dal sesso virtuale): gli individui che ne soffrono sono di solito dediti allo scaricamento, all'utilizzo e al commercio di materiale pornografico online, o sono coinvolti in chat-­‐room per soli adulti. 2. Dipendenza ciber-­‐relazionale (o dalle relazioni virtuali): gli individui che ne sono affetti diventano troppo coinvolti in relazioni online o possono intraprendere un adulterio virtuale. Gli amici online diventano rapidamente più importanti per l'individuo, spesso a scapito dei rapporti nella realtà con la famiglia e gli amici reali. In molti casi questo conduce all'instabilità
coniugale o della famiglia. 20
3. Net Gaming: la dipendenza dai giochi in rete comprende una vasta categoria di comportamenti, compreso il gioco d'azzardo patologico, i videogame, lo shopping compulsivo e il commercio online compulsivo. 4. Sovraccarico cognitivo: la ricchezza dei dati disponibili sul World Wide Web ha creato un nuovo tipo di comportamento compulsivo per quanto riguarda la navigazione e l'utilizzo dei database sul Web. Gli individui trascorreranno sempre maggiori quantità di tempo nella ricerca e nell'organizzazione di dati dal Web. A questo comportamento sono tipicamente associate le tendenze compulsive-­‐ossessive e una riduzione del rendimento lavorativo. 5. Gioco al computer: negli anni ottanta giochi quali il Solitario e il campo minato furono programmati nei calcolatori ed i ricercatori scoprirono che il gioco ossessivo sul computer era diventato un problema nelle strutture organizzate, dato che gli impiegati trascorrevano la maggior parte del giorno a giocare piuttosto che a lavorare. Questi giochi non prevedono l'interazione di più giocatori e non sono giocati in rete. Per un approfondimento sul cyberbullismo leggi la testimonianza di Giulia che trovi fra gli allegati 21
5. CULTURA SOCIAL Il nostro smartphone è spesso una continuazione delle nostre dita, dei nostri occhi, dei nostri pensieri, del nostro cervello. Insomma a volte confondiamo l’utilità delle nuove tecnologie e la trasformiamo in dipendenza. I social network sono propriamente delle “reti sociali” perciò chiamano in ballo tre componenti: una relazionale (creo una rete di relazioni), una personale (sono io, in prima persona che creo relazioni) e una sociale (queste relazioni incidono anche sulla società). Ma dobbiamo aggiungere una componente non indifferente: il mezzo! Il computer, ma più di tutti lo smartphone è lo strumento essenziale per iniziare e preservare queste reti sociali. Eppure questo strumento spesso, troppo spesso, rischia di allontanarsi dalla sua funzione strumentale, perde la sua identità
di semplice strumento, e diventa quasi un soggetto, un’appendice delle nostre dita, dei nostri pensieri, del nostro cervello. Non mettiamo in dubbio l’utilità dei social network, delle nuove tecnologie, ma vogliamo sottolineare la preziosità di questa loro utilità stando attenti a non cadere negli eccessi, nelle dipendenze, e analizzando i rischi che corriamo quando confondiamo l’utilità con la necessità, e la necessità con il superfluo. Ovvero quando riteniamo essenziale lo smartphone per poter vedere gli stati degli amici ogni 20 minuti, o per caricare una foto all’ora e controllare continuamente i like ai nostri stati. Per marcare quanto siano strumenti preziosi, ma pur sempre strumenti, e per sottolinearne la loro utilità, ci sembra giusto trattare dei rischi che spesso sottovalutiamo, gli effetti collaterali a cui non badiamo. Dal punto di vista sociale abbiamo voluto soffermarci sull’impatto che i social network hanno sulla sfera comunicativa. Il grande rischio che corre il nostro modo di comunicare con gli altri per effetto dei social network è la svalutazione del contenuto e la superficialità di ricezione. Queste definizioni non sono prese da grandi studiosi, sono semplicemente frutto di un ragionamento comune. Cosa significa? La svalutazione del contenuto è come una bellissima macedonia, tutta colorata, con mille frutti diversi, però assaggiandola ci si accorge che nessun frutto è davvero buono, nessun frutto ci va, neanche uno. Il senso è che la frutta dentro quella macedonia è
talmente numerosa che si finisce per non sapere più quale frutto ci piace e quale no. La superficialità di ricezione invece, prendendo sempre ad esempio la nostra bellissima macedonia, significa che invece di assaggiarla e di distinguere la pera dall’albicocca, a quella macedonia gli facciamo una foto e la mettiamo su instagram, senza nemmeno assaggiarla, tanto è una macedonia, cos’ha di nuovo? Allontanandoci dalla macedonia, questa è l’idea di fondo che accompagna i prossimi paragrafi, il rischio generale che per ogni ambito trova le sue cause e i suoi effetti specifici. La cultura della vetrina Per affrontare il tema della comunicazione è meglio partire dal contesto culturale che i social network stanno pian piano andando a creare. Quella che emerge dei social è una cultura legata all’oggetto e all’immagine e finalizzata ai like. Una cultura della vetrina, in cui lo scopo principale è
quello di vedere e rendersi visibili, in cui un piatto di pasta ha lo stesso valore di un bel tramonto o di una ragazza in bikini davanti allo specchio. Se in un’ottica di esposizione finalizzata a un like, ciò
che espongo è solo un oggetto, un oggetto bello, appariscente, affascinante, ma comunque un oggetto che attiri attenzione, allora anche il proprio corpo diventa un oggetto per quanto bello, affascinante ecc. I social network non sono sicuramente la causa di questa cultura della vetrina ma sicuramente sono uno strumento che ne amplifica e ne ridefinisce i caratteri. L’utilizzo dei social network serba molti lati positivi, che non ci preoccupiamo di elencare qui, ma 22
anche molti rischi: • In primis la mancata percezione della distinzione tra la sfera pubblica e quella privata. Infatti i social network vengono utilizzati dalla grande maggioranza degli adolescenti e giovani per assolvere il bisogno di socializzare sfuggendo al controllo dei genitori e degli adulti, ma la maggioranza non ha una chiara sensazione di quanto i contenuti pubblicati siano pubblici e gli adulti vittime del veloce sviluppo non sono in grado di accompagnare i giovani verso un uso maturo di questi. • Inoltre, immersi in una rete di relazioni virtuali, abbiamo l’illusione di essere sempre in compagnia, eppure emerge una grande solitudine, una solitudine reale, in contrapposizione con una virtuale socializzazione continua. In un intervista per “Aleteia” Tonino Cantelmi ha scritto: «Al netto degli amici su FB, dei followers su Twitter, degli innumerevoli post e delle caterve di foro che condividiamo ogni dove, delle tante chat che accompagnano app e giochi, degli sms e dell'eccesso di “clic” che ogni giorno facciamo, al di là di tutto questo il dato sconcertante è che siamo sempre più soli. In realtà la "tecnomediazione" della relazione ha intercettato una clamorosa crisi della relazione interpersonale che ha caratterizzato l'inizio del terzo millennio. L'uomo postmoderno vive il tema della tecnoliquidità: relazioni tecnomediate, light, veloci, narcisistiche, ambigue e ad alto tasso emozionale. Risultato finale? Un sostanziale individualismo e tanta socializzazione virtuale». • Infine una questione molto importante legata all’uso sempre maggiore dei social network e di internet più in generale è quella della memoria (Vedi anche scheda 3). Su questo tema si sono confrontati Umberto Eco e Eugenio Scalfari in un botta e risposta nelle loro rubriche sull’Espresso. Ne riportiamo alcuni passaggi. Eco, all’inizio del 2014, ha scritto per l’Espresso una lettera a un suo nipotino immaginario, in cui lo esortava a studiare a memoria: «Volevo parlarti di una malattia che ha colpito la tua generazione e persino quella dei ragazzi più
grandi di te, che magari vanno già all’università: la perdita della memoria. È vero che se ti viene il desiderio di sapere chi fosse Carlo Magno o dove stia Kuala Lumpur non hai che da premere qualche tasto e Internet te lo dice subito. Fallo quando serve, ma dopo che lo hai fatto cerca di ricordare quanto ti è stato detto per non essere obbligato a cercarlo una seconda volta se per caso te ne venisse il bisogno impellente, magari per una ricerca a scuola. Il rischio è che, siccome pensi che il tuo computer te lo possa dire a ogni istante, tu perda il gusto di mettertelo in testa. Sarebbe un poco come se, avendo imparato che per andare da via Tale a via Talaltra, ci sono l’autobus o il metro che ti permettono di spostarti senza fatica (il che è comodissimo e fallo pure ogni volta che hai fretta) tu pensi che così non hai più bisogno di camminare. Ma se non cammini abbastanza diventi poi “diversamente abile”. La memoria è un muscolo come quelli delle gambe, se non lo eserciti si avvizzisce e tu diventi (dal punto di vista mentale) diversamente abile e cioè (parliamoci chiaro) un idiota. E inoltre, siccome per tutti c’è il rischio che quando si diventa vecchi ci venga l’Alzheimer, uno dei modi di evitare questo spiacevole incidente è di esercitare sempre la memoria. Quindi ecco la mia dieta. Ogni mattina impara qualche verso, una breve poesia, o come hanno fatto fare a noi, “La Cavallina Storna” o “Il sabato del villaggio”» (http://espresso.repubblica.it/visioni/2014/01/03/news/umberto-­‐eco-­‐caro-­‐nipote-­‐studia-­‐a-­‐
memoria-­‐1.147715) Ha poi rafforzato la sua tesi in un altro articolo, scrivendo che quella della perdita della memoria fosse una “malattia generazionale”. Ed ecco pronta la risposta di Scalfari: «Secondo me la tecnologia della memoria artificiale è la causa prima dell’appiattimento sul presente o almeno una delle cause principali. La conoscenza artificiale esonera i frequentatori della Rete da ogni responsabilità: non hanno nessun bisogno di ricordare, il clic sul computer gli fornisce ciò di cui in quel momento hanno bisogno. C’è chi ricorda per te e tanto basta e avanza. Ma c’è di più: la 23
possibilità di entrare in contatto, sempre attraverso il clic, con qualunque abitante del mondo, di parlare con un residente in Australia e, a tuo piacimento, con uno che vive nei Caraibi o in Brasile o nel Sudafrica o a Pechino; sembra inserirti in una folla di contatti e di compagnia. In realtà è
l’opposto: ti confina nella solitudine. Molti fruitori della Rete infatti hanno smesso di frequentare il prossimo e restano ritirati in casa a “navigare” sulle onde della nuova tecnologia. L’amore anche fisico attraverso la Rete è diventato abituale per molti. Si chiama da tempo “amore solitario” e infatti lo è. Infine la rete ha modificato il pensiero, ha ridotto al minimo la parola scritta. Perfino il Papa si serve del linguaggio “Twitter” e comunica in questo modo con molti milioni di persone con frasi che non superano i 140 caratteri. Tra il pensiero e la parola scritta c’è un rapporto interattivo. I nostri giovani leggono i giornali e i libri attraverso la Rete. Cioè leggono notizie e cultura ridotte a poche parole. Il numero delle parole usate è ormai al minimo e poiché tra il pensiero e il linguaggio c’è una interazione, ne deriva che il pensiero si è anchilosato come il linguaggio. La malattia è estremamente preoccupante e segna un passaggio di epoca.» (http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-­‐soffiato/2014/01/15/news/e-­‐internet-­‐la-­‐causa-­‐dell-­‐
ignoranza-­‐1.148803) E infine ecco l’ultima contro risposta di Eco: «La questione è che la Rete non è qualcosa che possiamo decidere di respingere, e così è
accaduto coi telai meccanici, con la motorizzazione, con la televisione; essa c’è, neppure le dittature potranno mai eliminarla, e quindi il problema è non solo riconoscerne i rischi (evidenti) ma anche decidere come ci si possa abituare (ed educare i giovani) a farne un uso critico. […] Non si potrà malauguratamente evitare che esistano i dannati della Rete, ormai incapaci di sottrarsi al rapporto solitario e fascinatorio con lo schermo. Se né
genitori né scuola saranno stati capaci di farli uscire da quel girone infernale, lo metteremo nello stesso conto in cui si mettono i drogati, gli onanisti compulsivi, i razzisti, i visionari mistici, i visitatori di cartomanti, ovvero tutte quelle forme degenerative a cui ogni società
deve responsabilmente far fronte. Ma ha dovuto farlo in ogni epoca. Se oggi questi “malati”
sembrano troppi è perché nel giro di cinquant’anni siamo passati da 2 a 7 miliardi di abitanti del pianeta. E questo non è colpa della solitudine imposta dalla Rete, ma caso mai da un eccesso di contatto umano.» Network individualism Nel momento in cui hanno incorporato le tecnologie, le persone hanno cambiato il modo di comunicare tra di loro. Sono diventate sempre più networked in quanto singoli individui, piuttosto che integrate in gruppi. Il networked individualism si può definire come sistema operativo perché descrive il modo in cui le persone si connettono tra loro, comunicano e scambiano informazione. Caratteristiche del sistema operativo sociale: • Personale: in quanto l’individuo si trova al centro in modo autonomo esattamente come quando opera attraverso il suo personal pc; • Multiutente: le persone interagiscono con interlocutori numerosi e differenziati; • Multitasking: fanno molte cose; • Multitraccia: fanno più cose simultaneamente. La rivoluzionaria trasformazione è stata fortemente potenziata dalla diffusione di internet e della telefonia mobile. Si può dire che il sistema operativo del networked individualism offre alle persone nuovi strumenti per risolvere i problemi e per soddisfare i bisogni sociali. Se da un lato internet ha messo a disposizione un numero più elevato di relazioni potenziali e ha reso più facile 24
iniziarle, dall’altro ha reso più difficile sostenere le relazioni perché ha introdotto numerose distrazioni e relazioni fugaci. Il networked individualism si è creato grazie a una serie di rivoluzioni: • La rivoluzione delle reti sociali ha consentito alle persone di diversificare maggiormente le relazioni e i mondi sociali. • La rivoluzione di internet ha attribuito agli individui un inedito potere comunicativo e una capacità di procurarsi info senza precedenti. • La rivoluzione della telefonia mobile permette alle persone, ovunque si trovino, di connettersi liberamente con i propri amici e di accedere alle info. L’insieme di queste tre rivoluzioni ha reso possibile il nuovo sistema operativo sociale che definiamo “networked individualism”, dove le persone funzionanoo più come individui connessi che come membri integrati di un gruppo. Le abitazioni non sono più il loro castello, ma rappresentano basi operativ per il networking. 25
6. COMUNICAZIONE SOCIAL La rete diventa pop: farsi media e pubblici connessi Con il cambiamento e l'avanzare delle tecnologie e della società, cambia anche la posizione nella comunicazione. Eravamo abituati a essere cittadini di una piccola cerchia e avere un piccolo quadro di comunicazione di massa in grado di sviluppare comunicazioni distinte dal mondo dei mass media, con amici e conoscenti. Oggi ci troviamo invece di fronte allo sviluppo di tecnologie di comunicazione che modificano la nostra idea di amicizia e di cerchia sociale. Non siamo più solo oggetto di comunicazione, ma anche soggetto. Con l'espressione Web 2.0 indichiamo la nascita e sviluppo di quelle forme che consentono di potenziare e rendere evidenti le relazioni sociali e i contenuti che le persone producono e condividono. La rete sta diventando “pop”, cioè un terreno in cui crescono prodotti e contenuti che dissolvono la distinzione tra cultura alta e cultura bassa. Nel momento in cui milioni di persone non sono più semplicemente pubblico di massa, ma producono connessioni tra loro imparando non solo a fruire dei contenuti ma a produrli e diffonderli, cambia innanzitutto il senso della posizione nella comunicazione. Se prima l’individuo era abituato a pensarsi come pubblico, consumatore e cittadino, ora si trova di fronte allo sviluppo di tecnologie che non lo rendono più oggetto passivo delle comunicazioni di massa; è mutato il paradigma comunicativo: non siamo più solo oggetto di comunicazione ma soggetto di questa. Oggi troviamo quindi da una parte piattaforme e applicazioni che favoriscono le interazioni in tempo reale e che permettono di coordinare gruppi di persone, dall’altra una crescita esponenziale di contenuti (testi, audio, video, foto) prodotti dagli utenti. La svolta in atto ha a che fare con una nuova relazione tra comunicazione interpersonale e comunicazione di massa. Cambia l’esperienza stessa della comunicazione, grazie alla consapevolezza acquisita dagli individui di essere soggetti attivi della conversazione. E cambia anche la possibilità di comunicare con un pubblico ampio e connesso: si tratta di un passaggio fondamentale dell’idea di pubblico da quella di audience a quella di pubblici connessi (networked publics). Questo è il senso che c’è dietro alla rivoluzione portata avanti dai blog e dai social network: la consapevolezza di trattare pubblicamente la propria individualità, di fare della propria esperienza un’occasione di comunicazione pubblica, la possibilità di aprire conversazioni nelle quali altre vite si intrecciano alla nostra, una riflessività connessa, appunto. Alla base di questa rivoluzione troviamo la propensione da parte degli individui al “farsi media”
nella comunicazione e la centralità dei pubblici connessi. C’è il bisogno e l’urgenza di farsi media, cioè di passare dalla dimensione di semplice consumatore a quella di produttore. Si assiste a una diffusione crescente di occasioni personali di produzione e diffusione di contenuti mediali: blog e social network come Facebook, YouTube, Flickr, Google+ sono al centro della nostra vita quotidiana, con un numero di profili in continua crescita, una facilità immediata di produrre contenuti e condividerli, attraverso commenti, condivisioni, like, re-­‐tweet, ecc. Il “farsi media” può essere spiegato attraverso due componenti: la prima è il “fare media”, caratterizzata da un’appropriazione dello strumento tecnologico in sé e per sé. Si tratta di un rapporto di sperimentazione con la tecnologia che ha a che fare con l’esplorazione delle possibilità
del mezzo e con la costruzione di nuovi possibili percorsi di significato. La seconda componente è il “diventare media”, ovvero la propensione degli individui al farsi media consiste nell’aver interiorizzato le pratiche, le forme e i linguaggi dei media per poi utilizzarli autonomamente sul lato della produzione. Si diventa cioè produttori mediali, mescolando linguaggi propri dei media e 26
linguaggi del quotidiano Attraverso la Rete, ci riferiamo gli uni agli altri, individui ad individui, siamo cioè connessi in pubblico e allo stesso tempo pubblici connessi. Il termine “pubblici connessi” fa riferimento alla nuova condizione di connessione digitale tra pratiche culturali, relazioni sociali e sviluppo delle tecnologie mediali. L'avvento di una cultura pubblica connessa mostra come le forme di produzione culturale individuale abbiano la possibilità di uscire da una condizione di marginalità
per diventare linguaggio pubblico, un linguaggio che dal basso è capace di divergere con i linguaggi di massa. Dalla lettera a Whatsapp Un giornalista, così come uno scrittore non può mai conoscere con precisione e certezza il pubblico al quale si sta rivolgendo. La comunicazione di massa è per definizione una comunicazione appunto verso una massa, ovvero un pubblico indistinto. Per questo chi si riferisce ad un pubblico di massa costruisce il pubblico nella sua mente. Oggi la comunicazione verso un pubblico indistinto non è più ristretto a un élite professionista, chiunque può conversare con le “audience invisibili”. Lo sfociare di questo aspetto ha portato novità e cambiamenti nel giornalismo, dove in pubblico partecipa direttamente partecipando ai fatti e spesso smentendo le agenzie, nelle industrie dove il cliente viene analizzato tramite profili o dove la stessa azienda è scelta per gusti, nella politica dove le persone entrano in gioco direttamente tramite proposte personali e pensieri. Le conversazioni fra teen possono apparire completamente irrazionali o prive di scopo nel migliore dei casi. “Ciao, che succede?” “Nulla di particolare e a te?” può non sembrare un granché per un osservatore esterno ma, in realtà, si assiste a una sorta di continuo esercizio delle proprie competenze relazionali. Si tratta di un modo per dire che ci sei, per confermare l’amicizia e/o negoziare le acque sociali. I contenuti delle conversazioni non si limitano alle parole e alla forma dialogica, ma comprendono diverse forme; se prendiamo Facebook vediamo che si producono contenuti diversi, si creano occasioni di comunicazione intorno a idee che vengono messe in comune o video che vengono visti e commentati. Ancora più interessante è Twitter, in cui fondamentale è la funzione dell’#hashtag, che consente la ricercabilità di tutti quei messaggi che utilizzano lo stesso #hashtag, costruendo un conversazione fatta direttamente (attraverso i tweet) o indirettamente. Tramite commenti, post e chat si sviluppa un intreccio basato su una conversazione permanente tra individui che condividono emozioni e desideri con un gruppo di pari allargato. A questo proposito è necessario introdurre un nuovo tipo di pubblico: i pubblici invisibili. Siamo ormai abituati a tenere in considerazione le persone che ci stanno intorno quando parliamo. Modifichiamo ciò che diciamo in base al pubblico. I social media introducono ogni sorta di pubblico invisibile. Sono i “lurkers” che sono presenti al momento ma che non possiamo vedere, ma ci sono anche altri visitatori che accedono ai nostri contenuti in un secondo tempo o in un ambiente diverso rispetto a quello nel quale il contenuto era stato originariamente prodotto. Come risultato, siamo costretti a presentarci e a comunicare senza avere una piena comprensione del nostro vero pubblico. Il pubblico potenzialmente invisibile può essere soffocante. Ovviamente c’è un sacco di spazio per infilare la testa nella sabbia e fingere che queste persone non esistano. (fonte: “I social media sono qui per restare… e ora?” di Danah Boyd) Un fattore decisamente positivo in questo ambito è quello dell’annullamento della distanza: un 27
utente può comunicare con molti altri utenti che si trovano in altre città, nazioni, continenti, e questo favorisce la possibilità di reperibilità anche di quelle persone che altrimenti sarebbero difficilmente raggiungibili. La comunicazione mobile consente alle persone di regolare il volume delle loro vite sociali. Le nuove tecnologie della comunicazione stanno rapidamente eliminando la distanza, che non è più un fattore cruciale nella gestione degli affari e della vita privata di ciascuno. Le connessioni possono diventare luoghi. Però spesso l’eccessivo uso e attaccamento agli smartphone fa sì che si verifichi un’assenza presente: gli utenti dei cellulari sono più propensi a ignorare eventi importanti che accadono intorno a loro. Nell’epoca dei telefoni mobili, i problemi privati hanno colonizzato gli spazi pubblici. I confini tra spazio pubblico e privato si sono fatti sfumati. Grazie ai social abbiamo la possibilità di trovarci in tutti i luoghi potenzialmente, ma spesso tutta questa potenzialità rischia di distrarci e ci rende assenti perfino nel luogo in cui fisicamente ci troviamo. Abbiamo l’illusione di trovarci ovunque, ma non siamo da nessuna parte. 28
7. INFORMAZIONE SOCIAL Nell’era digitale il trattamento web della notizia offre un contesto più completo rispetto ai media a stampa, grazie ai collegamenti che si possono costruire intorno alla storia principale, come link a materiale di sfondo, altre storie, archivi di notizie precedenti… Nell’ambito dei social network, la produzione mediale è un atto partecipativo. Ogni giorno gli individui creano volontariamente contenuti, in collaborazione con altri individui connessi e con modalità che possono risolvere problemi e arricchire la conoscenza collettiva. Ciò è dovuto anche all’abbassamento dei costi delle tecnologie di creazione e distribuzione dei contenuti. Ognuno può
essere soggetto attivo e produttore di informazione. Gli utenti social non sono più solo “lettori”, ma sono anche autori, giornalisti d’occasione. Il lato positivo di questa rivoluzione d’informazione si concretizza in primis nell’immediatezza e nell’accessibilità delle notizie. Infatti spesso le informazione vengono lanciate in tempo reale da utenti Facebook o Twitter che si improvvisano inviati speciali dei social, e l’informazione raggiunge subito tutto il mondo della rete. Di contro c’è
l’aspetto che riguarda la qualità e la serietà dell’informazione. Le notizie riportate dai social media spesso differiscono da quelle proposte dai media tradizionale, perché si riferiscono ad argomenti diversi, hanno una differente sensibilità narrativa e seguono strade diverse per catturare l’attenzione del loro pubblico. Dato che i creatori di social media hanno un approccio di tipo partecipativo, i loro materiali hanno anche un impatto più potente sul loro senso di comunità e di efficacia. Analizziamo alcuni casi e alcuni aspetti che accompagnano il mondo dell’informazione legato ai social media. Wikipedia: si basa quasi interamente sugli sforzi collettivi e creativi degli individui networked che creano, modificano e gestiscono i contenuti. Oltre ai contributi che mirano a rendere conto delle principali notizie in tempo reale, su Wikipedia si registra anche una pulsione ancor più
fondamentale, che spinge a partecipare a processi di creazione di conoscenza di ogni tipo. I creatori networked collaborano per produrre una raccolta di info dotata di valore. Con Wikipedia, individui networked comuni hanno la possibilità di creare e correggere articoli che contengono info preziose. L’esperienza di Willowaye dimostra quanto possa protrarsi il processo di creazione di contenuti, quando molti individui networked tentano di far valere la propria interpretazione dell’informazione online. Wikipedia è un’enciclopedia online creata da dilettanti, ed è un esempio di come la conoscenza possa essere crowdsourced (prodotta da gruppi di persone che sono interessate, motivate e hanno accesso a internet). Dittatura del dilettante: il panorama della rete mette in mostra anche la cosiddetta “dittatura del dilettante” sull’esperto, così come la definisce Keen, che rischierebbe di condurre ad un appiattimento culturale: si tratta di un contesto in cui emergono i contenuti prodotti e distribuiti da milioni di utenti interconnessi in rete. Ci troviamo quindi di fronte ad un mutamento del paradigma di produzione del Novecento. Assistiamo dunque alla vittoria della quantità e dell’immediatezza dell’informazione rispetto alla qualità. Ovvero un’immensa prolificazione di notizie che però spesso, dai semplici utenti vengono riportate in maniera inesatta e incompleta ma, essendo più accattivanti rispetto ai tradizionali articoli, a causa del loro linguaggio breve sintetico e diretto, vengono prese in una maggiore considerazione. Così accade che gli utenti ricevono molte informazioni, molti titoli, ma non sono veramente consapevoli delle notizie, perché
si accontentano di galleggiare sulla superficialità. La rivolta in Egitto: l’attività degli utenti dei social network in Tunisia, Egitto e in altri Stati ha 29
rappresentato un esempio significativo di come la creazione di contenuti e la costruzione di community online possano aiutare la mobilitazione di massa, benché solo il 21% degli egiziani avesse un’utenza internet nel 2010. La rivolta non è esplosa in modo improvviso, ma ci sono stati importanti contatti preliminari sia online che offline, tra gli attivisti egiziani e attivisti che operavano in altri Paesi. Dopo l’uccisione di un giovane uomo d’affari egiziano è scoppiata la pubblica indignazione e le proteste contro la brutalità della polizia. Individui networked a quel tempo anonimi hanno creato una pagina Facebook dedicata a Khaled Said, in seguito è stata utilizzata per reclutare persone intenzionate ad unirsi alla protesta. I telefoni cellulari hanno avuto un ruolo rilevante, perché erano molto più diffusi dei pc. Altri fattori sono stati indispensabili per il successo della rivolta. Le rivolte sono state costruite a ridosso di network preesistenti di amici o di gruppi politici. I leader militari egiziani non sono intervenuti con violenza contro le persone, in quanto volevano mantenere il potere dopo la rivolta. Surveillance (sorvegliare): la vita sociale dell’informazione digitale ha aperto le porte a nuovi strumenti di sorveglianza da parte del governo e delle organizzazioni. Attraverso il monitoraggio dei social media, i governi hanno individuato nuove modalità per tenere sotto osservazione i comportamenti e le azioni dei loro cittadini; per esempio il governo cinese, collabora con il gruppo TOM-­‐Skype per raccogliere le conversazioni private degli utenti alla ricerca di specifiche parole chiave che sono ritenute offensive sul piano politico. 30
8. RELAZIONI 2.0 Il nostro amico Aristotele già nell’antichità definiva l’uomo come “animale sociale”, definendo il “costruire legami” come una delle caratteristiche principali del genere umano. La realtà dei media ha senza alcun dubbio generato dei cambiamenti nelle relazioni che quotidianamente viviamo, modificandone le modalità, la quantità e anche la qualità. Innanzitutto, come scrive il sociologo Giovanni Boccia Artieri nel suo libro “Stati di connessione”, con l’introduzione dei Social Network è cambiato il rapporto tradizionale tra individuo e i media: se prima infatti l’individuo subiva semplicemente le informazioni dei media, adesso l’individuo si fa egli stesso “medium” perché ha la possibilità di esprimere la propria opinione su argomenti di ogni tipo (politica, sport, cinema, ecc.). Questo ha generato due tipi di fenomeni: la cosiddetta “dittatura del dilettante”, ovvero si vede che tutti cercano di esprimere ciò che pensano dando anche spesso alcune informazioni che non sono così tanto precise (quindi siamo di fronte ad ancora più fonti, ma di qualità molto minore), e soprattutto il “narcisismo tecnologico”, ovvero la cura, ad esempio, del nostro profilo Facebook, il sacrificare tante volte la nostra vera personalità
per apparire migliore agli altri. Analizzando meglio quest’ultimo aspetto, possiamo calarlo anche all’interno delle dinamiche più personali: il problema principale che si può registrare nelle relazioni è quindi quello della sincerità, in quanto comunicando attraverso un social network mettendo una foto, un post o chattando, ma anche attraverso l’SMS che mandiamo all’amico, non emerge quasi mai la nostra vera personalità: si perde in parte l’autenticità della nostra relazione, in quanto sfruttiamo la possibilità di essere pienamente padroni di ciò che pubblichiamo o scriviamo per sembrare migliori di quello che siamo. Parlando con i nostri coetanei emerge inoltre come il social network sia un’occasione, per le persone un po’ più timide, di parlare senza timore di un qualsiasi argomento, superando la vergogna che si potrebbe provare in un incontro “face to face”. Ed è doveroso sottolineare come con i social network si annullano completamente le distanze, e magari postando una foto della nostra famiglia possiamo regalare un sorriso allo zio che si trova dall’altra parte del mondo. Quindi si può concludere (sperando di non sembrare banali!) che la qualità delle relazioni che si instaurano virtualmente dipende da noi: non c’è niente di più bello di condividere un tuo pensiero o un’informazione o una tua iniziativa con molte persone, ma bisogna ricordarsi di non farlo per guadagnare il maggior numero di “Like” o snaturando la nostra personalità placando così il nostro egoistico bisogno di attenzioni. È doveroso però mettere in luce un’altra questione: perché spesso i ragazzi (ma anche gli adulti!) si rifugiano nel mondo dei media? Perché si alienano cercando alternative a quella che è la vita quotidiana? Una volta in corridoio si parlava con una prof. sul perché molto spesso i ragazzi passino quasi la totalità del loro tempo a scuola con il cellulare in mano per stare in contatto con gli amici o girovagare su internet, ignorando completamente la lezione che l’insegnante cerca di spiegare da dietro quella cattedra: secondo la prof. ciò non era completamente causato dalla tendenza dei ragazzi ad estraniarsi attraverso le nuove tecnologie ma anche dal fatto che molto spesso i ragazzi non si sentono coinvolti dalle spiegazioni degli insegnanti, e quindi cercano rifugio in un mondo che li rende veramente protagonisti, in cui sono veramente padroni. Possiamo universalizzare questo aspetto a tutti gli aspetti della nostra vita e vedere quanto ormai la realtà
che viviamo quotidianamente, le relazioni che viviamo ogni giorno siano per noi insufficienti, non soddisfino abbastanza la nostra voglia di essere protagonisti e anche il nostro bisogno di sentirsi amati; quindi abbiamo bisogno di scrivere i nostri pensieri sul social network, sentiamo la necessità di ricevere un SMS o una mail o semplicemente un commento o un “Like” per sentirci 31
considerati e quindi amati: si può concludere che il mondo reale non ci soddisfa e ci spinge a rifugiarci un altro “mondo”, quello virtuale (“principio ecologico”, come lo chiama Boccia-­‐Artieri). Questo progressivamente, ovviamente facendo le dovute differenze tra individuo ed individuo, ha creato vere e proprie dipendenze. Per esempio è interessante notare come noi per organizzare un evento, ma anche una semplice uscita con la nostra comitiva abbiamo bisogno dei social network, di WhatsApp, a differenza di come si faceva una volta dove tutti i ragazzi del gruppo sapevano quasi automaticamente dove, come e quando incontrarsi. Come detto in precedenza quindi, possiamo concludere che sta a noi canalizzare l’enorme potenza espressiva e comunicativa dei social per cercare di utilizzarli al meglio ed attendere così nella maniera migliore possibile al nostro compito di “media”. Bisognerebbe usare queste nuove forme di comunicazione per arricchire le nostre relazioni e migliorare la vita di ogni giorno; si pensi per esempio a quanto le nuove tecnologie siano utili all’interno della scuola con l’introduzione delle lavagne elettroniche che danno una visione più “stuzzicante” della didattica allo “Studente 2.0”, a quanto tutti abbiamo la possibilità di essere connessi con il mondo e a quanto ciò ci permette ancora di più di partecipare, di essere studenti, giovani e cittadini sempre più informati, o a quanto è possibile instaurare legami fortissimi anche con persone lontane mandando foto, condividendo opinioni, raccontando momenti importanti della propria vita arrivando fino addirittura all’adozione a distanza, con cui tu manifesti il tuo amore verso un bambino che abita dall’altra parte del mondo cercando di provvedere, per quanto possibile, ai suoi bisogni. Non bisogna però mai perdere di vista l’importanza dell’autenticità, delle relazioni vere che danno emozioni e gioia, non dobbiamo mai dimenticarci che l’“amico” non è colui che ci segue, che condivide i nostri post, che commenta le nostre foto, ma è colui che, virtualmente e non, è una presenza costante e sicura nella nostra vita con cui condividiamo cose ben più importanti di un post. Non dobbiamo dimenticare quanto sia bella l’intimità di una serata particolare con gli amici o con il partner, che non deve per forza essere condivisa con il resto del mondo tramite una foto o con uno stato. I social network, e in genere tutte le tecnologie sono un grande tesoro, ma facciamo attenzione a non far andare avanti la scienza e ad andare indietro noi. Una mail o un SMS non può sostituire un gelato, una serata al cinema, o una partita al calcetto con gli amici, ma addentriamoci piano piano anche nel mondo delle “relazioni 2.0” non perdendo però
mai la nostra autenticità e la genuinità del rapporto con l’altro. 32
PROPOSTE DI ATTIVITÀ • Fuori gli smartphone: organizzare una convivenza. Le prime 24 ore astinenza assoluta dal cellulare. All’inizio vengono raccolti in una “cassaforte e sorvegliati attentamente tutti gli smartphone-­‐tablet che ci sono. Il secondo giorno dalla banca degli smartphone ognuno potrà utilizzare il suo telefono per un massimo di due ore (lo si prende per 5 minuti per chiamare la morosa, poi per altri 10 per sentire i compagni di classe, ecc). Le notizie si leggeranno dai giornali, l’ora si guarderà sui quadranti degli orologi, e per incontrare un amico bisognerà aspettarlo. I temi da affrontare nella convivenza saranno legati all’invadenza dei social network nella nostra vita. Tolto il superfluo rimane l’essenziale e l’utile. Si può strutturare la convivenza sui punti di questa scheda formativa o si può
scegliere di approfondirne uno. • La piazza è reale: si propone un gioco di ruolo. Ognuno rappresenta un utente di Facebook: c’è quello che pubblica duemila canzoni, che sarà impersonato da un ragazzo che inizia a cantare; c’è il dispensatore di like, che si aggira per la piazza sorridendo e apprezzando tutto e tutti dicendo in continuazione “mi piace”, ci sono gli utenti invisibili, quelli che vagano silenziosi ma osservano, si divertono, si sconvolgono, ma stando sempre in silenzio; ci sono poi gli attivisti politici, che faranno i comizi sulle nuove vicende accadute in Parlamento; ci sono i filosofi, che declamano frasi senza senso; c’è il giornalista mancato, il reporter. C’è il fotografo che scatta foto in continuazione; c’è la modella, che sta sempre e solo in posa. Poi c’è l’utente intelligente, che si affaccia un po’ incuriosito sulla piazza, guarda ciò che ha da offrirgli, spegne il computer e invita tutti a prendersi un aperitivo. Si passa la serata insieme! • Dillo con un tweet: 140 caratteri sono pochi, sono su per giù 23 parole. Si propone un dibattito su un tema a piacere in cui ciascuno ha a disposizione massimo 25 parole. • Mettiti in vetrina: L’obiettivo è mostrare come la bellezza e i like non sono legati solo all’oggetto o a delle maschere, ma la sincerità è il segreto per essere apprezzati davvero nella vita. Mentre le ragazze si spogliano per postare foto su Instagram, noi ci spogliamo da tutte quelle maschere che ci appesantiscono e ci illudono di piacere di più. Rompiamo le vetrine e componiamo un bellissimo album, un vero FACE-­‐BOOK. Scattiamo delle “foto”, che possono essere anche frasi, o canzoni, l’importante è che non siano oggetti, e l’importante è
che in queste foto ci siamo noi, ci siano le nostre facce, belle o brutte, senza effetti di luce strana, senza troppi tag, ne basta solo uno: #sincerità. 33