Articolo completo - Dionysus ex Machina

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Christian Mann, I gladiatori, il Mulino (collana «Universale Paperbacks»), Bologna 2014, pp. 133,
ill., € 12.00
ISBN 978-88-15-25058-2
Il gladiatore vittorioso, un fascio di muscoli luccicanti come
acciaio, ha il piede sul collo dell'avversario a terra ed è pronto a
dargli il colpo finale. La sua faccia, nascosta dal grande elmo, in
contrasto col viso efebico dello sconfitto, è volta all’imperatore
che, sul trono dorato, temporeggia per aizzare la folla, assetata di
sangue, a emettere la sentenza. Ma il verdetto è già nel titolo del
quadro, intriso di sadismo esotico, che Jean-Léon Gérôme dipinse
nel 1872, Pollice verso. Celebre dipinto che ricostruisce non solo
la gigantesca architettura del Colosseo, ma pure il brivido d'orrore
che sale dall'arena. Opera che però contribuì a diffondere alcuni
equivoci. Sì, perché il pollice verso, che la folla ostenta per
condannare il gladiatore sconfitto, è girato all’ingiù, mentre i
romani lo volgevano all’insù per confermare il verdetto capitale
implicito nella sconfitta.
Ma se equivochiamo persino sul dito dell'imperatore,
quant'altro ignoriamo degli antichi costumi romani? Come
funzionava veramente l'industria dello spettacolo a Roma e nell’Impero? Quali legami aveva con la
politica, a cominciare dai circenses elargiti assieme al panem?
Sono molti i luoghi comuni sfatati da questo agile ed esaustivo saggio di Christian Mann,
docente di Storia antica nell’università tedesca di Mannheim. In otto brevi capitoli tematici, e senza
mai perdere di vista l’evoluzione storica, l’autore prova a ristabilire alcune verità sul mondo dei
gladiatori, vera e propria attrazione per il pubblico che riempiva gli spalti.
Influenzati da tanta letteratura e attualità cinematografica (da Ben Hur a Gladiator la romanità
non è mai passata di moda), siamo soliti pensare che le lotte tra gladiatori fossero estremamente
sanguinose e cruente, e che non esistessero regole. Certo, i combattimenti erano uno spettacolo
molto crudele, ma non si pensi ad una mera carneficina, per quello c’erano le esecuzioni dei
condannati: si trattava pur sempre di duelli regolati da norme precise e controllati da giudici. Gli
spettatori non cercavano un brutale spargimento di sangue, ma scontri di alto livello tecnico. Ma, si
sa, Hollywood trascura la verità storica. I gladiatori non combattevano seminudi, come l'attore
Russel Crowe, ma si coprivano invece il più possibile, con armature e imbottiture, sicché l’abilità
stava nel colpire con la spada le poche parti scoperte dell’avversario.
Rara inoltre era la morte in battaglia di uno dei contendenti e poco frequenti le lotte sine
missione, cioè senza perdono. Sulla base delle iscrizioni sepolcrali, dei rilievi e mosaici
commissionati dagli organizzatori, lo storico francese Georges Villes ha stimato che nel I secolo
d.C. lo sconfitto ricevesse la grazia nell’80 per cento dei casi. Del resto, se un combattente fosse
morto, il lanista – il patrono dei gladiatori – avrebbe dovuto formare da capo un atleta, magari
meno bravo del predecessore, e il munerarius – l’organizzatore – sarebbe stato costretto a pagargli
una multa. Spesso il combattimento terminava con un pareggio e i due avversari erano stantes missi,
congedati in piedi.
Non c’è alcuna traccia del saluto Ave Caesar, morituri te salutant, che i gladiatori
pronunciavano prima di combattere, a quanto pare mormorato esclusivamente dai 19 mila criminali
costretti ad confrontarsi in un vero combattimento all’ultimo sangue in una naumachia organizzata
dall’imperatore Claudio sul lago del Fucino.
Del resto, di fronte alla copiosità delle fonti storiche, da Tito Livio a Ovidio, rarissimi sono i
reperti che davvero facciano capire come si svolgessero i giochi: sono stati ritrovati solo
ventiquattro pezzi di armature da gladiatore, metà dei quali a Pompei, come lo stupendo elmo di
bronzo – posto sulla copertina del libro – decorato con le palme della vittoria e sovrastato da una
Nemesi cui era affidata la sorte dei combattenti.
Se poi le origini dei combattimenti di gladiatori sono incerte (tale Nicola di Damasco li fa
risalire a una tradizione funeraria etrusca, i munera, in cui si sacrificava il sangue degli sconfitti per
un morto illustre), è certo invece che culla del sistema gladiatorio divenne la Campania, come
testimoniano gli affreschi di Paestum del IV secolo a.C., poi la costruzione dei primi anfiteatri,
infine la nascita di familiae gladiatoriae, le scuole di combattenti professionisti.
Da superare anche la visione che i giochi servissero a distogliere la plebe dalla politica. Così
come avviene oggi per chi possiede una squadra di calcio o uno stadio, anche duemila anni fa era
fondamentale conquistare il pubblico e sedurre gli appassionati di anfiteatri. La politica del panem
et circenses crea addirittura sconcerto, non per la condanna di Giovenale – che suona più come un
lamento nostalgico – ma proprio perché, oltre ai circenses, anche il panem era letteralmente
distribuito al popolo, per acquistarne il favore: una politica della corruzione che divenne
insostituibile strumento di potere. Giulio Cesare, ad esempio, il futuro dominatore di Roma, già a 35
anni, come edile, stupiva per i giochi che allestiva. Forse per passione se, dice Cicerone, aveva una
propria scuola gladiatoria in Campania, ma certo per calcolo: sapeva che, di famiglia antica ma non
ricca, per sfondare doveva rischiare, senza badare a spese. Per i funerali del padre, ritardati di
vent’anni per opportunità politica, fece sapere che avrebbe schierato un numero mai visto di
combattenti.
Per oltre sei secoli, dal 264 a.C. per i sontuosi funerali d’un certo Decimo Giunio Pera – come
tramanda Tito Livio – fino al 404 d.C., anno in cui Onorio bandì gli scontri tra uomini, l’industria
dello spettacolo fu parte essenziale dell’economia romana, legata a filo doppio alla politica.
In epoca repubblicana, i combattimenti cominciarono a diffondersi, divenendo uno strumento
efficace nelle mani di magistrati e politici che volevano conquistare il favore popolare e
guadagnarsi il voto dei cittadini. E furono anche regolamentati. Nel 122 a.C. – ricorda Mann – il
tribuno Gaio Gracco aumentò la sua popolarità imponendo la demolizione delle tribune per
privilegiati che precludevano la visuale al resto del pubblico. Nel 65 a.C. il Senato fissava le
occasioni in cui era possibile organizzare i giochi, limitando per legge il numero dei gladiatori per
spettacolo, tanto che lo stesso Cesare fu costretto a ridurre le dimensioni dei gioghi gladiatorii che
organizzava. Nel 63 a.C., un conflitto d’interessi dell’epoca fu risolto dal senato con la Lex Iulia de
ambitu che vietava al politico di candidarsi nell’anno in cui avesse organizzato un munus.
In epoca imperiale, i munera si diffusero in tutto l’impero romano e con Augusto questi
spettacoli divennero una componente essenziale della cultura urbana della festa in tutte le province
dell’impero, dalla Britannia all’Egitto, dal Marocco al Mar Nero. Furono riformate e standardizzate
le categorie di gladiatori sulla base dell’equipaggiamento; i combattimenti gladiatorii vennero
associati alle cosiddette “cacce” (venationes) – queste ultime collocate al mattino mentre i primi nel
pomeriggio – e separati dal contesto funerario: da allora i munera non furono più organizzati dai
parenti di senatori defunti ma dai pretori, in quanto titolari di una carica pubblica. Furono dunque
gli imperatori a proclamarsi patrocinatori di tutti i giochi gladiatorii di Roma, assumendo il
controllo della loro organizzazione e considerandoli un’occasione privilegiata per tenersi in contatto
con la plebe. E se Traiano, nel 107, ordinò una festa di 123 giorni in cui si batterono diecimila
gladiatori, almeno altri tre imperatori fecero la storia dei giochi: Nerone escogitò per i cristiani pene
più spettacolari della crocifissione, come la damnatio ad bestias, in cui i condannati erano sbranati
dalle fiere africane; Tito, nell’80 d.C., inaugurò l’enorme anfiteatro Flavio, «Colosseo»; Commodo,
figlio di Marco Aurelio, volle farsi egli stesso gladiatore e battersi nell’arena, pare scegliendo
personalmente il proprio avversario, per non rischiare.
Nell’anfiteatro il pubblico aveva l’occasione di vedere da vicino il suo imperatore, anch’egli
spettatore. Poteva manifestargli espressamente i propri desideri e le proprie lamentele, protestare
contro qualche funzionario impopolare, lagnarsi del prezzo del grano o anche criticare apertamente
il detentore del potere. Per l’occasione, sugli spalti, si ritrovavano tutti, dai Cesari all’ultimo plebeo
della Suburra, persino gli schiavi. «Nell’anfiteatro» sottolinea Mann «il confine principale non
passava tra gli spettatori, ma separava la cavea dall’arena». I combattimenti finivano così per
rappresentare la coreografia dell’unitarietà della società romana, cementata da una decisione
collettiva sulla vita e sulla morte, e l’imperatore doveva farsi interprete del volere popolare,
indovinando il giusto equilibrio tra durezza e clemenza.
Sappiamo inoltre che i gladiatori combattevano sempre il pomeriggio, quando andavano in
scena dai cinque agli otto duelli. Le lotte più apprezzate erano quelle in cui si scontravano
armaturae diverse, i cosiddetti duelli asimmetrici: retiarius contro secutor, thraex contro murmillo.
Chi indossava un armamento leggero, come il reziario con la rete avvolgente e il trace dall’elmo
crestato, saltellava attorno al rivale puntando sulla superiore agilità e su una tecnica «mordi e
fuggi»; le categorie più pesanti, come l’inseguitore e il mirmillone con il suo robusto scudo,
cercavano in continuazione lo scontro ravvicinato. Il pubblico era competente e apprezzava le
abilità tecniche mostrate dai duellanti. Tuttavia, era colpito soprattutto dalle loro qualità morali: il
coraggio e lo sprezzo della morte dovevano costituire la pura essenza del successo dell’impero.
Se la decisione era la morte, il pubblico si aspettava che il gladiatore sconfitto l’affrontasse
con fierezza e temerarietà. Nel dialogo De tranquillitate animi Seneca affermava: «Sono
insopportabili i gladiatori, se vogliono in ogni modo impetrare la grazia della vita; li applaudiamo se
ostentano il disprezzo di essa».
Numerose le notizie sulla provenienza e sul destino dei protagonisti. I gladiatori provenivano
da luoghi e situazioni diverse. Prigionieri di guerra, schiavi destinati dai padroni a quell’attività,
condannati a morte la cui esecuzione veniva commutata in lotta nell’arena o uomini liberi volontari
(auctorati) che abbracciavano quella professione estrema: la maggior parte di essi aveva in realtà
qualcosa da guadagnare diventando gladiatore. I prigionieri di guerra potevano riscattare il loro
miserevole destino con una morte onorevole, gli schiavi e i condannati a morte avevano la
possibilità di ottenere la libertà, qualora il popolo li avesse giudicati combattenti straordinariamente
coraggiosi. I giovani volontari, provenienti da strati sociali poveri, scegliendo di entrare in una
caserma di gladiatori, potevano avere denaro, vitto, alloggio e cure mediche. Ai gladiatori era
richiesto un lungo periodo di addestramento, che praticavano nelle scuole chiamate ludi, dove
apprendevano le tecniche migliori. Essi entravano a far parte di una familia gladiatoria, gestita da
un lanista, e qui veniva loro assegnata una specialità nella quale esercitarsi, sotto la supervisione di
un doctor o allenatore.
Gli intellettuali romani, contagiati anch’essi dalla popolarità dei combattimenti nell’arena,
non condannarono mai in maniera esplicita i giochi dei gladiatori. Per Seneca – il quale nelle
Lettere a Lucilio criticò il fascino esercitato sui suoi contemporanei dalle lotte cruente dei
condannati a morte – i gladiatori costituivano un buon esempio per come affrontavano
coraggiosamente la morte, alla stessa maniera dell’intellettuale stoico. Negli stessi autori greci non
c’è traccia di una chiara opposizione ai combattimenti: le masse apprezzavano i munera che, per
quanto nuovi in Grecia, erano ormai parte integrante delle esibizioni pubbliche, al pari gli spettacoli
teatrali.
Il testo di Mann fa anche un breve resoconto sulle copiose e variegate testimonianze antiche
che permettono di esaminare i combattimenti gladiatorii da diverse angolazioni. Tutte fonti,
soprattutto quelle letterarie, che però – avverte l’autore – offrono la prospettiva degli spettatori e
delle élites colte. E i gladiatori? Quali idee avevano di se stessi come combattenti nell’arena? Come
si potrebbe guardare al fenomeno dal loro punto di vista? Qualche utile informazione ci giunge
dalle iscrizioni funerarie e dai rilievi sulle lapidi, soprattutto quelle ritrovate nell’Oriente greco,
sulle quali era spesso riportato il curriculum del gladiatore e gli esiti dei suoi combattimenti. Fonti
che non parlano di costrizione o oppressione, ma di una gara per l’onore e per la gloria, come gli
atleti e gli eroi della mitologia greca.
Nelle critiche mosse dagli autori cristiani, i combattimenti tra gladiatori avevano un’influenza
negativa sugli spettatori, sembravano un’occasione per regolare i conti con la religione pagana
(Prudenzio voleva abolire i privilegi delle vestali che, durante i munera, davano prova di crudeltà e
di eccitazione sessuale, in contrasto con il loro status di ancelle della dea) ed erano in netto
contrasto con i valori di pietà cristiana e salvaguardia della vita umana divulgati dalla nuova
religione (come afferma Tertulliano nel De spectaculis).
Tuttavia – afferma Mann – la diffusione del cristianesimo non basta a giustificare la fine dei
munera. E le critiche dei Padri della Chiesa o gli interventi degli imperatori cristiani non si
tradussero in una legislazione atta ad abolirli. Si trattò semmai di provvedimenti volti ad accordare
privilegi ai cristiani (Valentiniano vietò la loro condanna in ludum) o, soprattutto, a ridurre le spese
di allestimento.
Resta da chiarire il motivo per cui, con la diffusione del cristianesimo, il declino avrebbe
colpito soltanto questa forma di pubblico intrattenimento, risparmiandone altre. La risposta
andrebbe forse cercata ad altri livelli. Con la fine del culto e del sacerdozio imperiali venne meno
un’ampia base organizzativa dei combattimenti e i Padri della Chiesa esercitavano una forte
influenza sui potenziali finanziatori e sugli spettatori. Influenza che, polemicamente, si concentrò
sui combattimenti tra gladiatori per una forma di concorrenza nei confronti del cristianesimo. La
possibilità dell’uomo di decidere della vita di un altro uomo, riportandolo, con la concessione della
grazia, nuovamente tra i vivi era considerata un elemento simbolico antagonistico rispetto alla
dottrina cristiana di morte e resurrezione. E contrastava con il ruolo esclusivamente divino delle
decisioni sull’esistenza umana.