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C. Doglio
Gli angeli nella Bibbia:
mediatori fra cielo e terra
Gli angeli sono «spiriti incaricati di un ministero, inviati a servire
coloro che erediteranno la salvezza» (Eb 1,14).
1. Due descrizioni sintetiche e introduttive
Così l’autore della lettera agli Ebrei descrive in forma sintetica
la complessa realtà angelica, che il Nuovo Testamento (NT) eredita
pacificamente dalle tradizioni anticotestamentarie. Anzitutto afferma
che si tratta di «spiriti» (pnéumata), cioè realtà non materiali o corporee, quindi non descrivibili con una forma fisica. Poi li qualifica con
l’aggettivo greco leiturghiká (usato solo qui in tutto il NT), che designa un incarico ministeriale, cioè un servizio riguardante il popolo,
come fa intendere la stessa etimologia della parola. Quindi sostiene
che sono «inviati» (apostellómena), cioè dipendono da un mandante
che risulta certamente essere Dio, da cui traggono missione e autorità. Infine, il teologo cristiano precisa che tale incarico è finalizzato
«ad un servizio» (eis diakonían) relativo agli uomini, destinatari del
progetto salvifico attuato da Dio stesso. Tale descrizione rivela come
gli spiriti celesti siano partecipi di quella stessa funzione che caratterizza gli «apostoli», mandati e delegati da Cristo per eseguire i suoi
ordini, in quanto servitori dell’umanità perché possa essere realizzata
la salvezza voluta da Dio.
Un’altra sintetica e interessante presentazione degli angeli la possiamo trovare nel finale di un salmo, in cui si invita anche la corte
celeste a prender parte alla lode benedicente:
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Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti
alla voce della sua parola. Benedite il Signore, voi tutte sue schiere, suoi
ministri, che eseguite la sua volontà (Sal 102[103],20-21).
Sono presentati anzitutto come «angeli» (eb. mal’akîm; gr. ángheloi) e messi in stretta relazione con il Signore (Yhwh), giacché
sono «angeli suoi». Poi una serie di sinonimi ne descrive qualità e
funzioni: sono «eroi per la forza», ovvero «potenti di energia» (il
latino infatti traduce letteralmente con potentes virtute); costituiscono
le sue «schiere» (eb. tseba’ot; gr. dynámeis; lat. virtutes) e sono suoi
«ministri», cioè servitori (gr. leiturgói); soprattutto però si insiste sul
fatto che sono «operatori» della parola divina (poiúntes ton lógon)
ed «esecutori» del suo volere (poiúntes to thélema), proprio perché
sanno «ascoltare» la voce della parola di Dio.
In queste due citazioni abbiamo così raccolto gli elementi essenziali che i testi biblici propongono a riguardo degli angeli, sottolineando una significativa continuità fra Antico Testamento (AT) e NT ed
evidenziando un’importante somiglianza con l’atteggiamento corretto della relazione con Dio, che viene proposto anche agli uomini.
Passiamo ora in rassegna le principali ricorrenze del mondo angelico nei due testamenti, per mostrarne problematiche e caratteristiche, in vista di una sintesi di teologia biblica.
2. Il nome
Il vocabolo italiano «angelo» (come il fr. ange, l’ingl. angel, il
ted. Engel, lo sp. ángel) proviene come calco direttamente dal latino
angelus, che a sua volta era semplice trasposizione del gr. ánghelos. Si
tratta dunque di una parola estranea alla nostra lingua e perciò sentita
come termine «tecnico», portatore cioè di un significato specifico.
Invece nella lingua greca classica ánghelos era termine generico per
indicare semplicemente un «messaggero»: derivato dal verbo anghéllo
(«annunciare»), questo sostantivo designa colui che riceve l’incarico
di trasmettere una notizia e svolge la funzione di annunciatore. Alla
stessa radice verbale appartiene anche il termine eu-anghélion («buona notizia», vangelo), che i cristiani hanno impiegato come vocabolo
specifico per connotare il proprio messaggio.
Dunque il nostro uso linguistico dipende dal fatto che i LXX, giu-
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dei traduttori delle Scritture ebraiche in greco, hanno scelto ánghelos
per tradurre l’ebraico mal’ak. Questo vocabolo semitico deriva da una
radice verbale (l’k) che indica l’azione di «inviare, delegare»: designa
pertanto chi ha il compito di «messo», incaricato da qualcuno di
compiere una missione presso qualcun altro. Nell’AT mal’ak ricorre
213 volte ed è usato sia per messaggeri umani, sia per inviati divini.
Nel primo caso, designa il semplice latore di una comunicazione per
creare collegamento fra due persone distanti; ma indica pure gli araldi
ufficiali che divulgano fra il popolo gli ordini del re e talvolta connota
gli ambasciatori, incaricati di missioni diplomatiche presso autorità
straniere. Nel secondo caso, «messaggero di Dio» è qualcuno inviato
dal Signore per comunicare un suo messaggio: in questo senso sono
120 le ricorrenze di mal’ak e predomina nettamente l’uso al singolare
(i casi di plurale sono solo 15). Rientrano in questa categoria anzitutto
i profeti (cf. Is 44,26; Ag 1,13; 2Cr 36,15-16) e poi anche i sacerdoti
(cf. Ml 2,6; Qo 5,5); ma nella stragrande maggioranza dei casi quando
si parla di «messaggeri di Dio» si fa riferimento a figure spirituali,
sovrumane, gli «angeli» appunto.
Gli antichi traduttori greci non fecero distinzioni e tradussero
sempre il vocabolo mal’ak con ánghelos; una distinzione invece venne apportata dalla Volgata latina, che usò nuntius per tradurre i casi
in cui si parlava di inviati da uomini e riservò angelus per designare
solo i messi di Dio. In tal modo la parola «angelo» entrò nelle moderne lingue europee come vocabolo tecnico religioso con significato
specifico. Ma, oltre a questi messaggeri, l’AT parla di alcune figure
celesti che stanno in stretta relazione con Dio; cominciamo a parlare
di queste.
3. «Il Signore delle schiere»
Una delle formule più antiche e caratteristiche con cui viene designato il Dio di Israele è Yhwh tseba’ot, che possiamo tradurre con
«Signore delle schiere»; inoltre in alcuni casi tale titolo viene ampliato
con l’espressione «che siede sui cherubini» (1Sam 4,4; 2Sam 6,2; cf. Sal
80,2). Tale modo di presentare il Signore lo pone in speciale relazione
con figure angeliche: cerchiamo di precisarne le caratteristiche.
Il plurale femminile tseba’ot è usato ben 285 volte come epiteto
divino, mentre ricorre da solo circa 200 volte: in questi casi indica le
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schiere, le truppe ovvero gli eserciti soprattutto d’Israele in quanto
popolo strutturato; qualifica perciò il servizio militare e anche altri
tipi di servizio come quello cultuale dei leviti (Nm 4,3); ma designa
pure l’esercito del cielo (Dt 4,19) come indicazione metaforica di sole,
luna e stelle; serve come immagine per denotare un numero infinito
di realtà (Is 40,26) e tutto il creato nel suo insieme in quanto ben
ordinato (Gen 2,1); inoltre indica pure la corte celeste che circonda il
trono di Yhwh (1Re 22,19). Come tradurre dunque tseba’ot quando
accompagna il nome di Dio?
La traduzione latina della Volgata «Dominus exercituum» è stata
purtroppo conservata anche in italiano come «Signore degli eserciti»,
determinando un nesso non chiaro, ma capace di produrre un’impressione negativa. Nel nostro consueto modo di parlare, infatti, gli
«eserciti» richiamano immediatamente guerra e violenza, per cui suona
stonato il collegamento di Dio con le strutture militari e con le organizzazioni guerresche. Ma – come si è visto – non è questo il significato
principale. Basterebbe cambiare «eserciti» con «schiere» per mutare
impressione: Dio è il «Signore delle schiere» (terrestri e celesti), cioè
Signore di tutti gli esseri in quanto creature che appartengono all’ordine
universale. Infatti i LXX traducono in genere (circa 120 volte) questa
espressione con pantokrátor (= «onnipotente»), oppure la considerano
nome proprio traslitterandola semplicemente in sabaoth (come in Is
6,3 da cui deriva la formula liturgica del Sanctus: «Dominus Deus Sabaoth»), oppure la rendono con il plurale di dynamis (=«Signore delle
potenze»), facendo riferimento alle potenti schiere celesti.
Gli studiosi moderni spiegano tseba’ot come plurale astratto d’intensità, che intende far riferimento a tutte le schiere, cioè all’intero
creato nelle sue varie componenti, compresi anche gli esseri celesti.
Non ha quindi valenza né militare né bellicosa, ma piuttosto di universalismo cosmico: perciò la traduzione migliore potrebbe essere
«Signore dell’universo». Infatti l’espressione, appartenente all’ambiente del culto, ebbe probabilmente origine nell’antico santuario di
Silo e fu legata alla liturgia dell’arca nei primi tempi dell’insediamento
d’Israele nella terra di Canaan, passando poi nell’uso cultuale del tempio di Gerusalemme. Con tale titolo si voleva sottolineare la regalità
divina di Yhwh ed enfatizzare l’universalità del suo potere.
Nella stessa prospettiva si comprende la formula «che siede sui
cherubini». Sull’arca dell’alleanza infatti erano raffigurati dei cherubini (cf. Es 25,18-22), così come sugli arazzi che decoravano il
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tabernacolo (cf. Es 26,1.31): si tratta di mitiche figure alate, dalle
forme più varie, presenti nei miti cananei come cavalcature divine
(cf. Sal 18,11) e forse legate ai karibu mesopotamici posti a difesa
di templi e piante sacre (cf. Gen 3,24). L’antico Israele, in contatto
con innumerevoli figure divine proposte dalle varie religioni antiche
del vicino Oriente, le riprese reinterpretandole e maturò la propria
fede nell’unico Dio, sottolineando la sua superiorità rispetto a tutti
gli altri esseri: egli siede in trono come unico Signore e domina su
tutte le schiere, mentre l’arca coi simbolici cherubini rappresenta lo
sgabello dei suoi piedi.
Nel tempo dell’esilio il profeta Ezechiele amplifica in modo barocco questa immagine arcaica, descrivendo i cherubini come parte
del «carro divino» (Ez 1; 9-11). Al profeta Isaia invece risale la presentazione dei serafini (Is 6,1-7), come personaggi alati e «infuocati»
(questa ne è l’etimologia!) che circondano il trono di Yhwh tseba’ot
e lo celebrano come il Totalmente Santo.
4. L’angelo del Signore
Cherubini e serafini sono gli unici personaggi celesti che la Bibbia
descriva, seppur vagamente: entrambi sono caratterizzati dalle ali e
quindi tale particolare entrò comunemente in tutte le raffigurazioni
degli esseri angelici, anche se mai altrove si dice che i messaggeri di
Dio abbiano le ali. Data la loro natura spirituale (sono chiamati rûah
in 1Re 22,21 e pneûma in Eb 1,14), la loro forma non può essere descritta: tuttavia per antropomorfismo vengono in genere pensati con
forma umana, secondo convenzioni comuni ad altre culture antiche,
con particolare dipendenza dal mondo persiano achemenide.
Nei testi biblici, dunque, da quelli più antichi fino ai più recenti,
si parla con grande naturalezza di esseri celesti, dando per scontata
la loro esistenza come intermediari che garantiscono il collegamento
tra il mondo di Dio e quello degli uomini (cf. Gen 28,12). Nei libri
canonici però non si parla mai della loro creazione, né di una primordiale rivolta da parte di alcuni di loro; non vengono descritti, ma sono
nominati solo per la loro funzione; non vengono presentati come
personaggi «a tutto tondo» con personalità ben definita, ma sono
sempre tratteggiati in rapporto di sottomissione con il Signore Dio,
di cui eseguono i comandi e comunicano i messaggi; soprattutto non
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c’è alcuna testimonianza di culto riservato a tali figure. Tutto questo
lascia intendere che gli autori biblici vogliono evitare ogni forma di
politeismo e mirano a sottolineare l’assoluta singolarità divina: perciò
gli esseri celesti che compongono la corte di Yhwh sono totalmente
sottomessi a lui con funzione elogiativa e consultiva (cf. 1Re 22,19-22;
Gb 1,6-12; 2,1; 4,18), senza mai avere iniziative autonome.
Un caso particolare è costituito dalla formula mal’ak Yhwh («angelo del Signore»), che con varie sfumature è presente un centinaio di
volte. Ci sono dei racconti in cui si nota una maggiore concentrazione
di tali ricorrenze e quindi li passiamo velocemente in rassegna per
mostrarne la ramificazione in molte tradizioni: l’angelo del Signore
compare nella cacciata di Agar (Gen 16) e nel sacrificio di Isacco
(Gen 22), nella vocazione di Mosè (Es 3), nelle tradizioni dell’esodo
(Es 23; 32; 33) e della conquista della terra (Gdc 2); è presente nella
storia di Balaam (Nm 22), nella vocazione di Gedeone (Gdc 6) e
nell’annuncio della nascita di Sansone (Gdc 13); interviene nelle vicende di Elia (1Re 19; 2Re 1); è responsabile della peste che segue al
censimento organizzato da Davide (2Sam 24 // 1Cr 21) e della strage
nell’esercito assiro (2Re 19 // Is 37). In questi racconti e in molti
altri testi non si tratta solo di un messo, incaricato di trasmettere un
messaggio, ma l’angelo del Signore compare come suo delegato per
compiere un’opera di accompagnamento, protezione, liberazione e
talvolta anche distruzione.
In questi passi l’aspetto più problematico è costituito dal fatto che
c’è spesso uno scambio di ruoli fra Yhwh e il suo mal’ak, al punto da
non comprendere più chi dei due sia all’opera. Consideriamo un testo
emblematico, inserito alla fine del codice dell’alleanza come sintetica
riflessione teologica sulla vicenda d’Israele e proclamato nella liturgia
cattolica per la festa degli Angeli custodi (2 ottobre):
Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per
farti entrare nel luogo che ho preparato. Abbi rispetto della sua presenza,
da’ ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui; egli infatti non perdonerebbe
la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui. Se tu dai ascolto alla
sua voce e fai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario
dei tuoi avversari (Es 23,20-22).
All’angelo del Signore viene attribuito ciò che altrove è detto di
Dio stesso; Israele è invitato ad ascoltare la voce dell’angelo e fare ciò
che dice il Signore, perché la loro parola si identifica; decisiva è infine
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la formula «il mio nome è in lui» per indicare uno stretto rapporto fra
i due. Eppure in alcuni passi la loro distinzione è richiesta dal racconto stesso, come quando Yhwh afferma di mandare il suo angelo col
popolo, mentre egli non intende accompagnarlo (cf. Es 33,2-3).
Per chiarire tale complesso rapporto sono state avanzate diverse
teorie, che cercano di valorizzare tutti gli elementi, sia quelli che inducono a una distinzione sia quelli che favoriscono un’identificazione.
Sotto la guida di Girolamo e Agostino, la tradizione latina ha sostenuto in genere la teoria della rappresentanza, vedendo nell’angelo
del Signore un essere creato, che è rivestito di autorità divina e agisce
in nome di Dio come suo plenipotenziario e con lui intercambiabile. Mentre questa spiegazione sottolinea soprattutto la funzione, la
teoria dell’ipostasi, adottata dalla maggior parte dei Padri greci e dei
più antichi Padri della chiesa latina, specula sulla natura dell’angelo,
riconoscendovi una personificazione di Yhwh stesso ovvero la manifestazione del Logos. Alcuni esegeti moderni (ad esempio Lagrange)
hanno elaborato, invece, la teoria dell’interpolazione, ipotizzando –
senza sufficienti prove testuali – che la formula «angelo del Signore»
sia stata inserita in testi più antichi da redattori tardivi con l’intento
teologico di salvaguardare la trascendenza divina. Forse la spiegazione
migliore è ancora quella della sostanziale identità, sintetizzata da G.
von Rad con una specie di postulato:
Quando si descrive un’azione esclusivamente divina, e trascendente, si
trova il nome di Jahvé; quando invece si parla di una manifestazione di
Dio all’uomo, a Jahvé subentra il suo mal’ak (GLNT I, 205).
Questa espressione dunque può essere considerata un modo con
cui la teologia antica ha cercato di superare il diffuso antropomorfismo, per ribadire contemporaneamente sia la trascendenza di Dio, sia
la sua vicinanza agli uomini e l’intervento a loro favore. È necessario
quindi evidenziare come in tutti questi testi biblici l’attenzione sia
rivolta soprattutto alla funzione e l’interesse riguardi il messaggio
più che il messaggero.
5. La svolta apocalittica
Dopo l’esilio, con la nascita dell’apocalittica l’angelologia riceve un grande impulso e sulla linea delle antiche tradizioni d’Israele
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crescono le presenze degli angeli nei testi letterari, sia canonici sia
soprattutto extra-canonici: si precisa la separazione fra quelli buoni
e quelli cattivi, dando origine al ricco filone della demonologia e introducendo l’idea teologica del peccato angelico che ha determinato
la corruzione cosmica; intorno al trono divino la presenza angelica
viene quantificata con numeri iperbolici e agli angeli viene attribuito
il compito di presiedere ai destini delle nazioni (Dn 10,13-21) e vegliare sugli individui (Tb 3,17; Dn 3,49-50); presiedono inoltre agli
elementi cosmici e sono anche immaginati come sacerdoti del tempio
celeste. Alcuni angeli vengono identificati con un nome proprio, che
tuttavia continua a rinviare alla loro funzione svolta per conto di Dio:
Michele («chi è come Dio?»: Dn 10,13.21; 12,1), Gabriele («eroe di
Dio»: Dn 8,16; 9,21), Raffaele («Dio guarisce»: Tb 3,17; 12,14). Altri
nomi compaiono negli scritti dell’epoca, ma non canonici. Si delinea
così una gerarchia angelica in cui Michele occupa il primo posto e,
in quanto guardiano d’Israele, viene considerato il principe di tutti
gli esseri celesti.
L’angelo del Signore, inoltre, ritorna con insistenza nella prima
parte del profeta Zaccaria (Zc 1-6; 12) con il ruolo di «interprete», cioè
figura letteraria con la funzione di spiegare il senso delle enigmatiche
visioni. Proprio la presenza dell’angelo interprete, che svolge cioè il
ruolo di «uno che spiega», costituisce un elemento caratteristico del
genere letterario apocalittico. Tali novità teologiche costituiscono al
tempo di Gesù un argomento di contrasto fra la corrente dei farisei
e la classe sadducea (cf. At 23,8).
L’enorme e fantasiosa proliferazione di queste figure e delle loro
vicende nei testi del giudaismo intertestamentario influenzano anche
gli scritti del NT, che presentano le figure degli angeli secondo tale
diffuso immaginario e con linguaggio convenzionale, seppure con
notevoli differenze fra libro e libro. L’Apocalisse di Giovanni, ad
esempio, conosce la massima concentrazione del termine «angelo»,
che vi ricorre ben 67 volte sulle 175 presenze in tutto il NT; il contrasto è evidente con il quarto Vangelo in cui il vocabolo compare
solo quattro volte, comprendendo anche un versetto criticamente
incerto. Fondamentale nell’Apocalisse è il ruolo di interprete che gli
angeli svolgono in funzione didascalica ed esplicativa, oltre all’insistente presenza nell’ambito della corte celeste con compito liturgico
celebrativo. Mentre in alcuni testi apostolici vengono riprese le schematizzazioni gerarchiche (cf. Ef 1,21; Col 1,16) e si introduce anche
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il nuovo termine «arcangelo» (1Ts 4,16; Gd 9), gli Atti degli apostoli
ripropongono il tradizionale schema narrativo in cui gli angeli intervengono nelle vicende degli apostoli per liberarli (At 5,19; 12,7) e
sostenerli (At 27,23), soprattutto per incoraggiare il loro impegno di
predicazione del Vangelo (At 1,10; 8,26; 10,3).
6. Le caratteristiche del Nuovo Testamento
Nella sostanziale continuità, letteraria e teologica, è tuttavia possibile sottolineare alcune note importanti che caratterizzano il discorso
sugli angeli nel NT: essi svolgono una funzione interpretativa della
rivelazione e con insistenza viene affermata la loro sottomissione al
Cristo glorioso, autentico principe dell’universo.
Nei Vangeli la presenza di personaggi angelici è molto ridotta,
riguardando soltanto i racconti degli inizi e poi quelli di passione e
risurrezione. Marco e Giovanni non raccontano l’infanzia di Gesù
e tacciono quindi anche sugli angeli; in Matteo invece compare la
formula biblica «angelo del Signore» per indicare colui che informa
Giuseppe sul senso della nascita di Gesù (Mt 1,20.24) e sui pericoli
che corre il bambino, facendogli da guida nel viaggio in Egitto (Mt
2,13.19); secondo Luca è l’angelo Gabriele che annuncia prima a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista (Lc 1,11-19) e poi a Maria quella
di Gesù (Lc 1,26-38); quindi l’angelo del Signore rivela ai pastori di
Betlemme la nascita del Messia (Lc 2,9.10) e insieme con lui una moltitudine dell’esercito celeste glorifica Dio (Lc 2,13.15). Dall’altro capo
del racconto compaiono di nuovo figure angeliche presso il sepolcro
vuoto per annunciare e spiegare l’evento glorioso della risurrezione
(Mt 28,2.5; Lc 24,23; Gv 20,12). In nessuno di questi casi gli angeli
vengono descritti e valutati a sé, ma svolgono piuttosto una funzione
ermeneutica per far comprendere in profondità la persona di Gesù e
il mistero divino che lo riguarda.
Nell’insegnamento di Gesù gli angeli compaiono solo talvolta in
immagini paraboliche (Mt 13,39.41.49; Lc 15,10; 16,22) e in formule
escatologiche, soprattutto per indicare l’accompagnamento glorioso
del Messia nella sua venuta finale (cf. Mt 16,27 // Mc 8,38 // Lc 9,26).
Interessanti sono inoltre due logia in cui l’argomentazione di Gesù è
connessa con la realtà angelica: invitando a non disprezzare i piccoli,
egli rafforza il comando parlando dei «loro angeli» che stanno alla
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presenza stessa dell’Onnipotente quali loro rappresentanti e difensori
(Mt 18,10); infine nell’insegnamento di triplice tradizione sulla condizione dei risorti Gesù propone la figura degli angeli come esemplare
della vita futura (Mt 22,30 // Mc 12,25 // Lc 20,36). Simili immagini
presuppongono la comune credenza nell’esistenza di tali esseri celesti,
distinti da Dio e dagli uomini.
Gli scritti paolini menzionano gli angeli solo 14 volte e in genere li presentano con riserve e limitazioni, sottolineando piuttosto la
nuova dignità del cristiano; il loro ruolo è preso in considerazione
soprattutto nei quadri apocalittici della parusia, secondo un formulario presente anche nei Sinottici. La nota più caratteristica però sta
nell’affermazione dell’assoluta supremazia di Cristo rispetto a tutte
le potenze celesti (cf. Ef 1,20-21; Col 2,10): gli angeli quindi non devono essere oggetto di culto (Col 2,18), perché sono servitori come
gli uomini e come loro piegano le ginocchia per adorare solo Dio e
il suo Messia glorificato (Fil 2,9; cf. Ap 19,10; 22,8-9). In particolare
l’omelia agli Ebrei inizia la propria trattazione cristologica ribadendo
con forza la superiorità del Figlio di Dio e comunque la sua differenza
rispetto agli angeli (Eb 1-2): infatti proprio per la sua figliolanza divina e per la solidarietà dell’incarnazione Gesù si trova nella condizione
ideale per essere l’unico efficace mediatore tra Dio e gli uomini. In
forza di questo egli è l’autentico «angelo dell’alleanza» (cf. Ml 3,1),
che ha realizzato la comunione fra cielo e terra.
Claudio Doglio
docente di Sacra Scrittura presso il Seminario arcivescovile di Genova e la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di
Milano - direttore di «Parole di vita»
Sommario
Secondo la descrizione di Eb 1,14 possiamo dire che nella tradizione biblica
gli spiriti celesti sono partecipi della funzione che caratterizza anche gli «apostoli»,
delegati da Dio per eseguire i suoi ordini, in quanto servitori dell’umanità in vista
della salvezza. Il nome di «angeli» ormai è divenuto tecnico, mentre in origine indicava semplicemente i messaggeri e nell’AT il Signore Dio è presentato come sovrano
unico e assoluto, circondato e servito da diverse figure celesti di cui si parla spesso
soprattutto per evocare l’intervento divino a favore dell’uomo. Un grande sviluppo
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dell’angelologia si ebbe con l’apocalittica che influenzò anche l’immaginario e il linguaggio del NT: ma ciò che caratterizza il discorso cristiano è soprattutto l’insistenza
sulla funzione interpretativa svolta dagli angeli e sulla loro sottomissione al Cristo
glorioso, autentico mediatore fra cielo e terra.
NOTA BIBLIOGRAFICA
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