Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Le vetrate di Polke a

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶1. settembre 2014¶N. 36
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni
L’uomo, animale parlante
Uno degli effetti più interessanti del
progresso delle conoscenze scientifiche è l’abbattimento delle barriere che
da sempre l’uomo aveva posto tra sé
e gli altri animali. L’orgoglio umano
si è gratificato per millenni inventando distanze abissali fra sé e gli altri
esseri viventi del pianeta: gli animali,
esseri inferiori; noi, superiori e divini.
Per la verità, nella cultura greca una
simile connotazione di divinità per il
genere umano sarebbe suonata come
una hybris, un atto di presunzione
offensivo verso gli dèi. Aristotele,
con lo sguardo disincantato dello
studioso di scienze naturali, riconosceva la natura animale dell’uomo,
che definiva «l’animale razionale».
Ma la successiva cultura dominante
rifiutò ogni parentela con le bestie.
Poi venne Darwin: «Nel suo aspetto
fisico, l’uomo rivela l’inconfondibile
impronta delle sue origini inferiori».
Quando Darwin espose la sua teoria
evoluzionistica, ci furono reazioni
indignate e furibonde. Il biologo Thomas Huxley fu tra i primi a difendere
strenuamente l’evoluzionismo darwiniano; quando, nel 1860, lo espose
in una conferenza, si sentì chiedere
dal vescovo anglicano di Oxford:
«Di grazia, è per parte di nonno o per
parte di nonna che Ella vanta l’onore di discendere da una scimmia?».
Oggi prevale la tesi che le scimmie
non furono i nonni del genere Homo,
ma solo lontani cugini: un’evoluzione ramificata diede origine sia alle
scimmie antropoidi, sia a varie specie
del genere umano, come i Neanderthal, che si estinsero poi lasciando in
vita il solo Homo sapiens: dunque,
un animale – dotato però di caratteristiche particolari che lo hanno reso
vincente nella competizione fra le
specie. Oscuramente consapevole di
questa sua natura animale, l’uomo ha
fatto di tutto per distanziarsene, per
occultarla e respingerla. Con i vestiti,
ad esempio: nei secoli del colonialismo
uno degli argomenti forti per dimostrare che gli indiani d’America e delle
isole del Pacifico non erano uomini – o
per lo meno erano uomini inferiori,
e quindi risultava legittimo renderli
schiavi – era il fatto che non portassero vestiti. E, nella cultura occidentale,
le esortazioni a respingere la natura
animale non si contano (celebre quella
dell’Ulisse dantesco: «Fatti non foste
a viver come bruti, / ma per seguir
virtute e canoscenza»). Che l’uomo sia
«l’animale razionale» è cosa indubbia;
ma, accanto alla razionalità, oggi si
tende a porre come tratto distintivo
dell’uomo anche il linguaggio. Anzi,
sono in molti a ritenere che capacità
razionale e linguaggio si siano sviluppati congiuntamente, nutrendosi l’una
dell’altro. Anche gli animali, beninteso, possiedono un loro linguaggio; e
possiedono intelligenza. Anzi, via via
che i ricercatori approfondiscono il
problema, certi luoghi comuni vengono radicalmente ribaltati; ad esempio,
l’espressione «cervello di gallina» che
di solito viene usata per qualificare
uno stupido, potrebbe ora diventare
un elogio: numerosi studi, anche recentissimi, hanno rivelato che il pollo
domestico è notevolmente intelligente
e dispone anche di raffinate capacità
comunicative. Così, uno degli effetti
liberatori della ricerca scientifica è
quello di far crollare stereotipi che
sono durati millenni e che hanno
anche giustificato profonde ingiustizie
sociali: come la tesi dell’inferiorità
mentale dei neri rispetto ai bianchi
e della donna rispetto all’uomo. Ho
accennato alla relazione stretta tra
linguaggio e intelligenza; ebbene,
anche per quanto riguarda il linguaggio i pregiudizi maschilisti, espressi
in una cultura plurimillenaria, hanno
assegnato all’uomo una superiorità
sulla donna. Un esempio spassoso lo
si ritrova in Dante, che nel De vulgari
eloquentia afferma, con la massima serietà, che, anche se è vero che nella Genesi le prime parole rivolte al serpente
compaiono sulla labbra di Eva, «è più
conforme alla ragione ritenere che sia
stato l’uomo a parlare per primo, ed è
sconveniente pensare che un atto così
nobile del genere umano sia sgorgato
prima dalle labbra di una donna che
da quelle di un uomo». Sapendo poi,
come appare oggi abbastanza certo,
che in età preistorica il potere era
delle donne che lo esercitavano nella
forma del matriarcato, si può anche
ipotizzare che lo sviluppo del linguaggio si debba alle nostre lontane
antenate ancor più che ai loro coetanei
maschi. Sarebbe così definitivamente
sconfessato anche questo aforisma di
Bruno Lucrezi: «Dio diede la parola ad
Adamo. Adamo poi la passò ad Eva, e
così rimase un’altra volta senza».
e nero dove in otto riquadri ci sono
altrettante variazioni del vaso di Rubin,
nota illusione ottica che prende il nome
dallo piscologo danese Edgar Rubin:
un calice bianco perlescente disegna
due profili umani neri faccia a faccia.
In cima, avviene l’inverso. Accanto
ecco L’ascensione di Elia: su sfondo pixelato di gocce variopinte c’è il profeta
Elia dentro un medaglione che ascende
in cielo sul suo carro infuocato. Il
discepolo Eliseo ne acciuffa il manto
come in un’immagine della capolettera P trovata in un altro manoscritto
miniato del dodicesimo secolo. È la
volta poi del Re Davide che appare
in verde militare a parte la sua arpa
bianca. Il volto con occhi strabuzzati
ricorda la statua di Carlomagno un
tempo qui sulla torre, dove si può salire
per quattro franchi, ora giù nella cripta.
Le due ultime vetrate, a tinte perlopiù
rosa-verde pisello-lilla che ricordano
un po’ la pop-art – forse le più interessanti di questo ciclo di prefigurazioni
di Cristo – sono a nord, dove abbiamo
iniziato il giro: Il sacrificio di Isacco e Il
capro espiatorio. Le figure di entrambe
le vetrate sono tratte ancora da un manoscritto medioevale e rimaneggiate al
computer. In basso, come nella simmetria delle carte da gioco, si specchiano
in diagonale due Isacchi identici tenuti
per i capelli e due caproni sacrificali
color porpora. Mentre sopra, Abramo
con la spada sollevata è replicato otto
volte in tondo come una girandola
celtica o piuttosto un mandala. In
cima, un angelo caleidoscopico. Lo
stesso caprone è riprodotto a fianco
ma amplificato e sezionato in due: la
parte anteriore nel riquadro sopra e
quella posteriore all’incontrario, sotto.
Diciotto splendide scaglie di tormalina
sono incastonate soprattutto nel corpo
del capro, creando così una connessione con le finestre d’agata lì vicino.
Mosaici di pietre vulcaniche affettate
come citoplasmi di luce multicolore ai
quali torno con l’occhio.
di sensibilità morale nei confronti di
una grave malattia, che chiede sostegni
finanziari da destinare alla ricerca.
Ma compiendolo, sotto la luce dei
riflettori, personaggi già più o meno
in vista, campioni sportivi, attori,
cantanti, politici rinfrescano, e non
solo materialmente, la loro necessaria
popolarità. Del resto, la lavata pubblica
ha avuto dei precedenti: i tuffi vestiti
nelle piscine dei vip erano cose da
dolce vita anni 60. E, un paio d’anni
fa, sulle spiagge italiane si organizzò
il concorso «Miss maglietta bagnata».
C’è, però, di peggio. Ecco che, fra le
mode estive, a dispetto dell’inclemenza climatica, la tendenza a scoprirsi ha,
quest’anno, toccato il limite estremo:
a Barcellona, gruppi di giovani turisti
hanno optato per il nudo totale. E, così,
come mamma li fece, hanno affrontato
la vita pubblica: passeggiando nelle
strade, entrando nei negozi e nei bar.
Una bullaggine, evidentemente consegnata a Facebook, e che doveva trovare,
subito, imitatori, in Puglia. Suscitando, in Spagna come in Italia, reazioni
di disappunto: tacciate, ci voleva, di
bigottismo, rilanciando il dibattito sul
tema della libertà e dei suoi limiti. Ma,
qui, a sproposito. Si trattava, semplicemente, di cretinate.
Non sempre, tuttavia, il cretino di
turno merita soltanto ironia o indifferenza. A volte, le mode, di cui si fa
protagonista, propongono modelli
preoccupanti, giochi pericolosi. È il
caso della voga, nata sulla Costa Brava
e poi esportata, dei salti dai balconi, dai
tetti, sopra le cancellate, praticati da
ragazzi atleticamente impreparati, che
ci hanno lasciato persino la vita. Infine,
dato che il cretino «conosce sempre
nuove incarnazioni», è d’obbligo citare
la figura del comandante della Concordia, tornato alla ribalta dell’attualità,
come protagonista di serate mondane
e, addirittura, come relatore universitario, alla Sapienza di Roma, sul tema
della «Sicurezza a bordo». Cretino
lui ad accettare l’invito, o più cretino
chi gliel’ha proposto? Interrogativo
senza risposta. A volte, la cretineria è
disarmante.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf
Le vetrate di Polke a Zurigo
Conosciute in tutto il mondo sono
quelle di Chagall, di vetrate, a Zurigo.
Dal 1979 richiamano mandrie di turisti
dentro la Fraumünster, sponda sinistra
della Limmat. Dall’altra sponda del fiume però, da cinque anni a questa parte,
si possono ammirare anche le dodici
vetrate dell’artista tedesco Sigmar Polke (1941-2010). Dentro la Grossmünster, epicentro della Riforma protestante capitanata da Zwingli e secondo una
leggenda, luogo dove sono state deposte
le teste, decapitate in riva alla Limmat,
di Felix e Regula: fratello e sorella le
portano lì loro stessi per quaranta passi.
Passeggiando sulla Münstergasse nel
cuore del Niederdorf – dopo un caffè
da Schwarzenbach, la cui torrefazione è fatta in bellavista nella storica
drogheria (1912) accanto – d’un tratto
la via si apre nella Zwingliplatz. Sopra
il portale nord della chiesa a impianto
basilicale, si vede già la prima vetrata
a mezzaluna, ma non dice granché
senza luce filtrante. Entro dal portone
di ciliegio cesellato con scene bibliche
che si apre e si chiude comicamente in
modo automatico. Mi giro, e benché sia
una giornata grigia di fine estate, ecco
il primo sprazzo magico delle vetrate
di Polke (413 m) a Zurigo. Vetrate per
modo di dire, non c’è un solo pezzo di
vetro, soltanto agata. La scelta di questo
prezioso materiale scaturisce dal frontespizio della Bible moralisée viennese
nota anche come Codex Vindobonensis
2554. In una miniatura c’è il cosiddetto
Creatore chinato con compasso alla
mano; nel palmo sinistro, in posa da
lancio delle bocce, un cerchio-cosmo
che Polke ha associato alla sezione
concentrica dell’agata. Prima impressione alzando gli occhi: un preparato
istologico sotto la lente di un microscopio. Le fette d’agata brasiliana spesse al
massimo nove millimetri, accostate tra
loro, formano un tessuto luminoso la
cui gamma cromatica comprende blu,
rosso, rosa, verde, beige, arancio, eccetera. Così, da una cosmogonia miniata
contemporanea grossomodo della
Grossmünster si sfocia nell’immaginario del mondo cellulare microscopico,
passando dalle viscere miracolosamente colorate della terra. Viaggio ottico
concepito da Polke e realizzato, tra il
2007 e il 2009, dalla vetreria Mäder
(1887) nel Kreis 4, al dodici della Freyastrasse. Stretta la collaborazione tra
gli artigiani della Mäder e Polke, visto
che negli anni Cinquanta a Düsseldorf
studia proprio pittura su vetro. L’agata
tour prosegue da est a ovest, scandito
da cinque tappe di finestre verticali,
intercalate dal contrasto creato dall’austera massa di pietra arenaria di cui è
fatto questo duomo a tre navate divise
da file di pilastri. Colpisce una, dove
due fette d’agata sul blu, spiccano sulla
maggioranza marroncina. L’ultima, la
settima, a sud, è una rosetta alle spalle
di tre figure indistinte romaniche.
Si passa ora alla serie figurativa, la prima è intitolata Il figlio dell’uomo. Niente
più agata colorata, ma vetro bianco
Mode e modi di Luciana Caglio
«La prevalenza del cretino»: versione estiva ’14
A scanso di equivoci, e lo indicano
le virgolette, questo titolo non l’ho
inventato io, purtroppo. L’ho preso
in prestito da un libro del 1985, da me
amatissimo: la raccolta di un centinaio
di puntate della rubrica «L’Agenda di
F. & L.», pubblicate dal quotidiano
torinese «La Stampa». Furono gli stessi
autori, cioè Carlo Fruttero e Franco
Lucentini, a trovare, con un colpo di
genio, quel titolo simile a una battuta,
apparentemente scherzoso, entrato poi
nel linguaggio corrente, per definire
un fenomeno allarmante a cui l’epoca
stava aprendo nuovi spazi: la presenza
sempre più invadente, nella quotidianità pubblica e privata, di comportamenti all’insegna della stupidità.
Era «La prevalenza del cretino», sulla
scena del mondo e, in platea, F. & L. ne
registravano gli effetti. Una manna, se
si vuole, per dei giornalisti, o in questo
caso degli scrittori, in grado di andare
oltre la cronaca e ricavare da episodi e
personaggi, di per sé modesti, gli indizi, appunto, di un fenomeno sociale
incombente. Si trattava, insomma, di
un’operazione d’indagine e di denuncia insolita: condotta in chiave narrativa, offrendo un amaro divertimento.
(Lettura raccomandata, i capitoli «La
gita scolastica» e «Cuore di turista»).
Infatti, e qui sta il loro inimitabile
Rito attuale: la secchiata di acqua
gelida. (wikimedia)
pregio, Fruttero e Lucentini non
montavano in cattedra per emanare
sentenze né, tanto meno, per guardare
con distacco una società cui, comunque, appartenevano. Erano consapevoli che «il cretino» alligna un po’ in
tutti noi. Ma proprio l’epoca sembrava
favorire la categoria, moltiplicando le
occasioni in cui esibirsi e contagiando,
attraverso i mezzi di comunicazione,
il pubblico degli imitatori. Succedeva
già, così, allora, nella seconda metà del
secolo scorso, quando F.& L. scrissero i loro commenti, densi di presagi
inquietanti. Figurarsi se fossero qui,
adesso, in questa estate, contrassegnata dall’esplosione di balordaggini
condivise, tramite i social network, sul
piano globale.
In proposito, è ormai esemplare il rito,
attualissimo, della secchiata d’acqua
gelida che ci si rovescia sulla testa,
obbedendo a una sorta di dovere che
avrebbe fini benefici. E qui sta l’aggravante di un inganno. Un gesto,
semplicemente cretino, viene presentato alla stregua di una manifestazione