Giovanni Pico della Mirandola

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Transcript Giovanni Pico della Mirandola

TEMA 6: LA PERSONA UMANA
Tema 6/2: Dignità e valore della persona
• Giovanni Pico della Mirandola, De hominis dignitate,
© Arnoldo Mondadori Editori, Milano 1994, pp. 5-13.
GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA
DE HOMINIS
DIGNITATE
LA DIGNITÀ DELL'UOMO
SILVIO BERLUSCONI EDITORE
o letto, reverendissiITÙ Padri, nelle
memorie degli Arabi che Abdalla
Saraceno, interrogato su quale fosse l'oggetto più amITÙrevole fra quanti appaiono
nello scenario, per così dire, del mondo,
rispose che nessuno se ne vede più ITÙrabile dell'uomo. Concorda con questo giudizio l'altro di Mercurio: «Gran meraviglia, o Asclepio, è l'uomo »'.
Pensai allora al motivo di queste asserzioni. Ma fra i molti addotti da molti per
]' eccellenza della natura umana nessuno
ITÙ soddisfaceva: l'uomo collegamento
fra le creature, affine alle superiori, sovrano delle inferiori; grazie all' acutezza
dei sensi, all'indagine della ragione, al
lume dell'intelletto interprete della natura; intervallo tra la fissità dell' eterno e
il flusso del tempo; secondo]' espressione
dei Persiani, copula, o meglio, imeneo
del mondo, di poco inferiore agli angeli
secondo che attesta Davide2 • Grandi cose,
certamente. Ma non le più importanti,
quelle cioè che possano giustamente pre-
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Copyright © Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Milano 1994
tendere per sé il privilegio di un'ammirazione somma. Perché non dovremmo
ammirare maggiormente gli angeli e i
beatissimi cori celesti?
Ma alla fine credo di aver compreso
perché l'uomo sia un essere fortunatissimo e perciò degno di ogni ammirazione,
e quale sia insomma la posizione p articolare da lui avuta in sorte nella catena dell'universo, invidiabile non solo per gli
animali bruti ma per gli astri, per le intelligenze oltremondane. È cosa che supera il credibile, un portento. Perché non
dirlo? L'uomo viene giustamente definito
e stimato per questo un grande miracolo
e un essere davvero mirabile. Ma quale
sia, o Padri, questa condizione, ascoltate e
con orecchio benevolo, generosi quali siete, accogliete questo mio discorso.
Il sommo Padre, l'Architetto divino, aveva già fabbricato la dimora cosmica che
noi vediamo, il tempio augustissimo della
divinità. Aveva adornato d'intelligenze lo
spazio di là dai cieli, animato con spiriti
eterni le sfere celesti, popolato d'ogni
specie di animali le parti escrementizie e
melma se del basso mondo. Ma al termine della sua opera l'Artefice desiderava
vi fosse qualcuno che capisse la razionalità di un' opera così grande, ne amasse la
bellezza, ne ammirasse la vastità. Perciò,
dato fondo ormai a tutta la creazione, come attestano Mosè e Timeo3, pensò da
ultimo a produrre l'uomo. Non esisteva
però fra gli archetipi uno su cui modellare la nuova stirpe, nulla nei preziosi depositi da dispensare in eredità alla nuova
creatura, nessun posto in tutto il mondo
ave potesse sedere per osservare l'universo. Tutto era già occupato, tutto distribuito nei gradi più alti, medi e bassi.
Ma non sarebbe stata cosa appropriata
alla potestà del Padre mancare, come
esaurita, nell'ultima generazione; non
appropriata alla sua sapienza esitare per
carenza d'ingegno in un' opera necessaria; non appropriato al suo benigno amore costringere chi avrebbe esaltato la li-
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beralità divina negli altri, a biasimarla in
se stesso. Alla fine il perfetto Artefice decise che quell' essere, a cui non poteva
dare nulla di proprio, avesse in comune
tutto ciò che i singoli esseri avevano avuto come singolare. Prese dunque l'uomo,
creatura di forma indefinita, lo pose al
centro dell'universo e così gli parlò:
« Non ti ho assegnato, o Adamo, né una
sede precisa né un aspetto particolare né
una funzione speciale, affinché tu abbia e
possegga la sede, l'aspetto e le funzioni
che da te stesso sceglierai secondo il tuo
desiderio e il tuo giudizio. Gli altri esseri
hanno una natura definita e chiusa entro
termini e leggi da me stabilite. Tu, non
rinchiuso in stretti confini, secondo il tuo
libero arbitrio, a cui ti ho rimesso, determinerai la tua natura. Ti ho posto al centro dell'universo affinché di lì tu scorga
più agevolmente tutto ciò che nell'universo esiste. Non ti ho fatto né celeste né
terreno, né mortale né immortale, affinché ti foggi da te stesso la forma che pre-
ferisci, come un libero e nobile modellatore e foggiatore di te stesso. Potrai degenerare verso gli esseri inferiori, i bruti,
o rigenerarti verso i superiori, i divini, a
tuo esclusivo giudizio »4.
Oh, sublime generosità di Dio Padre, sublime e mirabile felicità dell'uomo! All'uomo è dato di avere ciò che desidera e
di essere ciò che vuole. I bruti alloro nascere portano con sé « dalla sacca materna », secondo l'espressione di Lucili05,
tutto ciò che avranno. Gli spiriti superiori furono o subito dall'inizio o poco dopo
ciò che saranno per sempre in eterno.
Nell'uomo il Padre infuse all' atto del nascere semi di ogni specie e germi di ogni
genere di vita; cresceranno quelli che ciascuno coltiverà, e porteranno in lui i loro
frutti. Se coltiverà i semi vegetali, diverrà
pianta; i semi sensitivi, e si abbrutirà; i
razionali, e ne risulterà un animale celeste; gli intellettuali, e sarà un angelo, figlio di Dio. Se, insoddisfatto della condizione di qualsiasi creatura, si raccoglierà
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nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, colui che fu stabilito
sopra tutte le cose sovrasterà tutte le cose, nella solitaria nube del Padre.
Chi non ammirerà questo nostro camaleonté, o comunque chi ammirerà maggiormente qualcos' altro? Asclepio ateniese, argomentando dalla sua mutevolezza e dalla sua natura che da sé si trasforma, disse non a torto che è l'uomo
simboleggiato da Proteo nei misteri7. Di
qui le metamorfosi celebrate presso gli
Ebrei e i Pitagorici. Infatti anche la più
occulta teologia ebraica trasforma il santo Enoch in un angelo della Divinità, ed
altri uomini in altri esseri diviniS. A loro
volta i Pitagorici sfigurano gli scellerati
in bruti e, a credere ad Empedocle9, persino in piante. Sul loro esempio Maometto ripeteva spesso che chi si allontana
dalla legge divina diventa bestia, e giustamente. Infatti non la corteccia fa la
pianta, bensì la sua natura priva d'intelligenza e di sensibilità; non il cuoio fa la
bestia, ma l'anima bruta e sensuale; non
la struttura circolare fa il cielo, ma la razionalità perfetta; non l'esenzione dal
corpo fa l'angelo, ma l'intelligenza spirituale. Se infatti vedrai qualcuno dedito al
ventre, un uomo strisciante al suolo, vedi
un vegetale, non un uomo; se vedrai qualcuno brancicare nelle vane illusioni della
fantasia, simili a quelle di Calipsow, vedi
un bruto, non un uomo. Se è un filosofo
che distingue fra le cose con retta ragione,
veneralo, poiché è un essere celeste, non
terreno. Se è immerso nelle pure contemplazioni, ignaro del corpo, isolato negli abissi della mente, è un essere non
terreno ma celeste, un nume più augusto rivestito di carne umana.
Chi dunque non ammirerà l'uomo? Non
a torto nelle Sacre Scritture mosaiche e
cristiane" egli viene designato talora col
nome di ogni carne, talaltra di ogni creatura, poiché egli stesso si modella, si costruisce e si trasforma nell'aspetto di ogni
essere di carne, nel carattere di ogni en-
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tità creata. Perciò Evante Persiano nel delineare la teologia caldaica scrive che l'uomo non ha alcuna sua immagine propria
e innata, ma molte estranee e transitorie.
Di qui il detto caldeo, esser l'uomo un
auimale di natura varia, multiforme e
instabile.
Ma perché dire questo? Per capire che,
nati in questa condizione, di essere ciò
che vogliamo, abbiamo come dovere
principale quello d'impedire che di noi
si dica che eravamo in nobile stato, e non
ci siamo accorti di essere divenuti simili ai
bruti e ai giumenti incoscienti"; ma si applichino a noi le parole del profeta Asaf:
Siete dèi e figli tutti del cielo'3. Guai se abusassimo della longanime generosità del
Padre per rendere da benefica nodva la
libertà di scelta che d concesse. Penetri
il nostro animo un' ambizione direi santa,
per cui insoddisfatti della mediocrità aneliamo verso l'alto e tendiamo per giungervi - lo possiamo se vogliamo - tutte
le nostre forze. Disdegnamo le cose della
terra, disprezziamo quelle del cielo, e ponendo finalmente al di sotto di noi tutto
ciò che appartiene a questo mondo, voliamo alla corte oltremondana, viànissima all' apice divino. Lì, come insegnano
i sacri misteri, i Serafini, i Cherubiui e i
Troni occupano i primi posti'4. Con essi
rivaleggiamo in dignità e gloria, ormai
incapaci di cedere e insofferenti del secondo posto. Se lo vorremo, non saremo
per nulla inferiori a loro.
Ma in che modo, e insomma con quali
opere? Consideriamo le loro opere e la
loro vita. Se la vivremo anche noi - e
possiamo viveri a -, avremo già uguagliato la loro sorte.
Arde il Serafino del fuoco d'amore,
splende il Cherubino del lume dell'intelletto, sta il Trono nella saldezza del giudizio. Se dunque, dediti alla vita attiva,
assumeremo la cura degli esseri inferiori
con giusta considerazione, ci troveremo
saldi nella stabile saldezza dei Troni. Se,
rinunciando all' azione, meditando nella
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