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Responsabile - Lodovico Antonini
RASSEGNA STAMPA
Anno XVI - 26/03/2015
A cura di Bruno Pastorelli
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Sommario
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
Contratto bancari, il governo disponibile a mediare
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
La Fabi: «Il governo intervenga per salvare il nostro contratto»
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CORRIERE DELLA SERA giovedì 26 marzo 2015
Fabi chiama il governo: banche già beneficiate con l'Irap
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IL MESSAGGERO giovedì 26 marzo 2015
Contratto, appello della Fabi al governo
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AFFARI ITALIANI Mercoledì, 25 marzo 2015 - 19:39:00
Bancari/ I sindacati contro l'Abi: risparmi da sgravi Irap ma niente contratto
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RADIOCOR 25-03-15 17:54:59
Banche: Sileoni (Fabi), Governo intervenga contro disapplicazione contratto - 'Patuelli dica da che parte sta'
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da RADIOCOR via BORSA ITALIANA 25-03-15 17:54:59
Banche: Sileoni (Fabi), Governo intervenga contro disapplicazione contratto - 'Patuelli dica da che parte sta'
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
La vertenza bancari non è per ragionieri
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
La carta di Anima nel gioco delle popolari
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
Federazione Autonoma Bancari Italiani via Tevere, 46 00198 Roma - Dipartimento Comunicazione & Immagine
Riservato alle strutture
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Anno XVI - 26/03/2015
A cura di Bruno Pastorelli – [email protected]
MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
Cattolica premiata a New York nel digital
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
Banca Ifis rileva 400 mln di sofferenze da Findomestic
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
CheBanca alza i target nel risparmio gestito
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
All’economia serve la spinta (decisiva) del risparmio
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Bonus a ostacoli per gli investimenti - Per Casse e fondi pensione le risorse impiegate dovranno essere
«certificate» dalle Entrate
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Risparmio, meno del 10% a sostegno delle imprese - Dai fondi italiani solo 14 miliardi in Piazza Affari - Il
caso assicurazioni
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Partenza doppia per il Tfr in busta - Prime liquidazioni da aprile nelle aziende più grandi, da luglio in quelle
più piccole
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Un’operazione vantaggiosa per gli istituti di credito
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Il datore «cresciuto» resta senza credito
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Intesa Sanpaolo porta le imprese all’Expo
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Accedere al prestito vitalizio ora è più facile - Approvato il nuovo provvedimento che rimuove gli ostacoli che
ne hanno frenato finora la diffusione
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Alternativa alla nuda proprietà
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Le banche pensano alle maxi-assemblee entro fine anno
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Abete: incentivi fiscali per il piano Juncker
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
La Fabi: «Il governo intervenga per salvare il nostro contratto»
Sul contratto dei bancari le diplomazie sono al lavoro, ma, per ora, senza grandi risultati. Al
presidente del Casl di Abi, Alessandro Profumo, che spiega i passi avanti sui temi normativi, politici
ed economici, il sindacato risponde con l’annuncio di due giorni di sciopero e una manifestazione. E,
soprattutto, chiede l’intervento del Governo.
Il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, ieri, a proposito dell’Irap, ha osservato che
«nel patto di stabilità, il governo ha garantito la totale deduzione dell’imponibile Irap sul costo del
lavoro a tutte le aziende italiane». Quindi anche alle banche che avrebbero «un risparmio sul costo
del lavoro enorme, quantificabile in centinaia di milioni di euro. Nonostante ciò, l’Abi, nel rinnovo
del contratto nazionale, continua ad avere un atteggiamento di chiusura inconcepibile, pretendendo
di farci economicamente pagare, come se fosse un canone d’affitto, il mantenimento dell’area
contrattuale, che fino a oggi ci ha permesso di evitare i licenziamenti».
L’interruzione delle trattative, «perdurando questa ingordigia – continua Sileoni -, porterà alla
rottura. Pertanto, sarebbe auspicabile che il Presidente Renzi e il suo governo intervenissero contro
un’eventuale disapplicazione del contratto nazionale , minacciata da Abi, che porterà inevitabilmente
tensioni sociali, rendendo il settore bancario una jungla e ci costringerà a ulteriori giornate di
sciopero, di protesta e di lotta». Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, dal canto suo dice che «le
parti devono fare al meglio il loro lavoro, quindi auspicabilmente trovare uno sbocco al confronto in
corso». In ogni caso, conclude Poletti, «noi siamo lì e se un giorno le parti decidono congiuntamente
e convintamente che è necessario parlare con il ministro, io sono lì, sono sempre disponibile».
Intanto gli incontri del 30 e 31 non sono ancora nè confermati nè cancellati. L’unica certezza è che il
31 marzo scade la proroga della disapplicazione e quindi a partire dal primo aprile il contratto dei
bancari sarà disapplicato, a meno di ulteriori proroghe o di una ripresa del negoziato che sia in fase
di rush finale proprio a ridosso del 31 marzo. © RIPRODUZIONE RISERVATA Cristina Casadei
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CORRIERE DELLA SERA giovedì 26 marzo 2015
Fabi chiama il governo: banche già beneficiate con l'Irap
La Fabi chiede a Palazzo Chigi di intervenire contro la disapplicazione del contratto dei bancari
minacciata dall'Abi dopo la rottura delle trattative sul rinnovo. «Nel patto di Stabilità» -- ricorda
Lando Sileoni, segretario generale Fabi --«il governo ha già garantito la totale deduzione
dell'imponibile Irap sul costo del lavoro a tutte le aziende». Banche incluse che quindi avranno «un
risparmio enorme, quantificabile in centinaia di milioni» proprio alla voce spese per il personale.
questo, sostiene la Fabi, «sarebbe auspicabile che il premier Renzi e il governo intervenissero contro
l'eventuale disapplicazione del contratto di lavoro» dei 310 mila bancari. © RIPRODUZIONE
RISERVATA
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IL MESSAGGERO giovedì 26 marzo 2015
Contratto, appello della Fabi al governo
«Nel patto di stabilità, governo ha garantito la totale deduzione dell'imponibile Irap sul costo del
lavoro a tutte le aziende italiane». Quanto dichiara Lando Maria Sileoni, leader della Fabi, sindacato
di maggioranza dei bancari. «Per le nostre banche, quindi, il risparmio sul costo del lavoro sarà
enorme, quantificabile in centinaia di milioni di euro. Nonostante ciò, l'Abi nella trattativa per il
rinnovo del contratto nazionale, continua ad avere un atteggiamento di chiusura inconcepibile,
pretendendo di farci pagare, come se fosse un canone d'affitto il mantenimento dell'area
contrattuale, che fino a oggi ci ha permesso di evitare i licenziamenti», sostiene Sileoni.
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RASSEGNA STAMPA
Anno XVI - 26/03/2015
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«L'interruzione delle trattative, perdurando questa ingordigia, porterà alla rottura. Pertanto, sarebbe
auspicabile che il presidente Matteo Renzi e il suo governo intervenissero subito contro un'eventuale
disapplicazione del contratto nazionale, minacciata dall'Abi che porterà inevitabilmente a nuove
tensioni sociali».
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AFFARI ITALIANI Mercoledì, 25 marzo 2015 - 19:39:00
Bancari/ I sindacati contro l'Abi: risparmi da sgravi Irap ma niente contratto
I sindacati attaccano: le banche beneficiano degli sgravi Irap ma scaricano sui lavoratori del credito
il mantenimento del contratto
Dopo aver proclamato lo sciopero di due giorni e aver bussato alla porta del governo Renzi per
denunciare la disapplicazione del contratto dal primo
aprile da parte dell'Abi, i sindacati dei bancari attaccano
ancora l'associazione delle banche presieduta da
Antonio Patuelli. E lo fanno denunciando il fatto che
l'Abi, nonostante abbia, come tutte le aziende italiane
nel 2015, beneficiato della totale deduzione
dell'imponibile Irap sul costo del lavoro, continua a voler
scaricare, tuonano le organizzazioni di rappresentanza,
il
mantenimento
dell’”area
contrattuale”
sull'occupazione.
“Nella di stabilità, il governo ha garantito la totale
deduzione dell’imponibile Irap sul costo del lavoro a
tutte le aziende italiane. Per le nostre banche, quindi, il
risparmio sul costo del lavoro sarà enorme, quantificabile in centinaia di milioni di euro. Nonostante
ciò, l'Abi, nel rinnovo del contratto nazionale, continua ad avere un atteggiamento di chiusura
inconcepibile, pretendendo di farci economicamente pagare, come se fosse un canone d'affitto, il
mantenimento dell'"area contrattuale", che fino a oggi ci ha permesso di evitare i licenziamenti”,
spiega infatti Lando Maria Sileoni, segretario generale della FABI, sindacato di maggioranza dei
bancari.
"L’interruzione delle trattative, perdurando questa ingordigia, porterà alla rottura. Pertanto prosegue Sileoni - sarebbe auspicabile che il presidente Renzi e il suo governo intervenissero contro
un’eventuale disapplicazione del contratto nazionale, minacciata da Abi, che porterà inevitabilmente
tensioni sociali, rendendo il settore bancario una jungla e ci costringerà a ulteriori giornate di
sciopero, di protesta e di lotta. Lo stesso presidente Patuelli ci dica da che parte sta e chiarisca se le
banche vogliono mano libera per licenziamenti collettivi di personale”.
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RADIOCOR 25-03-15 17:54:59
Banche: Sileoni (Fabi), Governo intervenga contro disapplicazione contratto - 'Patuelli dica
da che parte sta'
(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 25 mar - Contro l'ipotesi di disapplicazione del contratto dei
bancari intervenga il Governo Renzi. E' l'auspicio del segretario generale della Fabi, Lando Sileoni,
che arriva dopo lo stop alle trattative con l'Abi. La disapplicazione "portera' inevitabilmente tensioni
sociali, rendendo il settore bancario una giungla, e ci costringera' ad ulteriori giornate di sciopero, di
protesta e di lotta" afferma in una nota il leader sindacale. Sileoni ricorda inoltre che le banche, grazie
alla totale deduzione dell'imponibile Irap sul costo del lavoro, garantito dal Governo nel patto di
stabilita', avranno un risparmio "enorme, quantificabile in centinaia di milioni". Secondo il
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Una mergermania di ritorno, sia pure circoscritta al settore, magari sulla spinta di opinioni molto
interessate solo alle prospettive di consulenze , provvigioni e rendimenti di borsa, difficilmente
sarebbe accoglibile in nome dell'aggregazione per l'aggregazione. Le stesse operazioni di
rafforzamento che fossero mosse soltanto dall'intento, in sé non criticabile, di evitare aggressioni
dall'estero, susciterebbero valide osservazioni e perplessità. È singolare che, poi, si sfornino ipotesi
di consolidamento da coloro che, ai tempi, contestavano la opportunità di un piano regolatore del
credito - peraltro non condiviso da Bankitalia - e negavano la necessità di una informativa preventiva
alla Vigilanza da parte delle banche che volessero aggregarsi, fino a ritenere l'abrogazione di tale
informativa, poi sopravvenuta, come una decisione di grande portata, forse insipientemente
immaginando che l'Organo di Vigilanza possa essere all'oscuro delle decisioni in fieri e conoscere
l'aggregazione solo dopo la relativa, definitiva delibera dei cda interessati.
Ma, in diversi interventi che fino a pochi giorni or sono sostenevano l'obbligatorietà della
trasformazione anzidetta, comincia a essere presente la tesi della necessità che le Popolari, pur
trasformate, non perdano alcune delle storiche caratteristiche, quali il legame con il territorio e la
migliore analisi del merito di credito dovuta proprio a questo rapporto. Ma non si considera che,
perché ciò possa avvenire, è necessario che alcune caratteristiche istituzionali permangano, pur nella
nuova forma giuridica. Il sottosegretario all'Economia, Paolo Baretta, che ha seguito l'iter
parlamentare della conversione del decreto, ha ribadito che con l'intervenuta approvazione di
quest'ultima, non si chiudono il dibattito e gli approfondimenti sul mondo delle Popolari. Il
riferimento non è solo al limite del 5% all'esercizio del diritto di voto o anche a quello inferiore che
potrebbe essere introdotto con le prescritte maggioranze anche dopo la fase transitoria, ma anche,
allo scorporo della cooperativa dalla spa bancaria: una operazione che, come ha ricordato Gianni
Zonin, presidente della Popolare di Vicenza, avrebbe dovuto essere promossa da tempo, anche nella
opzione della trasformazione della cooperativa in fondazione, se vi fosse stata una specifica iniziativa
in tal senso dell'Assopopolari. Chi scrive la sostiene dalla fine del 2007. Oggi, comunque, è un
argomento sul quale positivamente riflettere per una decisione che non sembra avere bisogno della
introduzione ad hoc di norme primarie. Piuttosto, andrà chiarita la posizione della Vigilanza
europea. L'odierna audizione al Parlamento italiano di Mario Draghi può essere l'occasione per un
importante chiarimento, dal momento che sin d'ora si può affermare che risulterebbe arduo, forse ai
confini di una inammissibile discrezionalità, un riscontro negativo soltanto in nome della sana e
prudente gestione o della tutela della stabilità. Baretta ha ragione nell'affermare che con la nuova
legge non si chiudono discussioni e progetti. Bisogna, però, agire subito e con cognizione di causa,
non dimenticando che, se non si raggiungono i pur possibili risultati, non è escluso che vi sia un
ritorno di fiamma per iniziative mirate a sollevare la questione di incostituzionalità della nuova legge.
Se un intervento riformatore era necessario, il modo in cui è stato fatto è, tuttavia, il peggiore
possibile. Gli adattamenti di cui ora si discute attenuerebbero la portata degli unilateralismi di cui si
è data prova dal governo. (riproduzione riservata)
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
Ecco come funzionano in Europa - I rating e i dati relativi alla redditività e all'efficienza sono
migliori negli altri Paesi. Oltreconfine il sistema è organizzato su due livelli (locale e centrale)
con una banca capofila di cui gli istituti sono azionisti
di Claudia Cervini
Il decreto legge Renzi-Padoan sulle banche popolari e l'imminente autoriforma delle Bcc e delle
Casse Rurali hanno acceso i riflettori sullo stato di salute del credito cooperativo italiano, che d'ora
in poi è in parte tenuto a ispirarsi ai modelli in vigore in Europa. In linea di massima il credito
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Anno XVI - 26/03/2015
A cura di Bruno Pastorelli – [email protected]
cooperativo (inteso come credito mutuale, quindi popolare) nel Vecchio Continente ha retto meglio
l'urto della crisi rispetto alle banche dotate di altri sistemi di governance.
Questo però non vale per l'Italia. Secondo uno studio del Boston Consulting Group (elaborato su dati
del sistema bancario Ue al 2013), il rating delle banche di credito cooperativo italiane è passato da A
a BB perdendo due gradi, mentre le grandi banche italiane sono riuscite a mantenere un grado
superiore (BBB).
Più in generale, il credito cooperativo in Europa è più redditizio ed efficiente delle altre banche. Il
rapporto cost-income, sempre secondo lo studio, è infatti del 66% contro il 73% delle altre banche.
Tale valore scende in Italia, dove il cost-income delle banche di credito cooperativo è pari al 63%. Il
return on asset (roa) degli istituti popolari europei è dello 0,1% contro il -0,1% degli con diversi
sistemi di governance. Anche in questo caso il valore in Italia si abbassa, attestandosi a -0,2%. Ma
come si configura nel resto d'Europa il sistema delle banche mutuali, che costituisce circa il 45% degli
istituti, dei dipendenti e delle filiali, con una quota di mercato media del 20% e asset complessivi
quantificati in oltre 7 miliardi di euro? I sistemi mutualistici all'estero hanno sviluppato logiche simili
tra loro. In linea di massima sono organizzati su almeno due livelli societari: uno locale (che a sua
volta si sdoppia in regionale e provinciale, dove sono operative le banche cooperative locali) e uno
centrale, dove è presente la banca capofila non cooperativa, di cui le banche locali sono azioniste. Le
caratteristiche-chiave del sistema cooperativo (voto capitario e limite di possesso azionario) si
applicano alle singole banche cooperative locali, che sono azioniste della banca-madre, e non si
applicano invece alla banca capofila. L'istituto capofila funziona da organo di supervisione e
controllo sulle singole realtà locali e ha responsabilità di internal audit, ruolo che quindi è esterno
alle singole banche cooperative locali. Infine, nel caso di banche quotate, il soggetto a essere quotato
è la banca capofila (non cooperativa) e non le singole realtà mutualistiche locali.
Venendo ai singoli Paesi, in Francia esistono tre grandi gruppi organizzati con logiche simili, ma non
identiche. Il Crédit Agricole è quotato (esiste il voto capitario) e per i soci non è previsto un limite di
possesso azionario. Simile il caso di Bpce, la seconda banca di Francia, nata nel 2009 dalla fusione
della Cnce e Bfbp. Diverso il caso del Crédit Mutuel, che non ha una holding quotata e ha stabilito un
limite di possesso azionario pari a 50 mila euro. In Germania il sistema del credito cooperativo è
molto frammentato, ma organizzato in strutture centrali (per legge ogni cooperativa deve aderire a
una federazione nazionale), di cui nessuna quotata. Nessun regolamento impone alle cooperative di
credito di primo grado di utilizzare i servizi messi a disposizione dagli istituti di grado superiore, ma,
in base a un principio di fedeltà non scritto, tale meccanismo viene applicato di fatto. Infine il sistema
olandese (quello, per intenderci, preso a modello da Banca d'Italia per l'autoriforma delle Bcc):
anch'esso è organizzato su due livelli, in cui le funzioni associative e di impresa sono concentrate in
Rabobank. «Ogni cooperativa di credito di nuova costituzione deve aderire alla centrale Rabobank e
sottoporsi al suo controllo», si legge nello studio. L'intera gestione della banca locale viene sottoposta
a controlli e a eventuali interventi correttivi attraverso raccomandazioni da parte di Rabobank. Nella
prassi gestionale queste raccomandazioni equivalgono a vere e proprie istruzioni, per cui i rapporti
tra banca centrale e periferia sono ormai schematizzati e danno forma a un complesso sistema di
garanzie incrociate che garantisce solidalmente l'esposizione creditizia di tutte le componenti del
gruppo. (riproduzione riservata)
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
La Pop Vicenza dà l'ok al piano di transizione
di Claudia Cervini
La Banca Popolare di Vicenza procede su un doppio binario. Dopo aver dato mandato a Mediobanca
di valutare le dinamiche di consolidamento in atto nel mondo bancario, il consiglio di
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Anno XVI - 26/03/2015
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amministrazione ha approvato ieri un piano industriale quinquennale, fino al 2019 (con iniziative
concentrate nei primi tre anni), basato sull'ipotesi che sarebbe rimasta da sola.
L'obiettivo è un utile netto di 313 milioni di euro nel 2019 (201 milioni nel 2017), con il
raggiungimento di un cost income del 50,6% nel 2019 e del 56,6% nel 2017. Il Return on tangible
equity si attesterà all'8,1% nel 2019 e al 5,4% nel 2017. La banca presieduta da Gianni Zonin intende
con questo piano a rafforzare il patrimonio, ottimizzare il profilo di rischio, rendere più efficiente la
rete distributiva, migliorare la redditività e contenere i costi. Nello specifico, l'istituto diretto da
Samuele Sorato mira a un Cet1 ratio superiore al 13% nel 2019 (superiore al 12% nel 2017). La
revisione dei processi di erogazione del credito dovrebbe ridurne il costo (in termini di
accantonamenti a fondi rischi) dal 2,91% nel 2014 allo 0,63% nel 2019, sui livelli pre-crisi, con indici
di copertura dei crediti deteriorati sostanzialmente stabili nel periodo del piano. Quanto alla rete di
distribuzione, l'istituto punterà con decisione sui canali digitali e sul rafforzamento del Wealth
Management, aumentando il numero di private banker, e potenziando ulteriormente la rete di agenti
in attività finanziaria. Sul versante dei ricavi la popolare vicentina vuole migliorare il margine di
interesse (+6,9% la crescita media annua dal 2014 al 2019) grazie in particolare al contenimento del
costo della raccolta, già iniziato nel 2014, e aumentare le commissioni nette (+9,8% la crescita media
annua dal 2014 al 2019), valorizzando il potenziale acquisito con la crescita della clientela e la
maggiore penetrazione nel comparto del risparmio gestito. Nonostante gli investimenti in tecnologia,
l'istituto conta di mantenere i costi operativi stabili (+0,6% la crescita media annua dal 2014 al 2019)
e di migliorare il cost/income ratio al 50,6% nel 2019 e al 56,6% nel 2017. Positiva anche la dinamica
degli impieghi alla clientela (+2,6% la crescita media annua dal 2014 al 2019). «Il piano evidenzia la
capacità del gruppo di esprimere in autonomia un'adeguata redditività, già a partire da quest'anno»,
ha detto Zonin.
Intanto sono in molti a scommettere su un possibile matrimonio con Veneto Banca, anche se al
momento di ufficiale non c'è ancora nulla. Di certo il presidente della popolare vicentina sta
lavorando alla governance. Il progetto allo studio ricorda a grandi linee quanto previsto dalla Legge
Amato per le ex Casse di risparmio (si veda anche articolo a pag. 2), e prevede la nascita di una
cooperativa che controllerà la Bpvi spa e di una fondazione, socia dell'azienda bancaria. Dall'istituto
sarà scorporato tutto il patrimonio immobiliare e artistico che passerà alla cooperativa, in base a un
modello che potrebbe fare scuola nel mondo delle popolari. Ma questo piano di volo per
concretizzarsi avrebbe forse bisogno di una legge che permetta, appunto, il passaggio delle attività
bancarie nella spa, scorporando le altre attività di Bpvi in una Fondazione cooperativa. La Popolare
di Vicenza ha chiuso il 2014 con un rosso di 497 milioni risentendo delle direttive Bce in termini di
accantonamenti. (riproduzione riservata)
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
La Grecia ora ha le spalle al muro - Mentre Tsipras si dice pronto a presentare una lista di
riforme, la Bce invita le banche elleniche a non comprare titoli di Stato emessi da Atene. E per
il ministro britannico Osborne sale il rischio Grexit
di Marcello Bussi
Nessuna pietà per la Grecia. L'Euro Working Group, composto dai tecnici dei ministeri delle Finanze
di Eurolandia, ieri ha deciso che Atene non ha alcun diritto di richiedere il rimborso di 1,2 miliardi
di euro di fondi non utilizzati per la ricapitalizzazione delle banche elleniche da parte dell'European
Financial Stability Facility (Efsf).
Inoltre la Bce ha scritto alle banche greche, invitandole a non aumentare la loro esposizione ai titoli
di Stato ellenici. Il governo guidato da Alexis Tsipras aveva chiesto all'istituto di Francoforte di
estendere il tetto di emissione di titoli a breve termine, attualmente fissato a 15 miliardi di euro, per
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
Juncker, i paletti delle compagnie - Le imprese assicurative, con 8.500 mld di asset gestiti a
livello Ue, vogliono esprimere rappresentanti Per Abete, Febaf, serve un sistema di garanzie
per le cartolarizzazioni. Abi chiama il tavolo tecnico
di Anna Messia
Le compagnie chiedono una poltrona nella cabina di regia e le banche un tavolo per discutere delle
delicate questioni ancora aperte. L'avvio del piano di investimenti da 315 miliardi, il cosiddetto Piano
Junker chiamato a far ripartire le economie europee, è ancora pieno di nodi da sciogliere, almeno a
sentire gli investitori privati che dovrebbero farsi carico della gran parte degli oltre 300 miliardi in
gioco. «L'accoglienza dei mercati nei confronti del piano è stata finora positiva», ha detto ieri il
presidente di Febaf, Luigi Abete, chiamato in audizione alla commissione Bilancio della Camera, «ma
non si può dare per scontato che solo per questo il disegno complessivo del piano si realizzerà
concretamente», ha aggiunto, spiegando che «si tratta di un progetto ambizioso e possibile, ma che
per realizzarsi richiederà condizioni effettive per l'impiego di capitali privati».
Servono progetti di qualità, finanziabili, e bisognerà controllare i rischi di cui gli investitori privati
potranno farsi carico, con regole trasparenti e certe «sull'assetto normativo che disciplina gli
investimenti e il loro finanziamento». Il presidente Febaf ha proposto l'avvio di sistemi europei e
nazionali di garanzia, che abbiano l'obiettivo di sostenere lo sviluppo del mercato delle
cartolarizzazioni, favorendo «in tal modo gli investimenti privati e il credito alle piccole imprese».
In audizione c'erano anche Abi e Ania. Il direttore generale dell'associazione bancaria, Giovanni
Sabatini, ha chiesto l'avvio di un tavolo di lavoro di tutti gli attori interessati per chiarire, per
esempio, come il fondo europeo (Feis), che potrà intervenire con strumenti di finanziamento o di
garanzia di portafogli di crediti bancari, si integri con l'attività che già oggi la Bei svolge a sostegno
dell'accesso al credito delle pmi. Oltre che le possibili sovrapposizioni con il fondo nazionale di
garanzia per le pmi, già esistente. Il direttore generale dell'Ania, Dario Focarelli, ha invece posto
l'attenzione sulla mancanza di progetti validi da finanziare, visto che molti dei 2 mila progetti
presentati dai singoli Paesi dell'Ue sono bloccati da ostacoli finanziari o regolamentari. Forti degli
oltre 8.500 miliardi di asset gestiti complessivamente a livello europeo, gli assicuratori chiedono poi
che il settore privato abbia un rappresentanti nella governance del Feis. (riproduzione riservata)
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
Bankitalia fa un assist al credito - Nella normativa nazionale non sono stati introdotti nuovi
requisiti sulla liquidità e non sono stati accelerati i tempi rispetto alla disciplina europea sul
Liquidity coverage ratio, in partenza da ottobre
di Francesco Ninfole
Banca d'Italia vara le regole nazionali che saranno applicate dagli istituti di credito su liquidità e leva.
Le norme definite dai regolamenti europei (sulla base degli standard di Basilea 3) consentono alle
autorità nazionali alcune opzioni. In particolare era possibile per Bankitalia introdurre nuovi
requisiti di liquidità o accelerare i tempi di introduzione dell'indicatore chiamato Liquidity coverage
ratio (Lcr).
Nessuna di queste possibilità è stata prevista nel documento messo in consultazione da Banca
d'Italia. Di conseguenza le banche non dovranno adeguarsi a normative più stringenti, ma seguire il
percorso base definito a livello Ue, che partirà in modo graduale a partire dal primo ottobre di
quest'anno. Il Lcr è un indicatore che misura la capacità delle banche di resistere a uno shock di
liquidità di 30 giorni. Il requisito è stato introdotto per evitare che una banca, per quanto ben
capitalizzata, possa fallire per ragioni di liquidità, come accaduto durante la crisi finanziaria. In
termini tecnici il Lcr è un rapporto tra le attività liquide di elevata qualità e i deflussi di cassa netti
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nei 30 giorni: il ratio così calcolato deve essere superiore al 60% nel 2015, al 70% nel 2016, all'80%
nel 2017 e infine al 100% nel 2018 (le regole Ue anticipano di un anno il requisito del 100% previsto
da Basilea 3 nel 2019, anche se la Commissione Ue ha la facoltà di rinviare l'inizio).
Le banche italiane non avranno una stretta ulteriore sulla tempistica. Inoltre Bankitalia sta
valutando la possibilità di concedere a certe condizioni una deroga al rispetto del requisito di
liquidità su base individuale (non su base consolidata). «In questa fase un ulteriore inasprimento dei
requisiti di capitale e di liquidità per le banche rischierebbe di frenare l'offerta di credito,
allontanando la ripresa economica», ha osservato nei giorni scorsi Fabio Panetta, vice direttore
generale di Bankitalia. «Il passaggio a un nuovo equilibrio caratterizzato da banche dotate di più
capitale e più liquidità va attuato con gradualità e lungimiranza, valutando con attenzione i rischi di
un aggiustamento repentino». Le regole sulla liquidità saranno valide per le banche, mentre le
imprese di investimento saranno soggette soltanto a obblighi segnaletici. Secondo gli ultimi dati
disponibili, il requisito del 60% per il Lcr era rispettato a giugno 2014 dai maggiori 15 istituti italiani
inclusi dal Comitato di Basilea nel campione di osservazione per la convergenza verso le nuove
regole. Bankitalia nella consultazione ha definito anche altre questioni tecniche sulla liquidità, in
particolare sul trattamento preferenziale per le operazioni di trade finance e sulla deroga al cap sugli
afflussi.
Infine Via Nazionale ha chiarito le discrezionalità per il calcolo dei leverage ratio, il rapporto tra
capitale e asset totali (non ponderati). Il regolamento Ue (Crr), già entrato in vigore dal primo
gennaio 2015, non introduce vincoli obbligatori, ma regole di comunicazione e trasparenza. Su
questo fronte Bankitalia ha riconosciuto un trattamento di favore per le esposizioni verso soggetti
italiani che fanno parte dello stesso gruppo, mentre non ha escluso dal calcolo del leverage ratio
alcune esposizioni verso organismi del settore pubblico (i casi individuati non sono stati considerati
rilevanti). Anche i dati sulla leva dei maggiori istituti sono rassicuranti. Per le 15 maggiori banche
italiane, il leverage ratio calcolato secondo le definizioni di Basilea 3 era in media pari al 5% al 30
giugno 2014, un valore significativamente superiore al minimo regolamentare che dovrebbe entrare
in vigore nel 2018 (3%), e superiore a quello che si registra nei principali Paesi dell'area euro.
A livello europeo e mondiale, le banche sono più in ritardo sui requisiti di liquidità di Basilea 3 che
su quelli di capitale, secondo quanto emerso nelle recenti rilevazioni del Comitato di Basilea e
dell'Eba. In particolare 134 banche europee hanno mostrato un deficit di asset liquidi per 115 miliardi
per arrivare a un Lcr del 100% (quasi integralmente dovuto ai gruppi maggiori, come si vede dalla
tabella in pagina), mentre il fabbisogno relativo all'altro indicatore di liquidità di lungo termine
(Nsfr, net stable funding ratio) è risultato di 324 miliardi. Per quanto riguarda il capitale, il deficit è
invece risultato pari a 2,8 miliardi per gli istituti maggiori in Europa. (riproduzione riservata)
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MF-MILANO FINANZA giovedì 26 marzo 2015
Ecco perché sulla bad bank tutti procedono a tentoni
di Guido Salerno Aletta
Sul problema delle sofferenze bancarie, e soprattutto sulle diverse ipotesi di un intervento pubblico
che ne faciliti la cessione da parte del sistema bancario, è vano cercare un barlume di chiarezza.
Anche coloro che hanno responsabilità pubbliche nel settore si pronunciano con tale circospezione
e così tanta vaghezza da far presumere che nessuno abbia ancora le idee sufficientemente chiare.
Secondo il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, intervenuto giorni fa a una riunione dell'Abi,
il governo propende per una soluzione light: «Cerchiamo misure specifiche di tipo regolatorio che
possano facilitare la cessione dei crediti in sofferenza. I tempi riteniamo che debbano essere molto
rapidi. Il fatto che pensiamo a una soluzione relativamente leggera vuol dire che i tempi potranno
effettivamente essere rapidi». Il governatore Ignazio Visco non è andato oltre gli auspici: «Un
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
All’economia serve la spinta (decisiva) del risparmio
Il risparmio è tradizionalmente una delle risorse del nostro Paese: persino sette anni di crisi non
hanno intaccato un primato che vede la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane superiore a
quella di tutti gli altri principali Paesi europei. Eppure, questo risparmio stenta a incanalarsi verso
gli investimenti produttivi e le forme che più possono consolidare una ripresa economica ancora
incerta. Un problema tanto più grave se si considera che l’Europa e l’Italia in particolare stanno
registrando una preoccupante caduta degli investimenti delle imprese in impianti e macchinari, cioè
quelli più importanti per ampliare la capacità produttiva e migliorare la produttività. Un recente
studio della Banca dei regolamenti internazionali documenta che dall’inizio della crisi l’Italia ha
registrato una caduta di questi investimenti di oltre il 25 per cento, contro valori compresi fra il 10 e
il 15 degli altri principali Paesi.
Il problema richiede interventi decisi, innanzitutto a livello europeo. Il recente Libro verde della
Commissione sulla costruzione di un mercato europeo dei capitali (un traguardo ancora lontano,
nonostante decenni di politiche comunitarie e quindici anni di unione monetaria) individua
giustamente come obiettivo fondamentale quello di «collegare il risparmio e gli investimenti con la
crescita». Praticamente con le stesse parole ieri al Salone del risparmio l’ex cancelliere Schröder ha
confermato che fra le sfide europee rientra proprio quella di «mettere i risparmi e le attività
finanziarie al servizio delle attività produttive».
L’obiettivo della Commissione è innanzitutto quello di rendere il sistema finanziario europeo
(meglio: i sistemi finanziari dei vari Paesi, visto che le differenze rimangono molto nette) meno
bancocentrico e quindi più simile a quello americano: persino il Regno Unito, considerato il Paese
più aperto ai mercati, è assai lontano dagli standard d’oltreoceano. A questo fine sono già state
avviate importanti iniziative per consolidare i veicoli di mobilitazione del risparmio verso gli
investimenti produttivi.
Continua pagina 3
Marco Onado
Continua da pagina 1
Oltre a quelli tradizionali, la Commissione punta molto sugli Eltif (European long-term investment
funds) il cui quadro regolamentare è stato recentemente definito.
Ma occorre anche capire quali e quante risorse i nuovi veicoli possono mobilizzare. In Europa, fondi
pensione e assicurazioni detengono attività per oltre 12 trilioni di euro, una minima parte dei quali
(soprattutto per le seconde) investita in attività produttive e in azioni. Molti ostacoli regolamentari
(a cominciare da quelli derivanti dai requisiti patrimoniali per le assicurazioni) sono in via di
correzione, ma lo stesso Libro verde riconosce che rimane ancora molto da fare, soprattutto per tener
conto degli sviluppi futuri di processi di securitisation a favore delle imprese e di quelle piccole e
medie in particolare.
La soluzione dei problemi non può tuttavia venire solo dall'Europa, anche perché l’Italia ha un
ritardo strutturale da recuperare rispetto agli altri Paesi. Le imprese italiane, quotate o no, soffrono
di una carenza cronica di capitale di rischio; la propensione alla quotazione in Borsa è desolatamente
modesta; il ricorso al mercato obbligazionario limitato da una dimensione media d’impresa troppo
bassa per dare vita ad emissioni consistenti e interessanti per gli investitori istituzionali. Non a caso,
il mercato europeo dei private placement di obbligazioni, che pure ha conosciuto negli anni recenti
una ripresa consistente (15,3 miliardi di euro nel solo 2013) ha interessato un numero limitato di
imprese italiane.
Il fatto è che per decenni i governi italiani hanno considerato nel migliore dei casi il risparmio una
risorsa naturale inesauribile; in altri casi come un facile bersaglio da tassare. In questo modo, nel
momento in cui è scoppiata la crisi eravamo l’unico Paese europeo che nei decenni precedenti non
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Il problema è che anche il risparmio gestito e assicurativo finisce all’economia reale col contagocce.
Le assicurazioni, secondo i dati Ivass, destinano per esempio pochi soldi all’economia produttiva
italiana: del loro portafoglio titoli (pari a 541,8 miliardi di euro), solo il 12% circa va in azioni e
obbligazioni aziendali. Anche assumendo che la metà di questi titoli sia made in Italy (ed è una stima
molto generosa), questo significa che dei 541 miliardi che le assicurazioni si trovano a gestire, solo il
6% serve a sostenere le imprese italiane. Non un grande sforzo.
E i fondi pensione sono ancora più avari. Nell’ultima relazione annuale Covip si legge infatti che solo
il 2,5% del loro patrimonio totale finisce in azioni oppure obbligazioni aziendali italiane. Nulla, se si
pensa che - secondo i dati del Mefop - all’estero i fondi pensione investono mediamente il 46,5% del
loro patrimonio in azioni della propria Borsa nazionale. Solo i fondi di private equity della Penisola
mettono il 90% dei loro capitali in imprese italiane, ma si tratta di briciole: nel 2014 gli investimenti
sono ammontati a 3,5 miliardi (dati Aifi).
Difficile invece capire quante fiches dei fondi comuni (che hanno in totale 735 miliardi) finiscano
alle imprese italiane sotto forma di azioni o bond. Qualche stima si può fare sulla Borsa: secondo i
dati di Factset, i fondi di diritto italiano hanno attualmente 14,4 miliardi (dato in dollari)a Piazza
Affari. È vero che tanti fondi sono di diritto estero, ma anche sommando tutti i fondi internazionali
(di matrice italiana e non) ci si ferma a 60 miliardi. Comunque poco.
Qualcosa si muove
Questo significa che il risparmio degli italiani serve poco all’Italia. Porta poco sviluppo vero, ma
resta immobilizzato in titoli di Stato o finisce all’estero. È vero che gli investimenti vanno
diversificati, nessuno lo nega. E che devono rendere. Ma basterebbe che solo un 2,5% aggiuntivo
della ricchezza finanziaria delle famiglie finisse anche indirettamente (attraverso le assicurazioni o i
fondi) al sistema produttivo italiano, che verrebbe colmato il “buco” creditizio causato dalla crisi: dal
2011 in Italia il credito bancario si è ridotto di 100 miliardi circa, cifra che corrisponde proprio al
2,5% della ricchezza delle famiglie. Insomma: basterebbe uno sforzo minimo per aiutare l’Italia a
crescere.
Eppure, per motivi culturali (le imprese italiane sono spesso restie ad accettare investitori
istituzionali), normativi (in Italia le aziende sono sempre state incentivate a indebitarsi in banca e gli
investitori a comprare titoli di Stato) e storici, tutto questo non accade. Il mercato finanziario è
atrofizzato e la ricchezza (che c’è) non finisce dove porterebbe benessere, sviluppo e nuova ricchezza
(vera). Ma qualcosa sta cambiando. Da un lato perché i titoli di Stato ormai rendono zero: questo
spinge gli investitori vari a dirottarsi anche verso la Borsa. Dall’altro perché la legislazione italiana
ed europea sta cercando di favorire la nascita di un canale alternativo a quello bancario per finanziare
le imprese: lo dimostrano la legge sui mini-bond, alcune iniziative del Governo (come il programma
«finanza per la crescita»), alcune mosse europee (per esempio l’accordo sui fondi a lungo termine
“Eltif”, il piano Junker o il progetto per l’unione dei mercati dei capitali). Anche l’Ivass a fine 2014
ha varato un provvedimento per permettere alle assicurazioni di erogare credito diretto alle imprese.
Ma il cammino sarà lungo. [email protected]© RIPRODUZIONE RISERVATA Morya
Longo
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Partenza doppia per il Tfr in busta - Prime liquidazioni da aprile nelle aziende più grandi, da
luglio in quelle più piccole
Con la pubblicazione dell’accordo tra Abi e ministeri (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri è stato aggiunto
un altro tassello per consentire ai lavoratori di incassare il Tfr mese per mese. Però l’opzione non è
ancora operativa in quanto dovranno essere completati ulteriori passaggi amministrativi e chiariti
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diversi punti, sia per le aziende con meno di 50 dipendenti che sceglieranno di ricorrere al
finanziamento assistito, sia per quelle che utilizzeranno (per obbligo o per scelta) le proprie finanze.
La scelta dei dipendenti
Le imprese, per ora, possono iniziare a raccogliere le istanze dei dipendenti utilizzando come
riferimento il modello allegato al Dpcm 29/2015. Dopo di che si dovranno attendere le ulteriori
istruzioni operative che verranno fornite innanzitutto dall’Inps, considerato il ruolo importante che
il decreto gli ha conferito.
Per tutte le aziende, infatti, l’Istituto di previdenza dovrà presumibilmente aggiornare il flusso
Uniemens in modo da consentire di inserirvi i dati della terza scelta sulla destinazione del Tfr, cioè
quella della liquidazione mensile in busta paga sotto forma di Quir (quota integrativa della
retribuzione), che si aggiunge a quella del mantenimento in azienda (con conseguente pagamento
alla cessazione del rapporto) e a quella del trasferimento alla previdenza complementare.
Dal flusso dovrà emergere che, a fronte dell’opzione per la liquidazione presentata dal lavoratore,
l’importo del suo Tfr non dovrà essere indirizzato né al fondo pensione (se il dipendente lo aveva
originariamente scelto) né al Fondo di tesoreria (se si tratta di dipendente di azienda con almeno 50
addetti).
Le banche aderenti
Nelle aziende con meno di 50 dipendenti che sceglieranno di utilizzare lo strumento del
finanziamento assistito, prima dalla garanzia dell’apposito fondo istituito presso l’Inps e in ultimo
dallo Stato, l’effettivo avvio della liquidazione del Tfr è altresì subordinato al completamento di tutta
la complessa procedura di accesso al credito.
In primo luogo, secondo quanto previsto dall’accordo quadro del 24 marzo, l’Associazione bancaria
italiana dovrà diffondere tra gli istituti di credito i contenuti dello stesso, predisporre il modulo di
adesione che quelli interessati all’operazione dovranno utilizzare, raccogliere le eventuali adesioni e
pubblicare l’elenco delle banche aderenti sul proprio sito, affinché i datori di lavoro possano scegliere
a loro volta l’interlocutore finanziario (che, come esplicitato dal decreto e dall’accordo, deve essere
sempre uno soltanto).
Ma le azioni più importanti e impegnative a cui è subordinata la partenza del progetto della
monetizzazione rimangono di competenza dell’Inps, che dovrà creare una specifica piattaforma
informatica tramite la quale comunicare con gli istituti di credito e rendere disponibili le
informazioni e i dati necessari per erogare i finanziamenti, tra i quali le certificazioni degli importi
della Quir (sia nella fase preliminare alla stipula del contratto di finanziamento, sia mensilmente per
consentire l’effettiva erogazione dell’importo necessario al datore di lavoro per pagare mese per mese
la quota maturanda).
I fondi pensione
Non bisogna dimenticare che l’opzione per la monetizzazione può coinvolgere anche i fondi
pensione complementare, laddove i dipendenti che inizialmente vi avevano aderito (con obbligo di
versamento del Tfr), optino invece, come consentito dalla legge, per la relativa liquidazione mensile.
Di conseguenza i fondi dovranno essere avvisati che, a partire da una certa data e fino a giugno 2018
(ovvero settembre/ottobre 2018 per le aziende beneficiarie del finanziamento assistito), non
riceveranno più quei trattamenti di fine rapporto. Ciò implicherà pertanto l’ulteriore necessità di
creare uno specifico flusso di comunicazione tra aziende e fondi, ovvero quella di implementare i
sistemi attualmente in uso.
I dubbi per marzo
Infine i datori di lavoro, prossimi alla prima liquidazione in busta paga, attendono che l’Inps, o
meglio il ministero del Lavoro, chiarisca, in ragione dei tempi di decorrenza dell’obbligo di
liquidazione previsti dal Dpcm 29/2015 (slittati di un mese o di 4 per le aziende “finanziate”), se e
quando la Quir di marzo verrà monetizzata.
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possibili: lasciare il Tfr in azienda ma soprattutto destinare il Tfr ai fondi pensione. ©
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Il datore «cresciuto» resta senza credito
Per alcune aziende il Tfr in busta paga può comportare una perdita secca di liquidità senza il
salvagente del finanziamento assistito. Per alcuni lavoratori l’opzione introdotta dalla legge di
stabilità potrebbe rappresentare un’occasione di liquidazione anticipata esentasse del trattamento di
fine rapporto. Sono questi due effetti, probabilmente non previsti, della quota integrativa di
retribuzione (Quir, come è stato definito l’anticipo del Tfr).
Le aziende che occupano più di 50 dipendenti non possono accedere al finanziamento assistito da
garanzia per far fronte alle richieste di liquidazione della quota maturanda di Tfr in busta paga. Per
la maggior parte di esse la perdita di questa fonte di autofinanziamento non è una novità: fin dal
2007 la legge di riforma della previdenza complementare le aveva obbligate a conferire al Fondo di
tesoreria dell’Inps tutte le quote di Tfr non devolute dai lavoratori ai fondi pensione.
Il legislatore, tuttavia, pare non aver tenuto conto dell’impatto della Quir sulle aziende che nel 2006
avevano meno di 50 addetti e che negli anni successivi hanno superato tale soglia. Per queste aziende,
non obbligate a versare il Tfr al Fondo di tesoreria dell’Inps sulla base dell’organico “cristallizzato”
alla media del 2006, la richiesta della Quir da parte dei lavoratori rischia di trasformarsi in un vero
e proprio salasso. La perdita di liquidità, quantificabile in circa il 7% delle retribuzioni lorde mensili
dei lavoratori optanti, non è compensata da alcuna forma di finanziamento a tasso agevolato, a
differenza di quanto avviene per le aziende di dimensioni minori.
Se per la generalità dei dipendenti la Quir paga l’imposta più alta, perché cumulandosi con la
retribuzione corrente del mese sconta l’aliquota Irpef marginale, per i lavoratori italiani operanti
all’estero potrebbe essere addirittura esentasse.
La legge di stabilità 2015 (articolo 1, comma 26, lettera a) e il relativo decreto attuativo (articolo 4
comma 2 del Dpcm 29/2015) dispongono che ai fini dell’imposta sui redditi da lavoro dipendente la
quota di Tfr immessa in busta paga è assoggettata a tassazione ordinaria.
La determinazione del reddito da lavoro dipendente è regolata dall’articolo 51 del Tuir, che individua
nei commi da 1 a 8 gli elementi della retribuzione in denaro e in natura che concorrono alla
formazione del reddito imponibile. Fanno eccezione i lavoratori dipendenti che operano all’estero in
via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto per più di 183 giorni nell’arco di 12 mesi, per
i quali il reddito imponibile ai fini Irpef è determinato sulla base di retribuzioni convenzionali
stabilite annualmente con decreto ministeriale. Ne consegue che i compensi percepiti da questi
lavoratori eccedenti la soglia della retribuzione convenzionale soggetta a Irpef non sono tassati in
Italia. Anche la Quir, dunque, sulla base della vigente normativa pare sfuggire al prelievo Irpef.
Per contro la Quir si somma alla retribuzione corrente soggetta ad imposta nel Paese straniero di
lavoro, fatte salve le norme contro la doppia imposizione e le disposizioni nazionali di correzione dei
fenomeni di duplice imposizione mediante riconoscimento di un credito per le imposte pagate
all’estero in via definitiva. © RIPRODUZIONE RISERVATA Massimo Brisciani
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Intesa Sanpaolo porta le imprese all’Expo
Intesa Sanpaolo porta le imprese all’Expo: 400 in tutto, selezionate tra le 1.100 che si erano fatte
avanti nei mesi scorsi. Infatti, il (meglio del) made in Italy è uno dei piatti forti che il gruppo bancario
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intende servire ai 20 milioni di visitatori attesi nei 184 giorni dell’Expo, all’interno del padiglione
disegnato da Michele De Lucchi e pre-inaugurato ieri dal ceo Carlo Messina.
Al taglio del nastro dell’Expo mancano ancora 37 giorni, degli 80 padiglioni appena una quindicina
risulta ultimata e tra questi c’è quello di Ca’ de Sass. Un traguardo che «mi rende incredibilmente
orgoglioso», ha dichiarato ieri Messina, ricordando che il piccolo primato centrato nella corsa contro
il tempo dell’Expo si affianca ad altri ben più significativi ottenuti dal gruppo negli ultimi mesi, visto
che «non c’è nessuna società italiana che oggi in Borsa vale come noi, e nessun altro gruppo che dà
lavoro a 100mila persone». Il segreto? «Siamo italiani, e quando andiamo in giro per il mondo lo
diciamo con orgoglio», ha evidenziato ancora Messina. Spiegando che in fondo è proprio questa la
filosofia che sta dietro al padiglione dell’Expo, dove la banca vuole mettere in vetrina il meglio di
casa nostra: la cultura, dunque, visto che nei 1.400 metri quadrati del padiglione nel cuore dell’Expo
Intesa ha messo in programma 250 eventi, raccogliendo il meglio delle diverse iniziative di cui è
partner, dalla Scala a Mito Settembre musica, per arrivare al jazz, al teatro per ragazzi, alla
divulgazione scientifica. E poi le imprese: 400, si diceva, quelle selezionate, appartenenti a tutti i
principali settori con una particolare concentrazione sul food, il design e tutto ciò che è innovazione.
Molte sono clienti del corporate di Intesa, il 15% è guidato da donne, tutte avranno a disposizione
per un giorno parte del padiglione della banca e la possibilità di invitare clienti, giornalisti e fornitori.
Forma che, negli auspici di tutti, può diventare sostanza: «Ci aspettiamo tantissimo dall’Expo, la
nostra storia si lega molto con le opportunità che ci offre», ha raccontato ieri Paolo Vitelli, ceo di
Azimut Benetti Yachts, una delle 400 aziende che saranno ospiti di Intesa, dentro un padiglione dove
«c’è tutto ciò che può dare un’anima alla nostra promozione all’estero, dal cibo al paesaggio, dall’arte
alla musica», come ha richiamato ancora Vitelli.
Official global partner, Intesa ha investito sull’Expo 30 milioni, cui si aggiungono i due spesi per la
realizzazione del padiglione, una scelta presa «quando in pochi ci credevano», ma che ora assume
un significato particolare visto che «ci troviamo in un anno unico per l’Italia, perché se non cogliamo
questo anno per diventare leader nella crescita, non lo saremo mai più», ha detto ancora Messina.
Osando forse per la prima volta alzare l’asticella della crescita possibile del 2015 allo 0,8% e
ricordando che Intesa conta di sostenerla con i 37 miliardi di impieghi a medio-lungo termine già
messi a budget, «una cifra che possiamo però aumentare in qualunque momento, a patto che ci sia
la domanda di credito».
Si vedrà nel corso dell’anno, e senz’altro l’Expo può dare una mano con i 20 milioni di visitatori attesi
e i 24 milioni di biglietti che si vogliono vendere, secondo le cifre snocciolate ieri dal commissario
unico di Expo, Giuseppe Sala. Quanto a biglietti, per ora, si è toccata quota 8,5 milioni e il traguardo
dei 10 milioni entro l’inaugurazione viene considerato alla portata. Certo l’Expo per ora rimane un
gigantesco cantiere, 5mila addetti lavorano giorno e notte e degli 80 padiglioni, come si diceva, solo
15 risultano già ultimati. E gli altri? Sala si è detto «fiducioso», assicurando che per il taglio del nastro
del primo maggio tutte le aree saranno pronte con la sola eccezione di 4-5 padiglioni al massimo,
dove potrebbero ancora mancare le ultime rifiniture interne.
Una situazione abbastanza incoraggiante da poter iniziare a pensare al dopo-Expo: il progetto
prevede che i padiglioni siano smontati, ma ciò non toglie che qualcuno possa restare. Come il
Waterstone di Intesa, con le sue 6.363 scandole, piccole scaglie di legno bianche che foderano
esternamente la struttura e i tre chilometri e mezzo di fibre ottiche con 168mila punti led che le
attraversano. L’auspicio, ha detto Sala, è che il padiglione firmato De Lucchi non lasci mai la sede di
Rho, pur essendovi semplicemente poggiato.
La banca ci penserà: «Potremmo impiegarlo per iniziative legate all’innovazione, o al terzo settore»,
ha azzardato Messina. Ma la decisione verrà presa più avanti.
.@marcoferrando77©
RIPRODUZIONE RISERVATA Marco Ferrando
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Il valore della nuda proprietà si ricava infatti dalla differenza tra la piena proprietà e il valore
dell’usufrutto, calcolato sulla base di coefficienti stabiliti per legge (allegato al Dpr 131/1986) e che
decrescono in virtù dell’età dell’usufruttuario. Di regola, più è anziano il venditore, più alto è il prezzo
di acquisto; ma ci si può sempre accordare per cifre minori, e sono quelle ad attrarre l’interesse degli
acquirenti che guardano all’affare e al risparmio sul prezzo.
Secondo gli ultimi dati raccolti dall’Osservatorio SuperMoney.eu, su un totale di 81.374 domande di
prestito, ben 12.669 sono state avanzate dagli over 60. Tra le motivazioni più diffuse risalta, con oltre
il 31%, la richiesta di liquidità (spesso connessa al bisogno di aiutare i figli); seguono poi le spese
straordinarie legate alla casa (24,5%) e i casi di “consolidamento” (il 13.62%), cioè prestiti per pagar
le rate di precedenti finanziamenti.
Quanto alla nuda proprietà, nel corso del 2014 sono state trasferite 21.108 abitazioni: con un
aumento dell’1,5%, inferiore al rialzo delle “normali” compravendite residenziali (+3,6% sul 2013, a
quota 417.524). La crescita è più accentuata nei comuni capoluogo (+3,3%) e dovuta in particolare al
risultato del quarto trimestre: +10,1 per cento. Così, mentre il nuovo corso della politica monetaria
europea dovrebbe dare linfa alle erogazioni, sul mercato finanziario il nuovo provvedimento
potrebbe aprire altri orizzonti. Le prime stime di SuperMoney affermano che le stipule potrebbero
andar oltre le 20mila (numero di nude proprietà trasferite), equivalenti – calcolando un importo
medio di 100mila euro – a due miliardi di erogazioni. Il numero reale potrebbe però raggiungere
cifre superiori: in Italia gli anziani sono 12 milioni e rappresentano circa un terzo dei cittadini
maggiorenni. «Un segmento che – ha commentato Francesco Giacobbe (Pd), relatore del
provvedimento sul prestito vitalizio ipotecario – sulla base delle più recenti previsioni demografiche
rappresenterà entro il 2020 il 23% dell’intera popolazione». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Le banche pensano alle maxi-assemblee entro fine anno
Dopo l’approvazione definitiva del decreto di riforma delle banche popolari, gli istituti studiano i
tempi delle assemblee che dovranno sancire la trasformazione in Spa. Entro l’anno potrebbero essere
convocate le straordinarie in cui, accanto al cambio di denominazione societaria, potrebbe essere
proposta anche l’eventuale accordo di fusione e integrazione con altri istituti.
Luca Davi pagina 34
Ora che è arrivato il sigillo del Parlamento sulla riforma del settore, il destino delle 10 maggiori
banche popolari è tracciato. La loro trasformazione in Spa dovrà avvenire entro 18 mesi dalla
pubblicazione dei regolamenti di Banca d’Italia, che sono attesi nelle prossime settimane.
Difficile credere però che le banche attendano fino all’ultimo giorno - e quindi presumibilmente
dicembre 2016 - per avviare la trasformazione societarie. Già nei prossimi mesi a muovere i primi
passi in questa direzione saranno Veneto Banca e Popolare di Vicenza, che hanno già annunciato la
loro intenzione di chiudere tra l’estate e settembre la loro la mutazione.
Ma le due banche popolari venete sono solo la punta dell’iceberg. Diverse tra le grandi banche
popolari stanno infatti valutando di calendarizzare già per l’autunno il passaggio di forma societaria.
Una mossa che però è destinata ad andare a braccetto con quella delle fusioni, da sempre invocate
dalla Vigilanza e percepite come sempre più urgenti.
Ecco perché per molte banche popolari le assemblee straordinarie di trasformazione in Spa
potrebbero coincidere realisticamente anche con quelle che approveranno le fusioni con altre
consorelle. «Penso che se si fa un’aggregazione - aveva sottolineato nelle scorse settimane l’a.d. di
Bper Alessandro Vandelli - poi si va in assemblea per approvarla insieme alla trasformazione in spa
e all’elezione dei nuovi organi».
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Anno XVI - 26/03/2015
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Lo schema attorno al quale alcuni istituti starebbero ragionando è quello di proporre ai propri soci
una “fusione trasformativa”. In sostanza, una volta trovato il partner giusto con cui “convolare a
nozze”, gli istituti porterebbero al voto di un’unica assemblea straordinaria il doppio passaggio di
fusione e di trasformazione in Spa. Questa scelta avrebbe il vantaggio di ridurre i rischi di far fallire
una proposta- normalmente indigesta ai soci - come l’aggregazione, su cui esiste sempre un margine
di imprevedibilità quando si parla di banche popolari. Ad essa verrebbe infatti abbinato il tema della
conversione di denominazione societaria, su cui invece non esistono margini di discrezionalità da
parte dei soci.
Rispetto ai tempi, è possibile che le maxi-assemblee vengano convocate in alcuni casi già entro fine
anno, almeno per le banche più grandi. Oppure, in alternativa, nella primavera del 2016. Se è vero
che la trasformazione in Spa non richiede tempi tecnici importanti, è anche vero che l’iter completo
di un’eventuale aggregazione - considerate la due diligence sui conti, la stesura dei patti di
governance, l’approvazione e il deposito dei progetti di fusione e lo studio dei concambi difficilmente può assorbire «meno di sei mesi - segnala un esperto di diritto societario - E pur
ammettendo che due banche abbiano raggiunto già oggi l’accordo per una fusione, è difficile che
possano arrivare in assemblea prima di ottobre o novembre». Una cosa, invece, è sicura: in un
mercato che sembra destinato verso un (inevitabile) processo di consolidamento, una volta definita
la prima alleanza, è realistico che si assista a un effetto domino, con una serie di aggregazioni a
cascata. Con gli istituti più forti a dettare le regole del gioco. .@lucaaldodavi© RIPRODUZIONE
RISERVATA Luca Davi
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
Abete: incentivi fiscali per il piano Juncker
ROMA. Il piano Juncker è un’occasione da non sprecare perchè finalmente pone in cima alle priorità
della politica economica il rilancio degli investimenti. E’ quanto ha spiegato ieri il presidente della
Febaf,Luigi Abete , nel corso di un’audizione della Federazione banche, assicurazioni e finanza alla
quale hanno partecipato anche il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini e il dg Ania, Dario
Focarelli: «Obiettivi e metodi del Piano Juncker sono ampiamente condivisi dalla comunità
finanziaria italiana, che li considera di fondamentale importanza». Abete ha ricordato che, rispetto
al 2007, nel 2014 gli investimentidell'Ue erano scesi di circa il 15%, per oltre 400 miliardi di euro, e
che l'Italia, insieme ad altri Paesi del Sud Europa, è tra le economie che hanno contribuito in misura
maggiore,purtroppo,a tale contrazione: gli investimenti nel nostro Paese sono infatti crollati del 25%
rispetto ai valori pre-crisi). Ma, ha aggiunto, anche se «l’accoglienza dei mercati finanziari nei
confronti del “Piano Juncker” è stata sinora positiva, non si può dare per scontato che solo per questo
il disegno complessivo del Piano si realizzerà concretamente». Abete ha evidenziato una serie di
«questioni chiave» cui «occorre trovare risposta con tempestività e puntualità» e alle quali la Febaf
sta lavorando insieme a Cassa Depositi e prestiti e Confidustria. Tra queste c'è in primo luogo l’analisi
delle garanzie pubbliche come strumento d’intervento della politica economica, per ottenere
l’effetto-leva sugli investimenti. Un aspetto che, per quel che riguarda l’Italia«può interessare le
modalità di funzionamento del Fondo centrale di garanzia, e altri meccanismi di garanzia e sostegno
pubblico agli investimenti». «Ribadiamo - ha tra l'altro detto Abete - l'esigenza che idonei incentivi
fiscali, segnatamente attraverso l'attivazione di crediti di imposta, siano predisposti per stimolare e
accompagnare la messa in opera del Piano; tra i criteri di eleggibilità per l'accesso alle garanzie del
Fondo, occorrerebbe quindi considerare anche programmi di riduzioni di imposte, e non solo di
aumenti di spesa».Il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, ha poi aggiunto che, nel
regolamento del Fondo strategico per gli investimenti, approvato dall’Ecofin il 10 marzo scorso
«l’intervento della Bei e delle banche di sviluppo nazionali dovrebbe essere strutturato in modo che
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Anno XVI - 26/03/2015
A cura di Bruno Pastorelli – [email protected]
queste assumano i rischi non di mercato dell'operazione, lasciando agli intermediari finanziari il
compito di coprire le ulteriori esigenze finanziarie, in una logica di sussidiarietà». Dal canto suo, il
direttore generale dell’Ania ha messo in evidenza che «il settore assicurativo accoglie con favore
l’impegno della Commissione Ue di rimuovere le barriere specifiche ad investimenti di lungo termine
come le infrastrutture». Ma ha fatto notare anche che allo stato attuale la regolamentazione
assicurativa europea non favorisce l’investimento infrastrutturale: Sarebbe dunque opportuno, ha
concluso, che Solvency 2 riconoscesse a questi investimenti una calibratura di rischio relativamente
contenuta. © RIPRODUZIONE RISERVATA Rossella Bocciarelli
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IL SOLE 24 ORE giovedì 26 marzo 2015
ALLA RICERCA DEL NUOVO LAVORO – OCCUPAZIONE - Se la creazione di posti di lavoro
arranca non è colpa del progresso tecnico Anzi, l’innovazione finisce sempre con il generare
inedite occasioni di impiego Per contrastare la disoccupazione, soprattutto giovanile, è
indispensabile ridare slancio al nostroPil , rimuovendo i tanti ostacoli alla crescita
dell’economia
Racconta un’antica storiella di un economista che, in Cina, visita un immenso cantiere dove si sta
lavorando freneticamente per una diga che interromperà il placido corso del Fiume Giallo: una
grande distesa brulica di migliaia di operai, ognuno con una zappa, che scavano il terreno.
L’economista domanda all’ingegnere: perché tanti zappatori? Perché non usate le scavatrici? E
quello risponde: perché così si creano più posti di lavoro. L’economista replica: pensavo che il vostro
scopo fosse quello di costruire una diga. Se quello che vi interessa invece è creare posti di lavoro,
togliete la zappa ai lavoratori e date loro un cucchiaio.
La morale? É più importante per l’economia produrre beni e servizi o creare posti di lavoro?
L’economia – intesa come scienza e non come apparato produttivo – dà una risposta inequivoca:
l’importante è ottenere il massimo risultato col minimo mezzo. E, se il “minimo mezzo” vuol dire
usare macchinari che portano a risparmiare lavoro, così sia. Il lavoro, come l’acqua di un torrente
che aggira macigni e crea nuovi percorsi, troverà altri sbocchi. E la storia ha dato finora ragione
all’economista. I lavori scalzati dal progresso tecnico sono sempre stati sostituiti da altri lavori,
magari in campi prima impensati.
Ma c’è chi dice che adesso le cose sono cambiate. I progressi dell’intelligenza artificiale, della
telematica e della robotica mettono a rischio molti lavori che fino a poco tempo fa si pensavano al
sicuro. Un articolo di due economisti americani prevede che nei prossimi vent’anni almeno la metà
dei lavori impiegatizi di oggi potranno esere svolti da robot programmabili. Queste preoccupazioni,
tuttavia, non sono nuove. Leggete questa frase: «Non soffriamo dei reumatismi della tarda età, ma
delle crisi di crescenza di cambiamenti troppo rapidi, delle doglie dell’aggiustamento fra un’era e
l’altra. La rivoluzione delle tecniche sta procedendo più rapidamente di quanto non si riesca a creare
posti di lavoro» – queste parole furono scritte da John Maynard Keynes nel 1930. Ma i timori di
Keynes furono smentiti dalla realtà.
I tassi di disoccupazione sono molto elevati oggi, in Europa (eccetto che in Germania) e specialmente
in Italia. Ma questa forte disoccupazione non è necessariamente dovuta al progresso tecnico che
distrugge posti di lavoro. L’economia italiana non cresce da molti anni ed è normale che non si riesca
a utilizzare la forza di lavoro. Il progresso tecnologico, le nuove forme di organizzazione del lavoro,
l’emorragia di posti a favore dei Paesi concorrenti a basso costo non hanno impedito alla Germania,
così come agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna, di avere bassi tassi di disoccupazione.
Nuovi bisogni, nuovi lavori
Ricordo, qualche anno fa, di aver visitato la sala cambi di una grande banca internazionale: era
l’intervallo del pranzo, ma un centinaio di operatori erano ancora ai terminali. Molti di loro avevano
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